L’affrancamento o la liberazione in Cristo

(Romani 6-7-8)

John Nelson Darby – Il Messaggero Cristiano, 1905-1906

I sottotitoli sono stati aggiunti da BibbiaWeb.

 
«Perché la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha liberato [o affrancato] dalla legge del peccato e della morte». (Romani 8:2).

1. Introduzione

Che cos’è il vero affrancamento in Cristo e come vi possiamo giungere? Nessun cristiano dovrebbe affrontare queste domande leggermente, poiché il loro giusto significato è per lui della più grande importanza. La nostra giustificazione in Cristo assicura per sempre la nostra posizione nella presenza di Dio; il nostro affrancamento in Cristo ci fa camminare in questa presenza. La nostra sicurezza davanti a Dio si fonda sulla morte di Cristo sulla croce, e il nostro cammino davanti a Lui si fonda sulla vita di Cristo risuscitato, Cristo per noi e Cristo in noi.

Vi sono molti credenti che non sono realmente affrancati e ve ne sono molti che lo sono, senza conoscere il vero affrancamento. La realtà dell’affrancamento manca ai primi, e la conoscenza dell’affrancamento ai secondi. La differenza fra di loro è molto grande, benché i risultati e le esperienze siano sovente gli stessi. La verità indebolita e impura, che i primi leggono e ascoltano, li ritiene per anni ed anni nella schiavitù e nel timore; la stessa causa impedisce i secondi di camminare nella libertà. In tutti i casi, la potenza della verità e la sua efficacia benedetta sono perdute a loro riguardo. Il cuore è inquieto e aggravato, il camminare è fiacco e ostacolato, il nome di Dio non è glorificato; così le serie esortazioni della Parola a camminare in modo degno di Dio sono senza effetto e la testimonianza davanti al mondo è alterata e oscura.

Tutto questo sarà della più grande importanza per il credente, il cui cuore è semplice e diritto, ed egli non potrà tranquillizzarsi della triste scoperta che queste esperienze sono tanto comuni in mezzo ai cristiani d’oggigiorno. Egli teme ed ama il Signore e non desidera alcuna cosa più ardentemente della gloria del suo nome. Egli cerca, in verità, di essere un servitore sottomesso a Colui che l’ha riscattato col suo proprio sangue ed un figlio ubbidiente di Colui che l’ha fatto rinascere secondo la sua grande misericordia. Egli ama le tracce benedette del Signore, e considera come suo grande privilegio il seguirlo e il portare il suo vituperio. Ma per tutto il tempo in cui egli non è veramente affrancato, o in cui non conosce il vero affrancamento, incontra delle difficoltà insuperabili; la carne, ed il peccato che dimora in essa, fanno sorgere continuamente degli ostacoli sul suo cammino. Qual gioia sarà dunque per lui il conoscere veramente che Dio ha appianato perfettamente il cammino in Cristo, e ch’egli ne ha tolto ogni ostacolo!

Per ciò che riguarda la dottrina dell’affrancamento, come ogni altra verità divina, è molto importante riconoscere, che non la si può comprendere per mezzo dell’intelligenza naturale (1 Corinzi 2:14). Finché il cristiano confiderà nella sapienza umana e nell’intelligenza naturale per lo studio della parola di Dio, ne indebolirà la verità per se stesso e vi metterà confusione. Quando Dio ha parlato, noi non abbiamo più niente da dire, niente da aggiungere, né da considerare, ma semplicemente e solo da credere, credere fermamente e senza riserva. Se meditiamo la sua Parola, non dobbiamo avvicinarci ad essa con un’opinione preconcetta, né con ciò che sappiamo, od abbiamo sentito, o letto, se non è per provare, per mezzo della Parola, e le nostre opinioni e quelle degli altri, per vedere e giudicare se tutto questo è proprio secondo la verità. Questa precauzione, questa saggezza divina è necessaria specialmente ai giorni nostri, in cui un così gran numero di dottrine erronee sono in voga, in cui anche dei cristiani insegnano e scrivono, intorno alle cose di Dio, tanti principii più o meno mescolati coll’errore, perché molto spesso innalzano la loro conoscenza (che dovrebbe sempre essere sottomessa alla parola di Dio) al disopra di questa Parola. Oh! non si possono calcolare le tristi conseguenze di questo miscuglio di verità e d’errore per tante anime che, pur dichiarando che la parola di Dio è la sola regola della nostra vita e del nostro cammino, si lasciano però guidare dai discorsi e dai libri degli uomini, anziché dalla semplice verità delle Scritture, e che ancora sanno molto meglio e più facilmente parlare di quelli che di questa. Se il pensiero che Dio ci parla ci riempisse di venerazione, ogni qualvolta meditiamo la sua Parola, un santo timore ci impedirebbe sempre di mescolarvi le nostre proprie opinioni, e più ancora, di farle prevalere su di essa; poiché facendo così, non facciamo altro che indebolire la verità per noi stessi e sovente ancora renderla inefficace sui nostri cuori. La Parola di Dio sola è la sorgente donde possiamo trarre la pura verità, e l’unzione dello Spirito Santo guiderà certamente colui che è semplice e diritto e gliene aprirà la vera intelligenza per mezzo della fede. Esaminiamo dunque tutte le nostre opinioni, relativamente al soggetto che ci occupa, alla luce dello Spirito Santo e colla scorta della parola di Dio. Siamo pronti a rigettare risolutamente tutto ciò che non è d’accordo con questa santa Parola, per quanto antico e generalmente ammesso possa essere; e ricerchiamo, riceviamo e riteniamo fermamente l’insegnamento di Dio su questo soggetto, come pure sopra ogni altro, con un cuore semplice e riempito della certezza della fede.

2. Romani 7

Consideriamo dapprima il capitolo 7 dei Romani.

Succede sovente che dei veri cristiani ne applichino l’ultima parte a se stessi, a lor danno, unicamente perché lo leggono superficialmente e adottano troppo leggermente il commentario degli altri su quel punto. È abbastanza frequente sentirli dire che la loro stessa condizione è descritta in passi, come quelli dei versetti 14 e 19: «Io sono carnale, venduto schiavo al peccato. — il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio».

Essi ne fanno una tale applicazione perché credono che l’apostolo parli qui del suo proprio stato interno. Desisterebbe, certamente, ad ammettere questo pensiero, chi si desse la pena di confrontare con queste parole i numerosi passi che rendono testimonianza del cammino di Paolo. Leggiamo, per esempio, in 1 Tessalonicesi 2:10: «Voi siete testimoni, e Dio lo è pure, del modo santo, giusto e irreprensibile con cui ci siamo comportati verso di voi che credete». Egli poteva dire arditamente ai Corinzi (1 Corinzi 11:1): «Siate miei imitatori, come anch’io lo sono di Cristo». Egli diceva ancora a Timoteo (2 Timoteo 3:10): « Tu invece hai seguito da vicino il mio insegnamento, la mia condotta, i miei propositi, la mia fede, la mia pazienza, il mio amore, la mia costanza, le mie persecuzioni, le mie sofferenze… ».

Come conciliare tutti questi passi con le parole: « il bene che voglio, non lo faccio», ecc.? Io penso che nessuno avrà la temerità di sostenere che, nei passi testé citati, e in molti altri analoghi, l’apostolo parli solo della sua buona volontà e che, quanto alle azioni, egli facesse tutto il contrario. E quando esortava tanto spesso i cristiani a camminare in modo degno di Dio, o dell’evangelo di Cristo, non intendeva certamente di limitarsi a risvegliare in loro buone risoluzioni e il desiderio di camminare fedelmente. Come avrebbe potuto rivolgere tali esortazioni ad altri, se egli doveva riconoscere che, quanto a lui stesso non praticava il bene che voleva fare e faceva il male che non voleva: o, in altri termini, se fosse stato ancora egli stesso assoggettato alla legge del peccato senza poter compiere il bene?

Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Chi ha i miei comandamenti e li osserva, quello mi ama» (Giovanni 14:21). Non si tratta certamente qui di una buona disposizione ad osservare i suoi comandamenti, ma della loro vera osservanza. Altrove dice (Giovanni 15:14): «Voi siete miei amici, se fate — non se volete o desiderate fare — le cose che io vi comando». Ecco una testimonianza dell’apostolo Giovanni (1 Giovanni 2:3-5): «Da questo sappiamo che l’abbiamo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: Io l’ho conosciuto, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente completo». In un altro luogo (1 Govanni 5:3), lo stesso apostolo dice: «Questo è l’amore di Dio: che osserviamo i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi». Queste serie parole ci mostrano molto chiaramente che si tratta di un reale adempimento dei suoi comandamenti, e della sua Parola, e non solo della volontà di adempierli.

Leggiamo ancora in Ebrei 9:14: «…Quanto più il sangue di Cristo, che mediante lo Spirito eterno offrì sé stesso puro di ogni colpa a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente!». E in Tito 2:14: «Il nostro grande Dio e Salvatore, Cristo Gesù ha dato sé stesso per noi per riscattarci da ogni iniquità e purificarsi un popolo che gli appartenga, zelante nelle opere buone». Per quanto preziosi e benedetti possano essere tali passi delle Scritture, succede sovente che non vi si presti molta attenzione e che non li si apprezzi abbastanza. La vera e triste ragione di questo è che cerchiamo noi stessi, e non la gloria di Dio. Per molti cristiani, la certezza della salvezza è la prima e l’ultima, se non l’unica preoccupazione. Essi non hanno a cuore l’intenzione del Signore che è stata di acquistarsi un popolo santo per servirlo di libera volontà, ed ancora meno il compiacimento del Padre, di avere dei figli che l’onorino per mezzo di un’umile ubbidienza. I pensieri, che l’opera di Cristo inspira loro, non oltrepassano la propria redenzione. Ma le intenzioni di Dio e i pensieri di Dio vanno può lontano. Certamente, nella sua misericordia, Egli pensò prima di tutto alla nostra redenzione; Egli aveva in vista la nostra felicità, dando per noi il suo unico e diletto Figlio; ma la nostra felicità è legata alla sua felicità; il suo amore e la sua gioia trovano la loro soddisfazione nella nostra liberazione e accettazione.

Pietro rivolge le seguenti parole ai credenti (1 Pietro 2:9): «Ma voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato, perché proclamiate le virtù di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa». L’intenzione di Dio era di possedere un tal popolo. Ma egli non poteva trovarlo sulla terra, finché non l’avesse preparato Egli stesso in Gesù Cristo. Aveva, è vero, già prima scelto Israele come suo popolo, ma sotto la condizione che Gli obbedirebbe e che camminerebbe sulle sue vie. Israele promise di farlo, perché nel suo accecamento, non conosceva né la propria debolezza, né la santità di Dio; e la sua disubbidienza e la sua caduta non si manifestarono che troppo presto. Dio diede, senza dubbio, a questo popolo molte prove visibili del suo favore; lo condusse con pazienza e con amore nelle sue meravigliose vie; lo colmò di ogni sorta di benedizioni; ma, malgrado tutto, Israele si mostrò sempre un popolo di collo duro, incirconciso di cuore e di orecchio. Questo popolo non rispose dunque alle intenzioni di Dio, e non soddisfece il suo amore e la sua gioia, perché era un popolo che amava sempre la via dell’errore, che non ubbidiva alla voce del suo Dio, e non camminava nei suoi sentieri. Quindi l’Eterno fu costretto a dire: «Voi non siete mio popolo» (*).

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(*) È evidente che io non parlo qui degli uomini fedeli in Israele che aspettavano con fede il Messia promesso e la redenzione per mezzo di Lui, e che, così, erano come le primizie del vero popolo.
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Egli voleva avere un popolo santo, un popolo che lo servisse in verità e che fosse «zelante nelle opere buone»; ma Israele serviva il peccato, era zelante nelle cattive opere. Il suo intero cammino sotto la legge non era che un frutto per la morte; «esso era carnale, venduto schiavo al peccato».

Ora Dio si è scelto un popolo, di cui l’accettazione e la sicurezza non sono fondate sulla sua obbedienza, ma unicamente sopra il sangue di Gesù. Dopo l’alleanza del Sinai, Israele divenne suo popolo, servitore; ma il popolo che Dio si è scelto ora, lo serve perché è suo popolo, «creato in Cristo Gesù per fare le opere buone». Ma se questo popolo dovesse ancora fare questa confessione: «Io sono carnale, venduto schiavo al peccato» oppure: «il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio», in che consisterebbe la differenza, per ciò che riguarda il cammino quaggiù, tra l’uno e l’altro popolo? (*).

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(*) Bisogna però notare qui che il popolo d’Israele non è rigettato se non per ciò che riguarda la sua posizione sotto la legge, sul fondamento della propria ubbidienza, e non come popolo di Dio sul fondamento delle promesse fatte ai padri, «perché i carismi [o i doni] e la vocazione di Dio sono irrevocabili». Egli lo riceverà di nuovo e benedirà sul fondamento del sangue di Gesù, il Mediatore della nuova alleanza, sul fondamento d’una grazia senza limiti, questo popolo, ch’Egli ha messo da parte per un tempo.
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Questa differenza sarebbe forse nel fatto che quello non sapeva che poteva servire Dio, e che questo invece lo sa? Sarebbe una ben meschina differenza! Quanto poco allora sarebbe raggiunto lo scopo di Dio, di avere un popolo che gli serva in verità e che sia zelante nelle buone opere! Il sangue di Gesù non avrebbe esso mancato al suo scopo a questo riguardo? Il suo potere e la sua efficacia non sarebbero forse messi in dubbio? Ed infine la testimonianza resa dallo Spirito Santo riguardo a questo sangue, che purifica le nostre coscienze dalle opere morte e che ci rende capaci di servire il Dio vivente, non sarebbe smentita?

Non lasciamoci dunque fermare dalle nostre proprie opinioni, e non mettiamo le nostre esperienze, né quelle degli altri cristiani, al posto della parola di Dio. Altrimenti, come abbiamo visto, renderemmo vana l’intenzione di Dio, indeboliremmo l’efficacia del sangue di Cristo, disonoreremmo la testimonianza dello Spirito Santo e ci spoglieremmo del privilegio benedetto di servire Dio e di glorificare il suo nome. Non dobbiamo pensare che questo servizio e questa fedeltà siano compiuti solo col desiderio di fare il bene. Non vi è niente di più contraddittorio che una tale affermazione, niente che disonori di più la parola di Dio e che ne distrugga tanto l’efficacia nel cuore dei credenti.

Se si esaminasse più da vicino questa massima diventata così comune: «Io vorrei, o amerei poter servire Dio», si troverebbe, ahimè! che per i più non è che una frase, per mezzo della quale cercano di tranquillizzare la loro coscienza e di eludere le esortazioni dello Spirito Santo. Si potrebbe appena credere che vi siano molti cristiani, i quali riguardano come una mancanza di esperienza e di conoscenza di se stessi, il parlare d’un cammino degno dell’Evangelo, d’un cuor diritto e sincero nell’osservanza dei comandamenti di Dio e di Cristo. Essi non vogliono che un ritorno alle opere della legge, una pretesa della carne di cui tanto sovente hanno provato l’incapacità Ma non riconoscono il carattere della vita, che ogni anima affrancata possiede in Cristo risuscitato: non comprendono la potenza dello Spirito che abita in loro. Così, fanno dell’apostolo Paolo un dottore della legge; tuttavia, vediamo con quale zelo quest’apostolo cerchi di convincere i credenti che sono completamente liberati dalla legge, benché rivolga loro delle esortazioni a camminare in modo degno della loro vocazione celeste.

Queste persone giudicano lo Spirito per mezzo della carne e lo contristano, mettono la parola di Dio sotto le loro esperienze e l’indeboliscono. Stimano troppo poco l’autorità di questa Parola, ed ecco perché la studiano superficialmente, perciò la conoscenza che ne hanno resta sempre molto imperfetta. Il gran soggetto delle loro conversazioni, della loro edificazione consiste nelle esperienze che fanno intorno alla corruzione e la totale debolezza della carne, e si servono sovente in modo ben triste della Parola di Dio per appoggiare le loro esperienze carnali su qualche passo mal compreso o isolato dal suo contesto.

Lo ripeto, lo scopo di Dio a nostro riguardo è di avere quaggiù un popolo che, purificato dalle opere morte per il sangue di Gesù Cristo, Gli serva di spontanea volontà; un popolo zelante nelle buone opere (*).

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(*) A questo proposito faccio osservare che si tratta qui solo della nostra posizione come popolo di Dio quaggiù, e non delle nostre relazioni col Padre, come figli, e meno ancora della nostra posizione speciale e celeste in Cristo, come sua assemblea, come suo corpo, sua pienezza, ecc.
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Oh! che questo privilegio benedetto di servire Dio e di essere zelanti nelle buone opere, possa essere degnamente apprezzato dalle anime nostre!

Vi sono ancora molti cristiani, che, in sincerità di cuore, dicono: «Io desidero in verità di camminare in modo da piacere a Dio; ma non posso farlo, amo il bene e desidero farlo, ma me ne manca la forza. Questo mi cagiona molta pena e angoscia, ma nessun cambiamento avviene. Prego il Signore di aiutarmi, e trovo sollievo e consolazione presso di Lui; ma questo non dura a lungo, io cado ben presto nello stesso stato, e mi ritrovo sempre senza forza». Un tal linguaggio è sincero, e vi sono delle promesse fatte al cuore diritto. Tali anime troveranno certamente che val la pena d’investigare la parola di Dio riguardo a questo soggetto così serio e così importante, e io spero che non leggeranno queste righe senza profitto.

Ritorniamo alla nostra meditazione del capitolo 7 dell’epistola ai Romani. Noto dapprima che vi troviamo sovente la piccola parola «legge», ma non sempre, come vedremo, riguardo ad una sola e medesima cosa. Se io sono sotto una legge, sono sotto un’autorità che m’impone degli obblighi, che mi detta delle esigenze. Che io adempia questi obblighi o no, che io possa adempierli e non lo possa, che io voglia o non voglia, che io lo faccia contro la mia volontà, o di buon animo — la legge esige, e non può essere soddisfatta che dal proprio perfetto adempimento. In questo capitolo, l’apostolo s’indirizza prima a quelli che conoscono il vero significato d’una legge: «Parlo a persone che hanno conoscenza della legge» (v. 1). Qui dunque la parola legge è affatto generale, «Ignorate forse, fratelli, che la legge ha potere sull’uomo per tutto il tempo ch’egli vive?». Per tutto il tempo che una legge sussiste, o che è in vigore, chi da essa dipende è soggetto alle sue esigenze; non c’è che la morte che lo possa liberare. È quanto l’apostolo ci fa vedere, nei versetti 2 e 3, per la legge del matrimonio. «Infatti la donna sposata è legata per legge al marito mentre egli vive; ma se il marito muore, è sciolta dalla legge che la lega al marito, ecc.». Ne troviamo l’applicazione ai credenti nel versetto 4. Ma notate ancora che la parola «legge» in questo passo, non si riferisce soltanto ai dieci comandamenti, ma a tutto ciò che Dio esigeva dal popolo d’Israele, a tutto ciò che era la condizione della sua relazione con Lui; sì, a tutto quello che la giustizia di Dio domanda ad ogni uomo, come tale. Sotto questa legge, l’uomo è inevitabilmente perduto. Quindi, per tutti v’è una questione delle più serie: «Come posso io essere affrancato dalla legge?». A questa domanda, la parola di Dio sola ci dà, in molti passi, una risposta che soddisfa pienamente. È vero che non possiamo sottrarci, in modo illegittimo al dominio della legge che Dio ha dato, poiché tutto ciò che essa esige dall’uomo è perfettamente giusto. Ma Dio ci ha preparato in Cristo una via legittima per arrivare al più completo affrancamento dalla legge, — una via, che ci libera completamente e per sempre.

E questa via è «la morte» (vers. 4). «Così, fratelli miei, anche voi siete stati messi a morte quanto alla legge mediante il corpo di Cristo… ». Qui, come nella legge del matrimonio, la morte è il solo mezzo per giungere all’affrancamento, «la morte mediante il corpo di Cristo». Io riparlerò più tardi del carattere e della natura di questa morte; qui, non parlo che del fatto.

Così la morte ci rende liberi, perfettamente liberi riguardo alla legge ed alle sue giuste esigenze, poiché una legge non ha rapporto che colle persone viventi, e non coi morti. Ora il credente è morto alla legge per il corpo di Cristo, come vediamo chiaramente qui; come uomo naturale, soggetto alla legge, è interamente messo da parte; è crocifisso con Cristo e non è più affatto sotto la dominazione della legge. Non parlo qui della verità benedetta che la legge ha trovato in Cristo la sua piena soddisfazione riguardo ai nostri peccati, ma io voglio dire che noi tutti che crediamo, non siamo più sotto la legge e che non abbiamo dunque, sotto alcun rapporto, da metterci sotto la legge, sia relativamente alle sue giuste esigenze, che ai suoi giusti giudizi. La legge, per così dire, non esiste più per noi, o piuttosto noi non esistiamo più per la legge, perché «noi siamo stati messi a morte quanto alla legge mediante il corpo di Cristo».

Tale è la semplice dottrina della parola di Dio su questo soggetto, noi possediamo per la fede queste verità benedette e i nostri cuori riconoscenti si rallegrano del nostro perfetto affrancamento dalla legge. Quando si discute su questo punto, un pensiero sorge abitualmente, e cioè che la certezza di un sì perfetto affrancamento dalla legge debba generare indifferenza per ciò che riguarda la trasgressione di essa. Ma, se consideriamo la seconda parte di questo versetto, vediamo come un tal pensiero sia inesatto e mal fondato: «per appartenere a un altro, cioè a colui che è risuscitato dai morti, affinché portiamo frutto a Dio». È in rapporto con la legge che portiamo frutto alla morte (vers. 5); ma perfettamente affrancati dalla legge ed uniti con Cristo, vero uomo, portiamo del frutto a Dio. Per il credente è questo il risultato benedetto d’un vero affrancamento. Nel vers. 5 le parole «mentre eravamo nella carne» sono ancora degne di nota; così noi non «siamo» più, ma: noi «eravamo ». Leggiamo ancora al capitolo 8:9: «Voi però non siete nella carne ma nello Spirito». È chiaro che qui e in altri luoghi, la parola «carne» non significa la carne esteriore, visibile, o di corpo, ma la carne nel senso morale, l’essere naturale, lo stato o la posizione dell’uomo davanti a Dio e sotto la legge. L’uomo rinnovato in Cristo non è più in questa posizione davanti a Dio. Egli è completamente affrancato dalla legge, perché non è più nella carne e sotto la legge, ma è nello Spirito. Tuttavia la carne esiste ancora in lui, ma egli non è più sotto il suo dominio, e la carne non rappresenta più, come prima, la sua posizione davanti a Dio. Il nostro servizio davanti a Lui prende ancora un tutt’altro carattere, come leggiamo al vers. 6. Come morti alla legge, il nostro servizio non può essere né nella carne, né sotto la legge; la morte mediante il corpo di Cristo ha messo interamente da parte questa posizione e per sempre. Siamo rinnovati in Cristo, siamo nello Spirito. Ecco la verità relativamente a tutti coloro che sono in Cristo Gesù. Non si tratta qui della loro debolezza, o della loro forza, non si tratta del cammino di un cristiano, ma solamente della nuova posizione, alla quale tutti i credenti sono giunti, — non da loro stessi — in Cristo risuscitato, e che essi si sono appropriata per la fede. «Ma ora siamo stati sciolti dai legami della legge, essendo morti a quella che ci teneva soggetti, per servire nel nuovo regime dello Spirito e non in quello vecchio della lettera». (Romani 7:6).

Poiché, dunque, era impossibile servire Dio sotto la legge, e poiché bisogna esserne interamente liberi ed affrancati per servire Dio in Cristo e portare frutto a Lui, poteva facilmente sorgere il pensiero che la legge stessa fosse peccato e che avesse una cattiva influenza. L’apostolo risponde ad un tal pensiero nei versetti seguenti. Egli giustifica la legge da ogni accusa e ne stabilisce il vero carattere, appunto come mette in evidenza tutta l’odiosità del peccato. Farò prima di tutto osservare che Paolo si serve qui della parola «io» affin di rendere più semplice e più chiaro il suo insegnamento, su questo punto. È tuttavia questa piccola parola che ha fatto sbagliare la via a tante anime e le ha impedite di comprendere bene questo passo. Esse pensano, come abbiamo già detto, che l’apostolo parli qui di se stesso, del suo proprio stato morale. Hanno questa opinione, perché non leggono il passo citato che superficialmente, e raramente in connessione coi capitoli che precedono e che seguono; e molti si compiacciono di conservare questa opinione, perché vi trovano un motivo di tranquillizzarsi sul proprio stato. Ma i capitoli 6 e 7 sarebbero non soltanto in contraddizione con quest’interpretazione, ma neppure avrebbero senso, se l’apostolo parlasse di se stesso, del suo proprio stato davanti a Dio nell’ultima parte del capitolo 7.

È notevole che, in questa parte del capitolo, non è parlato né di Cristo, né dello Spirito Santo, ma solamente della legge, della potenza del peccato, dell’impotenza e della corruzione della carne e degli sforzi inutili dell’uomo messo in questa posizione. Gesù Cristo non è introdotto che al vers. 25, come il solo rifugio, il solo liberatore di colui che è schiavo sotto la legge del peccato e della morte, o come la sola risposta, che può soddisfare alla domanda: «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» Proprio l’apostolo era ancora nel caso di fare questa domanda? Era egli ancora schiavo sotto la legge del peccato e, nel suo intero cammino, non produceva egli che dei frutti per la morte? La sua redenzione e il suo affrancamento in Cristo erano forse ancora in dubbio, oppure non aveva egli né conoscenza, né coscienza? Lo Spirito Santo non aveva forse fatto la sua dimora nel suo cuore? Nessun cristiano certamente potrebbe esitare a rispondere a queste domande.

Considerando più da vicino questo passo, troveremo che non si tratta qui, né dello stato dell’apostolo, né di quello d’un cristiano affrancato, ma precisamente d’uno stato, che ne è del tutto l’opposto. L’apostolo, come abbiamo detto, dapprima giustifica la legge contro ogni accusa e mette in luce il vero carattere del peccato (vers. 7-13). Egli mostra, al versetto 7, che la legge produce la conoscenza del peccato: «Io non avrei conosciuto il peccato se non per mezzo della legge; poiché non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non concupire». È dunque la legge sola, che manifesta e rivela la vera natura del peccato e della concupiscenza, ed è per essa che si conosce questa natura. Il peccato è il cattivo principio che dimora nella carne e vi opera; è un potere nemico che agisce contro la legge di Dio. Esso opera appunto ciò che la legge proibisce, e perché lo proibisce. La concupiscenza è il desiderio o l’inclinazione della carne. Quando la legge dice: «Non concupire» ci fa conoscere che tali inclinazioni e tali desideri della carne sono cattivi. Il peccato, allora, genera queste concupiscenze in me, e ciò precisamente perché la legge le proibisce. Questo manifesta il vero carattere del peccato, ciò che ha di odioso, e il suo antagonismo contro il bene: «Ma il peccato, còlta l’occasione, per mezzo del comandamento, produsse in me ogni concupiscenza» (vers. 8). La legge e il comandamento sono, in fondo, una sola e medesima cosa, benché la prima indichi tutti i comandamenti nel loro insieme, e l’ultimo piuttosto un solo comandamento tratto dalla legge. Ora, si potrebbe domandare: Non è dunque per la legge stessa che il peccato è risvegliato, eccitato, provocato? Certamente no. Il peccato esisteva già prima che fosse data la legge: «Poiché, fino alla legge, il peccato era nel mondo» (cap. 5:13); ma «senza la legge il peccato è morto» (cap. 7:8). La legge non produce il peccato, ma ne svela il vero carattere. Esso è sempre lì; ma dove non vi è legge, la vera natura del peccato è nascosta. Ma, appena comparisce il comandamento, il peccato riprende vita e si mostra nel suo vero carattere d’inimicizia contro alla legge di Dio. «Un tempo io vivevo senza legge; ma, venuto il comandamento, il peccato prese vita» (versetto 9).

Quando l’apostolo è vissuto senza la legge? Non si tratta di questo qui. L’apostolo non parla né di se stesso, né di altra persona; adopera questo modo di dire per dimostrare che il peccato è messo in evidenza per mezzo del comandamento, il quale ne manifesta il vero carattere. Vediamo già in un fanciullo sorgere il desiderio disordinato di fare ciò che gli è proibito, benché non avesse gran voglia di farlo prima della proibizione. Per il comandamento prende vita, nel fanciullo, il peccato, che fin allora era sembrato morto riguardo a queste cose, ma che ora è eccitato ad agire contro il comandamento. Così pure succede negli uomini. L’apostolo ed ogni cristiano affrancato possono applicarsi l’espressione: «e io morii», ma qui non si tratta di questo: ancora una volta, l’apostolo non fa che mettere in evidenza la vera natura del peccato e i suoi tristi effetti. Se alcuno è senza legge, il peccato è là senza dubbio, ma è morto; appena il comandamento interviene, il peccato prende vita, e che cosa ne segue? Esso genera la morte: «E io morii; e il comandamento che avrebbe dovuto darmi vita, risultò che mi condannava a morte» (vers. 10). La legge dice: «Fa questo, e vivrai», ed è per la legge che il peccato mette su di me la sentenza di morte. La legge promette la vita a chiunque le è sottomesso, ma è obbligata a condannare l’uomo; e perché? Perché il peccato, che prende vita per il comandamento, l’ha sedotto; — il peccato ha operato in lui precisamente ciò che la legge proibisce ed ha fatto di lui un trasgressore, per conseguenza la legge, che è giusta e santa, non può che condannarlo. «Perché il peccato, còlta l’occasione per mezzo del comandamento, mi trasse in inganno e, per mezzo di esso, mi uccise» (vers. 11). Non è dunque il comandamento che ha prodotto questa morte, ma il peccato. È vero che la legge ha pronunziato questo giudizio di morte contro il peccato, ma essa non può fare altrimenti, perché «la legge è santa, e il comandamento è santo, giusto e buono. Ciò che è buono, diventò dunque per me morte? No di certo! È invece il peccato che mi è diventato morte, perché si rivelasse come peccato, causandomi la morte mediante ciò che è buono; affinché, per mezzo del comandamento, il peccato diventasse estremamente peccante» (vers. 12-13). Qual triste cosa è dunque il peccato! Come si mostra cattivo e corrotto! È appunto la legge santa che l’ha spinto a mettermi sotto il suo giusto giudizio; il peccato mi ha cagionato la morte per mezzo di ciò che è buono. Questo ne manifesta pienamente il vero carattere.

Si potrebbe ancora domandare: «Perché facciamo noi il male e non il bene»?

Al che una risposta chiarissima danno i versetti seguenti; già le parole del vers. 14: «io sono carnale, venduto schiavo al peccato» ci danno la chiave del triste stato d’un’anima, che fa le esperienze espresse nei versetti che seguono (15-24). Essa è obbligata a confessare: «Io sono carnale e la legge è spirituale. Io sono uno schiavo del peccato, e la legge domanda da me che io sia schiavo della giustizia». Quale opposizione! Se anche la coscienza rinnovata conosce il bene, e approva la legge, riconoscendo ch’essa è buona (vers. 16), a che mi serve quest’apprezzamento del bene, se io faccio il contrario? Se anche la volontà rinnovata è totalmente disposta a fare il bene, — a che serve se «in me non si trova il modo di compierlo?» (vers. 18). Io so che la legge non esige se non ciò che è giusto e buono, so pure che essa ha il diritto di esigerlo da me: non desidero di diminuire, né di restringere queste esigenze; ma non ho alcuna forza per rispondervi. È vero che quando riconosco il bene e sono pronto a farlo, «non sono più io che faccio il male, ma è il peccato che abita in me» (vers. 17). Ma qual consolazione vi è qui per me? Io riconosco la bruttezza del peccato, eppure sono suo schiavo: riconosco il bene, eppure non lo pratico; odio il male eppure lo faccio. Sono sotto il dominio e la potenza del peccato con una coscienza ed una volontà rinnovate; sono più disgraziato che mai. Gli sforzi più ardenti sono vani e non fanno che aggravare il mio stato disperato; non fanno che mettere ognor più in evidenza come sia odioso il peccato al quale sono interamente venduto, e mi convincono ognor più «che in me, cioè nella mia carne, non abita alcun bene» (vers. 18) ed ecco tutto. Debbo sempre fare questa confessione: «Infatti il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio» (vers. 19); non vi è alcuna forza, né alcun adempimento di bene, e per conseguenza, alcuna vera pace nel cuore.

I versetti 21-23 hanno ancora diversi rapporti con la legge, e servono a svelare sempre più chiaramente lo stato d’un’anima non affrancata. Al versetto 22 si tratta della legge di Dio; «l’uomo interiore», cioè la coscienza e la volontà rinnovate, si diletta in questa legge, e al vers. 23 quest’affezione è chiamata «la legge della mia mente». È ancora detto in questo versetto: «vedo un’altra legge nelle mie membra», legge che ha già menzionata al vers. 21: «Mi trovo dunque sotto questa legge:… il male si trova in me». Questa «legge nelle mie membra» è opposta alla «legge della mia mente» e le fa la guerra; il male che abita in me, è in assoluta opposizione colle affezioni dell’uomo interiore. Ma vi è ancora, come si vede al vers. 23, «un’altra legge nelle mie membra», cioè «la legge del peccato» — il principio nemico che agisce nella mia carne — e sotto il cui dominio mi mette il male che abita in me, male che «combatte contro la legge della mia mente». In questo stato, io sono dunque interamente schiavo del peccato. Anche riconoscendo il bene, io non posso praticarlo; anche odiando il male, io devo pur farlo. Sono completamente soggetto al peccato; sono suo schiavo, gli sono venduto, pertanto esso può fare di me ciò che vuole; non vedo una via di scampo per uscire di lì. Qual triste stato! Certamente la domanda che leggiamo al vers. 24 è la sola che possa sorgere da un tal cuore: «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?».

Ma, domando ancora una volta: Era questo lo stato di Paolo, e potrebbe essere questo lo stato di un cristiano affrancato?

È questo il risultato benedetto dell’opera di Cristo? Siamo noi ancora, malgrado quest’opera, dei prigionieri e degli schiavi del peccato, per produrre dei frutti per la morte? Lo Spirito Santo, che dimora in noi, non ha esso altra azione sul nostro cammino che questa triste esperienza della corruzione e della debolezza della carne? Come sarebbe deplorevole, se così fosse! E tuttavia non troviamo, nell’ultima parte di questo capitolo che schiavitù, debolezza assoluta e frutto di morte. Ci si vede pure l’uomo rinnovato nella sua coscienza e nella sua volontà — chiamato l’uomo interiore — ma non c’è affrancamento, né forza, né alcun frutto accettevole a Dio.

Tuttavia è da notarsi anzitutto, come si è già detto, che in questa parte del capitolo non è parlato di Cristo, il fondamento del nostro vero affrancamento; né dello Spirito Santo, sorgente della nostra forza; è pure impossibile che vi si tratti di un’anima nella quale lo Spirito Santo abita e che conosce il vero affrancamento per l’opera di Cristo.

Abbiamo dunque trovato, nell’insegnamento di questo capitolo, tre punti diversi:

  • 1° L’affrancamento dalla legge per la morte (vers. 1-6);
  • 2° La conoscenza del peccato per la legge (vers. 7-13);
  • 3° Il rinnovamento della coscienza e della volontà, ma ancora nella carne e sotto il potere del peccato (vers. 13-23).

Ora, io spero che ogni credente, che avrà seguito questa meditazione senza preconcetti, avrà pure la convinzione che, usando la parola «io» l’apostolo non voleva dipingere il suo proprio stato attuale, ma si è servito di questo modo di dire, o, se si vuole, si è messo in questa posizione, per ipotesi, e unicamente per rendere il suo insegnamento più chiaro e più espressivo.

L’abbiamo già detto, molte anime si trovano più o meno in questo stato — perché non conoscono ancora ciò che sia il vero affrancamento, o perché non l’hanno ancora ricevuto. Se non sono sotto la legge nel senso letterale (poiché è ad Israele solo che la legge fa data), vi sono nel senso morale e il risultato è identico. Scoprono sempre più o meno in se stesse i risultati e le esperienze, di cui è fatta parola in questo capitolo, e per conseguenza saranno tanto più indotte a credere che l’apostolo vi parli di se stesso, perché trovano, in questo pensiero, un mezzo per tranquillizzarsi sulla loro propria condizione, come abbiamo già fatto osservare. Ma Dio nella sua ricca grazia e nel suo amore infinito, ci ha preparato in Cristo Gesù qualche cosa di migliore che una vita di schiavitù, che le esperienze della nostra completa incapacità, e un cammino nelle opere malvagie, sia pur questo involontario. Egli ci ha dato in Gesù Cristo l’affrancamento e la forza, ci ha resi «completi e ben preparati per ogni opera buona».

Si potrebbe domandare: A che possono dunque servire le esperienze scritte in questo capitolo?

Rispondo: Esse sono non solamente utili, ma necessarie, al fine di insegnarci a rinunziare interamente, ed una volta per sempre, ad una pretesa giustizia per mezzo delle opere, e ad una cosiddetta santità nella carne, al fine di farci conoscere la vera natura del peccato, la corruzione e l’impotenza della carne, di modo che mettiamo tutta la nostra confidenza in Cristo Gesù e nella sua opera espiatoria.

È molto più difficile essere pienamente convinto che si è assolutamente incapace di fare il bene, che riconoscere che si ha peccato. Le esperienze sotto la legge sono il mezzo di convincere un’anima della sua completa incapacità; ma non è secondo il beneplacito di Dio il lasciarla in questo triste stato. Appena essa lo riconosce, appena si vede senza risorse in se stessa — subito depone i cenci della sua propria giustizia, nella convinzione che non potrà mai raggiungere la giustizia di Dio, e per conseguenza non ha più che da esclamare: «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (vers. 24) — e inoltre Dio le rivela subito il perfetto affrancamento in Gesù Cristo. Allora essa conosce e comprende la sua posizione nel Cristo risuscitato, cosa questa che la rende capace di produrre dei frutti per Dio, e il suo cuore è riempito di lodi e di ringraziamenti. Essa esclamerà con verità; «Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore» (vers. 25). In Cristo essa trova non solamente la sua posizione, ma ancora la sua libertà e la sua forza. Si potrebbe credere però che la carne non esista più o che la sua natura sia cambiata; è per questo che lo Spirito Santo aggiunge come conclusione del vers. 25: «Così dunque, io con la mente servo la legge di Dio, ma con la carne la legge del peccato». La carne è sempre là, sempre la stessa di prima, ma la nostra posizione davanti a Dio non è più nella carne, e così non è più sotto la dominazione del peccato e sotto la condanna della legge; la nostra posizione è nel Cristo risuscitato, la nostra posizione è nello Spirito.

3. Le esperienze del cristiano e la Parola di Dio

Prima di venire a trattare questa parte della nostra meditazione, intorno alla quale noi troviamo così preziose istruzioni nei capitoli 6 e 8 dell’epistola ai Romani, vogliamo fermarci ancora un momento su alcune esperienze, delle quali molti credenti amano occuparsi, intralciando in tal modo da se stessi un cammino di benedizione. Se le esperienze sono secondo lo Spirito, sono preziose e benedette; ma se sono secondo la carne, non abbiamo ragione di rallegrarcene. È raro che uno sappia bene distinguere questi due generi di esperienze, ciò che è pure così importante, e molti credenti si gloriano e si rallegrano di esperienze che dovrebbero rattristarli ed umiliarli profondamente. Molti parlano di più e con maggior piacere delle loro esperienze, che della Parola di Dio, e conoscono molto meglio quelle che questa. Sovente giudicano la Parola di Dio colla scorta delle loro esperienze, invece di giudicare le loro esperienze con la scorta della Parola di Dio. In questo modo non solo mettono le loro esperienze al livello delle Scritture — ciò che sarebbe già molto deplorevole — ma le mettono anche al disopra. Essi dicono molto più sovente; «Io ho fatto tale e tal’altra esperienza», piuttosto che: «Sta scritto». Ne risulta la triste conseguenza che essi mettono la loro fiducia in ciò che vedono e sentono, invece di porla in ciò che si può conoscere ed afferrare per la fede; poiché le esperienze hanno rapporto col sentimento e colle cose visibili, la Parola di Dio colla fede. Ne segue ancora che la pace con Dio, la sicurezza della nostra posizione nella sua presenza e la certezza della nostra adozione sono molto deboli, alterate e scadenti in molte anime. I sentimenti e le esperienze sono soggetti a variazioni, così, tutto ciò che vi si fonda sopra è instabile e vacillante; ma la Parola di Dio è ferma e stabile, e noi siamo sempre in sicurtà e in certezza quando su di essa riposiamo con fede.

L’incertezza e l’abbattimento, l’aridità e la languidezza di tante anime, la mancanza di pace e di gioia, di lodi e di ringraziamenti, il cammino mondano e carnale — tutto questo proviene soprattutto da ciò che si dà troppo valore alle esperienze cosiddette cristiane e si apprezza e si conosce poco la Sacra Scrittura. Oh! noi siamo ben lungi dall’immaginare quanto grande sia il male che deriva da questa sorgente. Succede sovente che si considerano certe esperienze come un criterio del vero stato d’un cristiano, perché ci sono dei veri credenti che ne fanno delle somiglianti. Ma quanto è mai assurdo questo pensiero! Può essere che un uomo ammalato si lasci persuadere che è forte e in buona salute, perché molti dei suoi vicini sono nello stesso suo stato? Com’è che molti cristiani si regolano sul cammino altrui e si tranquillizzano per questo? Gli è che, come abbiamo detto, stimano troppo, forse in buona fede, le esperienze dette cristiane, e stimano troppo poco — forse a loro insaputa — l’autorità della Parola di Dio. La sua Parola sola è «vivente ed efficace», «i suoi statuti sono perfettamente stabili», mentre le esperienze dei cristiani sono varie come le loro disposizioni.

Se paragoniamo per esempio, le esperienze di Abramo con quelle di Giacobbe, vediamo subito una gran differenza fra di loro. Erano ambedue credenti, ambedue avevano la stessa promessa; ma Abramo si confidava in Dio e camminava con Lui, mentre Giacobbe si confidava nelle circostanze, in ciò che era visibile, e camminò molti anni nel mondo, nel quale non aveva altare. Non è se non dopo una lunga sequela di tristi esperienze ch’egli riconobbe quanto Abramo aveva già riconosciuto da principio: che Dio è il Fedele e il Verace. Come sono semplici e benedette le esperienze di Abramo, e come sono varie e tristi quelle di Giacobbe! Similmente, scorgiamo grandi differenze fra i credenti d’oggi; ma sono pochissimi quelli che camminano sulle orme di Abramo e sono molto numerosi quelli che camminano su quelle di Giacobbe. Ve ne sono ancora che si gloriano delle esperienze di Giacobbe e che le considerano come utili e necessarie ad ogni cristiano. Esse sono, senza dubbio, utili e necessarie, ma solamente per un cuore carnale e mondano, per un cuore che si attacca alle circostanze e si fonda nelle cose visibili, come Giacobbe; ma esse non sono necessarie per un cuore semplice e moderato, che cammina con Dio nella fede, come Abramo. Io farò sempre delle esperienze: o nella mia infedeltà, esperienze della corruzione e della completa debolezza della mia carne, dell’instabilità di tutto ciò che è visibile e dei giudizi di Dio, oppure esperienze della fedeltà invariabile, dell’amore e della potenza di Dio. Ma quale differenza!

Molti cristiani si riferiscono ancora alle dolorose esperienze dei figli d’Israele nel deserto e misurano le loro secondo quelle. Ma c’è forse per noi un soggetto di consolazione e di pace nel rassomigliar loro? Desideriamo noi mietere, come loro, i tristi frutti dell’infedeltà? Se abbiamo compreso il giudizio che Dio ha formulato sull’errare di questo popolo nel deserto, oppure se abbiamo letto con qualche attenzione le serie parole dell’apostolo, in 1 Corinzi 10, le esperienze di questo popolo non ci tranquillizzeranno certamente. Molte anime, che si applicano così leggermente le parole seguenti, che Dio indirizza a questo popolo: «Sono sempre traviati di cuore» (Ebrei 3:10), sarebbero certamente atterrite, se prendessero veramente a cuore la frase che segue: «Così giurai nella mia ira: Non entreranno nel mio riposo!» (Salmo 95). L’apostolo non dimenticava queste parole, quando avvertiva gli Ebrei credenti del pericolo che sovrastava loro camminando sulle orme di questo popolo, il cui cuore tendeva sempre a sviarsi.

Ho già fatto notare che le esperienze, di cui è fatta parola nel capitolo 7 dei Romani, sono utili e necessarie, e che devono precedere un vero affrancamento; ma io sono ben lungi dall’affermare che queste esperienze della corruzione e dell’impotenza morale della carne si facciano, o si debbano fare da ciascuno, al principio della propria conversione. Credo invece che noi abbiamo tutti, più o meno, molto da imparare a questo riguardo, per ciò che si riferisce alla pratica, durante il nostro pellegrinaggio in questo deserto. Ma molti credenti si attengono quasi esclusivamente a queste esperienze della corruzione e dell’incapacità della carne, cosa certo molto deplorevole. Tuttavia essi, sovente, hanno fatto l’esperienza che la carne è corrotta e senza forza per il bene: ne parlano anche con la più profonda convinzione, eppure fanno sempre dei nuovi sforzi per compiere, in questo modo, ciò che riconoscono essere buono ed accettevole a Dio; ma non fanno niente altro che provare, sempre di nuovo, che tutti i loro sforzi sono inutili e vani. Molti credenti passano la loro vita così. Il loro cuore è molto spesso aggravato e abbattuto, pieno di affanni e d’inquietudine, di scoraggiamento e di timore. Annunziano bensì al mondo una gioia e una felicità in Gesù Cristo, ma succede sovente che se ne rallegrino pochissimo essi stessi. Se noi fossimo presenti alle loro preghiere alla fine della maggior parte delle loro giornate, noi sentiremmo molti lamenti e molte accuse contro se stessi, ma raramente liete lodi e ringraziamenti. Sovente sono costretti a sospirare dicendo: «Ecco un’altra giornata perduta, poiché ho vissuto per me e non per il Signore». E quante volte i lamenti dei cristiani sul loro proprio conto attestano il loro triste stato morale!

È una grazia preziosa ed inestimabile che la nostra adozione e la certezza della nostra salute non dipendano dal nostro cammino, ma solamente dall’opera di Cristo. Tuttavia, perdiamo molto se non siamo affrancati, o se non conosciamo l’affrancamento in Gesù Cristo. Perdiamo più o meno il privilegio benedetto di camminare in comunione con Lui, di glorificare il suo Nome con un servizio che gli è accettevole e di offrirgli con lieto animo le nostre adorazioni e i nostri rendimenti di grazie. Più d’un’anima seria deplorerà senza dubbio questa perdita, ha forse per molto tempo aspettato un miglioramento del suo stato, ma non ne ha mai trovato, e, in tali casi, si sente sovente la seguente confessione: «Io non ho una vera serietà e un vero zelo per il Signore: il mio amore e la mia devozione per Lui sono molto deboli, ed io non provo un profondo dolore, né una grande inquietudine a questo riguardo». Si sentono spesso, ai nostri giorni, simili lamenti in mezzo ai credenti, e si nota bentosto che manca realmente il vero affrancamento, o che non è compreso. Si manifestano in loro, sotto altre forme forse, gli stessi principii che troviamo nell’ultima parte di Romani 7: si riconosce il bene, si ha la volontà di farlo, ma non si ha la forza per compierlo. — È una lotta nella carne con la carne stessa, una guerra contro il peccato, senza conoscere la forza della vita in Cristo, e quindi tutti gli sforzi sono inutili e non fanno che manifestare l’infermità della carne e la forza del peccato. E a che gioverebbe il mostrare, in questa guerra, la serietà più decisa, lo zelo più ardente? A che mi gioverebbe il sentire in me un amore così ardente, da poter esclamare con Pietro: «Signore, sono pronto ad andare con te in prigione e alla morte»? Non lo rinnegherei io ben presto in modo deplorevole come l’apostolo, se entrassi nella stessa tentazione? Tutti i miei sospiri, tutti i miei pianti riguardo al mio stato disperato e alla mia mancanza di forza, sono parimenti infruttuosi. Sì, tutto è vano, finché io abbia compreso che vi è all’infuori di me, nel Cristo risuscitato, una pienezza che possiedo per la fede in Lui. Alcuno potrebbe dire: «Io so che vi è forza sufficiente in Cristo, ma ho bisogno della fede per poterne fare uso, ed io non trovo la fede in me». Rispondo: «Chi parla così non sa che cosa sia la fede, perché la convinzione che vi è in Cristo forza sufficiente per me, è precisamente la fede e niente altro, e appena io agisco conformandomi a questa convinzione, trionfo di tutto, sono più che vincitore in ogni caso».

Per molti credenti, che si lamentano della loro mancanza d’amore, quest’amore è più o meno una legge. Riconoscono l’amor perfetto di Gesù Cristo, che ha lasciato la sua vita per noi, e il pensiero di quest’amore li spinge ad amarlo ardentemente in contraccambio, ma non tardano ad accorgersi che non vi è in loro che pochissimo amore. Essi debbono amare Gesù Cristo con tutto il loro cuore, ecco un obbligo che è perfettamente giusto, ma non l’amano così, il peccato ne li impedisce. Eccoli dunque, benché sotto una forma rivestita del nome di Cristo, sotto la stessa legge che dice: «Tu amerai dunque l’Eterno, il tuo Dio, con tutto il cuore». Tali credenti pensano ancora molto più al loro imperfetto amore per Cristo, che al suo perfetto amore per noi; sono talmente preoccupati della loro mancanza d’amore, che non vedono quasi più la pienezza del suo amore, anche quando ne parlano molto. Qual gioia riempirebbe ed animerebbe i loro cuori, se potessero, una buona volta, lasciare interamente da parte se stessi e le loro imperfezioni, per contemplare unicamente e imparare a conoscere le ricchezze dell’amore del Signore; poiché la conoscenza del suo amore rende vivente ed efficace l’amore, che è sparso nei cuori nostri per lo Spirito Santo. Ma tutti gli sforzi per amarlo sono interamente vani, non fanno che scoraggiare e travagliare l’anima. E quando sono arrivati a questo punto, molti credenti cercano un rifugio nelle esperienze d’altri cristiani, per le quali pensano di tranquillizzarsi. Vedono che molti, i quali hanno reputazione di essere veri cristiani e che sovente hanno già vissuto molti anni in questo modo, si trovano nella medesima loro condizione. Traggono ancora, come si è detto, qualche consolazione dalle esperienze di alcuni fedeli dell’Antico Testamento, senza pur considerare che i loro privilegi sono più grandi di quelli di quei santi, dacché l’opera di Cristo è compiuta e che lo Spirito Santo è disceso. Si gloriano ora delle esperienze stesse, che condannavano poco prima davanti a Dio; credono che i loro pianti sui loro numerosi falli siano una prova di buona condizione per un cristiano, e chiamano Spirito ciò che avrebbero chiamato una volta un triste effetto della carne; in questo modo, fanno tacere la loro coscienza accusatrice, diventano indifferenti riguardo al peccato e contristano lo Spirito di Dio.

Vi è un’altra specie di cristiani, che non potrebbero tranquillizzarsi così; questi fanno del cammino fedele e benedetto del credente un dovere difficile, un peso insopportabile, sotto il quale si trascinano gemendo. Non comprendono che questo cammino è il privilegio benedetto e prezioso d’un credente, e che le esortazioni speciali, che l’apostolo rivolge ai cristiani, ricordano ed esprimono sempre la loro posizione benedetta, relativamente a Dio Padre ed a Gesù Cristo. Ah! qual danno e quali perdite deve subire quaggiù l’anima che non conosce il vero affrancamento in Cristo!

Non mancano però, in mezzo ai cristiani, delle persone che si consolano dei loro sforzi infruttuosi, pensando che il cammino secondo Dio è compiuto in modo invisibile dall’uomo interiore, per la nuova vita. Questo bisogna ammetterlo, rappresenta strettamente il cammino d’un cristiano. Ma a che non si ricorrerebbe, quando il cuore è conturbato ed inquieto? Se qualcuno vede la minima apparenza di consolazione in qualche cosa, se ne impadronisce subito. Ma, domando semplicemente: Il cammino del Signore Gesù era invisibile? Sarebbe egli stato odiato dai peccatori, a cagione della sua giustizia, se la sua vita e il suo cammino fossero restati invisibili? Il cammino dell’apostolo Paolo era forse invisibile? Il suo cammino spirituale era forse meno visibile che non lo fosse stato il suo cammino carnale nel giudaesimo e sotto la legge? Il Signore vuol parlare d’un cammino invisibile in quest’esortazione: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli»? (Matteo 5:16). E chi oserebbe sostenere che si tratta di un cammino invisibile nelle molte esortazioni di questo genere?

Altri ancora si tranquillizzano, pensando che il Signor Gesù che ha tutto compiuto per noi, abbia ancora compiuto al nostro posto queste esortazioni di camminare santamente. Non ricorriamo a tali idee insensate, cari fratelli, poiché, facendo questo, inganneremmo noi stessi a nostro proprio danno e diminuiremmo la estensione dell’opera di Cristo che ha reso noi, completamente incapaci per natura, compiuti per ogni buona opera. Come sarebbe stato assurdo per l’apostolo il darsi tanta pena per incitare i cristiani ad una vita santa! Come mai potremmo e dovremmo comprendere quest’esortazione del Signore Gesù stesso: «Seguimi»? o quella dell’apostolo, quando in Filippesi 2, e in molti altri luoghi, ci dipinge il cammino perfetto del Signore Gesù, e ci dice: «Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù», e altrove: «Siate dunque imitatori di Dio, perché siete figli da lui amati»? o ciò che è detto in 1 Giovanni 2:6: «Chi dice di rimanere in lui, deve camminare com’egli camminò»?

Molti pensano ancora che la volontà di Dio sia ch’essi si trovino in questo stato desolante, affinché non si inorgogliscano. Si può dunque dire che la fedeltà renda il servitore orgoglioso, o che l’obbedienza innalzi il fanciullo ai suoi propri occhi? La confidanza nelle proprie forze e nei propri sforzi è sempre legata all’orgoglio; ma non la confidanza nella grazia di Dio e nella potenza di Gesù Cristo.

Altri, simili a questi ultimi, cercano precisamente di mostrare il loro abbassamento, gloriandosi di essere poveri peccatori. Ma, chi si è abbassato di più: il povero peccatore, o Gesù il Figlio di Dio? Egli annichilò se stesso, pur essendo in forma di Dio (Filippesi 2:6-7). Tuttavia lo si accusò di orgoglio, perché chiamò Dio suo Padre. — Quando siamo noi veramente umili ed abbassati? È forse quando non vogliamo essere che «poveri peccatori» oppure quando, con un cuore umile e riconoscente stiamo e camminiamo nella posizione, in cui Dio ci ha posti, nella sua grazia, per Cristo? Fra tutti i nomi benedetti, che lo Spirito Santo attribuisce ai credenti, non troviamo mai quello di «poveri peccatori». Se egli fa menzione di questa posizione davanti a Dio, se adopera quest’espressione parlando dei cristiani, lo fa sempre in rapporto col passato. Non cerchiamo dunque la nostra umiliazione in una maniera così poco conforme alla verità. Consideriamo, inoltre, quante anime sono ritenute schiave sotto il peccato per tali false idee sul vero e buono stato d’un cristiano e come la benedizione e la potenza della Parola siano indebolite in coloro che sono pure stati riscattati a sì gran prezzo.

Oh! come sarebbe prezioso per i credenti, il mettere una buona volta interamente da parte tutte le loro proprie esperienze, così pure quelle di altri cristiani, e ricorrere unicamente alla parola di Dio! Certamente, se essi la studiassero e investigassero, sotto la direzione dello Spirito Santo e con preghiera, vedrebbero ben presto che molti passi, nei quali dei cristiani non affrancati credono di trovare consolazione, in realtà non ne contengono punto — ma sovente piuttosto il contrario — e si convincerebbero che si dà generalmente una falsa interpretazione a molte dichiarazioni delle Sacre Scritture. Ed allora comprenderebbero ben presto in che consista la vera libertà dei figli di Dio, e sarebbero veramente tranquillizzati. Quando il cristiano semplice, condotto dallo Spirito Santo nell’intelligenza della Parola, riconosce i privilegi e le benedizioni molteplici, che sono per lui in Cristo e nella Sua opera, allora ha trovato la soluzione, pienamente soddisfacente, d’una quantità di questioni, che l’avevano sovente conturbato fino a quel tempo; vede sparire interamente molti ostacoli ad un cammino degno del Vangelo; allora il suo cuore, libero e felice, è riempito di lodi, di ringraziamenti e di adorazione.

Abbiamo veduto in quale triste stato possono trovarsi molti cristiani, per mancanza di vero affrancamento, o per grossolana ignoranza della Scrittura e dell’opera di Cristo, oppure, ahimè! sovente ancora per mancanza di vera serietà e fedeltà davanti a Dio.

Proseguiamo dunque il nostro studio su questo importante soggetto con la scorta della Parola di Dio, affinché impariamo a ben comprendere in che consiste propriamente il vero affrancamento del cristiano.

Ritorniamo adesso al capitolo 6 dell’epistola ai Romani.

4. Romani 6

Al cap. 5:20, l’apostolo dice: «La legge poi è intervenuta a moltiplicare la trasgressione; ma dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata». Queste parole possono facilmente dar luogo alla seguente domanda: «Rimarremo forse nel peccato affinché la grazia abbondi?» (6:1). La grazia non si glorierà essa con tanto maggior ricchezze in noi, quanto più dimoriamo nel peccato? L’apostolo risponde: «No di certo!». Poi fa vedere molto semplicemente ed esplicitamente che è impossibile al cristiano di continuare così a vivere nel peccato, perché egli non è più sotto il dominio del peccato. «Noi che siamo morti al peccato, come vivremmo ancora in esso?» (vers. 2). Qui ancora, è la morte (come al capitolo 7 relativamente alla legge) che ci ha interamente affrancati dal servizio e dalla vita nel peccato. Nel capitolo 6 abbiamo, inoltre, una esposizione della natura di questa morte, e noi vedremo che l’espressione «esser morti con Cristo» non è solamente una maniera di parlare, ma una verità che ha le conseguenze più benedette, specialmente per il cammino pratico. Ma, come vedremo bentosto chiaramente, questo non deve mai essere separato dalla morte di Cristo. Considerarsi come morti alla legge ed al peccato, all’infuori della morte di Gesù Cristo, non sarebbe che una deplorevole illusione. Vi è purtroppo, relativamente a questa verità così benedetta, molta confusione in mezzo ai cristiani. Solo il cristiano affrancato, è capace di comprendere questa locuzione: «esser morto con Cristo»; quello, che non è affrancato, la separa dalla persona di Cristo. Egli giudica sempre secondo ciò che osserva, sente, prova: egli vede che la carne e il peccato sono ancora lì: quindi l’applicazione, che si fa di queste parole: «Noi siamo morti alla legge ed al peccato», non può sembrargli che l’effetto dell’illusione e dell’orgoglio e, per conseguenza, molto arrischiata e pericolosa. Ma la parola di Dio dichiara, in molti luoghi, nel modo più chiaro e positivo, che «noi siamo morti con Cristo» ciò che, per conseguenza, deve esser vero (Romani 6:4-8; Colossesi 2:20; 3:3; 1 Pietro 2:24; 4:1, ecc.). Se la mente naturale non può comprenderlo, pur nondimeno è una verità di Dio, ed una preziosa verità per la fede. Essa non è solamente, come molti s’immaginano, il privilegio di qualcuno, ma è per tutti i cristiani. Questo risulta in modo evidente soprattutto dall’epistola ai Colossesi. Là, i santi erano esposti al pericolo di perdere la coscienza della loro unione con Cristo e del loro compimento in Lui e di ritornare alle misere tradizioni. Ora, che fa l’apostolo? Egli non dice loro: «Io vedo bene che voi non siete ancora morti con Cristo agli elementi del mondo; poiché il vostro cammino lo prova»; ma si indirizza alla loro coscienza, dicendo: «Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché, come se viveste nel mondo, vi lasciate imporre dei precetti?» (2:20). Similmente al cap. 3:3: «voi moriste e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio». Al vers. 5 l’apostolo aggiunge a questa verità benedetta questa importante esortazione: «Fate dunque morire ciò che in voi è terreno: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e cupidigia, che è idolatria». Ma questa mortificazione delle loro membra, non dovevano effettuarla per morire, ma perché erano morti e risuscitati; essa è, soprattutto, il risultato benedetto della nostra identificazione con la morte e la risurrezione di Cristo.

Si sentono talvolta dei figli di Dio ripetere le parole di Paolo (in 1 Corinzi 15:31): «Ogni giorno sono esposto alla morte» (o «Io muoio ogni giorno» secondo un’altra versione), senza aver l’idea che queste parole non hanno alcun rapporto di nessuna specie con quanto è detto dello stato di morte in Romani 6 e in altri passi, e senza neppur rendersi conto del vero significato di queste parole. Se le esaminiamo in relazione col loro contesto, (vers. 30 e 32), vediamo subito che qui si tratta unicamente dei pericoli esterni, delle persecuzioni e delle altre tribolazioni, che Paolo doveva soffrire per l’Evangelo. Tuttavia queste sofferenze e questi pericoli erano ancora una morte giornaliera, come dice in altri termini, in Romani 8:36, dove parla pure di queste afflizioni esterne per l’amor di Cristo: «Per amor di te siamo messi a morte tutto il giorno; siamo stati considerati come pecore da macello». Così pure, in 2 Corinzi 4:10-11: «Portiamo sempre nel nostro corpo la morte di Gesù… Infatti, noi che viviamo siamo sempre esposti alla morte per amor di Gesù». Certamente, molti credenti, che sovente hanno sulle labbra queste parole: «Io muoio ogni giorno», non oserebbero farsene così leggermente l’applicazione, se ne comprendessero il vero senso. Ma se alcuno le usa come per significare una morte prolungata e continua della natura corrotta, o del peccato nella carne, non solamente ne dà una spiegazione erronea, ma ancora aspetta e spera qualche cosa, che non è mai possibile quaggiù e che non ha il menomo fondamento nella Parola di Dio. La natura, o l’affezione della carne, non si cambierà mai.

Entriamo ora un po’ più avanti nello studio dell’insegnamento, che ci offre il capitolo 6 ai Romani.

Ogni uomo naturale è morto nei suoi falli e nei suoi peccati (Efesini 2:1), ma il fedele è, in Cristo, morto al peccato. Quegli è, per così dire, morto in quanto a Dio e vivente nel peccato; questi è morto al peccato e vivente a Dio. La differenza è grande e degna della massima attenzione. Servire al peccato, o vivere nel peccato non è per i credenti, perché, per la morte di Cristo, essi ne sono stati separati e distaccati. Questo lo troviamo molto più esattamente spiegato nei seguenti versetti: «Ignorate forse che tutti noi, che siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Siamo dunque stati sepolti con lui mediante il battesimo nella sua morte, affinché, come Cristo è stato risuscitato dai morti mediante la gloria del Padre, così anche noi camminassimo in novità di vita». (Romani 6:3-4). L’apostolo dice qui molto chiaramente che noi, credenti, siamo messi in relazione con la morte di Cristo, pertanto siamo sepolti con Lui, nel battesimo, per la morte. È così, in verità, per tutti quelli che appartengono a Cristo. Ogni vero cristiano è in Lui, morto e risuscitato con Lui. Così siamo stati interamente separati e messi fuori dallo stato, o dalla posizione, che occupavamo davanti a Dio come uomini naturali e nella quale posizione eravamo totalmente soggetti al peccato.

Dio non conosce più colui che è in Cristo Gesù secondo la sua primitiva condizione nella carne, ma solamente secondo la sua nuova posizione nel Cristo risuscitato. Nello stesso tempo, troviamo ancora, in questi versetti, lo scopo della nostra separazione nella morte di Cristo: «affinché, come Cristo è stato risuscitato dai morti mediante la gloria del Padre, così anche noi camminassimo in novità di vita». Nel primitivo stato, camminavamo nel peccato e nella morte, ma ora, perché siamo in Cristo, camminiamo in novità di vita.

La nostra identificazione con la morte e con la risurrezione di Cristo è ancora più chiaramente espressa al vers. 5: «Perché se siamo stati totalmente uniti a lui (fatti una stessa cosa) in una morte simile alla sua, lo saremo anche in una risurrezione simile alla sua». Quindi, come peccatori nella carne, siamo messi da parte, davanti a Dio, perché siamo stati identificati con la morte di Cristo e sepolti con Lui, affinché, come risuscitati insieme con Lui, abbiamo ora davanti a Dio la nostra posizione nel Cristo risuscitato. Troviamo ancora lo stesso pensiero esposto in Colossesi 2:12: «Siete stati con lui sepolti nel battesimo, nel quale (Cristo) siete anche stati risuscitati con lui mediante la fede nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti». Così pure, come si è già visto in Colossesi 3:1-2; e in Efesini 2:6, leggiamo: «e ci ha risuscitati con lui (o insieme)» Tutti questi passi ci dimostrano egualmente in modo evidente che lo stato di morte e risurrezione con Cristo è il privilegio di tutti i cristiani, e non solamente di alcuni d’infra loro. Tutti, senza eccezione, — deboli, o forti, — giovani, o vecchi, — sono morti con Cristo e risuscitati insieme con Lui; sono, nella sua morte, separati agli occhi di Dio dalla loro vecchia condizione naturale, e sono, nella sua risurrezione, presentati in una nuova posizione davanti a Lui per sempre. Ma soltanto per la fede siamo resi capaci di comprendere queste verità benedette e di realizzarle nella potenza dello Spirito di Dio.

Ora, a questo proposito devo osservare che si tratta qui della posizione, che la grazia ci ha fatto avere nel Cristo risuscitato e non di ciò che siamo nel nostro cammino giornaliero. Relativamente alla nostra posizione in Cristo, siamo compiuti; ma non lo siamo nel nostro cammino. La prima posizione sarà dunque sempre determinata da ciò che siamo in Cristo, e non da ciò che siamo nella nostra condotta. Anzi, non è il nostro cammino, che ci introduce nella nostra vera posizione davanti a Dio, ma unicamente l’opera di Cristo. Nessuno può dire: Bisogna che io cammini bene per ottenere una posizione perfetta davanti a Dio; — ma ciascuno deve dire: Bisogna che io abbia una posizione perfetta in Cristo davanti a Dio, per poter camminar bene.

Leggiamo poi al vers. 6: «Sappiamo infatti che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con lui affinché il corpo del peccato fosse annullato e noi non serviamo più al peccato». Com’è pur preziosa e benedetta per tutti quelli che sono in Gesù Cristo, questa particella «con», crocifissi con, morti con, sepolti con, vivificati con, risuscitati con! Siamo diventati completamente uno stesso albero con Cristo (*), nella sua morte, come pure nella sua risurrezione. Relativamente all’uomo vecchio, abbiamo trovato, nella morte di Gesù Cristo, la morte come «salario del peccato», e nella sua risurrezione siamo stati rinnovati a vita; è appunto come risuscitati con Cristo, che siamo ora posti davanti a Dio.

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(*) Traduzione letterale di «totalmente uniti a lui» (Romani 6:5).
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Noi siamo non soltanto riconciliati e giustificati per il suo sangue; ma, inoltre, siamo morti nella sua morte, e siamo vivificati nella sua vita. Il nostro giudizio è stato eseguito in Cristo alla croce. Là noi siamo stati giudicati in Lui, e quindi non abbiamo più da temere il giudizio. Per la sua vita che possediamo in Lui, siamo liberati per sempre dall’ira avvenire, che deve cadere su tutti gli uomini. Leggiamo, in Romani 5:8-9: «Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. Tanto più dunque, essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall’ira». Il giudizio non è più davanti a noi, ma dietro a noi. Questo giudizio ci ha interamente colpiti in Cristo sulla croce, e noi ne siamo usciti perfettamente liberi per la sua vita, nella risurrezione di Cristo. Tutto ciò che era a temersi è dietro a noi. Vogliamo conoscere la nostra vera posizione davanti a Dio? La troviamo unicamente nel Cristo risuscitato. Tutti quelli che sono in Lui, possono ora esclamare: «In questo l’amore è reso perfetto in noi: che nel giorno del giudizio abbiamo fiducia, perché qual egli è, tali siamo anche noi in questo mondo» (1 Giovanni 4:17). Egli, ora risuscitato, può dire: I terrori della croce sono dietro a me, la riconciliazione è compiuta, i peccati sono espiati, la giustizia è soddisfatta, la collera placata, ed ogni giudizio è cessato per sempre. Questo si verifica pienamente per coloro che sono in Gesù Cristo; poiché tutto quello, per cui Egli dovette passare, non gli accadde che per loro, ed essi sono ora nel Risuscitato. Perciò ancora, non vi è più per loro maledizione, né collera, né giudizio, né condanna. Tutto questo è per sempre allontanato per la morte di Cristo.

Oh! com’è consolante il sapere che siamo nel Risuscitato, che in Lui ci troviamo dall’altra parte della croce, che tutto ciò ch’era da temer si è per sempre dietro a noi; sapendo che Cristo, essendo stato risuscitato dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui (Romani 6:9). Ora dunque, abbiamo per sempre trovato il nostro posto benedetto nel Risuscitato. Oh! come il nostro cuore è felice e tranquillo, quando per la fede conosciamo questo posto di benedizione e ne abbiamo preso possesso! Ma se non è il nostro caso, se manchiamo d’intelligenza riguardo alla nostra posizione perfetta nel Cristo risuscitato, se, malgrado la sua opera, non ci riconosciamo ancora che come poveri peccatori perduti, senza forza e totalmente pervertiti — allora, benché quest’opera sia stata pienamente soddisfacente, noi saremo inquieti e aggravati. Molti credenti rinviano ad un lontano avvenire ciò che la fede possiede già pienamente in Cristo, e di cui gode attualmente; vogliono, coi loro proprii sforzi, acquistare ciò che hanno già ottenuto in Lui, e, quel che è peggio, cercano sovente fuori di Lui ciò che non può essere trovato che in Lui. Quanti cristiani sono sempre occupati davanti a Dio del loro vecchio uomo e sospirano ancora per la liberazione «da questo corpo di morte»! Sperano un cambiamento, o un rinnovamento di questo corpo di morte, cioè della carne, benché abbiano sufficientemente provato e sovente riconosciuto che la natura della carne resta invariabile. Aspettano quello che non avverrà mai, poiché non conoscono quanto è già avvenuto in Cristo, cioè che l’uomo vecchio è stato completamente annullato alla croce, nella morte di Cristo, così, davanti a Dio, non esiste più e non è più affatto in relazione con Lui. Questo lo vediamo molto esplicitamente annunziato in Galati 5:24: «Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri». Similmente in Colossesi 2:11: «In lui (cioè in Cristo) siete anche stati circoncisi di una circoncisione non fatta da mano d’uomo, ma della circoncisione di Cristo, che consiste nello spogliamento del corpo della carne».

Qual è ora il primo risultato della nostra morte con Cristo e della nostra risurrezione con Lui? Abbiamo già fatto notare che il primo scopo di questo fatto è «che noi camminassimo in novità di vita». Il nostro servizio è interamente cambiato, e, per conseguenza anche il frutto di questo servizio. Prima servivamo al peccato e ne portavamo il frutto per la morte; ora serviamo alla giustizia, per portare del frutto a Dio.

Leggiamo in Romani 6:6: «… affinché il corpo del peccato fosse annullato e noi non serviamo più al peccato». Come uomini naturali, si è già detto, il nostro servizio è tutto intero e unicamente nel peccato; siamo schiavi, ad esso interamente soggetti.

Ma per noi, che siamo nel Cristo risuscitato, questo servizio ha trovato la sua fine, perché in Lui il corpo del peccato è annullato. Noi siamo stati affrancati nella morte di Cristo, e quindi abbiamo cessato di essere degli schiavi del peccato. Il dominio del peccato è abbattuto e annientato per noi nella morte di Cristo. Il nostro completo affrancamento da questo dominio era uno dei grandi scopi dell’opera del Salvatore. Ma la realizzazione di questo affrancamento nella pratica è un’altra cosa. Realizziamo il cessare dal peccato, e la vita secondo la volontà di Dio, unicamente per la fede e nella potenza dello Spirito Santo. Possediamo la vita di Cristo risuscitato, ma ci troviamo in un corpo che appartiene a questa creazione, e che ci espone ad ogni specie di tentazioni; per questo il nostro cammino e il nostro servizio quaggiù sono un combattimento della fede. Dobbiamo costantemente tener presente che chi «è morto con Cristo», è «morto al peccato», che l’abbiamo fatta finita con il peccato e ciò costituisce un’arma contro tutte le tentazioni. Troviamo qualcosa di simile nell’importante esortazione di Romani 6:11, e seguenti: «Così anche voi fate conto di essere morti al peccato, ma viventi a Dio, in Cristo Gesù». Poi l’apostolo fa ancora quest’osservazione al vers. 14: «Il peccato non avrà più potere su di voi; perché non siete sotto la legge ma sotto la grazia» Sotto la legge, siamo nella carne, e soggetti alla sua corruzione ed alla sua impotenza; ma sotto la grazia, siamo in Cristo e nella forza dello Spirito. La vita, che possediamo nel Cristo risuscitato, è soggetta non già al peccato ed al suo servizio, ma alla giustizia: leggiamo quindi in 1 Pietro 2:24: «… affinché, morti al peccato, vivessimo per la giustizia». Similmente, in Romani 6:18: «Liberati dal peccato, siete diventati servi della giustizia». Dal vers. 20 alla fine di questo capitolo, ci sono presentati i frutti del servizio del peccato e quelli del servizio della giustizia: quanto i primi sono deplorevoli e cattivi, tanto i secondi son preziosi e benedetti. La fine dei primi è «la morte»; la fine degli ultimi «la vita eterna». Oh! benedetto sia Dio per la ineffabile sua grazia, che ci ha affrancati, in Cristo Gesù, da questo triste servizio, e che, in Lui ci ha resi capaci di servire Dio e di portar frutto!

Ciò che abbiamo detto fin qui, fratelli miei, ci dimostra già sufficientemente quanto benedetta cosa sia il conoscere il nostro affrancamento in Cristo, e il comprendere l’immensa portata della sua opera. È questo solo che può rendere il nostro cuore perfettamente tranquillo e assicurato davanti a Dio; vediamo che ogni soggetto di timore è per sempre allontanato. D’altra parte, non saremo resi capaci di discernere il felice servizio del Signore e di dedicarvici, che nella misura in cui avremo imparato a conoscere il nostro vero affrancamento in Cristo, in cui avremo veduto che tutto quello che c’impediva di camminare in modo da piacere a Dio è ormai interamente tolto, e che possediamo in Cristo la vita e la pienezza della forza. Finché mancherà questa conoscenza, saremo del continuo occupati di noi stessi davanti a Dio, per conseguenza ripieni d’inquietudine e non avremo né il tempo, né la capacità di pensare realmente alle cose di Dio. Ma l’uomo affrancato vede e riconosce che Dio ha tutto compiuto per lui in Cristo; che così ha tolto tutti i timori, allontanato tutti gli ostacoli e soddisfatto pienamente a tutti i bisogni. Non resta dunque più niente di ciò che poteva realmente impedirgli di camminare davanti a Dio in modo da essergli accettevole e d’esser sempre atto al servizio del suo Dio, che vuole caricarsi Egli stesso di tutto ciò che potrebbe inquietare i suoi figliuoli, affinché possano vivere unicamente per Lui. Ma questa è una vita nella fede, poiché è la fede sola, che riconosce e realizza, per la potenza dello Spirito, tutto ciò che possediamo già quaggiù, per grazia, in Cristo Gesù.

5. Romani 8

Prima di chiudere questa parte della nostra meditazione: «l’affrancamento in Gesù Cristo», desideriamo fermarci ancora un poco sul prezioso insegnamento relativo al soggetto tanto benedetto che ci presenta il capitolo 8 ai Romani. Fin dal primo versetto noi sentiamo queste consolanti parole: «Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù».

i peccati, o le trasgressioni, né il peccato, che abita ancora nella carne, non possono più attirare, su quelli che sono in Lui, alcuna condanna. Cristo è morto e risuscitato per loro, ecco perché il loro giudizio è interamente passato e la loro giustificazione assicurata per sempre. Leggiamo pure in Ebrei 10:14: «Infatti con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che sono santificati»; e nel nostro capitolo (Romani 8:30): «E quelli che ha giustificati li ha pure glorificati». Tutto è già compiuto in Lui per i suoi, pertanto questi, in ogni tempo e in ogni tentazione, possono dire: Più nessuna condanna! Dio stesso è ora per noi; chi sarà contro di noi? È Dio che giustifica. Chi è colui che condanna? Niente assolutamente può separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù nostro Signore (v. 31-39).

La nostra posizione nel Cristo risuscitato è perfettamente benedetta e assicurata per sempre. Ogni questione intorno al peccato e alla relativa condanna è stata in Lui interamente eliminata. Egli è venuto quaggiù per i nostri peccati, di cui si è caricato, passando volontariamente sotto la potenza della morte; egli ha completamente soddisfatto le esigenze e le maledizioni della legge; poi è risuscitato, senza, questi peccati, nella potenza di una nuova vita, ed è entrato davanti a Dio in una posizione nuova. Per la nostra unione con Lui, siamo come sradicati dai nostri peccati e trapiantati in questa nuova posizione nella vita di risurrezione con Cristo. Egli si è sottomesso, in vece nostra, al giudizio che il peccato meritava, poi è uscito dalla morte. In Lui siamo morti insieme e risuscitati insieme, e siccome ora è per la vita di Cristo che viviamo, ne risulta che nessuna condanna non può più toccarci. Essa ha preso fine per sempre d’ora innanzi, con tutta la nostra posizione nella carne e tutto quello che vi era annesso. — «Non c’è dunque più nessuna condanna». Questo passo dichiara non solamente che coloro che sono in Cristo Gesù non saranno punto condannati, ma ancora che, per essi, non vi è più alcuna condanna. L’anima ha bisogno di una assicurazione così positiva e completa; poiché quanto più è vicina a Dio, tanto più la coscienza è risvegliata, mentre siamo infelici quando qualche cosa s’intromette fra l’anima e Dio. Ora per tutti coloro che sono in Gesù Cristo, non vi è nessuna condanna come per Cristo stesso. Egli è il Diletto e il Benedetto di Dio, nel quale Dio ha messo la sua gioia e il suo compiacimento. In Lui, la nostra posizione davanti a Dio è messa in evidenza, poiché «qual egli è, tali siamo anche noi in questo mondo». Siamo nella presenza di Dio in una piena sicurezza e in perfetta pace, poiché vi siamo in Cristo Gesù. Nessuna cosa può conturbarci, poiché quivi siamo come Egli è. Non si tratta più di speranza, ma di certezza assoluta. Non spero che i miei peccati siano espiati, il mio giudizio eseguito, e che io sia condotto ad una posizione nuova e sicura: ma ne sono proprio certo: poiché tutto questo è fatto unicamente dall’opera di Cristo, e l’opera è compiuta. Se questo dipendesse, in qualunque misura, dal mio cammino, allora non potrei parlare con sicurezza né d’una certezza, neanche d’una speranza a questo riguardo. Ma la fede semplice si fonda esclusivamente sull’opera compiuta ed eternamente efficace di Cristo; siamo quindi perfettamente sicuri della nostra liberazione e ci rallegriamo del nostro posto in Cristo nella presenza di Dio. Ora, in questa presenza benedetta, non vi è più alcuna condanna; essa trova là il suo termine, come pure tutto l’ordine delle cose a cui si applicava, poiché questa condanna ha esercitato ed esaurito tutta la sua potenza sopra Gesù Cristo.

In questo capitolo 8, abbiamo ciò che non si trova nell’ultima metà del 7: Cristo e lo Spirito Santo. Leggiamo già al vers. 2: «Perché la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte». In Romani 7 abbiamo la schiavitù, qui la libertà; là l’uomo rinnovato nella sua coscienza e nella sua volontà è uno schiavo del peccato; ma qui abbiamo l’affrancamento dal peccato e dalla morte. Noi siamo risuscitati dall’ultimo Adamo che dà la vita; abbiamo parte della sua risurrezione, e per questo stesso siamo pure, in Lui, al riparo da ogni condanna. Per Cristo, riconciliati ed affrancati dal peccato, siamo entrati nella vita.

È ben vero che abbiamo cercato un rifugio in Gesù Cristo, e l’abbiamo ottenuto per la fede, dopo aver sentito che meritavamo la condanna e che noi eravamo assolutamente privi d’ogni forza; ed ora che la nostra coscienza è pura, Dio può agire inverso noi come il Dio d’ogni forza. Ma Egli non permetterà che abbiamo forza prima di essere passati per la condanna con Cristo e che siamo nel Cristo risuscitato. In Lui troviamo una forza vivente, che ci affranca dalla legge del peccato e della morte. Mediante la nostra unione con Cristo, abbiamo la vita e possediamo la forza.

Al 3° verso del nostro capitolo, vediamo che ciò che la legge non poteva fare, Dio l’ha fatto: «Infatti, ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha fatto; mandando il proprio Figlio in carne simile a carne di peccato e, a motivo del peccato (o come sacrificio per il peccato), ha condannato il peccato nella carne». L’impossibilità, da parte della legge, consiste nella totale debolezza della carne e non nella legge stessa. Essa promette la vita a coloro che l’osservano, e siccome nessuno la osserva, così essa non mai la vita. Cristo solo dà la vita. Se la legge opera nella carne, non può annientarla, ma non procura mai il dono della giustizia. In questo versetto vediamo molto chiaramente ciò che è avvenuto del peccato nella carne, per il quale l’anima non affrancata è sempre turbata. Dio ha mandato il suo Figlio in carne simile a quella del peccato e come vittima per il peccato, ed ha condannato il peccato nella carne. In questo modo, la carne è giudicata e messa da parte. È questo che Dio ha compiuto nel sacrificio di Cristo per noi. Il giudizio completo è stato eseguito in Cristo. Il peccato nella carne, che non poteva che riempirci di angosce e di spavento, è stato, in Cristo interamente tolto dalle nostre spalle. Cristo è morto non solamente per i peccati, ma anche per il peccato. In Lui abbiamo una redenzione, reale e completa. Quando è Dio che effettua il nostro affrancamento, lo fa in modo perfetto. Egli non ci affranca dai nostri peccati per lasciarci sotto il peccato, cosa questa che non darebbe altro risultato che di travagliare la nostra coscienza e tormentarla invano.

Non si tratta qui di perdono, ma di affrancamento o di liberazione; si tratta di essere in libertà davanti a Dio. Il credente sincero ha bisogno di forza contro il peccato, contro il quale deve ogni giorno combattere. Ha pure bisogno di avere una coscienza realmente affrancata, nella presenza di Dio: poiché altrimenti, benché i peccati passati siano stati tolti, il peccato nelle sue membra agisce come una legge che rende schiavo del peccato. Senza dubbio egli sa e sente che la radice del peccato c’è ancora; ma radice e rami sono giudicati dal dono che Dio ha fatto del suo Figlio. Dio stesso vi ha provveduto: Egli ha mandato per questo il suo proprio Figlio. Quale amore! In Lui, secondo la sua grazia e il suo proposito determinato, è pienamente compiuta per noi l’opera dell’affrancamento.

Al vers. 4, si tratta del nostro cammino: «Affinché il comandamento della legge fosse adempiuto in noi, che camminiamo non secondo la carne, ma secondo lo Spirito». La giustizia della legge è compiuta in noi. Prima la legge si rivolgeva alla carne, le cui concupiscenze ne impedivano l’adempimento e si rivoltavano contro quest’autorità; ma ora una nuova vita è in vigore; è questa che discerne le concupiscenze della carne e le manifesta; agisce ancora affinché non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo Spirito. La carne è lì, sempre la stessa, e per conseguenza siamo esortati a non camminare secondo la carne. Questa presenza della carne non ci scusa punto, quando camminiamo secondo essa, perciocché lo Spirito di Cristo è in noi. La carne dev’essere giudicata e repressa dallo Spirito. Presso ogni cristiano la carne è ancora lì, invariabile, e tuttavia il cristiano non è nella carne. Questa presenza della carne, per se stessa, non può contaminare la nostra coscienza, né impedire la nostra comunione con Dio. Ma se, in qualunque modo, la lasciamo agire, allora la coscienza è contaminata, e la comunione con Dio interrotta. Quando questo succede, è necessario che confessiamo i nostri peccati per essere perdonati e purificati.

I quattro versetti seguenti ci presentano soprattutto lo stato e la posizione dell’uomo naturale e dell’uomo spirituale, o del cristiano. L’uomo naturale è «secondo la carne», l’uomo spirituale «secondo lo Spirito». Ciascuno di essi ha il suo pensiero diretto verso gli oggetti che corrispondono alla sua natura speciale. Il primo dirige il suo pensiero e le sue affezioni verso ciò che è della carne, il secondo verso ciò che è dello Spirito: «Ma ciò che brama la carne è morte». Il pensiero carnale è senza alcun vero frutto e giace sotto la morte del primo Adamo. La morte è entrata per mettere il suggello a questo stato. «mentre ciò che brama lo Spirito è vita e pace». Esso è in perfetta armonia con Dio, mentre il pensiero della carne è inimicizia contro Dio e non si sottomette alla sua legge.

Al vers. 9, è chiaramente detto di noi, cioè di tutti quelli che sono in Cristo Gesù, che la posizione nostra davanti a Dio non è nella carne, non è nel primo Adamo, non è nella natura e nella sua volontà. «Voi però non siete nella carne ma nello Spirito, se lo Spirito di Dio abita veramente in voi». Siamo considerati davanti a Dio come vivendo nello Spirito, benché la carne e le sue concupiscenze siano ancora lì. La potenza vivificante di Dio ha creato il nuovo uomo in Cristo ed opera in Lui. Possediamo la vita di Cristo risuscitato, ed è in questa vita che abbiamo la nostra posizione davanti a Dio, benché la carne cerchi ancora di condurci. Se camminiamo nella potenza dello Spirito, non adempiremo i desideri della carne.

Vediamo inoltre che Dio non solamente agisce per noi, ma agisce ancora in noi. Non solo genera una nuova natura, ma ancora vi abita e vi opera. Oltre la nuova natura, abbiamo bisogno anche di forza. Se abbiamo una nuova natura, desideriamo di compiere il bene, ma ci manca la forza per questo, come abbiamo visto in Romani 7. Ma quando lo Spirito di Dio abita in noi, allora abbiamo non solamente nuovi desideri e nuove inclinazioni, ma ancora la forza vivente per compierli. È per questo che sta scritto non già: «Voi però non siete nella carne ma nello Spirito», se pur siete nati dallo Spirito — benché questo sia vero — ma: «se lo Spirito di Dio abita veramente in voi». È Dio stesso, è lo Spirito di Dio, che opera in noi con potenza.

Vediamo ancora, nei versetti 10 e 11 che neppure il corpo è dimenticato. Questo partecipa anche a tutta la potenza della risurrezione. Il corpo, è vero, è morto a cagione del peccato, ma risusciterà a cagione dello Spirito che abita in noi. Questo Spirito, come potenza vivificante in risurrezione, opererà nel corpo per renderlo conforme al corpo glorificato di Cristo.

Così avremo un corpo in armonia con la vita che possediamo per lo Spirito Santo.

Devesi notare che la parola di Dio parla dello Spirito Santo come essendo la nostra vita, e anche come persona distinta da questa vita ed operante in essa. Egli è l’una e l’altra cosa, Egli è ad un tempo, essenza e forza. La nuova natura ci è data e lo Spirito Santo dimora in noi. Esso opera sempre nei nostri cuori, perciò al versetto 26 leggiamo: «lo Spirito intercede egli stesso per noi con sospiri ineffabili». Può darsi ch’io non comprenda perfino i miei sospiri, ma so che essi son prodotti dallo Spirito in me. Posso mancare d’intelligenza per sapere quale ne sia il vero valore; ma Dio vede, in questa azione dello Spirito Santo, della simpatia per ciò che mi riguarda, secondo Dio: «e colui che esamina i cuori sa quale sia il desiderio dello Spirito». Lo Spirito Santo agisce in noi e appunto in rapporto con questa vita.

Lo Spirito Santo non è solamente una sorgente di vita in noi, ma agisce su questa vita e in questa vita. Egli ci guida e ci conduce come cristiani; ora non è la carne ch’Egli dirige e conduce, ma l’uomo nuovo.

Non dobbiamo mai dimenticare che lo Spirito Santo ci è stato realmente dato, perché dimori in noi, dopo che abbiamo creduto. «E, perché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, che grida: Abbà, Padre!» (Galati 4:6; vedi ancora Giovanni 14:16-17; Romani 5:5; 8:9; Tito 3:6, ecc.). L’abitazione in noi dello Spirito Santo, e la sua efficacia vivificante sono però due cose diverse. La prima non poteva avvenire prima che Cristo fosse glorificato (Giovanni 7:39). Ora noi siamo un tempio dello Spirito Santo che è in noi, e che abbiamo da Dio (1 Corinzi 6:19). Gesù se n’è andato, e l’altro Consolatore, il suo sostituto, è disceso per dimorare in noi eternamente; non è solamente con noi come Cristo lo era, ma è in noi. Esso ci ricorda le cose di Cristo e ci dà la capacità di afferrarle. È ancora per Lui che siamo resi capaci di godere di queste cose, e di camminare nella forza che vi si trova.

È una verità preziosa e benedetta, che noi possediamo lo Spirito Santo come una virtù dimorante in noi. Abbiamo la vita e lo Spirito Santo, che è la forza di questa vita. Considerando gli apostoli stessi, prima e dopo la Pentecoste, vediamo come si manifestava l’effetto della presenza personale e dell’abitazione dello Spirito Santo in loro. Vedete, per esempio, Pietro: prima, rinnega il Signore nel modo più vile, e poi, lo confessa con la più grande franchezza davanti al Consiglio dei Giudei. Questa non era la franchezza della carne, ma l’effetto della presenza dello Spirito Santo. — Esso solo produceva in loro quest’energia e questa forza spirituale, in modo che la loro coscienza poteva essere in perfetta libertà davanti a Dio e il timore degli uomini spariva.

Gesù Cristo ha mandato lo Spirito Santo da parte del Padre ed è in noi come Spirito di adozione, per il quale gridiamo: Abba, Padre! Da Lui siamo condotti, in modo conforme alla posizione attuale di Cristo, nella presenza del Padre e in comunione diretta con la grazia (Romani 8:14-17). È questo che dà al nostro cammino il suo vero carattere. È lo Spirito di Dio, che ci conduce nel cammino e che occupa i nostri cuori di Cristo. Dirige i nostri sguardi indietro e ci mostra la gloria della croce, della quale ci ha fatto conoscere la potenza in salvezza: possiamo ora contemplarla con una pace perfetta, perché sappiamo che siamo posti in tale posizione da Dio stesso. Dio e il peccato si sono incontrati alla croce nella persona di Cristo; e qual bene è per noi il sapere, che là, nelle più dure sofferenze del Salvatore per la nostra salvezza, l’uno e l’altro — Dio e Cristo — sono pienamente glorificati! Cristo ha sofferto, in obbedienza alla volontà del Padre suo, tutti questi tormenti per i nostri peccati, e non vi fu un momento in cui lo sguardo di compiacimento del Padre non potesse riposare su di Lui. Se vedo che sono in Cristo, se vedo che Cristo, come pure il Padre, è pienamente soddisfatto e glorificato, in quanto a me, allora il mio cuore è compenetrato ed umiliato dal sentimento del suo amore. Vedo che sono uno dei frutti della fatica dell’anima del Signor Gesù. Su di Lui riposa e risplende l’amor di Dio, ed io sono in Lui. «In quel giorno — in cui avrete ricevuto lo Spirito Santo — conoscerete che io sono nel Padre mio, e voi in me e io in voi»(Giovanni 14:20). Noi siamo già perfettamente una sola cosa con Lui, non ci manca che d’essere realmente presso di Lui. È ciò che lo Spirito Santo ci ricorda in queste parole: «Così saremo sempre con il Signore» (1 Tessalonicesi 4:17).

Lo Spirito Santo ci conduce a Cristo e ci occupa di Lui durante tutto il cammino che percorriamo. La croce è il principio, o il punto di partenza, del nostro viaggio: ci separa dal mondo e dai suoi costumi. Cammin facendo saremo senza dubbio esposti a molte tentazioni; ma le traverseremo vittoriosamente, se i nostri sentimenti e le affezioni dei nostri cuori sono unicamente diretti su Cristo. — Ma è una cosa ben triste quando, seguendo l’esempio d’Israele, il deserto diventa l’oggetto al quale i nostri cuori si affezionano. Le nostre anime certamente languiscono, quando i nostri pensieri e i nostri cuori si attaccano alle cose della terra. Così non faceva l’apostolo Paolo, poiché diceva: «Una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la mèta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù» (Filippesi 3:13-14).

È immensamente prezioso il conoscere, per lo Spirito, la pienezza infinita che possediamo in Cristo, e il vero carattere delle nostre relazioni con Dio. Egli ha cancellati tutti i nostri peccati, ci ha amati ed ha fatto di noi i suoi figli. Ora è questa la relazione nella quale siamo con Lui.

D’ora innanzi, non lo conosciamo che come il nostro Padre, pieno d’amore, e sappiamo di essere i suoi diletti figli. Ma siamo anche eredi, eredi di Dio e coeredi di Cristo. In questo sta la nostra gioia e la nostra speranza per lo Spirito. Abbiamo, è vero, da attraversare un mondo nel quale incontriamo molte miserie e dolori, e nel quale regna il peccato, vi troviamo pure tribolazioni, anche quando siamo condotti dallo Spirito di Dio, perché Cristo anche lo ha attraversato e ha sofferto; ma è quello il sentiero, che conduce a Gesù Cristo ed alla sua gloria. Ora, sappiamo ancora una cosa, cioè «che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio» (Romani 8:28). Dio è non solamente in noi, ove agisce per lo Spirito Santo, ma è ancora, in ogni tempo, per noi Egli ci ha innanzi conosciuti, ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del suo Figlio; ci ha chiamati, giustificati e glorificati. Tale è il determinato proposito di Dio, già compiuto per noi in Cristo. Sì, tutto è compiuto; possediamo tutto in Cristo, nella potenza dello Spirito Santo. Ora nessuno può portare accusa contro gli eletti di Dio, poiché Dio è per noi; nessuno può condannarci, poiché Dio ci giustifica: e nessuno può separarci dal suo amore, poiché Cristo è colui che è morto per noi, e, oltre a ciò è risuscitato, ed è alla destra di Dio, che intercede per noi (v. 29-39).

6. Conclusione

Termino qui queste considerazioni sull’affrancamento in Gesù Cristo. Riconosco facilmente che sono ben lontano dall’avere esaurito quest’argomento benedetto: spero però che quello che ho potuto dire sia sufficiente per farci conoscere che la nostra posizione è sicura ed elevata, e che le benedizioni, che abbiamo ricevuto per grazia, in Gesù Cristo, sono innumerevoli.

Spero pure che ogni lettore, condotto dallo Spirito di Dio, avrà potuto comprendere, da quanto è stato detto, in che consiste la vera liberazione d’un cristiano; e che sarà stato convinto che quello che abbiamo ricevuto in Cristo, è tutt’altra cosa che il dover dire: «il bene che voglio, non lo faccio»; sarà pure convinto che, alla croce, per il sacrifizio di Se stesso, Cristo ha non soltanto cancellato i nostri peccati, ma, che il corpo del peccato è annullato nella morte del Salvatore, questo, affinché non serviamo più al peccato, e che abbiamo per sempre davanti a Dio la nostra posizione benedetta e il nostro servizio in una vita nuova, nella vita di Cristo risuscitato. Siamo riconciliati e siamo anche affrancati; in Cristo abbiamo la vita ed abbiamo ancora, se pure lo Spirito di Dio è in noi, la forza per camminare secondo la natura di questa vita. Infine comprendiamo che per questa sola via Dio può essere glorificato e che risponderemo sempre alla posizione ed alla relazione, nelle quali siamo introdotti per Gesù Cristo, se in tutta la nostra condotta, in parole o in opere, annunzieremo le sue virtù. A questo siamo chiamati quaggiù, essendo stati creati per questo in Gesù Cristo, ed avendo ancora, a tale scopo, ricevuto lo Spirito di Dio.

Il Dio d’ogni grazia illumini sempre più i nostri cuori… per conoscere a fondo il nostro vero affrancamento in Gesù Cristo e per realizzarlo, mercé la potenza del suo Santo Spirito.

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