Note sul libro della Genesi

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Charles Henry Mackintosh

Indice:

1. Capitolo 1: La creazione
    1.1 Il Creatore
    1.2 Le tenebre e la luce
    1.3 Il sole, la luna e le stelle [figure di Gesù, della Chiesa e dei credenti]
    1.4 L’uomo e la donna — Cristo e la Chiesa
2. Capitolo 2: Il settimo giorno della creazione [il riposo e le sue benedizioni]
    2.1 Il sabato
    2.2 Il primo giorno della settimana
    2.3 Il giorno del Signore
    2.4 Un riposo futuro
    2.5 Un fiume divino
    2.6 Morte e vita [Adamo, un essere responsabile]
3. Capitolo 3: La caduta
    3.1 Le insuazioni del serpente
    3.2 L’autorità della parola di Dio
    3.3 Diffidenza riguardo all’amore di Dio
    3.4 Tentazione di Adamo, tentazione di Gesù
    3.5 La coscienza
    3.6 «Dove sei?» [La rivelazione di ciò che Dio è]
    3.7 L’uomo davanti a Dio
    3.8 Le tuniche di pelle [la giustizia di Dio]
    3.9 Fuori del giardino
4. Capitolo 4: Caino e Abele
    4.1 L’uomo religioso e l’uomo di fede
    4.2 Adamo e Cristo, due capostipiti della razza
    4.3 Due sacrifici
    4.4 Il sacrificio di Caino
    4.5 Il sacrificio di Abele
    4.6 La fede e i sentimenti
    4.7 Il valore del sacrificio stesso [identificazione del uomo con la sua offerta]
    4.8 L’omicida
    4.9 Caino e la sua discendenza
5. Capitolo 5: Le generazioni di Set a Noè
    5.1 La vita e la morte — la morte e la vita
    5.2 Enoc
6. Capitoli da 6 a 9: Il diluvio
    6.1 L’unione di ciò che è santo con ciò che è profano
    6.2 Noè trova grazia agli occhi dell’Eterno
    6.3 Fede nella parola di Dio
    6.4 Il modo della salvezza
    6.5 Perfetta sicurezza nell’arca
    6.6 Una porta chiusa
    6.7 Così sarà alla venuta del Figlio dell’uomo
    6.8 Siate riconciliati con Dio
    6.9 Le acque diminuiscono
    6.10 Noè esce dall’arca
    6.11 L’arco di Dio nella nuvola
    6.12 Noè s’inebria
7. Capitoli 10 e 11: Di Noè a Abramo
    7.1 Babilonia
    7.2 La torre di Babele
    7.3 Dispersione e riunione
8. Capitolo 12: Abramo
    8.1 L’appello di Dio
    8.2 La croce ci mette a parte dal mondo
    8.3 L’obbedienza
    8.4 La tenda e l’altare
    8.5 La prova: une carestia — soggiorno in Egitto
9. Capitoli 13 e 14: Abramo e Lot
    9.1 Il ritorno dall’Egitto
    9.2 Lot, nipote d’Abramo
    9.3 L’amore del mondo
    9.4 Conferma delle promesse ad Abramo
    9.5 La battaglia dei re
    9.6 L’intervento di Abramo
    9.7 Melchisedec e la tentazione del re di Sodoma
10. Capitolo 15: Rivelazione di Dio ad Abramo
    10.1 Il scudo e la ricompensa d’Abramo
    10.2 Il figlio e l’erede
    10.3 La fede che giustifica
    10.4 La fede in Cristo morte e risuscitato
    10.5 Le sofferenze prima dell’entrata in possesso dell’eredità
    10.6 La visione d’Abramo
11. Capitolo 16: Sarai e Agar
    11.1 Il ricorso a mezzi umani
    11.2 Tristi conseguenze
    11.3 Si miete quello che si semina
    11.4 I due patti
12. Capitolo 17: Abramo diventa Abrahamo — Sarai diventa Sara
    12.1 L’alleanza di Dio con Abrahamo
    12.2 La circoncisione
13. Capitolo 18: Visita dei messaggeri celesti a Abrahamo
    13.1 Comunione con il Signore
    13.2 La rivelazione dei disegni di Dio
    13.3 L’intercessore
    13.4 Gli eventi futuri e la speranza della Chiesa
14. Capitolo 19: La distruzione di Sodoma
    14.1 Una posizione falsa
    14.2 Una testimonianza nulla
    14.3 Il disastro completo
15. Capitolo 20: Abrahamo a Gherar
    15.1 Una mancanza seria
    15.2 Come Dio vede i suoi
16. Capitolo 21: Nascita d’Isacco
    16.1 L’adempimento della promessa
    16.2 Isacco e Ismaele
    16.3 La nuova e la vecchia natura
    16.4 Libertà e servitù
17. Capitolo 22: Il sacrificio d’Isacco
    17.1 Dio prova la fede d’Abrahamo
    17.2 Abrahamo ubbidisce
    17.3 La prova della fede
    17.4 Giustificato dalla fede, giustificato dalle opere
    17.5 Il risultato della prova
    17.6 Conferma delle promesse
18. Capitolo 23: Morte di Sara — La spelonca di Macpela
    18.1 Fede nella risurrezione
    18.2 Onestà davanti al mondo
19. Capitolo 24: Rebecca, una moglie per Isacco
    19.1 Una figura dell’appello della Chiesa
    19.2 Il giuramento del servitore
    19.3 La testimonianza del servitore
    19.4 Il risultato della missione del servitore
20. Capitolo 25: Fine della vita di Abrahamo
    20.1 Il secondo matrimonio di Abrahamo
    20.2 Esaù sprezza la sua primogenitura
21. Capitolo 26: Isacco a Gherar poi a Beer Sheba
22. Capitolo 27: Giacobbe e Esaù
    22.1 L’elezione della grazia
    22.2 Giacobbe si fa passare per Esaù
    22.3 Sapere aspettare il tempo fissato da Dio
    22.4 Gli espedienti di Giacobbe
    22.5 L’atteggiamento d’Isacco
    22.6 Rebecca e Esaù
23. Capitolo 28: Giacobbe fuggitivo
    23.1 La disciplina di Dio
    23.2 Bethel, la casa di Dio
    23.3 La grazia sovrana di Dio
    23.4 Una coscienza a disagio
24. Capitoli da 29 a 31: Giacobbe a casa di Labano
    24.1 Alla scuola di Dio
    24.2 L’ingannatore a casa dell’ingannatore
    24.3 La conoscenza della grazia e la conoscenza di noi stessi
25. Capitoli da 32 a 34: Di ritorno in Canaan
    25.1 Gli arrangiamenti umani e la preghiera
    25.2 Giacobbe a Peniel
    25.3 Giacobbe diventa Israele
    25.4 Incontro con Esaù
    25.5 Giacobbe si stabilisce a Succot
    25.6 Guai a Sichem
26. Capitolo 35: Giacobbe a Bethel
27. Capitolo 36: La discendenza di Esaù
28. Capitolo 37: Giuseppe e i suoi fratelli
    28.1 Una figura di Cristo
    28.2 Le sofferenze e la gloria
29. Capitolo 38: Giuda e sua famiglia
30. Capitoli da 39 a 45: Giuseppe in Egitto
    30.1 Gli atti degli uomini e i disegni di Dio
    30.2 Giuseppe, meravigliosa figura di Cristo
    30.3 Una moglie, compagna della sua gloria
    30.4 Restaurazione dei fratelli di Giuseppe
31. Capitoli da 46 a 50: Giacobbe in Egitto
    31.1 La fine di Giacobbe
    31.2 Giuseppe e il Faraone

1. Capitolo 1: La creazione

1.1 Il Creatore

Lo Spirito Santo apre questo libro in modo particolarmente solenne; esso ci pone senza preamboli davanti a Dio, nella piena essenza del Suo essere, e ce lo mostra mentre Egli solo è all’opera e agisce. Lo udiamo rompere il silenzio della terra e risplendere nelle tenebre che la coprono per creare una sfera nella quale manifestare la Sua potenza eterna e la Sua divinità (Romani 1:20).

Non vi è nulla, in questa scena, che appaghi una vana curiosità, nulla su cui lo spirito dell’uomo sia chiamato a speculare; c’è la sublime realtà della verità divina nella sua potenza morale, che agisce sul cuore e sull’intelligenza. Lo Spirito di Dio non fornisce elementi alla curiosità dell’uomo e non la soddisfa con improbabili teorie. I geologi possono scendere nelle viscere della terra e trarne materiali coi quali spesso pretendono di completare o contraddire gli scritti divini; possono costruire le loro speculazioni sui fossili; ma il discepolo fedele si attiene con sommo piacere alle pagine ispirate: egli legge, crede e adora.

Iniziamo, con questo spirito, una serie di riflessioni su questo primo libro della Bibbia, proponendoci di comprendere bene che cosa significhi “contemplare la bellezza del SIGNORE, e meditare nel suo tempio” (Salmo 27:4).

Nel principio Dio creò i cieli e la terra” (v. 1). Le prime parole della Bibbia ci pongono in presenza di Colui che è la sorgente infinita di ogni vera benedizione. Lo Spirito Santo non offre alcun argomento a riprova dell’esistenza di Dio; Dio si rivela e si fa conoscere per mezzo delle Sue opere. “I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani” (Salmo 19:1).  “Tutte le tue opere ti celebreranno, o SIGNORE!” (Salmo 145:10).

Solo l’incredulo e l’ateo cercano delle prove dell’esistenza di Colui che, per mezzo della Sua parola creò i mondi rivelandosi come il Savio, l’Onnipotente, l’Eterno. Chi, fuorché Dio, potrebbe creare qualcosa? «Levate gli occhi in alto e guardate: Chi ha creato queste cose? Egli le fa uscire e conta il loro esercito, le chiama tutte per nome; per la grandezza del suo potere e per la potenza della sua forza, non ne manca una» (Isaia 40:26). Gli dèi delle nazioni non sono che idoli, ma l’Eterno ha creato i cieli. Nel libro di Giobbe, cap. 38 – 41, l’Eterno stesso si riferisce al creato come a una prova irrefutabile della Sua sovranità, e il Suo intervento, pur presentando alla nostra intelligenza la più convincente prova della Sua onnipotenza, ci commuove per la meravigliosa condiscendenza nei confronti di quell’uomo così provato. Tutto è divino: la maestà e l’amore, la potenza e la tenerezza!

1.2 Le tenebre e la luce

«La terra era informe e vuota, le tenebre coprivano la faccia dell’abisso» (v. 2). Questa è davvero una scena in cui Dio solo è all’opera. Senza dubbio l’uomo, nell’orgoglio del suo cuore, s’è dimostrato fin troppo pronto ad interferire nell’opera di Dio in altre e ben più elevate sfere d’azione; ma qui l’uomo non esiste ancora.

Dio è solo nell’opera della creazione. Egli, dalla Sua eterna dimora di luce, guardò alla deserta solitudine dello spazio e vide la sfera ove i Suoi piani meravigliosi e i Suoi consigli dovevano, un giorno, spiegarsi e manifestarsi; la sfera in cui il Suo eterno Figlio un giorno avrebbe dovuto vivere, affaticarsi, testimoniare, soffrire e morire per manifestare le gloriose perfezioni della Divinità.

Tutto era tenebre e caos, ma Dio è un Dio di luce e di ordine. «Dio è luce, e in lui non ci sono tenebre» (1 Giovanni 1:5). Le tenebre, sia considerate dal punto di vista fisico, sia da quello morale, intellettuale o spirituale, non possono sussistere in Sua presenza.

«Lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque» (v. 2). Si librava, per così dire, sulla scena delle future operazioni; scena tenebrosa, e che offriva un vasto campo d’azione al Dio di luce e di vita. Egli solo poteva rischiarare quella scena e farne scaturire la vita; sostituire l’ordine al caos e creare una distesa tra le acque, in modo che la vita potesse svilupparsi senza temere la morte. Queste erano opere degne di Dio.

«Dio disse: “Sia la luce!” E luce fu» (v. 3). «Egli parlò, e la cosa fu; egli comandò e la cosa apparve» (Salmo 33:9). L’incredulo vorrebbe sapere come, dove, quando, ma lo Spirito dice: «Per fede comprendiamo che i mondi sono stati formati dalla Parola di Dio; così le cose che si vedono non sono state tratte da cose apparenti» (Ebrei 11:3). Questa risposta soddisfa pienamente chi crede alla Parola di Dio.

Lo scopo di Dio è portarci alla Sua presenza come adoratori, con menti e cuori ammaestrati e guidati dalla Sua santa Parola. Lo studioso può gloriarsi delle sue ricerche, e forma ipotesi e teorie, ma noi credenti non abbiamo nulla a che fare con «quella che falsamente si chiama scienza» (1 Timoteo 6:20).

Bisogna che il cuore sia perfettamente convinto della pienezza, dell’autorità, della perfezione, della maestà e della totale ispirazione del Sacro Libro (Salmo 12:6). Sarà questa la sola salvaguardia efficace contro il razionalismo agnostico e la superstizione; e preghiamo Dio affinché accresca in noi il desiderio di conoscenza e di sottomissione alla Sua Parola.

«Dio vide che la luce era buona; e Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce “giorno” e le tenebre “notte”» (v. 4-5). Abbiamo qui i due grandi simboli, citati spesso nella Parola: la luce che costituisce il giorno, e l’assenza della luce, che è la notte. Così avviene anche nella storia delle anime. Vi sono i «figli di luce» (1 Tessalonicesi 5:5) e i figli delle tenebre. La differenza è netta e solenne. Tutti coloro che «l’Aurora dall’alto» (Luca 1:78) ha visitato per portarli alla salvezza, tutti quelli che hanno ricevuto «la luce della conoscenza della gloria di Dio che rifulge nel volto di Gesù Cristo» (1 Corinzi 5:4), appartengono alla prima categoria e sono figli della luce e del giorno. Mentre tutti quelli i cui cuori non sono stati illuminati dai raggi del sole di giustizia e non hanno creduto, vivono nelle tenebre della notte spirituale, sono figli delle tenebre e della notte.

Lettore, fermati e chiediti davanti a Colui che investiga i cuori, a quale di queste due categorie di persone appartieni. Non ingannare te stesso: si tratta di vita o di morte. Potresti essere povero e disprezzato agli occhi del mondo, ma se, per lo Spirito, sei unito al Figlio di Dio, che è «la luce del mondo» (Giovanni 8:12), sei un figlio di luce. Questo non è frutto di opera umana, ma il risultato dei consigli di Dio che ti ha dato luce, vita e pace in Gesù, per mezzo del Suo sacrificio.

Il sole, la luna e le stelle [figure di Gesù, della Chiesa e dei credenti

 «Poi Dio disse: “Vi siano delle luci nella distesa dei cieli per separare il giorno dalla notte; siano dei segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni; facciano luce nella distesa dei cieli per illuminare la terra”. E così fu. E Dio fece le due grandi luci: la luce maggiore per presiedere al giorno e la luce minore per presiedere alla notte; e fece pure le stelle» (v. 14-15). Il sole è il centro della luce e, nel medesimo tempo, il centro del nostro sistema; è intorno ad esso che si muovono le sfere minori. Può dunque essere considerato come una figura del Signore che, per rallegrare il cuore di quelli che hanno timore del Suo nome, si leverà ben presto portando “la guarigione nelle sue ali” (Malachia 4:2). Sarà l’aurora d’un mattino senza nuvole, principio d’un giorno eterno di gloria.

La luna non ha luce in se stessa, ma riceve la luce dal sole e la riflette. Appena il sole scende all’orizzonte, la luna, immagine della Chiesa, si presenta per riflettere i raggi del sole sul mondo avvolto nelle tenebre.

Cristo, sorgente della luce, è ora invisibile: «la notte è avanzata»; il mondo non vede Gesù, ma la Chiesa lo vede ed è chiamata a  riflettere la Sua luce su un mondo immerso nelle tenebre. La Chiesa è il solo mezzo per portare il mondo alla conoscenza di Cristo: «La nostra lettera, scritta nei nostri cuori, siete voi, lettera conosciuta e letta da tutti gli uomini; è noto che voi siete una lettera di Cristo» (2 Corinzi 3:2-3). Quale responsabilità per la Chiesa! Come dovrebbe vigilare affinché nulla le impedisca di riflettere la luce di Cristo in tutte le sue vie! Ma come può riflettere questa luce? Semplicemente lasciandola risplendere su di lei nel suo puro chiarore. La Chiesa non è chiamata a rischiarare il mondo con la propria gloria, ma solo a riflettere la luce che riceve. Ha, cioè, l’obbligo di seguire le orme di Cristo per la potenza dello Spirito Santo che abita in lei.

Purtroppo la terra, con la sua ombra e le sue nubi s’intromette, nasconde la luce e il mondo vede appena alcuni caratteri di Cristo in quelli che si chiamano col suo Nome; spesso addirittura scopre in essi un umiliante contrasto, piuttosto che una rassomiglianza col Signore. Che Dio ci aiuti ad approfondire la conoscenza di Cristo, affinché siamo capaci di imitarlo con maggiore fedeltà!

Le stelle sono astri lontani che splendono in altre sfere; ne vediamo solo lo scintillare; non hanno rapporto col nostro sistema solare. «Un astro è differente dall’altro in splendore» (1 Corinzi 15:41). Così sarà nel regno futuro di Cristo: sole di gloria, Egli brillerà di eterno splendore e la Chiesa, rifletterà fedelmente i suoi raggi, mentre i santi, individualmente, risplenderanno della gloria speciale che il giusto Giudice distribuirà ad ognuno in ricompensa del servizio fedele compiuto durante la sua attesa.

Proseguendo nella lettura del capitolo vediamo che in seguito la terra viene popolata: il mare e la terra pullulano di esseri viventi. Alcuni ritengono di poter considerare le opere di ognuno dei sei giorni raffigurino le progressive rivelazioni di Dio all’uomo e i Suoi rapporti con Lui nelle varie epoche (le “dispensazioni”) e i grandi principi d’azione che le reggono e le caratterizzano; ma, occupandoci delle Sacre Scritture, dobbiamo stare in guardia contro tutto ciò che è prodotto dall’immaginazione degli uomini; io non mi prendo la libertà di sostenere una simile interpretazione, ma mi limito a quello che ritengo essere l’insegnamento più chiaro e diretto del Testo sacro.

1.4 L’uomo e la donna — Cristo e la Chiesa

Ogni cosa era stata messa in ordine, mancava solo un capo che ne prendesse la direzione. «Poi Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza, ed abbia dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. E Dio li benedisse; e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta, dominate sul pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sopra la terra”» (v. 26-28).

Il lettore osserverà che dopo aver parlato dell’uomo al singolare, la Scrittura ne parla ora al plurale: dopo aver detto «Dio lo creò», dice «li creò» (v. 27) e «Dio li benedisse» (v. 28). La formazione della donna è introdotta solo nel capitolo seguente, benché già qui Dio «li» benedica e affidi a loro il governo universale. Tutti gli ordini inferiori del creato sono posti sotto il loro dominio: Eva è benedetta in Adamo, e da lui trae tutta la sua dignità. Per quanto non ancora chiamata all’esistenza, essa è considerata, nei disegni di Dio, come una parte dell’uomo: «I tuoi occhi videro la massa informe del mio corpo e nel tuo libro erano tutti scritti i giorni che mi erano destinati, quando nessuno d’essi era sorto ancora» (Salmo 139:16).

Così è della Chiesa, la Sposa di Cristo, il “secondo Adamo”. Fin dall’eternità essa era vista in Cristo, suo capo e suo Signore, come è scritto nella Lettera agli Efesini (1:4): «In Lui ci ha eletti prima della creazione del mondo perché fossimo santi e irreprensibili dinanzi a lui nell’amore». Prima che un solo membro della Chiesa avesse ricevuto l’alito di vita, erano tutti, nel pensiero eterno di Dio, «predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo» (Romani 8:29). I consigli di Dio hanno fatto della Chiesa una parte necessaria del Figlio dell’uomo; perciò la Chiesa è chiamata «la pienezza di Colui che porta a compimento ogni cosa in tutti» (Efesini 1:23).

Di solito si pensa alla redenzione solo per le benedizioni e la sicurezza che dà ad ogni credente preso singolarmente; ma una verità ancora più grande è il fatto che la gloria di Cristo è unita e legata all’esistenza della Chiesa. Non si tratta dunque solo di sapere se Dio può salvare un povero peccatore privo d’ogni forza; di sapere se Egli può togliere i peccati e ricevere il peccatore in virtù della giustizia divina; Dio ha detto: «Non è bene che l’uomo sia solo» (2:18); non ha lasciato il «primo uomo» senza un aiuto simile a lui e non lascerà il Secondo Uomo, Cristo, senza una «sposa». Senza Eva vi sarebbe stata una lacuna nella prima creazione, e senza la Chiesa vi sarebbe una lacuna nella nuova creazione.

Consideriamo ora, anticipando il capitolo seguente, in che modo Eva fu creata. In tutto il creato non si trovava per Adamo un aiuto che fosse simile a lui. Così un profondo sonno cadde su Adamo affinché, da una parte del suo corpo, fosse formata un’altra creatura che potesse condividere con lui la dominazione e la benedizione. «Allora Dio il SIGNORE fece cadere un profondo sonno sull’uomo, che si addormentò; prese una delle costole di lui, e richiuse la carne al posto d’essa. Dio il SIGNORE, con la costola che aveva tolta all’uomo, formò una donna e la condusse all’uomo. L’uomo disse: “Questa, finalmente, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Ella sarà chiamata donna perché è stata tratta dall’uomo”» (Genesi 2:21-23).

Considerando Adamo ed Eva come delle figure di Cristo e della Chiesa, vediamo che era necessario che la morte di Cristo (il sonno di Adamo) si compisse prima che la Chiesa potesse essere formata, per quanto, secondo il piano di Dio, la Chiesa sia stata vista ed eletta in Cristo prima della fondazione del mondo. Ma bisognava che prima il Figlio fosse rigettato e crocifisso, che poi sedesse nei luoghi altissimi, e che lo Spirito Santo, mandato da Lui, scendesse per battezzare i credenti, unendoli in un solo corpo. Questo non vuol dire che non vi fossero delle anime vivificate prima della morte di Cristo: Adamo è stato salvato, non ne dubitiamo, e, dopo di lui, migliaia d’altri uomini, in virtù del sacrificio di Cristo prima ancora che fosse compiuto. La salvezza delle anime individualmente e la formazione della Chiesa per mezzo dello Spirito Santo, come corpo distinto, sono tuttavia due cose diverse; se ne tiene troppo poco conto in pratica. Il posto unico che appartiene alla Chiesa, la sua relazione speciale «col secondo Uomo» che è venuto «dal cielo» (1 Corinzi 15:47), i privilegi che la distinguono e la dignità di cui è rivestita, se fossero realmente conosciuti e realizzati per l’azione dello Spirito Santo, produrrebbero dei frutti meravigliosi (Efesini 5:23-33).

Quale amore doveva avere Eva per Adamo! Che vicinanza, che intimità di comunione! In dignità e in gloria era una stessa cosa con lui. Adamo non dominava su di lei, ma con lei. Egli era signore di tutto il creato, ed Eva era uno con lui. «L’uomo» era l’oggetto dei disegni di Dio e la «donna» era necessaria all’uomo: perciò è stata creata. L’uomo appare per primo e la donna è vista in lui; in seguito è creata quale parte di lui. Nulla, come immagine, può essere più interessante e istruttivo; non che si possa fondare una dottrina sopra un esempio, ma quando la dottrina si trova chiaramente esposta in altre parti della Scrittura, allora siamo preparati per comprendere, apprezzare e ammirare il tutto.

Troviamo nel Salmo 8 una bella descrizione dell’uomo che domina sulle opere di Dio: «Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte, che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura? Eppure tu l’hai fatto solo di poco inferiore a Dio, e l’hai coronato di gloria e d’onore. Tu lo hai fatto dominare sulle opere delle tue mani, hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi: pecore e buoi tutti quanti e anche le bestie selvatiche della campagna; gli uccelli del cielo e i pesci del mare, tutto quel che percorre i sentieri dei mari». Qui l’uomo appare senza che sia nominata la donna perché la donna è vista nell’uomo.

Non vi è nessuna rivelazione del mistero della Chiesa nell’Antico Testamento. L’apostolo Paolo dice espressamente, parlando di questo mistero: «Nelle altre epoche non fu concesso ai figli degli uomini di conoscere questo mistero, così come ora, per mezzo dello Spirito, è stato rivelato ai santi apostoli e profeti di lui» (apostoli e profeti del Nuovo Testamento) (Efesini 3:1-11). Perciò nel Salmo 8 è parlato solo dell’uomo, ma sappiamo che l’uomo e la donna sono considerati insieme sotto un solo capo. Tutto questo avrà la sua perfetta realizzazione nei secoli futuri, quando il «secondo Uomo, il Signore dal cielo» (1 Corinzi 15;47), siederà sul suo trono, e con la Chiesa sua Sposa regnerà sul creato rinnovato.

Questa Chiesa è nata dalla tomba di Cristo, fa parte del «suo corpo», «della sua carne e delle sue ossa», Lui il capo, lei il corpo; insieme non fanno che un solo Uomo. La Chiesa, facendo così parte di Cristo, occuperà nella gloria un posto unico.

Dato che la Chiesa è attualmente il corpo di cui Cristo è il capo e il tempio nel quale Dio abita, quali non dovremmo noi essere nelle nostra vita se tali sono la dignità e la gloria futura di cui, per la grazia di Dio, facciamo parte! Quello che Dio si aspetta da noi è un cammino santo, una vita di devozione e di separazione per Lui. «Egli illumini gli occhi del vostro cuore, affinché sappiate a quale speranza vi ha chiamati, qual è la ricchezza della gloria della sua eredità che vi riserva tra i santi, e qual è verso di noi, che crediamo, l’immensità della sua potenza. Questa potente efficacia della sua forza egli l’ha mostrata in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla propria destra nel cielo, al di sopra di ogni principato, autorità, potenza, signoria e di ogni altro nome che si nomina non solo in questo mondo, ma anche in quello futuro. Ogni cosa egli ha posta sotto i suoi piedi e lo ha dato per capo supremo alla chiesa, che è il corpo di lui, il compimento di colui che porta a compimento ogni cosa in tutti» (Efesini 1:18-23).

2. Capitolo 2: Il settimo giorno della creazione [il riposo e le sue benedizioni]

Due soggetti importanti richiamano la nostra attenzione in questo capitolo: «il settimo giorno» e «il fiume».

2.1 Il sabato

Esistono pochi soggetti sui quali vi sia stata e vi sia ancora tanta controversia come quello del «sabato», per quanto la dottrina del sabato sia esposta nella Scrittura nel modo più semplice e più chiaro per chi vuol sottomettersi all’insegnamento di Dio. Esamineremo a suo tempo il comandamento esplicito di «osservare il sabato»: qui non si tratta d’un comandamento dato all’uomo, ma troviamo la semplice dichiarazione che Dio si riposò il settimo giorno: «Così furono compiuti i cieli e la terra e tutto l’esercito loro. Il settimo giorno, Dio compì l’opera che aveva fatta, e si riposò il settimo giorno da tutta l’opera che aveva fatta. Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, perché in esso Dio si riposò da tutta l’opera che aveva creata e fatta» (2:1-3).

Queste parole ci dicono che Dio si riposò, poiché tutto quello che concerneva il creato, l’opera Sua, era compiuto; non si tratta qui in alcun modo d’un comandamento dato all’uomo. Colui che per sei giorni aveva lavorato, terminò l’opera sua e si riposò. Tutto era completo ed era «molto buono». Tutto era fatto come l’aveva ideato, e il Creatore si riposava dell’opera sua. «Le stelle del mattino cantavano tutte assieme e tutti i figli di Dio alzavano grida di gioia» (Giobbe 38:7). È il solo sabato che Dio abbia celebrato, se ci atteniamo semplicemente a quello che gli Scritti ispirati ci insegnano. Più tardi, leggiamo che Dio diede ordine all’uomo di «osservare il sabato», ma l’uomo non seppe rispettare l’ordine di Dio; mai più, da nessun’altra parte, troviamo queste parole: «Dio si riposò». Invece, Gesù dice: «Il Padre mio opera fino ad ora, e anch’io opero» (Giovanni 5:17).

Il sabato, nel senso proprio dell’espressione può essere celebrato solo dove non vi sia più nulla da fare, in una creazione pura, esente da ogni contaminazione. Dio non può trovare riposo dove esiste il peccato ed è impossibile che Egli possa riposarsi e trovare piacere attualmente nel creato. Le «spine» e i «rovi» (3:18), con gli innumerevoli altri tristi frutti d’un creato che geme e sospira, ci dicono esplicitamente la necessità che Dio lavori e non che si riposi. Dio potrebbe forse riposarsi in mezzo ai sospiri e alle lacrime, alla malattia e alla morte, alla degradazione di un mondo colpevole e in rovina? Potrebbe riposarsi e celebrare un sabato in mezzo a simili circostanze? Comunque, la Scrittura ci insegna che Dio non ebbe, fino a oggi, che un solo «sabato», quello di cui ci parla il cap. 2 della Genesi. «Il settimo giorno» fu il sabato e nessun altro.

Dopo la caduta dell’uomo, abbiamo già ricordato che Dio ha continuato a lavorare: «Il Padre mio opera fino ad ora, ed anch’io opero»; anche lo Spirito Santo lavora. Di certo Cristo non ebbe nessun “sabato” quand’era sulla terra. Ha compiuto l’opera sua e l’ha portata a termine gloriosamente, ma dove trascorse il settimo giorno? Nella tomba. Sì, Dio manifestato in carne, il Signore del sabato, passò il settimo giorno nelle tenebre e nel silenzio del sepolcro. Non ci dice nulla questo fatto? Avrebbe potuto il Figlio di Dio giacere in una tomba il settimo giorno, se avesse avuto coscienza che non rimaneva più assolutamente nulla da fare? La tomba di Gesù dimostra l’impossibilità di celebrare un sabato, e questa tomba, occupata dal Signore del sabato nel settimo giorno, mette in risalto che l’uomo è una creatura decaduta, colpevole e senza risorse; una creatura che confermava il proprio peccato crocifiggendo il Signore di gloria e ponendo sull’apertura del Suo sepolcro una grande pietra per farlo restare là, se fosse stato possibile. E mentre il Figlio di Dio era nella tomba, l’uomo celebrava il sabato, il suo sabato, non quello di Dio! Un sabato senza Cristo e senza Dio, una forma vuota senza potenza e senza valore.

2.2 Il primo giorno della settimana

Ma qualcuno potrebbe dire: Il settimo giorno è diventato il primo, e i princìpi sono rimasti gli stessi. Credo che tale opinione non si basi alcun fondamento scritturale. La distinzione fra il settimo e il primo giorno della settimana è mantenuta, nel modo più positivo, nel Nuovo Testamento. Leggiamo nel cap. 28 del vangelo di Matteo: «Dopo il sabato, verso l’alba del primo giorno della settimana…». Il «primo giorno della settimana» non era dunque il sabato trasportato dal settimo ad un altro giorno, ma un giorno totalmente nuovo: è il primo giorno d’un periodo nuovo, non l’ultimo d’un vecchio periodo. «Il settimo giorno» è in relazione con la terra e il riposo terrestre; «il primo giorno della settimana», invece, è in rapporto con il cielo ed il riposo celeste. La differenza è immensa.

Se osservo «il settimo giorno», assumo il carattere d’un uomo terreno, in quanto quel giorno è evidentemente il riposo della terra, il riposo della creazione. Ma se, ammaestrato dalla Parola di Dio e dallo Spirito Santo, comprendo il significato del «primo giorno della settimana», afferrerò subito il rapporto diretto che esiste fra questo giorno e il nuovo ordine di cose del tutto celeste, di cui la morte e la risurrezione di Cristo costituiscono il fondamento eterno. Il settimo giorno era in rapporto con Israele e la terra, il primo giorno della settimana è in rapporto con la Chiesa e il cielo. Oltre a ciò, notiamolo, Dio aveva «comandato» ad Israele di osservare il sabato; mentre il primo giorno della settimana è dato alla Chiesa come un privilegio di cui è chiamata a godere. Il sabato era la pietra di paragone dello stato morale d’Israele; il primo giorno della settimana è la prova significativa dell’eterna accettazione della Chiesa; il sabato manifestava ciò che Israele era capace di fare per Dio; il primo giorno della settimana dimostra pienamente ciò che Dio ha fatto per noi.

2.3 Il giorno del Signore

Non si potrebbe stimare troppo la natura e l’importanza del «giorno del Signore», come è chiamato il primo giorno della settimana nel 1° capitolo dell’Apocalisse v. 10. Questo giorno, essendo il giorno in cui Cristo risuscitò dai  morti, indica non già il compimento del creato, ma il trionfo glorioso e totale della redenzione. L’osservanza del primo giorno della settimana non è dunque, come abbiamo già detto, una schiavitù o un giogo per il credente, anzi, è una gioia. Così vediamo che il primo giorno della settimana era il giorno speciale in cui i primi cristiani si radunavano per rompere il pane (Atti 20:7), e la distinzione tra questo giorno e il sabato era pienamente mantenuta a quell’epoca della storia della Chiesa. Dunque, i Giudei celebravano il sabato nelle loro sinagoghe, per “la lettura della legge e dei profeti” (Atti 13:15), i Cristiani celebravano il «primo giorno della settimana» radunandosi per rompere il pane. Non vi è un solo passo, in tutta la Scrittura, in cui il primo giorno della settimana sia chiamato «il sabato»; mentre esistono molte prove che confermano la differenza essenziale fra questi due giorni.

Perché dunque discutere su un principio che non ha alcun fondamento nella Scrittura? Amate, onorate, celebrate il giorno del Signore! Cercate di essere «ripieni dello Spirito» (Efesini 5:18) in quel giorno; lasciate i vostri affari, per quanto è in vostro potere di farlo ma, nello stesso tempo, date a quel giorno il nome e il posto che gli appartengono; e, soprattutto, non legate il credente al giogo dell’osservanza del settimo giorno, dato che, per lui, è un santo e felice privilegio celebrare il primo. Non fate scendere il cristiano dal cielo, dove trova il riposo, sulla terra, dove non ne può trovare. Non esigete da lui che osservi un giorno che il suo Maestro ha passato nella tomba, invece di rallegrarsi nel giorno felice in cui l’ha lasciata!

Leggete attentamente Matteo 1:6; Marco 16:1-2; Luca 24:1; Giovanni 20:1,19,26; Atti 20:7; 1 Corinzi 16:2; Apocalisse l:10; Atti 13:14; 17:2; Colossesi 2:16.

2.4 Un riposo futuro

Non si creda, tuttavia, che perdiamo di vista il fatto importante che il sabato sarà di nuovo celebrato nella terra d’Israele e su tutta la terra: «Rimane dunque un riposo sabatico per il popolo di Dio» (Ebrei 4:9). Quando il Figlio d’Abraamo, Figlio di Davide, Figlio dell’uomo, assumerà il governo di tutta la terra, vi sarà un sabato glorioso, un riposo che il peccato non potrà più interrompere. Ma ora il Figlio è rifiutato e tutti quelli che Lo conoscono e Lo amano sono chiamati a partecipare alla sua solitudine: «Usciamo quindi fuori dall’accampamento e andiamo a lui portando il suo obbrobrio» (Ebrei 13:13).

Non vi sarebbe obbrobrio se la terra potesse celebrare un sabato, ma il fatto stesso che la Chiesa professante cerchi di fare del primo giorno della settimana il «sabato», mette in evidenza lo stato nel quale essa è caduta; questo non è che uno sforzo vano per ritornare ad un vecchio stato di cose e ad un codice di morale terrena. È possibile che molti non lo comprendano e che molti cristiani osservino coscienziosamente «il giorno di sabato» come tale; ma pur rispettando la coscienza di quei credenti, abbiamo il diritto di chiedere su quale fondamento scritturale si basino le loro convinzioni. Comunque, non abbiamo a che fare con la coscienza e le convinzioni degli uomini, ma con l’intenzione dello Spirito di Dio nel Nuovo Testamento; e chiediamo ad ogni lettore cristiano di rendersi ben conto della sua posizione in rapporto «col settimo giorno», ossia il sabato, e in rapporto col «primo giorno della settimana», ossia il «giorno del Signore». (*)

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(*) Se un cristiano, soltanto per dimostrare la sua libertà, si desse, alla domenica, ai lavori della settimana (a meno che la sua particolare professione lo richieda), porrebbe un intoppo davanti a molti suoi fratelli. Se ho luce e libertà, a questo riguardo devo rispettare la coscienza dei miei fratelli che non hanno le mie stesse idee; chi si comportasse così non ha compreso realmente i preziosi privilegi connessi col giorno del Signore. Fino a qualche tempo fa, in alcune nazioni, le leggi dello Stato addirittura proibivano il lavoro la domenica; e questo era una grazia per i cristiani perché, in caso contrario, il cuore avido degli uomini li avrebbe privati del privilegio di adorare Dio coi loro fratelli nel giorno del Signore. Oggi, purtroppo, la totale indifferenza verso Dio ha fatto sì che il giorno del Signore sia sempre meno rispettato. Negozi e supermercati rimangono aperti anche la domenica privando molti del dovuto riposo e inducendo la popolazione a privare Dio dei Suoi diritti.

2.5 Un fiume divino

Occupiamoci ora del legame che esiste fra «il sabato» e il «fiume che usciva da Eden» (v. 10). È questa la prima volta che è nominato «il fiume di Dio» nella Scrittura, e tale soggetto è introdotto qui in relazione col riposo di Dio.

Quando Dio si riposava dalle sue opere, tutto l’universo ne riceveva della benedizione; poiché Dio non poteva osservare un sabato senza che la terra ne subisse la santa e benefica influenza. Purtroppo, i ruscelli che uscivano da Eden, scena del riposo terrestre, hanno smesso di scorrere, perché il peccato ha interrotto il riposo del creato. Tuttavia, per grazia di Dio, il peccato non Lo ha fermato nella Sua opera, ma gli ha aperto un nuovo campo d’azione; e ovunque Dio agisce si vede scorrere «il fiume».

Così, quando Dio conduce con potente mano quella folla di Israeliti che ha riscattato dalla schiavitù dell’Egitto, facendoli passare attraverso le aride sabbie del deserto, vediamo scorrere un fiume; non da Eden, ma dalla roccia percossa! Bella immagine del principio in virtù del quale la grazia sovrana opera in favore dei peccatori e provvede ai loro bisogni. Qui non si tratta solo di creazione, ma di redenzione. «Questa roccia era Cristo» (1 Corinzi 10:4), Cristo percosso per la guarigione del Suo popolo. La roccia percossa era in relazione con la dimora dell’Eterno nel tabernacolo, e vi è in questa relazione qualcosa di moralmente bello: Dio che abita in una tenda e Israele che beve l’acqua della Roccia percossa! Che linguaggio espressivo per ogni orecchio attento!

Proseguendo nella storia delle vie di Dio, vediamo il fiume seguire un altro corso: «Nell’ultimo giorno, il giorno più solenne della festa, Gesù, stando in piedi, esclamò: “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno”» (Giovanni 7:37-38). Vediamo qui il fiume che proviene da un’altra sorgente e scorre in un altro letto. In un certo senso, la sorgente è sempre la stessa, cioè Dio, ma, in Gesù, essa ci appare in una nuova relazione e con un nuovo principio d’azione. Il Signore Gesù, nel capitolo 7 dell’Evangelo di Giovanni, si presenta come la sorgente del fiume dell’acqua della vita e il credente è chiamato ad esserne il canale. In Eden, il fiume doveva spandere le sue acque per innaffiare e fertilizzare la terra; nel deserto, la roccia percossa provvedeva al ristoro d’Israele assetato. Nello stesso modo, ora, chiunque crede in Cristo è chiamato a lasciar scorrere i fiumi benefici delle Sue svariate grazie a favore di tutti quelli che lo circondano.

Questo pone il credente in una posizione di privilegio, e, nello stesso tempo, di solenne responsabilità; è chiamato ad essere il testimone costante della grazia di Colui in cui crede e a manifestare questa grazia continuamente. Più si nutrirà di Cristo, con lo sguardo fisso su di Lui e il cuore occupato della Sua persona adorabile, più la sua vita e il suo carattere renderanno una testimonianza vera alla grazia che gli è stata rivelata. La fede è ad un tempo la potenza del servizio, la potenza della testimonianza e la potenza dell’adorazione. Se non viviamo «nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Galati 2:20), non saremo né servitori utili, né testimoni fedeli, né veri adoratori.

Infine, troviamo ancora il fiume di Dio nell’ultimo capitolo dell’Apocalisse. «Poi mi mostrò il fiume dell’acqua della vita, limpido come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello» (Apocalisse 22:1). Sono questi i ruscelli del fiume di cui parla il salmista, che «rallegrano la città di Dio, il luogo santo della dimora dell’Altissimo» (Salmo 46:4; paragonate anche Ezechiele 47:1-12 e Zaccaria 14:8). Nulla potrà mai più alterarne la sorgente o interromperne il corso.

«Il trono di Dio» è l’immagine della stabilità eterna, e la presenza dell’Agnello indica che quel trono riposa sul fondamento di una redenzione perfetta realizzata dal sacrificio di Cristo. Non si tratta qui del trono del Dio creatore, né di quello del Dio che governa nella sua provvidenza, ma del trono di un Dio redentore. Il trono di Dio non potrebbe che spaventarmi, ma quando Dio si rivela nella persona dell’«Agnello», il cuore è attratto e la coscienza tranquillizzata. Il sangue dell’Agnello purifica la coscienza da ogni traccia di peccato, e soddisfa tutte le esigenze della santità divina. Più alto sarà il concetto che abbiamo della santità di Dio, più stimeremo l’opera della croce. Perciò il salmista invita i santi a celebrare la santità di Dio. La lode è un prezioso frutto della redenzione, ma prima che un credente possa rendere bisogna che consideri la santità di Dio ponendosi non dal lato degli uomini e della morte, ma dal lato di Dio e della risurrezione.

2.6 Morte e vita [Adamo, un essere responsabile]

Abbiamo già visto che Adamo, sotto un particolare aspetto, può essere considerato come un tipo di Cristo; ma adesso dobbiamo considerarlo come un essere umano con una personale responsabilità. In mezzo a quella bella scena di vita la creatura era messa alla prova. Dio aveva detto: «Nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai» (v. 17). Morirai! Parola strana e solenne, eppure necessaria! La vita di Adamo dipendeva dalla sua ubbidienza; il legame che lo univa all’Eterno Dio (*) era l’ubbidienza fondata su una fiducia totale nella verità e nell’amore di Colui che l’aveva posto in una posizione così elevata.

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(*) È da notare che nel cap. 2 della Genesi il termine «Dio» è sostituito da «Eterno Dio» (nella versione Nuova Riveduta “Dio il SIGNORE”). Questo cambiamento è importante. Quando Dio agisce in rapporto all’uomo, prende il titolo di «Eterno Dio» (Jahveh Eloim), ma solo quando l’uomo appare sulla scena è usato il nome di «Eterno» (Jahveh). Citiamo alcuni dei numerosi passi in cui questo fatto è chiaramente presentato: «Venivano maschio e femmina d’ogni specie, come Dio aveva comandato a Noè; poi il SIGNORE (Jahveh, l’Eterno) lo chiuse dentro l’arca» (Genesi 7:16). Eloim stava per distruggere il mondo che aveva creato; ma come “Jahveh” si prese cura dell’uomo col quale era in relazione. «Così tutta la terra saprà che c’è un Dio (Eloim) in Israele, e tutta queste moltitudine riconoscerà che il SIGNORE (Jahveh) non ha bisogno di spada né di lancia per salvare» (1 Samuele 17:46-49). Tutta la terra doveva riconoscere la presenza di Dio (Eloim), ma Israele era chiamato a riconoscere le imprese di Jahveh col quale era in relazione. Infine: «Ma Giosafat mandò un grido; e il SIGNORE (Jahveh) lo soccorse; e Dio (Eloim) li attirò lontano da lui» (2 Cronache 18:31). Jahveh si prese cura del suo povero servitore smarrito; ma Dio (Eloim), per quanto sconosciuto a loro, indusse i Siri ad allontanarsi da lui.

Era solo sulla base della fiducia che aveva in Dio che Adamo poteva ubbidirgli. Il capitolo 3 ci farà vedere, in modo più completo, la portata e la verità di questo fatto.

È interessante notare questo contrasto: in Eden, dove tutto era vita, Dio parlava di morte; adesso, invece, dove tutto è morte, Dio parla di vita. Allora aveva detto: «Nel giorno che tu ne mangerai, certamente morrai». Ora invece è detto: Credi e vivrai! Ma come in Eden Satana si adoperò per annullare la testimonianza di Dio, provocando così anche le conseguenze della disubbidienza (malattia, dolore, morte), nello stesso modo oggi egli cerca di annullare la testimonianza di Dio mettendo in dubbio i risultati della fede nel Vangelo. Nel capitolo 3 vedremo che Dio aveva detto: «Nel giorno che tu ne mangerai, certamente morrai» e il serpente disse: «No, non morrete affatto» (3:4). Ora la Scrittura afferma chiaramente che «Chi crede nel Figlio ha vita eterna» (Giovanni 3:36), e lo stesso serpente cerca di persuadere gli uomini che non potrebbero illudersi di avere la vita prima di aver fatto, provato, sperimentato ogni sorta di altre cose.

Caro lettore, se non hai ancora creduto con tutto il cuore alla testimonianza di Dio, ascolta la Parola del Signore e non le insinuazioni del serpente. «Chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» (Giovanni 5:24).

3. Capitolo 3: La caduta

3.1 Le insuazioni del serpente

Il serpente entra in scena con una domanda insolente, per insinuare il dubbio sulla parola di Dio: modello e precursore terribile di tutte le questioni empie sollevate dai fedeli servitori del serpente, che non possono essere combattute se non con l’autorità suprema e divina delle Sacre Scritture.

«Come! Dio vi ha detto di non mangiare da nessun albero del giardino?» (3:1). Ecco l’astuta domanda del diavolo. Se la Parola di Cristo avesse «abitato abbondantemente» nel cuore di Eva (Colossesi 3:16), la sua risposta sarebbe stata semplice e decisa. V’è un modo solo di rispondere alle domande e ai suggerimenti del diavolo: respingerli per mezzo della Parola. Prenderli in considerazione anche solo per un istante, vuol dire perdere l’unica forza che abbiamo per contrastarli.

Il diavolo non si presenta apertamente ad Eva dicendole: Io sono Satana, il nemico di Dio e vengo per calunniarlo e per trascinarvi alla perdizione. Non sarebbe stato, questo, un linguaggio da «serpente»: tuttavia egli ha compiuto la sua opera sollevando dei dubbi nella mente della donna. È già un segno d’incredulità accettare la domanda: «Dio vi ha detto …?» quando si sapeva che Dio aveva parlato; infatti, nel caso di Eva, la forma stessa della sua risposta dimostra che essa aveva lasciato penetrare nel suo cuore l’astuta domanda del serpente. Invece di attenersi strettamente alla precisa dichiarazione di Dio, vi aggiunge del suo; ma il fatto di aggiungere, come di togliere, prova che questa Parola non è radicata nel cuore e non governa la coscienza.

Se uno vive «di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Matteo 4:4), imparerà a conoscere questa Parola e vi porrà attenzione; non è possibile che sia indifferente. Il Signore Gesù, nella sua lotta con Satana, usa la Parola di Dio con precisione, perché viveva di essa e la stimava al di sopra di ogni altra cosa. Non poteva citarla scorrettamente, né farne una falsa applicazione. Eva, invece, agisce in modo diverso: lascia che sia messa in dubbio la parola di Dio, e vi aggiunge del suo. Il comandamento era semplice: «Non ne mangiare» (2:16). Perché aggiungervi «e non lo toccate» (3:3)? Dio non aveva parlato di «toccare»! Perciò, sia che l’imprecisione procedesse da ignoranza o da superficialità, è chiaro che Eva mancava di una semplice fiducia nella Parola di Dio e della sottomissione a questa Parola.

3.2 L’autorità della parola di Dio

Nulla è più grandioso del modo con cui la Parola è citata da un capo all’altro delle Scritture e nulla è più importante della stretta ubbidienza ad essa. Questa ubbidienza la dobbiamo alla Parola semplicemente perché è la Parola di Dio. Sollevare un dubbio quando Dio ha parlato è una bestemmia. Noi siamo creature e Dio è il Creatore; Egli può dunque con ogni diritto chiederci ubbidienza. L’incredulo può chiamare questo «ubbidienza cieca»; il cristiano la chiama «ubbidienza intelligente». Se qualcuno non possiede la Parola di Dio, si può dire con ragione che è nelle tenebre, poiché non vi può essere un solo raggio di luce che non provenga da questa Parola pura ed eterna. Tutto quello che ci occorre è sapere che Dio ha parlato; allora l’ubbidienza diventa la sfera più elevata dell’attività intelligente.

Nessun uomo ha diritto di pretendere ubbidienza alla propria parola. Perciò, le pretese della Chiesa di Roma sono un’usurpazione delle prerogative di Dio; e tutti coloro che si sottomettono ad essa defraudano Dio dei Suoi diritti. L’incredulità può mettere in dubbio che Dio abbia parlato e la superstizione può porre un’autorità umana fra la mia coscienza e ciò che Dio ha detto; tanto l’una come l’altra ci privano della Parola e di conseguenza della felicità che accompagna l’ubbidienza a questa Parola.

Ogni atto d’ubbidienza racchiude una benedizione: ma nel momento in cui l’anima esita, il nemico prende il sopravvento. Così il nemico, nel capitolo che meditiamo, aggiunge subito, alla sua domanda «Come! Dio ha detto…», la seguente affermazione: «No, non morirete affatto!» (v. 4). Prima mette in dubbio che Dio abbia parlato, poi contraddice apertamente ciò che Dio ha detto. Questo fatto solenne è più che sufficiente per provare quanto sia pericoloso accogliere nel cuore un dubbio riguardo alla verità e alla integrità di una rivelazione divina.

Il razionalismo raffinato s’avvicina molto all’incredulità aperta; e l’incredulità che osa giudicare la Parola di Dio non è lontana dall’ateismo che nega l’esistenza di Dio. Se Eva non fosse stata indifferente riguardo alla Parola di Dio, mai avrebbe dato ascolto a chi si permetteva di contraddirla. Essa tollerò che una creatura contraddicesse Dio, perché la Parola di Dio aveva perso, per lei, la sua vera autorità sulla coscienza e sull’intelligenza. Non vi è nessuna vera sicurezza per l’anima al di fuori di una fede profonda nella piena ispirazione e nella suprema autorità di tutta la Scrittura. Il male che ai nostri giorni corrompe alla base il pensiero e il sentimento religioso è lo stesso che riempì il cuore di Eva che, a poco a poco, chinò il capo davanti al serpente e lo riconobbe come suo dio, come sorgente di verità.

Lettore, il serpente prese il posto di Dio e la sua menzogna il posto della verità. La parola di Dio non trova posto nel cuore dell’uomo non rigenerato che accoglie la menzogna di Satana e respinge la verità di Dio. Per questo il Signore Gesù disse a Nicodemo: «Bisogna che nasciate di nuovo» (Giovanni 3:7).

3.3 Diffidenza riguardo all’amore di Dio

È anche importante notare il mezzo adoperato da Satana per scuotere la fiducia di Eva in Dio e porla sotto la potenza d’un empio razionalismo. Satana vi giunge insinuando che l’affermazione divina non era fondata sull’amore: «Dio sa che nel giorno che ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male» (v. 5). In altre parole, vi è un gran guadagno per voi a mangiare del frutto di cui Dio vuole privarvi; perché dunque credere alla Sua parola? Non potete porre la vostra fiducia in chi evidentemente non vi ama; poiché se vi amasse, non vi vieterebbe di godere d’un privilegio così grande!

Se Eva si fosse fidata semplicemente dell’infinita bontà di Dio, sarebbe stata al riparo e avrebbe resistito all’influenza di tutto questo ragionamento; avrebbe risposto al serpente: Ho piena fiducia nella bontà di Dio e non credo che mi vieterebbe qualcosa che fosse veramente buona per me. Vattene via da me, Satana.

Questa sarebbe stata una nobile risposta; ma la sua fiducia nell’amore e nella verità di Dio venne meno, e tutto fu perduto. Il cuore dell’uomo decaduto non ha più posto per l’amore e per la verità di Dio; è estraneo tanto all’uno come all’altra, finché non è rigenerato dallo Spirito Santo.

È ora interessante meditare sulla missione del Signore Gesù che lasciò la gloria per rivelare ciò che Dio è veramente. «La grazia e la verità», le due cose che l’uomo ha perduto per mezzo della caduta, «sono venute per mezzo di Gesù Cristo» (Giovanni 1:17). Gesù è stato il testimone fedele di ciò che Dio è (Apocalisse 1:5). La verità rivela Dio come Egli è, ma questa verità è unita alla rivelazione della grazia perfetta. Il peccatore scopre così con gioia che la rivelazione di ciò che Dio è, invece di essere la causa della sua perdizione, è il fondamento della sua eterna salvezza. «Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo» (Giovanni 17:3).

È impossibile conoscere Dio e non aver la vita. La perdita della conoscenza di Dio portò l’uomo alla morte; ma la conoscenza di Dio lo porta alla vita qualunque sia il grado di conoscenza che ognuno ha di se stesso. Non è detto: Questa è la vita eterna: che conoscano se stessi. Conoscere Dio come Egli è significa vita; e tutti «coloro che non conoscono Dio e non ubbidiscono al Vangelo del nostro Signore Gesù saranno puniti di eterna rovina, respinti dalla presenza del Signore e dalla gloria della sua potenza» (2 Tessalonicesi 1:8-9).

È della massima importanza comprendere che ciò che stabilisce la condizione dell’uomo, la sua posizione e il suo futuro, è la conoscenza o l’ignoranza che ha di Dio. Se l’uomo è malvagio nei pensieri, nelle parole e negli atti, ciò proviene dal fatto che non conosce Dio; se, d’altra parte, è puro nei pensieri, santo nella condotta, pieno di grazia nelle opere, questo è il risultato pratico della conoscenza che ha di Dio. Inoltre, conoscere Dio è il solido fondamento d’una felicità infinita e d’una gloria eterna; non conoscerlo significa eterna perdizione.

Non c’è dunque da stupirsi che il perfido disegno di Satana sia stato di privare l’uomo della conoscenza del solo vero Dio. Non importa quale forma abbia preso in seguito il peccato, quali vie abbia imboccato. Il più raffinato e colto moralista, il filantropo più benevolo, l’uomo più devoto, se non conoscono Dio sono tanto lontani dalla vita e dalla vera santità quanto un “pubblicano” (Luca 18:10-13) o una “donna peccatrice” (Luca 7:37). Il figlio prodigo era peccatore e lontano da suo padre sia quando varcava la soglia della casa paterna, sia quando pasceva i porci nel paese lontano (Luca 15:13-15). La stessa cosa si può dire di Eva: dal momento in cui si sottrasse all’assoluta dipendenza da Dio e alla sottomissione alla Sua Parola, si abbandonò al dominio della concupiscenza, e Satana ne approfittò per rovinarla.

3.4 Tentazione di Adamo, tentazione di Gesù

Il vers. 6 di questo capitolo 3 ci presenta tre situazioni: «La concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita» (1 Giovanni 2:16); tre cose che, come dichiara l’apostolo Giovanni, racchiudono «tutto ciò che è nel mondo». Dal momento in cui Dio fu escluso, queste passioni dominarono il mondo. Se non rimaniamo nella certezza dell’amore e della verità di Dio, della Sua grazia e della Sua fedeltà, ci sottoporremo ad uno di questi principi e forse anche a tutti e tre; in altri termini, ci sottoporremo al governo di Satana. Non esiste, strettamente parlando, libero arbitrio per l’uomo. L’uomo che si governa da sé e fa quello che vuole è di fatto governato da Satana; altrimenti è Dio che lo governa.

La concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita sono le tre cose che Satana presentò al Signore nella tentazione inducendolo a sottrarsi alla dipendenza da Dio: «Se tu sei Figlio di Dio, ordina che queste pietre diventino pani» (Matteo 4:3). Non chiese a Gesù di fare come il primo uomo, di innalzare se stesso al di sopra di quel che era, ma Gli domanda di dare una prova di ciò che Egli è. In seguito, Satana offre a Gesù tutti i regni del mondo e la loro gloria, e infine lo trasporta sul pinnacolo dei tempio e lo incita a darsi miracolosamente in spettacolo all’ammirazione del popolo radunato ai piedi del tempio (cfr. Matteo 4:1-11 e Luca 4:1-15). Ma tutto fu inutile. «Sta scritto»: questa fu la risposta del solo Uomo dipendente, perfetto, spoglio di se stesso. Altri potevano scegliere la propria via; ma la Sua era di fare soltanto la volontà di Dio (Ebrei 10:7). Che esempio per il fedele, in ogni circostanza! Gesù, senz’altra arma che «la spada dello Spirito» (Efesini 6:17), sostenne la lotta e riportò un glorioso trionfo.

Che contrasto tra Lui e il primo Adamo! Adamo possedeva il giardino con tutte le sue delizie; Gesù era in un deserto con tutte le sue privazioni; il primo mise la propria fiducia in Satana, il secondo confidò interamente in Dio; il primo fu completamente vinto, il secondo risultò vincitore su tutta la linea. Benedetto sia il Dio di ogni grazia che ha posto la nostra sorte  nelle mani di Colui che è potente per vincere e potente per salvare!

3.5 La coscienza

Vediamo ora fino a che punto Adamo ed Eva hanno goduto del privilegio che Satana aveva loro promesso. Questo esame metterà in luce un punto  importante in rapporto alla caduta dell’uomo. Nella caduta e per mezzo della caduta l’uomo acquistò una cosa che non possedeva prima: la coscienza, cioè la conoscenza del bene e del male.

È evidente che l’uomo non poteva essere dotato di questa conoscenza. Non poteva avere alcuna idea del male, poiché il male non era presente. L’uomo era in uno stato d’innocenza, cioè d’ignoranza del male. Per mezzo della caduta acquistò una coscienza; e vediamo che i primi effetti di questa coscienza furono il turbamento, la paura e la viltà. Satana aveva ingannato la donna. Le aveva detto: gli occhi vostri saranno aperti e sarete come Dio, avendo conoscenza del bene e del male, ma aveva omesso una parte importante della verità, cioè che avrebbero conosciuto il male, però senza poterlo evitare. Il tentativo di Adamo ed Eva di innalzarsi non fece che privarli della vera elevazione; l’uomo divenne un essere degradato, debole, tormentato dalla paura, perseguitato dalla propria coscienza: uno schiavo di Satana.

«Si aprirono gli occhi a entrambi» (v. 7), ma solo per vedere la propria nudità, la loro triste condizione. Erano infelici, miserabili, poveri, ciechi e nudi (Apocalisse 3:17), triste frutto dell’albero della conoscenza! Adamo ed Eva non acquistarono alcuna nuova conoscenza della bontà di Dio, alcun nuovo raggio della luce divina; il primo risultato fu la scoperta che erano nudi. L’azione della conoscenza riempie la nostra anima di timore, perché ci dà la consapevolezza di ciò che siamo veramente.

Molti sbagliano a questo riguardo perché credono che la coscienza ci avvicini a Dio. L’ha forse fatto nel caso di Adamo ed Eva? E come potrebbe farlo? Il vedermi come sono come potrebbe condurmi a Dio se non è accompagnato dalla fede in ciò che Dio è? Il sentimento di ciò che sono produrrà vergogna, rimorso, angoscia; mi porterà a compiere degli sforzi per rimediare alla condizione che ormai conosco, ma questi sforzi stessi, invece di condurmi a Dio, me lo nasconderanno.

Adamo ed Eva cercarono di nascondere la loro nudità: «Cucirono delle foglie di fico, e se ne fecero delle cinture» (v. 7). Questa è la prima citazione d’un tentativo fatto dall’uomo per rimediare al suo stato. Se consideriamo attentamente questo fatto, ne ricaveremo una profonda istruzione sul vero carattere della religione dell’uomo in tutte le epoche. Prima di tutto vediamo che il primo sforzo dell’uomo per rimediare alla sua condizione nasce dalla constatazione della sua nudità; è nudo e tutti i suoi sforzi non muteranno la sua condizione. Devo sapere di essere vestito prima di poter fare qualche cosa di gradito a Dio, e in questo sta la differenza fra il vero cristianesimo e la religione dell’uomo. Tutto ciò che il vero cristiano fa, lo fa perché è vestito, perfettamente vestito; e tutto ciò che fa l’uomo naturale religioso, lo fa per essere vestito. La differenza è immensa.

La religione dell’uomo può bastare per un certo tempo, può essere sufficiente finché la morte, il giudizio e l’ira di Dio sono considerati come fatti lontani, se pur avviene che vi si pensi; ma quando si giunge a vedere in faccia queste terribili realtà, si realizza che la religione dell’uomo non risponde ad alcuna delle esigenze della santità di Dio e neppure ai suoi bisogni più profondi.

Non appena Adamo udì la voce dell’Eterno Dio nel giardino, «ebbe paura» perché, come egli stesso confessa, «era nudo», nudo malgrado le foglie con cui si era coperto. Quel “vestito” non soddisfaceva nemmeno la sua coscienza, poiché se la sua coscienza fosse stata soddisfatta non avrebbe avuto paura. Ma se nemmeno la coscienza umana può trovare soddisfazione negli sforzi della religione dell’uomo, quanto meno lo potrà la santità di Dio! La “cintura” di Adamo non poteva coprirlo davanti a Dio, ed egli non poteva comparire nudo alla sua presenza; perciò fugge e si nasconde. La coscienza spinge l’uomo ad evitare la presenza di Dio, e tutto ciò che la religione dell’uomo può dargli non è che una vana copertura per nasconderlo al proprio sguardo; un povero rifugio poiché se l’uomo non possiede altro che il sentimento di ciò che egli è, non può essere che spaventato e terribilmente infelice.

In verità, manca solo l’inferno per completare il tormento di chi, sapendo di doversi incontrare con Dio, è cosciente della propria incapacità di comparire alla sua presenza. Se Adamo avesse conosciuto il perfetto amore di Dio, non avrebbe avuto paura, poiché «nell’amore non c’è paura; anzi, l’amore perfetto caccia via la paura, perché chi ha paura teme un castigo. Quindi chi ha paura non è perfetto nell’amore» (1 Giovanni 4:18). Adamo non sapeva nulla di Dio, perché aveva creduto alla menzogna di Satana. Egli pensava che Dio fosse tutto fuorché amore, e perciò voleva evitare la sua presenza. Dio e il peccato non possono coesistere; e fin tanto che vi è del peccato sulla coscienza, vi è la consapevolezza di essere lontani da Dio. Dio ha «gli occhi troppo puri per sopportare la vista del male» (Abacuc 1:13). Il peccato, ovunque si trovi, non può incontrare altro che la collera di Dio.

3.6 «Dove sei?» [La rivelazione di ciò che Dio è]

Ma non vi è soltanto la coscienza di ciò che io sono; vi è pure, sia ringraziato Dio, la rivelazione di ciò che Dio è; ed è stata proprio la caduta dell’uomo che ha permesso questa sublime rivelazione. Dio non aveva rivelato pienamente Se stesso nella creazione; aveva manifestato «la sua eterna potenza e divinità» (*) (Romani 1:20), ma non aveva rivelato tutti i segreti della Sua natura e del Suo carattere. Satana sbagliò volendo interferire nell’opera di Dio e divenne strumento della propria rovina: «La sua malizia gli ritornerà sul capo, e la sua violenza gli scenderà sulla testa» (Salmo 7:16). La menzogna di Satana rese manifesta la verità riguardo a Dio. In Dio risiedevano infinitamente più che saggezza e potenza: vi erano amore, misericordia, santità, giustizia, bontà, tenerezza, longanimità. Dove avrebbero potuto manifestarsi tutte queste virtù se non in un mondo di peccatori?

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(*) E’ interessante il confronto fra i termini «teiotes» e «teotes». In Romani 1:20 viene usato «teiotes», divinità; in Colossesi 2:9 «teotes», deità. I pagani potevano vedere qualche cosa di sovrumano e divino nella creazione; ma la deità pura, essenziale, incomprensibile, abitava corporalmente solo nella persona adorabile del Figlio.

La prima opera di Dio è stata la creazione; in seguito, dopo l’intervento di Satana, Egli si è mosso per salvare. È quello che ci rivelano le prime parole dell’Eterno dopo la caduta dell’uomo: «Dio il SIGNORE chiamò l’uomo e gli disse: “Dove sei”?» (v. 9). Questa domanda prova due cose: che l’uomo è perduto e che Dio è venuto a cercarlo. «Dove sei?» Che fedeltà, che grazia meravigliosa in questa parola! Essa rivela la triste condizione dell’uomo caduto, il vero carattere di Dio e la Sua disposizione verso la creatura. L’uomo era perduto, ma Dio è disceso per cercarlo, per farlo uscire dal luogo dove si era nascosto fra gli alberi del giardino, e fargli trovare, nella beata fiducia della fede, un rifugio in Lui.

Questa era la grazia. Per creare l’uomo dalla polvere della terra bastava la potenza, ma per liberare l’uomo dal suo stato di perdizione ci voleva la grazia. È difficile per noi comprendere che cosa abbia spinto Dio ad intervenire in favore del peccatore. Egli ha agito con lui come il pastore con la pecora smarrita, come la donna che cercava la moneta perduta o il padre con il figlio prodigo (Luca 15). Il peccatore ha un grande valore agli occhi di Dio!

3.7 L’uomo davanti a Dio

Ma come ha reagito il peccatore alla fedeltà e alla grazia di Dio che lo cercava? Purtroppo, la risposta di Adamo non fa che rivelare la gravità del male in cui era caduto: «“Ho udito la tua voce nel giardino e ho avuto paura, perché ero nudo, e mi sono nascosto”. E Dio disse: “Chi ti ha mostrato che eri nudo? Hai forse mangiato del frutto dell’albero, che ti avevo comandato di non mangiare?”. L’uomo rispose: “La donna che mi hai messo accanto, è lei che m’ha dato del frutto dell’albero, e io ne ho mangiato”. Dio il SIGNORE disse alla donna: “Perché hai fatto questo”? La donna rispose: “Il serpente mi ha ingannata e io ne ho mangiato”» (v. 10-13).

Così Adamo fa ricadere la responsabilità della sua caduta sulla donna che Dio gli aveva dato, e indirettamente su Dio stesso. L’uomo, colto in fallo, reagisce sempre accusando tutti e tutto ma non se stesso. L’anima veramente umile usa tutt’altro linguaggio e dice come Davide: «Sono io che ho peccato, sono io che ho agito da empio» (2 Samuele 24:17). Ma Adamo non conosceva né se stesso né Dio. Perciò, invece di accusarsi, getta la colpa su Dio.

La condizione dell’uomo era davvero tragica: aveva perso tutto: dominio, felicità, dignità, innocenza, purezza, pace (*). Era un peccatore perduto e colpevole, eppure giustificava se stesso accusando Dio.

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(*) L’uomo non soltanto accusa Dio della sua caduta, ma addirittura rimprovera Dio di lasciarlo in quello stato. Alcuni sostengono di non poter credere se Dio non esaudisce i loro desideri; altri dicono che non possono essere salvati se non sono predestinati. Indubbiamente, nessuno può credere all’Evangelo se non per la potenza dello Spirito Santo; ed è altrettanto vero che chi crede è il beato oggetto dei consigli eterni di Dio. Questo fatto, tuttavia, non elimina la responsabilità dell’uomo di credere alla testimonianza chiara e semplice della Scrittura. Questa scusa non servirà, perché è scritto in 2 Tessalonicesi 1:8-9 che «coloro che non ubbidiscono al vangelo del nostro Signore Gesù… saranno puniti di eterna rovina». Gli uomini hanno la responsabilità di credere all’Evangelo, e saranno puniti se non crederanno. Non saranno responsabili di conoscere ciò che, nei consigli di Dio, non è stato loro rivelato, e nessuno può essere considerato colpevole se è ignorante a questo riguardo. L’apostolo Paolo poteva dire ai Tessalonicesi: «Conosciamo, fratelli amati da Dio, la vostra elezione». E come la conosceva? Era forse perché aveva potuto leggere le pagine dei segreti di Dio e dei suoi eterni disegni? No. Ma perché «il nostro vangelo non vi è stato annunciato soltanto con parole, ma anche con potenza» (1 Tessalonicesi 1:4-5). Chi fa dei consigli di Dio un pretesto per rigettare la Sua testimonianza, non fa altro che cercare una povera giustificazione per continuare a vivere nel peccato.

Fu solo quando l’uomo arrivò a non avere più nessuna fiducia in se stesso che Dio incominciò a rivelarsi e a spiegare i disegni del Suo amore redentore. Bisogna che l’uomo sparisca completamente dalla scena con tutte le sue vane pretese, la sua vanagloria e i suoi ragionamenti blasfemi, perché Dio possa rivelarsi. Così accadde con Adamo; mentre è nascosto tra gli alberi del giardino, Dio sviluppa il piano meraviglioso della redenzione per mezzo della progenie «ferita» della donna (Cristo) (v. 15).

Era stata la coscienza ad indurre Adamo a nascondersi, ma la rivelazione di Dio lo conduce alla Sua presenza. La coscienza di ciò lui che era lo riempiva di spavento; la rivelazione di ciò che Dio è lo tranquillizzò. Consolante, per un cuore oppresso dal peso del peccato, è la realtà di ciò che è Dio, posta a confronto con la realtà di quel che è l’uomo. È questa la rivelazione della salvezza. Bisogna che Dio e l’uomo s’incontrino, sia in grazia sia in giudizio, e il punto d’incontro si trova là dove Dio e l’uomo sono rivelati quali essi sono. Beati coloro che giungono a quel punto per la grazia; guai a quelli che dovranno incontrare Dio in giudizio!

Dio si occupa di noi, ma le Sue vie verso noi dipendono da ciò che Egli è. Alla croce, Dio scende in grazia nelle profondità del nostro peccato e ci offre una pace perfetta. Se Dio è venuto a cercarmi, nonostante la mia condizione, e ha preparato Egli stesso un rimedio che è all’altezza del male in cui sono immerso, tutto è regolato per sempre. Da quando un’anima è condotta a conoscere il suo vero stato, non ha pace finché non ha trovato Dio alla croce; solo allora può riposarsi in Lui.

Dio è il riposo e il rifugio dell’anima fedele; sia benedetto il suo santo Nome! Le opere e la giustizia dell’uomo sono messe, una volta per sempre, al loro posto. Quelli che contano sulle loro opere e la loro giustizia non sono ancora giunti alla vera conoscenza di loro stessi. Una coscienza risvegliata dalla potenza divina non può trovare riposo che nel perfetto sacrificio del Figlio di Dio. Adamo ha dovuto imparare, nella dichiarazione riguardo alla progenie della donna, l’inutilità della sua cintura di foglie.

– Era necessario che il peccato fosse tolto: l’uomo poteva forse compiere quest’opera? No, poiché è stato per colpa sua che il peccato è entrato nel mondo.

– Bisognava schiacciare il capo al serpente: l’uomo ne era forse capace? No, poiché era diventato schiavo di Satana.

– Le esigenze di Dio dovevano essere soddisfatte: l’uomo poteva farlo? No, perché le aveva già calpestate.

– Bisognava distruggere la morte: l’uomo ne aveva forse il potere? No, poiché egli stesso, per mezzo del peccato, l’aveva introdotta e le aveva dato il suo terribile «dardo» (1 Corinzi 15:55-57).

Tuttavia, benché Adamo, per grazia, fosse stato reso cosciente della propria impotenza a compiere tutto ciò che doveva essere fatto, Dio gli rivelò che stava per compiere tutto Lui, per mezzo della progenie della donna. In una parola, Dio prende in mano tutta l’opera da farsi; per prima cosa risolve la questione fra il serpente e Lui Stesso; infatti, benché l’uomo e la donna dovessero, individualmente e in diverse maniere, raccogliere i frutti amari del loro peccato, tuttavia è al serpente che Dio dice: «Perché hai fatto questo?» (v. 14). Il serpente era stato la causa della caduta e della miseria dell’uomo, e la progenie della donna doveva essere la sorgente della redenzione.

Adamo credette a queste cose, e, con l’energia della fede, chiamò sua moglie «la madre di tutti i viventi» (v. 20). Considerando come era stata sconvolta la sorte di tutte le creature, Eva poteva essere chiamata «la madre di tutti quelli che muoiono»; ma, per rivelazione di Dio, la fede vedeva in essa la madre di tutti i viventi. Così pure Rachele morente pose nome a suo figlio Ben-Oni (figlio del mio dolore), ma suo padre lo chiamò Beniamino (figlio della mia destra) (Genesi 35:18).

Per l’energia della fede Adamo sopportò le terribili conseguenze del suo peccato; e fu nella sua misericordia infinita che Dio gli concesse di udire quello che diceva al serpente, prima di parlare con lui. Se non fosse stato così, Adamo sarebbe caduto nella disperazione; e questo sarebbe stato il destino di tutti gli uomini, posti di fronte alla responsabilità della caduta, senza alcuna speranza di potersi salvare con le proprie forze. Solo trovando rifugio e riscatto alla croce, l’umanità ha sollievo e sfugge alla pena sancita dalla santità di Dio.

3.8 Le tuniche di pelle [la giustizia di Dio]

Consideriamo ora brevemente la verità simboleggiata dalle tuniche con cui Dio rivestì Adamo ed Eva. «Dio il SIGNORE fece ad Adamo e a sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì» (v. 21). Abbiamo qui, in figura, la grande dottrina della giustizia di Dio. La tunica di cui Dio rivestì Adamo era un vero vestito, perché Dio stesso l’aveva preparato, mentre la cintura di foglie di fico era un abito inutile perché era opera dell’uomo. Oltre a ciò, il vestito con cui Dio coprì la nudità dell’uomo proveniva da una vittima che era stato uccisa; non c’era stato sacrificio per la cintura fatta da  Adamo!

Nello stesso modo, la giustizia di Dio è manifestata ora alla croce, mentre la giustizia dell’uomo si manifesta nelle opere delle sue mani contaminate dal peccato. Vestito della sua tunica di pelle, Adamo non poteva dire come prima, sotto gli alberi del giardino, «ero nudo», e non sentiva più alcun bisogno di nascondersi. Il peccatore può essere perfettamente tranquillo, quando accetta per fede la salvezza dalla mano di Dio. Fino a quel momento, la tranquillità è solo il risultato di presunzione o di ignoranza. Sapere che il «vestito» che porto e con il quale mi presento davanti a Dio mi è stato preparato da Dio Stesso, deve porre il mio cuore in un perfetto riposo.

3.9 Fuori del giardino

Gli ultimi versetti del nostro capitolo sono molto istruttivi.

L’uomo caduto non deve mangiare il frutto dell’albero della vita: ciò gli procurerebbe una miseria senza fine in questo mondo. Mangiare di quel frutto e vivere eternamente, nella nostra attuale condizione, ci causerebbe un’infelicità totale. Vivere per sempre in una fragile tenda, in un corpo di peccato e di morte, sarebbe insopportabile. Perciò «Dio il SIGNORE mandò via l’uomo dal giardino d’Eden» (v. 23), lo scacciò in un mondo che, dovunque, mostrava i tristi risultati della sua caduta.

I cherubini con la spada fiammeggiante erano là per impedire all’uomo l’accesso all’albero della vita; tuttavia, Dio gli aveva preannunciato nella progenie della donna una speranza di vita per lui, d’una vita libera dal potere della morte. In tal modo Adamo era più felice e al sicuro fuori del paradiso, che non nel paradiso stesso, poiché, se fosse rimasto in Eden, la sua vita sarebbe dipesa da lui; ora, invece, al di fuori del giardino, la sua vita dipendeva da un altro, dal Cristo promesso, progenie della donna. Quando lo sguardo di Adamo incontrava i cherubini con le spade fiammeggianti, poteva benedire la mano che li aveva posti là, poiché lo stesso Dio gli aveva aperto una via, più sicura e più felice, verso “l’albero della vita” quando gli aveva preannunciato la vittoria di Cristo, progenie della donna (3:15).

Se i cherubini hanno chiuso l’accesso al paradiso, il Signore Gesù ha aperto «quella via nuova e vivente» (Ebrei 10:20) che conduce al Padre, nel luogo santissimo. Gesù dice: «Io sono la via, la verità e la vita, nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (cfr. Giovanni 14:6; Ebrei 10:20).

Armato e protetto dalla conoscenza di queste verità, il credente cammina ora attraverso un mondo maledetto, dove le conseguenze del peccato sono ovunque visibili. Egli può riposarsi in segreto, rallegrato dalla beata certezza che il suo Salvatore è andato a preparargli un posto nella casa del Padre, da dove presto tornerà per prenderlo e introdurlo con Sé nella gloria. Così il credente trova fin d’ora nella casa e nel regno del Padre la sua parte, la sua dimora futura e la sua gloriosa ricompensa.

4. Capitolo 4: Caino e Abele

4.1 L’uomo religioso e l’uomo di fede

A mano a mano che una nuova sezione del libro della Genesi si apre davanti a noi, scopriamo che stiamo percorrendo, come in «embrione», tutta la storia dell’uomo.

Caino e Abele ci presentano i primi esempi dell’uomo religioso e del vero credente. Nati tutti e due fuori dal paradiso, figli di un Adamo peccatore, non avevano nulla che potesse indicare una differenza sostanziale fra di loro. Tutti e due erano peccatori, tutti e due avevano una natura decaduta; né l’uno né l’altro erano innocenti. È importante comprendere bene questo punto, per poter ben capire che cosa siano la grazia divina e la fede. Se la differenza fra Caino e Abele fosse dipesa dalla loro natura, ciò significherebbe che essi non condividevano la natura decaduta del loro padre e non partecipavano alle conseguenze della sua caduta: per cui l’azione della grazia non avrebbe avuto motivo di manifestarsi in loro.

Alcuni sostengono che l’uomo nasca con delle qualità e delle capacità che, ben adoperate e sviluppate, lo metterebbero in condizione di avvicinarsi a Dio. La Scrittura, tuttavia, insegna che Caino e Abele erano nati non dentro il paradiso, ma fuori: erano figli non dell’Adamo innocente, ma dell’Adamo caduto. Sono entrati nel mondo partecipi della natura del loro padre e, in qualunque modo essa si fosse manifestata, era sempre una natura peccatrice. Ciò che è nato dalla carne non solo è carnale, ma «è carne»; e ciò che è nato dallo Spirito non solo è spirituale, ma «è spirito» (Giovanni 3:6).

Nessuna epoca offrì mai occasione più favorevole per la manifestazione delle qualità, delle capacità, delle risorse e delle tendenze istintive della natura umana, quanto i tempi di Caino e di Abele. Caino e Abele erano perduti; erano «carne»; non erano innocenti, poiché Adamo aveva perso definitivamente la sua innocenza. Adamo non era che il capo decaduto di una razza decaduta; «per la disubbidienza di un solo uomo i molti sono stati resi peccatori» (Romani 5:19). Adamo divenne la sorgente contaminata di un’umanità decaduta, colpevole e corrotta; il tronco malato di tutti i rami di un’umanità moralmente e spiritualmente morta.

È vero che Adamo divenne oggetto della grazia divina e dimostrò di avere fede nel Salvatore promesso, ma questa fede non era nella sua natura; era il frutto dell’amore divino, era stata impiantata in lui dalla potenza divina. Adamo poteva comunicare tutto ciò che era insito nella sua natura, nulla di più. Come padre era un uomo decaduto, quindi suo figlio non poteva essere in uno stato diverso, e partecipava necessariamente alla natura di suo padre. Quale è colui che genera, tali sono coloro che sono generati da lui (cfr. 1 Giovanni 5:1). «Quale è il terrestre, tali sono anche i terrestri» (1 Corinzi 15:48).

4.2 Adamo e Cristo, due capostipiti della razza

È importantissimo comprendere la dottrina dei due capostipiti della razza umana. Se il lettore vuol soffermarsi un momento su Romani 5:12-21 vedrà che Paolo mette l’intera razza umana sotto due capi. Non intendo fermarmi su quel passo, ma soltanto riferirmi ad esso a proposito dell’argomento in corso.

Il cap. 15 di 1 Corinzi ci presenta delle istruzioni analoghe, nei versetti 44 e seguenti. Nel primo uomo troviamo il peccato, la disubbidienza e la morte; nel secondo Uomo la giustizia, l’ubbidienza e la vita. Come ereditiamo, per nascita,  la natura del primo, così ereditiamo, con la nuova nascita, la natura del secondo. Senza dubbio, ognuna di queste nature spiegherà e manifesterà, in ogni individuo e in ogni caso particolare, le forze e le facoltà che le sono proprie.

Un neonato, benché incapace di compiere l’atto che ridusse Adamo allo stato di creatura decaduta, non è per questo meno partecipe della natura di Adamo. È lo stesso per l’uomo nato da Dio: l’anima rigenerata, benché del tutto estranea all’adempimento della perfetta opera d’ubbidienza di «Cristo Gesù uomo» (1 Timoteo 2:5), non è per questo meno partecipe della Sua natura.

Il peccato del primo uomo non si è fermato su Adamo solo, ma è passato a tutta la sua progenie; così la “giustizia” non è rimasta soltanto sul secondo Uomo, ma si è riversata sopra molti. La prima natura segue la volontà dell’uomo (Giovanni 1:13), la seconda natura è secondo la volontà di Dio, come anche Giacomo dice: «Egli ha voluto generarci secondo la sua volontà, mediante la parola di verità» (Giacomo 1:18).

4.3 Due sacrifici

Per natura e per le circostanze nelle quali viveva, Abele non era diverso da suo fratello Caino. Riguardo la natura di peccato «non c’è distinzione» (Romani 3:22): la differenza si notava soltanto nei loro sacrifici. Ciò rende molto semplice l’insegnamento che Dio vuole impartire a chiunque si renda conto che, non soltanto partecipa alla natura decaduta del primo uomo, ma che è egli stesso un peccatore.

La storia di Abele ci insegna in qual modo un peccatore può avvicinarsi a Dio, e su quale fondamento possa stare alla Sua presenza e aver comunione con Lui; ci insegna chiaramente che non può farlo con i suoi mezzi. È nella persona e nell’opera di Cristo che dobbiamo cercare il vero ed eterno fondamento della nostra relazione con Lui, il Giusto, il Santo e il solo Vero Dio. Il cap. 11 di Ebrei sviluppa questo soggetto nel modo più chiaro possibile. «Per fede Abele offrì a Dio un sacrificio più eccellente di quello di Caino; per mezzo di essa gli fu resa testimonianza che egli era giusto, quando Dio attestò di gradire le sue offerte; e per mezzo di essa, benché morto, egli parla ancora» (v. 4). Non è di Abele che si tratta qui, ma del suo sacrificio; non è della persona che portava l’offerta, ma dell’offerta stessa; ed è proprio nel tipo di sacrificio che sta la grande differenza fra Caino e Abele.

4.4 Il sacrificio di Caino

Vediamo quali erano le offerte: «Avvenne, dopo qualche tempo, che Caino fece un’offerta di frutti della terra al SIGNORE. Abele offrì anch’egli dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso. Il SIGNORE guardò con favore Abele e la sua offerta, ma non guardò con favore Caino e l’offerta sua» (4:3-5).

Caino aveva offerto all’Eterno i frutti di una terra maledetta, senza spargere del sangue per togliere la maledizione; aveva fatto un «sacrificio non cruento», perché non aveva fede. Se l’avesse avuta,  Dio gli avrebbe rivelato, anche in quei primi giorni della storia dell’uomo, che «senza spargimento di sangue non c’è perdono» (Ebrei 9:22). Caino, come pure Abele, sapeva che Dio aveva ucciso un animale, aveva sparso il sangue di una vittima, per rivestire suo padre e sua madre dopo la caduta.  «Il salario del peccato è la morte»; Caino era peccatore e, come tale, la morte lo separava da Dio. Nella sua offerta, Caino non ne tiene alcun conto; non offre il sacrificio di una vita per soddisfare le esigenze della santità divina, riconoscendo così la sua condizione di peccatore. Agisce verso Dio come se Dio fosse simile a lui e potesse accettare il frutto contaminato di una terra maledetta. Il sacrificio «non cruento» di Caino implica tutto questo e molto di più ancora.

La ragione dirà senza dubbio: Ma quale sacrificio più prezioso potrebbe offrire l’uomo, di quello acquistato col proprio lavoro e col «sudore del volto» (3:19)? Infatti la ragione, e anche lo spirito religioso dell’uomo naturale, possono far pensare così, ma Dio la pensa diversamente, e la fede si accorda sempre coi pensieri di Dio. Dio insegna, e la fede lo crede, che è necessario il sacrificio di una vita, perché l’uomo possa avvicinarsi a Dio.

Così, quando consideriamo il ministero del Signore Gesù, comprendiamo che, se Egli non fosse morto sulla croce, tutto il Suo servizio sarebbe stato inutile per ristabilire le nostre relazioni con Dio. Egli è andato di luogo in luogo facendo del bene per tutta la Sua vita, questo è vero; ma solo la Sua morte poteva squarciare «la cortina del tempio» (Matteo 27:51), e niente altro avrebbe potuto farlo. Se Gesù avesse continuato ad andare di luogo in luogo facendo il bene fino ad oggi, la cortina sarebbe rimasta intatta, impedendo all’uomo l’accesso al «luogo santissimo», cioè alla presenza di Dio.

Senza dubbio, l’offerta di Caino era il frutto del suo penoso lavoro; ma che importanza aveva questo? Il lavoro di un peccatore poteva forse togliere la maledizione del peccato e farne sparire la contaminazione? Poteva soddisfare le esigenze di un Dio infinitamente santo? Poteva fornire al peccatore quello che gli era necessario per essere ricevuto da Dio? Poteva annullare il giusto castigo del peccato? Poteva togliere alla morte il suo “dardo” (1 Corinzi 55-56) e al sepolcro la sua vittoria? Poteva forse fare questo, anche solo in parte? No, poiché «senza spargimento di sangue, non c’è perdono» (Ebrei 9:22).

Il sacrificio non cruento di Caino, come qualsiasi sacrificio non cruento, era non solo senza valore, ma addirittura abominevole per Dio; Caino pensava che ci si potesse avvicinare a Dio in questa maniera, e ogni uomo che segue una religione umana pensa nello stesso modo. Di secolo in secolo, Caino ha avuto migliaia di discepoli. Il culto di Caino è sempre stato fiorente nel mondo: è il culto di ogni anima incredula; è il culto che mantengono tutti i falsi sistemi di religione che esistono sotto il sole.

L’uomo sarebbe felice di fare di Dio il proprio debitore, di dargli qualcosa per acquistare dei meriti, ma «chi gli ha dato qualcosa per primo e gli sarà contraccambiato?» (Romani 11:35). Dio accetta anche la più piccola offerta, ma da un cuore che ha imparato a dire come Davide: «Tutto viene da Te; e noi ti abbiamo dato quello che dalla tua mano abbiamo ricevuto» (1 Cronache 29:14). Dal momento che l’uomo ha la pretesa di essere il «primo donatore», Dio risponde: «Se avessi fame, non lo direi a te» (Salmo 50:12) poiché «Dio non è servito dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa, Lui che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa» (Atti 17:25). Il grande Donatore di «ogni cosa» non può aver bisogno di nulla.

La lode è tutto quello che possiamo offrire a Dio, e non possiamo offrirgliela se non in rapporto al fatto che abbiamo compreso per fede che i nostri peccati sono stati cancellati in virtù dell’espiazione compiuta dal Signore Gesù. E a questo segue il “servizio”, svolto per amore per Lui, alle Sue dipendenze e nel campo che Egli stesso stabilisce per ciascuno di noi.

4.5 Il sacrificio di Abele

Dal sacrificio offerto da Caino passiamo ora a quello offerto da Abele. «E Abele offerse anch’egli dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso» (v. 4). In altri termini, egli comprese, per fede, la gloriosa verità che l’uomo può avvicinarsi a Dio solo per mezzo d’un sacrificio; che il peccatore può porre la morte di un altro fra se stesso e le conseguenze del suo peccato; che può soddisfare le esigenze della natura di Dio per mezzo del sangue d’una vittima senza macchia, d’una vittima offerta per rispondere sia a quello che Dio domanda, sia ai profondi bisogni del peccatore. Questa è, in sintesi, la dottrina della croce.

Ogni uomo, convinto di peccato, sente che la morte e il giudizio sono la giusta ricompensa del suo stato di peccato e dei misfatti commessi (vedi Luca 23:41) e che egli non può, qualunque cosa faccia, cambiare questo destino. Può lavorare ed affaticarsi; col «sudore del volto», potrebbe procurarsi un’offerta; può fare voti e prendere buone risoluzioni, cambiare il suo modo di vivere, riformare il suo carattere; può essere morale, retto e, secondo il significato umano della parola, religioso; può, anche senza avere fede, pregare, leggere la Parola di Dio o ascoltare delle belle prediche; fare tutto ciò che rientra nel dominio della capacità dell’uomo e, malgrado ciò, non aver davanti a sé che la morte e il giudizio di Dio. È impossibile, per un peccatore, evitare la morte ed il giudizio per mezzo delle buone opere che egli compie, anche se con le migliori intenzioni.

Quando il peccatore giunge a questo punto, gli è presentata la croce: essa gli fa vedere che Dio ha provveduto a tutto quello che era necessario per la sua colpevolezza e la sua miseria. Alla croce, Cristo ha sconfitto, per il vero credente, la morte e il giudizio, e li ha sostituiti con la vita, la giustizia e la gloria. «Cristo Gesù… ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l’immortalità mediante il vangelo» (2 Timoteo 1:10). Egli ha glorificato Dio eliminando quello che ci avrebbe tenuti per sempre lontani dalla sua santa e beata presenza: Egli «è stato manifestato per annullare il peccato con il suo sacrificio» (Ebrei 9:26).

Queste verità sono rappresentate, in figura, dal sacrificio di Abele. Abele non tenta di annullare la realtà della sua posizione di peccatore; non presenta presuntuosamente un sacrificio non cruento e nemmeno presenta all’Eterno i frutti d’una terra maledetta. Prende il posto che si addice ad un peccatore e, come tale, pone la morte d’una vittima fra sé e i propri peccati e fra i suoi peccati e la santità di un Dio che non può tollerare il peccato. Abele meritava la morte e il giudizio, ma aveva trovato un sostituto.

La stessa cosa avviene ad ogni peccatore: Cristo è il suo sostituto, il suo riscatto, il suo sacrificio eccellente, il suo tutto. Come Abele, sente che, se anche presentasse a Dio i più bei frutti della terra, la sua coscienza rimarrebbe sempre contaminata dal peccato, visto che «senza spargimento di sangue, non c’è perdono». Tutti quelli che, per fede, afferrano questa divina realtà, godranno d’una pace che il mondo non può dare né togliere.

4.6 La fede e i sentimenti

«Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore» (Romani 5:1). «Per fede Abele offrì a Dio un sacrificio più eccellente di quello di Caino» (Ebrei 11:4). In questi versetti non si allude al sentimento, come molti pensano, ma si parla di fede in un fatto compiuto, di fede prodotta nell’anima di un peccatore dalla potenza dello Spirito Santo.

La fede è una cosa ben diversa da un sentimento del cuore o da un’adesione dell’intelligenza; la fede non è uno stato d’animo che il giorno dopo può mutare: è un principio imperituro che emana da una sorgente eterna, cioè da Dio stesso. La fede nasce da Dio e dalla Parola eterna; è un legame vivente che unisce il cuore che la possiede a Dio che la dà.

I sentimenti umani, per quanto intensi e affinati, non possono mai unire l’anima a Dio. Non sono né divini né eterni, ma umani e passeggeri; sono come il ricino di Giona, che crebbe in una notte e in una notte seccò. La fede non è così: è un principio che partecipa a tutto il valore, la potenza e la realtà della sorgente da cui emana. Per fede, l’uomo è giustificato (Romani 5:1); essa purifica il cuore (Atti 15:9), opera per mezzo dell’amore (Galati 5:6), vince il mondo (1 Giovanni 5:4). Il sentimento appartiene alla natura e alla terra, si occupa dell’io e delle cose di quaggiù; la fede si occupa di Cristo e porta gli sguardi sulle cose del cielo. Il sentimento lascia l’anima nell’oscurità e nel dubbio, e la tiene occupata nelle sollecitudini terrene; la fede introduce l’anima nella luce e nel riposo, e le fa conoscere la verità immutabile di Dio e del sacrificio di Cristo.

La fede produce dei sentimenti spirituali e dei buoni pensieri, ma non bisogna mai confondere i frutti della fede con la fede stessa. Io non sono giustificato per mezzo dei miei sentimenti e nemmeno per la fede e i sentimenti insieme, ma unicamente per la fede. La fede crede a quello che Dio dice e lo accetta Egli come si è rivelato nella persona e nell’opera del Signore Gesù Cristo. In questo sta la vita, la giustizia e la pace; conoscere Dio quale Egli è, è la somma di ogni felicità presente ed eterna.

Possiamo comprendere bene la forza e il significato di queste parole: «Per fede Abele offrì un sacrificio più eccellente di quello di Caino». Abele aveva la fede, perciò sacrificò «il sangue e il grasso»; il sangue rappresentava la vita; il grasso l’eccellenza della vittima; tutto questo raffigura il sacrificio di Cristo. La legge mosaica proibiva di mangiare il sangue e il grasso, perché il sangue è la vita; tuttavia il cap. 6 del vangelo di Giovanni ci insegna che, se non “beviamo” il sangue del Figliuolo dell’uomo, non abbiamo la vita.

Cristo è la vita; al di fuori di Lui tutto è morte. In Lui «era la vita» (Giovanni 1:4) e in nessun altro. Alla croce, Egli diede la Sua vita; sulla Sua Persona, sulla Sua “vita” fu caricato il peccato dell’umanità. Morendo Egli ha tolto il peccato; l’ha lasciato nella tomba da cui però è uscito trionfante, nella potenza d’una nuova vita. «La vita della carne è nel sangue. Per questo vi ho ordinato di porlo sull’altare per fare l’espiazione per le vostre persone» (Levitico 17:11).

Tutto questo merita la nostra più seria attenzione, e rafforza nelle nostre anime la consapevolezza che la morte di Cristo ha perfettamente e completamente tolto il peccato. Tutto quello che rende più profonda la coscienza di questa gloriosa realtà, accresce la nostra pace e ci permette di riflettere più efficacemente la gloria di Cristo nella nostra testimonianza e nel nostro servizio.

4.7 Il valore del sacrificio stesso [identificazione del uomo con la sua offerta]

La storia di Caino e di Abele mette in rilievo un punto molto importante, che abbiamo già toccato prima, cioè l’identificazione di questi due uomini con l’offerta che presentano. Per l’uno come per l’altro, è considerato il carattere dell’offerta, e non la persona dell’offerente: perciò leggiamo che Dio rese testimonianza all’offerta di Abele. Dio non rese testimonianza ad Abele, ma al sacrificio che offrì; e per mezzo di questo sacrificio Abele ricevette la testimonianza di essere giusto (Ebrei 11:4).

Questo dimostra chiaramente qual è il vero fondamento della pace del credente e della sua accettazione davanti a Dio. Vi è nel nostro cuore una tendenza continua a fare dipendere la nostra pace e la nostra accettazione da qualche cosa che è in noi o che viene da noi, benché ammettiamo che questo «qualche cosa» sia un frutto dello Spirito Santo. Da questo deriva il nostro continuo guardare in noi, mentre lo Spirito Santo vorrebbe sempre farci guardare fuori di noi. La posizione del credente non dipende da ciò che egli è, ma da ciò che Cristo è.

Povero indegno peccatore quanto a se stesso, il credente si è avvicinato a Dio nel nome di Cristo: è identificato con Lui, accettato in Lui e associato a Lui nella sua vita. Dio rende testimonianza non al credente, ma a Cristo. Che pace, che perfetta consolazione! Possiamo gloriarci in Lui continuamente. Non abbiamo nessuna fiducia in noi stessi; attacchiamoci al Suo Nome, confidiamo nella Sua opera, contempliamo la Sua persona e aspettiamo la Sua venuta.

4.8 L’omicida

«Caino ne fu molto irritato, e il suo viso era abbattuto» (v. 5). Ciò che riempie Abele di pace, riempie Caino di sdegno. Essendo incredulo, egli disprezza il solo mezzo per il quale un peccatore può avvicinarsi a Dio. Invece di offrire il sangue, senza il quale non vi è perdono, offre a Dio il frutto delle sue opere; non vedendosi gradito, mentre Abele è ricevuto grazie alla sua offerta, «ne fu molto irritato». D’altra parte, Dio non poteva riceverlo con i suoi peccati, e non volendo egli portare a Lui il sangue, che solo poteva fare l’espiazione, viene respinto. Allora perseguita ed uccide il testimone fedele, l’uomo gradito e giustificato, l’uomo di fede, e diventa così il precursore di tutti quelli che, in ogni tempo, hanno fatto una falsa professione di pietà.

In ogni tempo e in ogni luogo l’uomo si è dimostrato propenso a perseguitare il suo prossimo per motivi religiosi più che per ogni altra ragione. La giustificazione piena, perfetta, senza riserva, che si ha per mezzo della sola fede, non lascia alcun merito all’uomo; e all’uomo non piace essere considerato una nullità: questo lo irrita. Se Dio avesse gradito Abele per qualche pregio riferito alla sua persona, Caino avrebbe avuto ragione di irritarsi ed essere sdegnato.

Abele, invece, fu preferito a causa della sua offerta: la collera di Caino, perciò, era priva di fondamento. È quello che dice il Signore a Caino: «Se agisci bene, non rialzerai il volto?» (v. 7). Questo «se agisci bene» si riferiva all’offerta. Abele aveva fatto bene, poiché aveva presentato un’offerta gradita a Dio; Caino aveva agito male offrendo un sacrificio non cruento; e il suo comportamento successivo non fu che la conseguenza naturale di un falso culto.

«Un giorno Caino parlava con suo fratello Abele e, trovandosi nei campi, Caino si avventò contro Abele, suo fratello, e l’uccise» (v. 8). In ogni tempo i Caino hanno perseguitato e ucciso gli Abele. In tutte le età, l’uomo e la sua religione sono rimasti  gli stessi, come pure la fede e la religione della fede. Dovunque la religione dell’uomo e la religione della fede si incontrano, vi è lotta. Il crimine di Caino non era che la conseguenza naturale del suo falso culto: il fondamento di quel culto era malvagio, e lo era anche tutto ciò che vi si costruiva sopra. Caino non si fermò all’omicidio di Abele; avendo udito il giudizio di Dio, disperando di essere perdonato, perché non conosceva Dio, «si allontanò dalla presenza del SIGNORE » (v. 16).

4.9 Caino e la sua discendenza

Caino edificò una città e diede origine a una famiglia in cui si coltivavano le arti e le scienze: agricoltori, musicisti, lavoratori di metalli. Non conoscendo il carattere di Dio, Caino giudicava che il suo peccato fosse troppo grave per essere perdonato; non che ne comprendesse veramente la gravità: non conosceva Dio!

Il concetto che Caino si era fatto di Dio è uno dei frutti peggiori della caduta. Egli non si preoccupa di essere perdonato, perché non si preoccupa di Dio. Non capisce la sua condizione e non desidera avere a che fare con Dio, perché non ha nessuna coscienza del principio in virtù del quale un peccatore può avvicinarsi a Lui. È radicalmente corrotto, fondamentalmente malvagio. Desidera solo allontanarsi dalla presenza del Signore ed affermarsi nel mondo e nelle sue imprese. Pensa di poter vivere benissimo senza Dio, perciò si accinge ad abbellire il mondo meglio che può, per stabilirvisi onorabilmente e rendersi rispettabile, benché agli occhi di Dio sia maledetto, fuggiasco e vagabondo.

Questa è «la via di Caino» (Giuda 11): quella via larga per la quale migliaia di persone si incamminano ancora oggi. Non voglio dire che tutte queste persone siano sprovviste di ogni sentimento religioso; anzi, credono sia giusto presentare a Dio il frutto del loro lavoro, ma non conoscono né loro stessi né Dio. Alcuni fanno sforzi encomiabili per migliorare il mondo e rendere la vita piacevole. Il mezzo di purificazione preparato da Dio, però, è rigettato e lo sforzo dell’uomo per migliorare il mondo lo sostituisce. Questa è veramente «la via di Caino» (vedi Giuda 11).

Come ai giorni di Caino i suoni degli strumenti musicali impedivano che il grido del sangue di Abele arrivasse all’orecchio all’uomo, nello stesso modo oggi altri suoni incantatori soffocano la voce del sangue versato al Calvario e altre cose, non certamente un Cristo crocifisso, attirano gli sguardi. L’uomo impegna tutte le risorse del suo genio per fare di questo mondo una serra, nella quale si sviluppino tutti i frutti che la carne desidera. A questo aggiunge molta esteriorità religiosa, poiché si è costretti a riconoscere che gran parte di ciò che va sotto il nome di religione, non è che uno degli elementi della grande macchina che è stata costruita per la comodità e l’esaltazione dell’uomo. A molti uomini non piace essere senza religione; non sarebbe onorevole, e perciò consacrano alla religione un giorno alla settimana, o almeno alcune ore. Tuttavia, che lavorino per il tempo o per l’eternità, in realtà lavorano sempre per se stessi.

Attenzione dunque alla «via di Caino». Pensateci e vedrete dove inizia, dove tende, dove finisce questa strada e quanto è diversa dalla via dell’uomo di fede! Abele sente e riconosce la maledizione, vede la contaminazione del peccato e, nell’energia della fede, offre un sacrificio che risponde perfettamente alle esigenze di Dio. Egli cerca e trova un rifugio solo in Dio, perché la terra a lui non riserva che un sepolcro. La terra che, in apparenza, esprimeva tutta l’inventiva e l’energia di Caino e della sua famiglia, era contaminata dal sangue d’un giusto.

L’uomo del mondo, il cristiano mondano e anche l’uomo di Dio dovrebbero ricordare sempre che la terra sulla quale vivono è macchiata dal sangue del Figlio di Dio! Questo sangue rende giusta la Chiesa, ma condanna il mondo; solo l’occhio della fede scorge, sotto le belle apparenze e lo splendore di questo mondo effimero, le tetre ombre della croce di Cristo. «La figura di questo mondo passa» (1 Corinzi 7:31): la via di Caino, infatti, sarà seguita «dai traviamenti di Balaam», nella loro espressione più completa, poi verrà «la ribellione di Core» e, dopo, l’abisso aprirà le sue porte per ricevere i malvagi e rinchiuderli per sempre nell’«oscurità delle tenebre in eterno» (Giuda 11-13).

5. Capitolo 5: Le generazioni di Set a Noè

5.1 La vita e la morte — la morte e la vita

A conferma di ciò che abbiamo detto prima, diamo uno sguardo al contenuto del cap. 5 che ci trasmette l’umiliante testimonianza della debolezza umana e del suo assoggettamento al potere della morte. L’uomo infatti può vivere per secoli e generare figli e figlie… alla fine, tuttavia, si legge di lui: «poi morì». «La morte regnò, da Adamo fino a Mosè». «È stabilito che gli uomini muoiano una volta sola» (Romani 5:14; Ebrei 9:27).

L’uomo non può sfuggire alla morte. Potrà aumentare e propagare il benessere e i piaceri della vita, ma tutta la sua energia non riuscirà ad annullare la sentenza di morte.

Da dove, dunque, è venuta la morte, questa cosa strana e spaventosa? L’apostolo Paolo ce lo insegna: «Per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato la morte» (Romani 5:12). Il peccato ha rotto il legame che univa l’uomo al Dio vivente, e ha sottoposto l’uomo al potere ineluttabile della morte. Non vi può essere comunione fra Dio e l’uomo, se non nella potenza della vita. Purtroppo, l’uomo è sotto la potenza della morte e, nel suo stato naturale, non può avere alcuna comunione con Dio. La vita non può avere comunione con la morte né la luce con le tenebre o la santità di Dio col peccato.

È necessario che l’uomo si avvicini a Dio su un fondamento del tutto nuovo: il fondamento della fede. Essa lo rende capace di riconoscere la sua posizione di uomo «venduto al peccato» e sottoposto alla morte, e gli fa conoscere, nello stesso tempo, Dio come dispensatore d’una vita nuova. Questa vita non è sottoposta alla potenza della morte e del Nemico, e chi ce l’ha non la può perdere. È questo che dà piena sicurezza al credente: Cristo è la vita, Cristo risorto e glorificato, Cristo vincitore di tutte le potenze del male. La vita di Adamo dipendeva dalla sua ubbidienza: perciò, disubbidendo, la perse.

Cristo, invece, avendo la vita in Se stesso, scese quaggiù e pagò, con la Sua morte, per tutte le conseguenze del peccato dell’uomo. Egli distrusse, in questo modo, colui che teneva l’uomo schiavo col terrore della morte, acquistando, con la Sua risurrezione, vita e giustizia per tutti quelli che credono nel Suo Nome. D’ora innanzi, Satana non può toccare questa vita né nella sua sorgente né nel suo canale, nella sua potenza, né nella sua sfera, né nella sua durata: Dio ne è la sorgente, Cristo risuscitato il canale, lo Spirito Santo la potenza, il cielo la sfera, l’eternità la durata.

Tutto è cambiato per chi possiede questa vita meravigliosa. Là dove il Cristo risuscitato introduce il Suo popolo, la morte non esiste più: Egli l’ha abolita! La Parola di Dio lo dichiara. Cristo ha fatto sparire la morte dalla scena e vi ha introdotto la vita; non è dunque la morte che il credente ha davanti a sé, ma la gloria. Può darsi che il credente muoia, o meglio si addormenti; ma addormentarsi in Gesù non è la morte, è la vita nella sua realtà. L’eventualità di lasciare questo mondo per essere con Cristo non cancella la speranza del credente, che è quella di essere rapito prima di morire per incontrare il Signore nell’aria, ed essere sempre con Lui e come Lui.

5.2 Enoc

Solo Enoc fa eccezione alla regola generale del cap. 5: «poi morì». Infatti «Egli non passò per la morte»: ecco l’eccezione. «Per fede Enoc fu rapito perché non vedesse la morte; e non fu più trovato, perché Dio lo aveva portato via; infatti prima che fosse portato via ebbe la testimonianza di essere stato gradito a Dio» (Ebrei 11:5). Enoc era il «settimo dopo Adamo» (Giuda 14) e Dio non permise che la morte riportasse la vittoria sul «settimo uomo»; così intervenne e fece di lui il trofeo della Sua gloriosa vittoria sulla potenza della morte.

È un fatto davvero interessante. Dopo aver udito per sei volte la sentenza «poi morì», il cuore si rallegra nel trovare un uomo che sopravvisse. E come scampò alla morte? Per fede. «Enoc camminò con Dio trecento anni» (5:22); la fede lo separava da tutto ciò che lo circondava: infatti, camminare con Dio porta necessariamente fuori dalla sfera e dai pensieri di questo mondo. Già allora, come ai giorni nostri, lo spirito del mondo era opposto a Dio. L’uomo di fede sentiva che non aveva nulla a che fare col mondo, nel quale non era che un testimone della grazia di Dio e del giudizio futuro. I  figli di Caino potevano adoperare la loro intelligenza e spendere la loro forza nella vana speranza di migliorare un mondo malvagio; Enoc aveva trovato un mondo migliore e viveva nella potenza di quel mondo futuro. Non aveva ricevuto la fede per migliorare il mondo, ma per camminare con Dio.

«Enoc camminò con Dio»! Quante cose implicano queste quattro parole!

È evidente che Enoc non conosceva il sistema, così comune purtroppo, di trarre il maggior profitto possibile dai due mondi, quello terreno e quello celeste. Per lui non v’era che un mondo: il cielo. Dovrebbe essere così anche per noi! «Camminare con Dio»… che separazione e che rinuncia implica! Quale santità e purezza morale! Quanta grazia e dolcezza! Che umiltà e quale tenerezza, ma anche quanto zelo ed energia! E, nello stesso tempo, che fedeltà, fermezza e decisione!

Camminare con Dio non vuol dire soltanto camminare secondo certe regole o fare dei piani e prendere la decisione d’andare qua o là, di fare questo o quello; camminare con Dio vuol dire infinitamente più di tutto ciò: vuol dire imparare a conoscere il Suo carattere, come ci è stato rivelato, e comprendere la relazione nella quale viviamo con Lui. Questa vita ci condurrà, talvolta, proprio all’opposto dei pensieri degli uomini e anche di quelli dei nostri fratelli, se questi non camminano con Dio, e potrà sollevare contro noi l’opposizione di tutti. Saremo accusati di fare troppo o troppo poco: tuttavia, la fede,  che rende capaci di camminare con Dio, insegna anche a non dare ai pensieri degli uomini più valore di quanto ne abbiano.

La vita di Abele ci fornisce un prezioso insegnamento riguardo al sacrificio sul quale si fonda la fede, ed alla prospettiva che la speranza anticipa; camminare con Dio ci fa conoscere tutti i dettagli di una vita di fede. «Il SIGNORE concederà grazia e gloria»; e, fra la grazia che è stata rivelata e la gloria che verrà, vi è la beata certezza che «Egli non rifiuterà di far del bene a quelli che camminano rettamente» (Salmo 84:11).

La croce e il ritorno del Signore sono i due punti estremi dell’esistenza della Chiesa in questo mondo. Questi due punti sono raffigurati nel sacrificio di Abele e nel «rapimento» di Enoc. La Chiesa sa di essere perfettamente giustificata, per mezzo della morte e della risurrezione di Cristo, e vive nell’attesa del giorno in cui Egli verrà per prenderla presso di Sé. «È in Spirito, per fede, che aspettiamo la speranza della giustizia» (Gal. 5:5). La Chiesa non aspetta la giustizia poiché, per grazia, la possiede già, ma vive nella speranza del ritorno di Cristo che rapirà la Sua Chiesa. È importante avere ben chiaro questo concetto.

Alcuni interpreti della verità profetica sono caduti in gravi errori, per non aver compreso quali siano la posizione, la parte e la speranza della Chiesa. Hanno circondato «la lucente stella del mattino» (Apocalisse 22:16), che è la speranza della Chiesa, di tanta oscurità e di nubi così fitte, che molti credenti sembrano incapaci di elevarsi al di sopra della speranza d’un pio residuo d’Israele, che consiste nel vedere levarsi il sole della giustizia che porta «la guarigione nelle sue ali» (Malachia 4:2).

E non è tutto: molti credenti hanno perso la forza morale della speranza dell’apparizione di Cristo, per essere stati ammaestrati ad aspettare diversi avvenimenti prima della manifestazione di Cristo alla Chiesa; si è loro insegnato, contrariamente alle numerose ed esplicite dichiarazioni del Nuovo Testamento, che il ristabilimento dei Giudei, la sequenza degli avvenimenti rappresentati dalla statua di Nabucodonosor (Daniele 2) e la rivelazione dell’«uomo del peccato» (2 Tessalonicesi 2:3) debbono precedere il ritorno di Cristo per la Chiesa. No; la Chiesa, come Enoc, sarà tolta dalla presenza del male che la circonda e da quello a venire. Enoc non fu lasciato sulla terra per vedere l’apogeo del male e il giudizio che doveva cadere su di essa. Egli non vide il diluvio, non vide «tutte le fonti del grande abisso» scoppiare e «le cateratte del cielo» aprirsi (Genesi 7:11); fu portato via prima di questi terribili avvenimenti; e per l’occhio della fede, egli è così un tipo ammirevole di quelli che non s’addormenteranno ma che saranno «trasformati, in un momento, in un batter d’occhio» (1 Corinzi 15:51-52). Enoc non è passato per la morte, ma è stato trasformato; e la Chiesa è chiamata ad «aspettare dai cieli il Figlio» di Dio (1 Tessalonicesi 1:10). Questa è la sua speranza, l’oggetto della sua attesa.

Il credente più semplice, il meno istruito, può comprendere queste cose e goderne; può, in una certa misura, realizzarne la potenza. Se non può fare uno studio approfondito della profezia, può, Dio ne sia benedetto, gustare la felicità, la realtà, la potenza e la virtù santificante di questa speranza celeste che gli appartiene di diritto, come membro della Chiesa. La speranza di cui gode non si limita all’attesa di veder sorgere «il sole di giustizia», per quanto buona possa essere questa speranza, ma aspira a veder brillare «la stella del mattino» (Apocalisse 2:28). E, come nel mondo fisico la stella mattutina appare prima del levarsi del sole, nello stesso modo Cristo apparirà alla Chiesa, prima che il residuo fedele d’Israele contempli i raggi del Sole di giustizia.

6. Capitoli da 6 a 9: Il diluvio

6.1 L’unione di ciò che è santo con ciò che è profano

Siamo giunti ora ad una delle parti più interessanti della Genesi. Enoc è sparito dalla scena: la sua vita di straniero e pellegrino sulla terra si è conclusa; è stato portato via prima che il male giungesse al colmo e il giudizio di Dio cadesse sugli abitanti della terra.

I due primi versetti del cap. 6 ci rivelano la poca influenza che avevano esercitato sul mondo la vita e il rapimento di Enoc. «Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla faccia della terra e furono loro nate delle figlie, avvenne che i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e presero per mogli quelle che si scelsero fra tutte» (6:1-2).

La mescolanza del divino con il profano è una forma speciale di male; anche oggi è un potente mezzo nelle mani del nemico per guastare la testimonianza di Cristo sulla terra. Essa riveste, di solito, una bella apparenza; ma non possiamo pensare che sia un guadagno per i figli di Dio il mescolarsi con i figli del mondo, o corrompere la verità di Dio con alleanze umane. Non è questo il mezzo di cui Dio si serve per diffondere la verità, o per favorire gli interessi di quelli che sono, sulla terra, i testimoni di Dio. Il principio di Dio è la separazione dal male e, se lo si infrange, la verità ne subisce un grave danno.

Il passo della Scrittura di cui ci occupiamo ci mostra le disastrose conseguenze provocate dall’unione dei figli di Dio con le figlie degli uomini.

A prima vista, il frutto di questa unione era molto bello, poiché leggiamo al v. 4: «Sono gli uomini potenti che, fin dai tempi antichi, sono stati famosi». Ma Dio giudica diversamente: non giudica come l’uomo e i Suoi pensieri non sono i nostri. «Il SIGNORE vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo» (v. 5). Questa è la condizione dell’uomo davanti a Dio: non è che male «in ogni tempo» e l’unione di ciò che è santo con ciò che è profano non condurrà mai ad altro risultato. Se i figli di Dio non si conservano puri, tutto è perduto, per quel che riguarda la testimonianza sulla terra.

È della massima importanza che comprendiamo bene lo scopo, il carattere e il risultato di questa unione fra i figli di Dio e le figlie degli uomini. Ai giorni nostri, vi è grande pericolo di compromettere la verità per amore di unione, ma non si ottiene mai una vera unione a spese della verità. Mantenere la verità ad ogni costo dev’essere la priorità del cristiano. Se, su questa base, potete promuovere l’unione, va benissimo, ma anzitutto mantenete la Verità. Chi aspira soprattutto alle fusioni sostiene invece: «Promuovete l’unione ad ogni costo; se potete mantenere la verità, tanto meglio». Non dovremmo mai dimenticare che «la saggezza che viene dall’alto, anzitutto è pura; poi pacifica» (Giacomo 3:17). La sapienza terrena, invece, vorrebbe essere prima pacifica e perciò non potrà mai essere pura.

Non vi è vera testimonianza se la verità è compromessa: così vediamo che nel mondo antidiluviano, l’unione impura di ciò che era santo con ciò che era profano, di ciò che era divino con ciò che era umano, ebbe per unico effetto di portare il male al  culmine, e il giudizio di Dio cadde sul mondo. «E il SIGNORE disse: “Io sterminerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato”» (v. 7)! Nientemeno che la distruzione di tutto ciò che aveva corrotto la via di Dio sulla terra, è stata necessaria. «Nei miei decreti, la fine di ogni essere vivente è giunta» (v. 13). Dio non parla solo d’una parte, ma di ogni essere vivente, poiché tutto era interamente corrotto, tutto irrimediabilmente cattivo. Allora Dio fa conoscere a Noè il mezzo di salvezza che Egli aveva preparato per lui: «Fatti un’arca di legno di gofer» (v. 14).

6.2 Noè trova grazia agli occhi dell’Eterno

Noè diventa il depositario dei pensieri di Dio sul futuro della terra. La parola dell’Eterno aveva l’effetto di mettere a nudo la realtà delle cose sulle quali lo sguardo dell’uomo poteva posarsi con soddisfazione. Il cuore dell’uomo poteva gonfiarsi d’orgoglio e palpitare d’emozione, mentre l’occhio si compiaceva ammirando la brillante schiera degli «uomini potenti» e «famosi» (v. 4)! Il suono dell’arpa e del flauto poteva produrre un fremito nell’anima, mentre l’agricoltura provvedeva in abbondanza a tutti i bisogni della vita: tutto sembrava escludere il pensiero di un prossimo giudizio. Ma Dio dice: «Io li distruggerò» (v. 13), e queste solenni parole proiettano un’ombra lugubre su tutta la scena.

Il genio dell’uomo troverà forse un mezzo per sfuggire al giudizio? Gli uomini «potenti», i giganti, si libereranno con la loro grande forza? Purtroppo, non vi è che un solo modo di scampare, e questo modo è rivelato alla fede e non alla vista, alla ragione o all’immaginazione. «Per fede Noè, divinamente avvertito di cose che non si vedevano ancora, con pio timore, costruì un’arca per la salvezza della sua famiglia; con la sua fede condannò il mondo e fu fatto erede della giustizia che si ha per mezzo della fede» (Ebrei 11:7).

Solo la fede ascolta l’avvertimento di Dio quando le cose che Egli annuncia «non si vedono ancora». La natura umana è attratta da ciò che vede, da ciò che si apprezza per mezzo dei sensi. La fede invece è diretta solo dalla Parola di Dio, tesoro inestimabile in un mondo di tenebre. È la fede in questa Parola che dà costanza al credente, qualunque sia lo stato delle cose che lo circondano.

6.3 Fede nella parola di Dio

Quando Dio parlò a Noè di un giudizio, nessun segno lo preannunciava. Il giudizio faceva parte di quelle «cose che non si vedevano ancora» (Ebrei 11:7); ma la parola di Dio lo fece diventare reale per il cuore di chi la riceveva con fede. La fede non aspetta di vedere per credere, perché «la fede viene da ciò che si ascolta e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo» (Romani 10:17). Tutto ciò che è necessario all’uomo di fede è sapere che Dio ha parlato. Il «così ha detto il Signore» è sufficiente per comunicare all’anima una perfetta certezza. La Scrittura basta per rispondere a tutti i ragionamenti e a tutte le fantasie dello spirito umano; se le convinzioni sono fondate sulla Parola di Dio, il credente può resistere contro la fiumana delle opinioni, dei giudizi e dei pregiudizi umani.

La Parola di Dio sostenne Noè durante tutto il tempo del suo lungo servizio; ed è per mezzo di questa stessa Parola che migliaia di credenti hanno resistito, dai giorni di Noè fino ad ora,  all’opposizione del mondo. Con la Parola di Dio tutto è pace e luce. Dovunque risplende, traccia all’uomo di Dio un sentiero sicuro e benedetto, ma se non brilla l’uomo erra senza guida nel labirinto delle tradizioni umane. Come avrebbe potuto Noè predicare la giustizia per centovent’anni, se la Parola di Dio non fosse stato il fondamento della sua predicazione? Come avrebbe potuto resistere agli scherni e al disprezzo di un mondo empio e insistere nel proclamare un «giudizio futuro» quando nessuna nube appariva all’orizzonte? La Parola di Dio era il fondamento sul quale si appoggiava, e «lo Spirito di Gesù Cristo» (Filippesi 1:19, 1 Pietro 18:20) lo rendeva irremovibile.

E noi, caro lettore, cosa possediamo per rimanere fermi nel nostro servizio per Cristo negli attuali giorni malvagi? Abbiamo la Parola di Dio e lo Spirito Santo per mezzo del quale la Scrittura può essere compresa, applicata e messa in pratica; è quanto serve a ognuno di noi per essere «completo e ben preparato per ogni buona opera» (2 Timoteo 3:16-17). Che riposo per il cuore! Che liberazione da tutti gli inganni del diavolo e delle fantasie umane! Al loro posto, resta la Parola di Dio, pura, incorruttibile, eterna. Ringraziamo Dio per questo tesoro inestimabile! «Il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo» (6:5), ma Noè trovava il rifugio e il perfetto riposo del suo cuore nella Parola di Dio.

6.4 Il modo della salvezza

«E Dio disse a Noè: “La fine di ogni essere vivente è giunta… Fatti un’arca di legno di gofer”» (v. 14). Queste parole ci mostrano, da una parte, lo stato di rovina dell’uomo, e dall’altra il mezzo di salvezza escogitato da Dio. Dio aveva permesso che l’uomo proseguisse per la propria strada fino all’estremo limite. Il lievito aveva lavorato e aveva fatto lievitare tutta la pasta: il male aveva raggiunto il suo apogeo. La corruzione era giunta al massimo, di modo che non rimaneva altra risorsa per Dio che distruggere «ogni essere vivente» e, nello stesso tempo, salvare tutti quelli che, secondo i Suoi consigli eterni erano uniti a Noè, il solo uomo giusto esistente allora.

Questo fa risaltare in modo sorprendente la dottrina della croce: da una parte, il giudizio di Dio sulla natura umana e la sua malvagità; dall’altra, la rivelazione della grazia salvifica in tutta la sua pienezza. Come profetizzerà Zaccaria, padre di Giovanni il battista, «l’Aurora dall’alto ci ha visitato» (Luca 1:78). E dove? Proprio dove ci trovavamo come peccatori. Dio, in Cristo, è «disceso nelle parti più basse della terra» (Efesini 4:9). La luce dell’Aurora è penetrata fin nelle profondità tenebrose del peccato manifestando il nostro vero carattere, poiché la luce rivela tutto ciò che è nell’oscurità ma, mentre giudica il male, ci fa anche conoscere la salvezza e il perdono dei peccati.

La croce, rivelando il giudizio di Dio sopra «ogni essere vivente», fa conoscere anche la salvezza del peccatore colpevole e perduto. Il peccato è giudicato, il peccatore completamente salvato e Dio perfettamente rivelato e glorificato alla croce.

Se il lettore apre la 1ª Lettera di Pietro vi troverà degli insegnamenti preziosi su questo soggetto. Al cap. 3:18-22, leggiamo: «Anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati, lui giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio. Fu messo a morte quanto alla carne, ma reso vivente quanto allo spirito. E in esso andò anche a predicare agli spiriti trattenuti in carcere, che una volta furono ribelli, quando la pazienza di Dio aspettava, al tempo di Noè, mentre si preparava l’arca, nella quale poche anime, cioè otto, furono salvate attraverso l’acqua. Quest’acqua era figura del battesimo (che non è eliminazione di sporcizia dal corpo, ma la richiesta di una buona coscienza verso Dio). Esso ora salva anche voi, mediante la risurrezione di Gesù Cristo, che, asceso al cielo, sta alla destra di Dio, dove angeli, principati e potenze gli sono sottoposti» (*).

Questo passo è della massima importanza e illustra bene la dottrina dell’arca e la sua relazione con la morte di Cristo. Come durante il diluvio tutte le onde e i flutti del giudizio di Dio caddero sull’arca, così il giudizio cadde su Cristo che era senza peccato. Il creato fu sommerso dai flutti della giusta ira di Dio, e lo Spirito di Cristo grida nel Salmo 42:7: «Tutte le tue onde e i tuoi flutti sono passati su di me»; di conseguenza nessuna di queste onde passerà su chi crede. Al Calvario, vediamo veramente che «le fonti del grande abisso eruppero e le cateratte del cielo si aprirono» (7:11). «Un abisso chiama un altro abisso al fragore delle tue cascate» (Salmo 42:7). Cristo subì la collera di Dio contro al peccato in un modo perfetto. Prese su di Sé tutta la responsabilità del Suo popolo e soddisfece completamente le esigenze della giustizia di Dio.

L’anima del fedele trova qui una pace sicura poiché, se il Signore Gesù ha affrontato tutto quello che poteva condannarci, se ha abbattuto tutti gli ostacoli, noi godiamo d’una pace perfetta. È al credente che appartengono la completa felicità e la certezza dell’amore e della giustizia di Dio, in virtù dell’opera perfetta compiuta da Cristo.

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(*) Non si apprezzerà mai abbastanza la saggezza con la quale lo Spirito Santo tratta l’ordinamento del battesimo nel passo citato più sopra. Sappiamo quale abuso si sia fatto del battesimo e quale falso posto quella istituzione occupi nel pensiero di molti; sappiamo che si è attribuita all’acqua del battesimo l’efficacia che appartiene solo al sangue di Cristo e alla grazia rigeneratrice dello Spirito Santo. Così non possiamo non essere colpiti dal modo in cui lo Spirito di Dio protegge questa verità, stabilendo che non si tratta della «eliminazione di sporcizia del corpo», bensì della «richiesta di una buona coscienza verso Dio»; richiesta in cui entriamo non per mezzo del battesimo, per quanto importante esso sia, ma «mediante la risurrezione di Gesù Cristo» (1 Pietro 3:20-21) «il quale è stato dato a causa delle nostre offese ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Romani 4:25). È superfluo dire che, come istituzione divina, e quando si lascia ad esso il posto che Dio gli ha assegnato, il battesimo è molto importante e profondamente significativo; ma quando si vede che gli uomini sostituiscono, in un modo o in un altro, la sostanza con l’immagine, siamo obbligati a denunciare l’opera di Satana.

6.5 Perfetta sicurezza nell’arca

Noè era forse spaventato dalle acque del giudizio di Dio? No di certo. L’arca galleggiava al di sopra dei flutti per i quali «ogni essere vivente» era perito. Dio stesso l’aveva messo al sicuro. Avrebbe potuto dire anche, come l’apostolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Romani 8:31). Dio stesso l’aveva invitato ad entrare nell’arca: «Entra nell’arca tu con tutta la tua famiglia» (7:1). Poi, quando vi ebbe preso posto, «il SIGNORE lo chiuse dentro» (v. 16).

L’arca era un rifugio sicuro per quelli che Dio aveva chiamato. L’Eterno faceva la guardia alla porta; senza di Lui nessuno poteva entrare né uscire. Vi erano una porta e una finestra nell’arca. Dio chiuse sicuramente la porta con la sua mano potente e lasciò a Noè l’uso della finestra, dalla quale ha potuto poi guardare in alto e vedere che il diluvio era passato. La famiglia salvata poteva guardare solo in su (6:16); Noè e i suoi non potevano vedere le acque del giudizio, né la morte, né la desolazione causata da esse. La salvezza di Dio, l’arca, era posta fra loro e tutte quelle cose. Non potevano guardare che in alto e vedere un cielo senza nuvole, dimora eterna di Colui che aveva condannato il mondo e aveva salvato loro.

Nulla esprime meglio la sicurezza perfetta di colui che crede in Cristo: «Il SIGNORE lo chiuse dentro». Chi potrebbe aprire quando Dio chiude? La famiglia di Noè godeva di una sicurezza perfetta, come Dio solo può dare. Nessuna potenza angelica, umana o satanica, avrebbe potuto forzare la porta dell’arca per farvi entrare le acque del giudizio. La porta era stata chiusa dalla stessa mano che aveva aperto «tutte le fonti del grande abisso e le cateratte del cielo» (v. 11).

Così leggiamo di Cristo che è colui che «ha la chiave di Davide, colui che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre» (Apocalisse 3:7), e che tiene «le chiavi della morte e dell’Ades» (il soggiorno dei morti) (Apocalisse 1:18). Nessuno può, senza di Lui, varcare le porte del sepolcro per entrare o uscire. «Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra» (Matteo 28:18); ed è «capo supremo alla Chiesa»; in Lui il credente è in perfetta sicurezza (Efesini 1:21).

Chi poteva toccare Noè? Quale onda poteva penetrare in quell’arca ricoperta di pece dentro e fuori? Ed ora, chi potrebbe toccare coloro che si sono, per fede, rifugiati al riparo della croce? Ogni nemico è stato vinto e ridotto al silenzio per sempre. La morte di Cristo ha risposto trionfalmente a tutte le difficoltà, mentre la Sua risurrezione è la prova della perfetta soddisfazione che Dio ha trovato in quest’opera. In virtù di questa, infatti, la giustizia di Dio può riceverci ed essere il fondamento della nostra fiducia per avvicinarci a Lui.

Essendo dunque «la porta» dell’arca saldamente chiusa dalla mano stessa di Dio, a noi non rimane che godere della «finestra», ossia camminare in una felice e santa comunione con Colui che ci ha salvati dall’ira a venire e ci ha fatti eredi della gloria che aspettiamo. L’apostolo Pietro parla di quelli che sono ciechi o miopi, perché hanno dimenticato la purificazione dei loro vecchi peccati (2 Pietro 1:9); è la situazione di quelli che trascurano di mantenere, attraverso la preghiera, una comunione costante con Colui che li ha messi al sicuro in Cristo per l’eternità.

6.6 Una porta chiusa

Prima di procedere nella storia di Noè, gettiamo uno sguardo non più su quelli che erano nell’arca, ma su quelli ai quali egli aveva, per lungo tempo, predicato la giustizia e che tuttavia erano rimasti fuori. Senza dubbio, più d’uno sguardo ansioso è stato rivolto a quel vascello man mano che s’innalzava con le acque, ma, ahimé, «la porta era chiusa». Il giorno della grazia era passato, il tempo della testimonianza finito! Quelli rimasti fuori dall’arca erano irrimediabilmente perduti.

La lunga pazienza di Dio, come la testimonianza del suo servitore, erano state disprezzate dagli uomini assorbiti dalle cose presenti: «si mangiava, si beveva, si prendeva moglie, si andava a marito, fino al giorno che Noè entrò nell’arca, e venne il diluvio che li fece perire tutti» (Luca 17:26-27).

Tutte queste cose non erano di per sé cattive, e il male non era in quelle azioni, ma in coloro che le facevano. Ognuna delle azioni citate poteva essere compiuta nel timore del Signore e alla gloria del Suo santo Nome, con fede. Purtroppo, la fede mancava e la Parola di Dio era stata rigettata. Dio parlava del giudizio e gli uomini non credevano; Dio parlava di peccato e di caduta e gli uomini non ne erano convinti; Dio parlava di salvezza, ma essi non vi facevano caso e proseguivano i loro piani e le loro speculazioni, senza curarsi di Lui. Agivano come se la terra appartenesse a loro per contratto perpetuo, dimenticando che il contratto conteneva una clausola restrittiva: «fino al giorno che…» (Luca 17:27).

Dio era escluso. «Il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo» (6:5), perciò erano incapaci di fare il bene.

6.7 Così sarà alla venuta del Figlio dell’uomo

Ricordiamoci le parole del Signore Gesù: «Come avvenne ai giorni di Noè, così pure avverrà ai giorni del Figlio dell’uomo», oppure, come è detto in Matteo: «Alla venuta del Figlio dell’uomo» (Luca 17:26; Matteo 24:37). Alcuni sostengono che, prima dell’apparizione del Figlio dell’uomo sulle nuvole del cielo, la giustizia coprirà la terra da un polo all’altro, e quindi dovremmo aspettarci un regno di giustizia e di pace, prodotto dai grandi progressi dell’umanità; ma i brevi passi citati stroncano  tutte queste speranze vane e illusorie.

La giustizia non regnava sulla terra, ai giorni di Noè; la verità di Dio non era riconosciuta; gli uomini non ricercavano la conoscenza dell’Eterno. La Scrittura, anzi, afferma che «la terra era piena di violenza», che «era corrotta davanti a Dio» e che «tutti erano diventati corrotti sulla terra» (6:11-12). Sarà così anche alla venuta del Signore!

Non lasciamoci ingannare, ma studiamo con rispetto le Scritture; consideriamo quale fosse la condizione del mondo «nei giorni prima del diluvio» (Matteo 24:38) e ricordiamoci che com’era allora, così sarà la fine del periodo attuale. L’uomo, ai tempi di Noè, non pensava di fare del mondo un luogo degno di Dio, come sarebbe stato giusto. Nello stesso modo, ora l’uomo si impegna a migliorare la vita sulla terra e a renderla più facile, ma questo non corrisponde a «preparare nel deserto la via del SIGNORE» e appianare «nei luoghi aridi una strada per il nostro Dio»! «Allora la gloria del SIGNORE sarà rivelata, e tutti, allo stesso tempo, la vedranno» (Isaia 40:3-5).

La civilizzazione domina, ma non è la giustizia. Si lavora con lo scopo di far trovare «la casa spazzata e adorna» (Luca 11:24-25), ma per renderla adatta a ricevere l’Anticristo e non Cristo. L’uomo usa la propria sapienza per nascondere le macchie e le miserie dell’umanità, ma, per quanto nascoste, queste macchie non sono cancellate e ben presto riappariranno, più odiose che mai. Fra poco le dighe, con le quali l’uomo cerca  di arrestare il fiume della miseria umana, cederanno sotto la potenza schiacciante del male.

Dio ha detto: «Nei miei decreti, la fine di ogni essere vivente è giunta» (6:13); non giunta davanti all’uomo, ma davanti a Lui; e quantunque la voce degli schernitori si elevi per dire: «Dov’è la promessa della sua venuta? Perché dal giorno in cui i padri si sono addormentati, tutte le cose continuano nel medesimo stato come dal principio della creazione» (2 Pietro 3:4), s’avvicina rapidamente il momento in cui gli schernitori avranno la loro risposta: «Il giorno del Signore verrà come un ladro; in quel giorno i cieli passeranno stridendo, gli elementi infiammati si dissolveranno, la terra e le opere che sono in essa saranno bruciate» (2 Pietro 3:4-10).

I figli di Dio, sia benedetto il Suo nome, hanno una prospettiva ben diversa. Aspettano di andare incontro allo Sposo, nell’aria, prima che il male sia giunto al colmo e che il giudizio di Dio si compia. L’attesa della Chiesa non è di vedere il mondo distrutto dal fuoco, ma assistere al sorgere della «lucente stella del mattino» (Apocalisse 22:16).

6.8 Siate riconciliati con Dio

Da qualunque punto di vista consideriamo il futuro, la Chiesa nella gloria o il mondo nelle fiamme, la venuta dello Sposo o quella del ladro nella notte, la stella del mattino o il sole cocente del mezzogiorno, il rapimento della Chiesa o il giudizio, dobbiamo sentire quanto sia necessario che manteniamo la testimonianza di Dio, che vuol fare grazia ai peccatori. «Eccolo ora il tempo favorevole; eccolo ora il giorno della salvezza!»; «Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo» (2 Corinzi 6:2; 5:19).

Tutto è ancora grazia; adesso Dio perdona il peccato per mezzo della croce, allora lo punirà con le pene eterne. Dio, ancora adesso, annuncia un messaggio di grazia; parla ai peccatori della redenzione ottenuta per mezzo del prezioso sacrificio di Cristo e dichiara che tutto è compiuto; «La pazienza del nostro Signore è per la vostra salvezza»; «Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento» (2 Pietro 3:9-15). Tutto questo rende prezioso e solenne il tempo attuale! Da un lato è annunziata una grazia completa, ma dall’altra il giudizio è pronto ad essere eseguito!

Se Dio ci ha resi attenti a queste rivelazioni, dovremmo seguire con grande interesse lo sviluppo dei Suoi disegni. La Scrittura illumina tutte le cose: per mezzo di essa noi non consideriamo il succedersi degli avvenimenti con lo stupore di quelli che non sanno né dove siano né dove vadano; dovremmo conoscere la direzione verso cui tende l’umanità. Gli uomini sognano che «il giorno di domani sarà come questo, anzi sarà più grandioso ancora!» (Isaia 56:12). Ma quanto sono vani tutti questi pensieri, i sogni, le speranze! La fede vede, invece, accumularsi minacciose nubi all’orizzonte del mondo. Il giudizio si avvicina, la porta della grazia sta per chiudersi, «l’efficacia d’errore» (2 Tessalonicesi 2:11) sta per cominciare!

In vista di tutte queste cose, i credenti debbono avvertire gli uomini. Senza dubbio, come Acab diceva di Micaia (1 Re 22:18), il mondo ci accuserà di non profetizzare altro che del male… ma che importa? Ripetiamo ciò che dice la Parola di Dio e facciamolo con l’unico scopo di persuadere gli uomini (2 Corinzi 5:11). L’amore vero, l’amore di Dio, non grida: «Pace, pace! mentre pace non c’è» (Geremia 6:14; 8:11), non «intonaca il muro di malta che non regge» (Ezechiele 13:10). Dio vuole che il peccatore riposi in pace nell’arca dell’eterna sicurezza, godendo fin d’ora della Sua comunione nell’attesa di godere con Lui del riposo eterno, in una creazione rinnovata, quando la rovina, la desolazione e il giudizio saranno passati per sempre.

6.9 Le acque diminuiscono

Ritorniamo ora alla storia di Noè, e consideriamolo nella sua nuova posizione. L’abbiamo visto costruire l’arca e l’abbiamo visto nell’arca; ora lo vedremo uscire dall’arca e prendere il suo posto in un nuovo mondo. Ma prima vorrei trasmettere un pensiero che riguarda Enoc e Noè. Il primo fu preso da Dio, come abbiamo visto, prima del giudizio; mentre l’altro, pur essendo salvato, dovette attraversare il tempo del giudizio. Enoc è una bella figura della Chiesa, che sarà tolta prima che il male sia giunto al colmo e il giudizio di Dio cada sui malvagi; Noè è una figura del futuro residuo fedele di Israele che dovrà attraversare le acque profonde della tribolazione per essere portato al pieno godimento delle benedizioni millenarie, in virtù del patto eterno di Dio.

«E Dio si ricordò di Noè». Il diluvio era terminato. «E Dio fece passare un vento sulla terra e le acque si calmarono, le fonti dell’abisso e le cateratte del cielo furono chiuse, e cessò la pioggia dal cielo» (8:2). Allora, i raggi del sole incominciarono a vivificare un mondo che era stato battezzato (cioè immerso) nel giudizio, il quale è per Dio un’«opera singolare», un «lavoro inaudito» (Isaia 28:21). Perché, per quanto Dio si glorifichi anche per mezzo del giudizio, Egli non vi prende piacere ma preferisce sempre fare misericordia.

E accadde che «in capo a quaranta giorni, Noè aprì la finestra che aveva fatta nell’arca, e mandò fuori il corvo, il quale uscì, andando e tornando, finché le acque furono prosciugate sulla terra» (v. 6-7). L’uccello impuro fuggì, trovando probabilmente appoggio e cibo su qualche cadavere galleggiante, e non ritornò più nell’arca. Invece «la colomba non trovò dove posare la pianta del suo piede, e tornò a lui nell’arca, perché c’erano le acque sulla superficie di tutta la terra… poi mandò di nuovo la colomba fuori dell’arca. E la colomba tornò da lui verso sera; ed ecco, aveva nel becco una foglia fresca d’ulivo» (v. 8-11).

Non è forse questa una bella immagine dello spirito rinnovato che, in mezzo alle desolazioni da cui è circondato, cerca e trova il suo riposo in Cristo? E non solo questo, ma dimostra anche che il giudizio è passato e che una terra rinnovata incomincia ad apparire. Il cuore ammaestrato ed esercitato dallo spirito di Dio non può riposarsi e rallegrarsi se non in quello in cui Dio trova il Suo riposo e la Sua gioia «fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose» (Atti 3:21)

Adoperiamoci perché il Signore sia il riposo dei nostri cuori e cerchiamo sempre di trovare le nostre soddisfazioni in Cristo, fino al tempo della Sua esaltazione e della Sua gloria nei secoli a venire! Colui che deve venire «certamente verrà e non tarderà» (Abacuc 2:3). Dobbiamo avere solo un po’ di pazienza.

6.10 Noè esce dall’arca

«Dio parlò allora a Noè dicendo: Esci dall’arca». Il medesimo Dio che aveva detto: «Fatti un’arca» e «entra nell’arca», gli dice ora: «Esci dall’arca»; e «Noè uscì… costruì un altare al SIGNORE» (8:15-20), un altare edificato nel luogo in cui si era svolto il giudizio. L’ubbidienza della fede e il culto della fede vanno insieme. L’arca aveva portato Noè e la sua famiglia sani e salvi sulle acque del giudizio, e li aveva fatti passare dal vecchio al nuovo mondo; in questo ora Noè prende posto come adoratore (*). E, dobbiamo notarlo, è all’Eterno che edifica un altare. La superstizione avrebbe adorato l’arca, poiché quella era stata il mezzo della salvezza. Il cuore umano è portato a mettere gli oggetti al posto di Dio. Ma la fede di Noè si elevava dall’arca al Dio dell’arca. 

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(*) È interessante considerare ancora il soggetto dell’arca e del diluvio in rapporto col battesimo. Il battesimo è paragonato ad un passaggio dal vecchio al nuovo mondo, in spirito, in principio e per la fede. Il vecchio uomo è stato sepolto sotto le acque e non ha nulla della nuova natura; la carne, con tutto ciò che dipende da essa (i peccati, le iniquità, le sue responsabilità) è come rinchiusa nel sepolcro con Cristo e non può mai più ricomparire agli occhi di Dio. Ma, come Cristo risuscitò dai morti nella potenza di una nuova vita, avendo cancellato i nostri peccati, così l’uomo battezzato esce dall’acqua proclamando che, per la grazia di Dio e per la morte di Cristo, è entrato nel pieno possesso di una nuova vita alla quale la giustizia di Dio è inseparabilmente unita. «Siete stati con lui sepolti nel battesimo, nel quale siete anche stati risuscitati con lui mediante la fede nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti» (Colossesi 2:12 – vedi Romani 6 e Colossesi. 2 come pure 1 Pietro 3:18-22).

Tutto questo contiene un insegnamento molto semplice e molto pratico. Dal momento stesso in cui l’anima abbandona Dio, non farà che scivolare verso la più grossolana idolatria. Per la fede, uno strumento ha valore solo perché è il mezzo attraverso il quale Dio si fa conoscere all’anima in tutta la Sua potenza. Ma un oggetto non ha alcun valore, e se viene a insinuarsi, fosse anche in piccolissima misura, fra il cuore dell’adoratore e l’opera e la persona gloriosa di Cristo, esso cessa di essere uno strumento di Dio e diventa uno strumento di Satana.

Per la superstizione, ciò che si vede e si tocca è tutto, e Dio è escluso; il nome di Dio non serve che per esaltare la materia. In questo modo gl’Israeliti adorarono il serpente di rame, il quale certamente era stato un mezzo di benedizione; presto, però, divenne un oggetto di venerazione superstiziosa quando i loro cuori si allontanarono dall’Eterno. Fu necessario che Ezechia lo facesse a pezzi come un qualsiasi pezzo di rame. In sé quel serpente non era, appunto, che un pezzo di rame ma, come strumento di Dio, era stato un mezzo di grande benedizione. La fede lo riconosceva utile per lo scopo che la provvidenza di Dio gli aveva assegnato, ma la superstizione, perso di vista il disegno reale di Dio, si è fatto un dio dello strumento, che di per sé non aveva alcun valore (vedere 2 Re 18:4).

Mi sono dilungato più di quanto prevedessi su questa parte del nostro studio; la concluderò con un breve sguardo sul cap. 9.

Troviamo in esso il nuovo patto che Dio strinse con l’uomo dopo il diluvio, e anche il segno di questo nuovo patto. «Dio benedisse Noè e i suoi figli, e disse loro: “Crescete, moltiplicatevi e riempite la terra. Avranno timore e spavento di voi tutti gli animali della terra e tutti gli uccelli del cielo”» (9:1-2).

L’ordine dato da Dio all’uomo, al momento del suo ingresso nella terra rinnovata, era di riempire la terra, tutta la terra. La Sua volontà era che gli uomini si spargessero su tutta la superficie della terra, non che contassero sulle loro forze concentrate, come  invece avvenne (11:1-9).

Dopo il diluvio, ogni animale è sottoposto all’uomo e lo teme, poiché, da quel momento in poi, è al servizio dell’uomo.

6.11 L’arco di Dio nella nuvola

«Dio disse: “Ecco il segno del patto che io faccio tra me e voi e tutti gli esseri viventi che sono con voi, per tutte le generazioni avvenire. Io pongo il mio arco nella nuvola, e servirà di segno del patto fra me e la terra, … io mi ricorderò del mio patto» (v. 12-15).

Tutto il creato riposa sulla stabilità eterna del patto di Dio, rappresentato dall’arcobaleno; la sicurezza dell’uomo non dipende dalla sua memoria imperfetta, incerta, ma dalla memoria di Dio. «Io mi ricorderò» ha detto. Ci tranquillizza pensare alle cose che Dio vuole o non vuole ricordare; si ricorderà del Suo patto, ma non si ricorderà dei peccati del Suo popolo. La croce, che ratifica il primo, cancella gli altri. La fede, che ne afferra il valore, dà pace all’anima angosciata e alla coscienza turbata.

6.12 Noè s’inebria

L’ultima parte di questo capitolo ci presenta uno spettacolo umiliante. Colui che è stato fatto signore del Creato non sa governare se stesso. «Noè, che era agricoltore, cominciò a piantare la vigna e bevve del vino; s’inebriò e si denudò in mezzo alla sua tenda» (v. 20 e seg.). Che umiliazione per Noè, il solo uomo giusto, il predicatore di giustizia! In qualunque situazione consideriamo l’uomo, lo vediamo sempre fallire: in Eden, nella terra rinnovata, in Canaan, nella Chiesa, addirittura in presenza della gloria e della felicità millenaria… fallisce ovunque e in tutto; in lui non esiste alcun bene. Per quanto grandi ed estesi siano stati i suoi privilegi, per quanto bella sia la sua posizione, egli non sa produrre che fallimento e peccati.

Ricordiamoci, tuttavia, di considerare Noè da due punti di vista: come tipo e come uomo. Mentre il “tipo” è pieno di bellezza e di significato, l’uomo è pieno di peccato e di follia. Eppure lo spirito di Dio ha scritto queste parole: «Noè fu uomo giusto e integro» e «Noè camminò con Dio» (6:9). La grazia divina aveva coperto tutti i suoi peccati e l’aveva vestito d’una veste di giustizia immacolata: «Noè trovò grazia agli occhi del SIGNORE» (6:8).

Benché Noè scoprisse la propria nudità, Dio non la vide, poiché non guardava alla debolezza della sua condizione naturale, ma alla potenza della giustizia eterna. Questo ci fa comprendere quanto errava Cam e quanto era lontano da Dio e dai Suoi pensieri. Non conosceva evidentemente nulla della felicità dell’uomo «la cui trasgressione è perdonata e il cui peccato è coperto» (Salmo 32:1). Invece Sem e Iafet ci danno un bell’esempio del modo in cui Dio considera la nudità dell’uomo e la copre.  Sem e Iafet ereditano una benedizione, mentre Cam una maledizione.

7. Capitoli 10 e 11: Di Noè a Abramo

7.1 Babilonia

Questo capitolo descrive la posterità dei figli di Noè, e fa specialmente menzione di Nimrod, fondatore del regno di Babel ossia di Babilonia, il cui nome occupa un posto particolare nelle pagine del santo Libro di Dio.

Babilonia è un nome e un principio ben conosciuto. Dal cap. 10 della Genesi al cap. 18 dell’Apocalisse, Babilonia appare spesso sulla scena e sempre come nemica di quelli che sono chiamati a rendere a Dio una testimonianza pubblica sulla terra: non si deve da ciò dedurre che la Babilonia dell’Antico Testamento sia la stessa di quella del Nuovo Testamento. La prima, senza dubbio, è una città, l’altra è un sistema di tipo religioso ma corrotto; l’una e l’altra esercitano una potente influenza, ostile al popolo di Dio.

Israele era appena entrato in guerra coi popoli di Canaan, ed ecco che «un mantello di Scinear» (Giosuè 7:21), introdusse la contaminazione e la sconfitta nell’esercito. È il racconto più autentico e più antico che abbiamo sull’influenza perniciosa di Babilonia sul popolo di Dio. Ogni lettore attento delle Scritture sa, d’altronde, quale posto questa occupi nella storia del popolo d’Israele.

Senza menzionare tutti i passi che parlano di Babilonia, faremo notare che ogni volta che Dio ha dei testimoni sulla terra, Satana ha una Babilonia per corrompere e guastare la testimonianza. Quando Dio unisce il proprio nome alla Chiesa, Babilonia prende la forma d’un sistema religioso corrotto, chiamato «la grande prostituta», «la madre delle prostitute e delle abominazioni della terra» (Apocalisse 17:1-6 e seguenti). In altri termini, la Babilonia di Satana appare allo scopo d’intralciare l’opera di Dio, sia anticamente in Israele, sia ora nella Chiesa. Da un capo all’altro dell’Antico Testamento, si vedono Israele e Babilonia opposti l’uno all’altro: quando uno sale, l’altro scende.

Così, quando Israele ha completamente fallito come testimone dell’Eterno, il «re di Babilonia le ha frantumato le ossa» (Geremia 50:17) e lo ha divorato; e i vasi della casa di Dio, che dovevano rimanere nella città di Gerusalemme, sono trasportati nella città di Babilonia. Ma Isaia, nella sublime profezia del cap. 14 del suo libro, ci trasporta di fronte ad uno stato di cose del tutto opposto, e ci fa vedere, in un magnifico quadro, la stella d’Israele crescente e gloriosa, e Babilonia rovesciata. «Il giorno che il SIGNORE ti avrà dato riposo dal tuo affanno, dalle tue agitazioni e dalla dura schiavitù alla quale eri stato assoggettato, tu pronuncerai questo canto sul re di Babilonia e dirai: «Come! Il tiranno è finito? È finito il tormento? Il SIGNORE ha spezzato il bastone degli empi, lo scettro dei despoti. Colui che furiosamente percoteva i popoli con colpi senza tregua, colui che dominava rabbiosamente sulle nazioni, è inseguito senza misericordia. Tutta la terra è in riposo, è tranquilla, la gente manda grida di gioia. Perfino i cipressi e i cedri del Libano si rallegrano a motivo di te. Da quando tu sei atterrato, essi dicono, il boscaiolo non sale più contro di noi«» (Isaia 14:3-8).

Ecco ciò che riguarda la Babilonia dell’Antico Testamento. In quanto a quella dell’Apocalisse, il lettore può leggere i capitoli 17 e 18 per conoscerne le caratteristiche e vedere quale sarà la sua fine. Essa è in netto contrasto con la Sposa dell’Agnello; infatti, è gettata nel mare come una grande macina; e subito dopo si celebreranno le nozze dell’Agnello, con tutta la felicità e la gloria.

«E Cus generò Nimrod, che cominciò ad essere potente sulla terra; egli fu un potente cacciatore davanti al SIGNORE; perciò si dice: “Come Nimrod, potente cacciatore…” Il principio del suo regno fu Babel, Erec, Accad e Calne nel paese di Scinear» (v. 8-10). Ecco il carattere del fondatore di Babilonia. Egli «fu potente sulla terra», un «potente cacciatore davanti al SIGNORE»; e il carattere morale di Babilonia, da un capo all’altro della Scrittura, corrisponde in modo notevole alla sua origine.

Babilonia appare sempre con un’influenza potente sulla terra, in lotta contro tutto ciò che è di origine celeste; solo quando è distrutta, si innalza nel cielo in mezzo alla gran moltitudine il grido: «Alleluia! poiché il Signore, nostro Dio, l’Onnipotente, ha stabilito il suo regno» (Apocalisse 19:6). Babilonia, allora, prende fine: tutta la sua potenza e la sua gloria, il suo orgoglio, le sue ricchezze e il suo splendore. Il suo incantesimo e la sua grande influenza cesseranno per sempre; sarà spazzata via e immersa nelle tenebre, negli orrori e nella desolazione d’una notte senza fine.

7.2 La torre di Babele

Il contenuto del capitolo 11 è del massimo interesse per la mente spirituale. Sono riportati due grandi fatti:

– la costruzione della torre di Babele

– la chiamata di Abraamo;

in altri termini, lo sforzo dell’uomo per bastare a se stesso, e la rivelazione, fatta alla fede, di ciò che Dio ha in serbo per chi crede; il tentativo dell’uomo per stabilirsi sulla terra e l’appello di Dio all’uomo per farvelo uscire e fargli trovare la sua parte e la sua dimora nel cielo.

«Tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse parole. Dirigendosi verso l’Oriente, gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Scinear, e là si stanziarono. Si dissero l’un l’altro: “Venite, facciamo dei mattoni cotti con il fuoco!” Essi adoperarono mattoni anziché pietre, e bitume invece di calce. Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo; acquistiamoci fama, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra”» (11:1-4).

Il cuore umano cerca sempre di farsi un nome, un centro; vuole possedere qualcosa sulla terra. Le sue aspirazioni non sono rivolte al Dio del cielo e alla gloria del cielo, ma sempre a qualcosa sulla terra. Quando è lasciato a se stesso, l’uomo «edifica» sempre sotto il cielo; ci vogliono la chiamata di Dio, la Sua rivelazione e la Sua potenza per elevarlo al di sopra di questo mondo.

Nella scena che abbiamo sotto gli occhi, Dio non è né riconosciuto né ricercato; il cuore dell’uomo non si preoccupa di preparare un luogo dove Dio possa fare la Sua dimora, né di radunare materiali per edificargli un tempio. Il nome di Dio non è neppure menzionato. L’uomo nella pianura di Scinear s’adoperava per acquistarsi una reputazione, e da allora ha sempre fatto così; nella pianura di Scinear come sulle rive del Tigri, lo vediamo sempre ricercare se stesso, esaltare se stesso, escludendo Dio ovunque e in ogni cosa.

Ora, qualunque sia il punto di vista sotto il quale consideriamo quest’associazione babilonese, è molto istruttivo vedervi lo spiegamento del genio e delle facoltà dell’uomo. Seguendo il corso della storia del mondo, ritroveremo ovunque, negli uomini, questa tendenza a costituire delle associazioni e delle confederazioni. È in gran parte con questo mezzo che essi cercano di giungere alla realizzazione dei loro disegni: che si tratti di filantropia, di religione o di politica, nulla si fa senza un’associazione regolarmente organizzata. È bene porre attenzione a questo principio, e vederne i primi accenni e la prima applicazione nella pianura di Scinear, così come la sua rovina. Essa era costituita solo per assicurare gli interessi dell’umanità ed esaltare il nome dell’uomo, scopo che il nostro secolo non rinnega di certo.

Ma la fede discerne un grave difetto in tutte queste associazioni: Dio è escluso. Voler elevare l’uomo senza Dio, significa elevarlo ad una altezza vertiginosa da dove scivolerà e cadrà in una confusione disperata e in un’irrimediabile rovina.

Il credente non dovrebbe conoscere altra associazione che quella della Chiesa del Dio vivente, costituita, in un solo corpo, dallo Spirito Santo disceso dal cielo come testimone della glorificazione di Cristo e per battezzare in un solo corpo tutti i credenti e farne l’abitazione di Dio.

Babilonia è, sotto ogni aspetto, il contrario di ciò che è la Chiesa; e alla fine, diventa «ricettacolo di demòni», come ci insegna il cap. 18 dell’Apocalisse.

«Il SIGNORE disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è il principio del loro lavoro; ora nulla impedirà loro di condurre a termine ciò che intendono fare. Scendiamo dunque e confondiamo il loro linguaggio, perché l’uno non capisca la lingua dell’altro!” Così il SIGNORE li disperse di là su tutta la faccia della terra ed essi cessarono di costruire la città» (v. 6-8). Tale fu la sorte della prima associazione d’uomini e ne sarà così fino alla fine. «O popoli; sarete frantumati! Prestate orecchio, o voi tutti di paesi lontani! Preparatevi pure alla lotta; sarete frantumati!» (Isaia 8:9).

7.3 Dispersione e riunione

Ma come tutto è diverso quando è Dio che unisce gli uomini! Vediamo, al cap. 2 del libro degli Atti, che i messaggeri della grazia, per la potenza dello Spirito Santo, sono dotati per annunciare la Buona Novella nella lingua di tutti coloro a cui s’indirizzavano, poiché Dio desiderava raggiungere il cuore di tutti gli uomini col dolce messaggio della grazia. Non così era stata promulgata la Legge sul monte Sinai avvolto dalle fiamme: quando Dio dichiarava ciò che l’uomo doveva essere, parlava una sola lingua; ma quando rivela ciò che Egli è in Se stesso, si esprime in più linguaggi. La grazia rovescia le barriere che l’orgoglio e la follia dell’uomo hanno innalzate affinché ogni uomo possa comprendere il buon annuncio della salvezza, «le cose magnifiche di Dio» (Atti 2:11). Perché questo? Per riunire gli uomini secondo i principi divini, attorno a Dio come centro, con lo scopo di dar loro un medesimo linguaggio, una medesima speranza, una medesima vita, in modo tale che non siano mai più dispersi e confusi. Dio vuole dare loro un nome e una dimora che duri eternamente, ed edificar loro una città e una torre che non solo giungano fino al cielo, ma le cui fondamenta imperiture siano poste nei cieli dalla onnipotente mano di Dio stesso; riunirli intorno alla gloriosa persona di Cristo risuscitato e glorificato, affinché tutti insieme lo magnifichino e l’adorino.

Legga il lettore il versetto 9 del cap. 7 dell’Apocalisse; vi troverà «una folla immensa che nessuno poteva contare, proveniente da tutte le nazioni, tribù, popoli e lingue, che stava in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello» e tutti, a gran voce, gridano: «La salvezza appartiene al nostro Dio».

Nelle tre parti della Scrittura che ci hanno occupato c’è un parallelismo istruttivo e interessante. Al cap. 11 della Genesi, le diverse lingue sono l’espressione del giudizio di Dio; al cap. 2 degli Atti, sono il dono della sua grazia e al cap. 7 dell’Apocalisse sono tutte riunite attorno all’Agnello per dargli gloria. L’associazione di Dio finisce nella gloria, quella degli uomini nella confusione. La prima è introdotta per mezzo dello Spirito Santo, e ha per oggetto l’esaltazione di Cristo, la seconda lo è per mezzo della energia profana dell’uomo scaduto e ha per oggetto la propria esaltazione.

Ci faccia Dio considerare e comprendere tutte queste cose nella potenza della fede, poiché è soltanto così che le nostre anime possono trarre del profitto. Le dottrine più interessanti, come pure la conoscenza più approfondita delle Scritture, possono lasciare il cuore sterile e freddo: è Cristo che bisogna cercare e trovare nella Scrittura; e quando l’abbiamo trovato, dobbiamo nutrirci di Lui per la fede, affinché ne riceviamo la freschezza, l’unzione, la potenza di vita di cui abbiamo tanto bisogno in questi giorni di freddo formalismo.

Di quale profitto può essere una fredda ortodossia priva di un Cristo vivente, conosciuto in tutta la potenza e l’eccellenza della Sua persona? La sana dottrina è, indubbiamente, d’immensa importanza, e ogni fedele servitore di Cristo si sentirà imperiosamente chiamato ad «attenersi al modello delle sane parole» che Paolo raccomandava a Timoteo di custodire (2 Timoteo 11:13). Ma, dopo tutto, è un Cristo vivente che è l’essenza e la sostanza della sana dottrina. Ci sia dato, nella potenza dello Spirito Santo, di vedere più bellezza e più eccellenza in Cristo, per essere liberati dallo spirito e dai principi di Babilonia!

8. Capitolo 12: Abramo

8.1 L’appello di Dio

La storia di sette uomini occupa gran parte del libro della Genesi: sono Abele, Enoc, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe. Io sono persuaso che la storia di ciascuno di loro rappresenti una verità particolare.

In Abele, per esempio, troviamo in figura la rivelazione della verità fondamentale che l’uomo può avvicinarsi a Dio per mezzo di un sacrificio espiatorio.

Enoc ci fa vedere qual è la parte e la speranza del popolo celeste, la Chiesa.

Noè ci insegna qual è il destino del popolo terreno, Israele; infatti, Enoc fu portato in cielo prima del giudizio, ma Noè abitò una terra restaurata attraverso il giudizio.

Ognuno di questi uomini raffigura una verità distinta e, di conseguenza, una fase particolare della fede. Il lettore può proseguire lo studio di questo soggetto nel cap. 11 della Lettera agli Ebrei, e questo lavoro sarà per lui utile e del massimo interesse.

Ma occupiamoci ora di Abramo.

Paragonando i versetti 1 del cap. 12 di Genesi e 31 del cap. 11 di Ebrei, con i v. 2-4 del cap. 7 del libro degli Atti, scopriamo una verità di immenso valore pratico. «Il SIGNORE disse ad Abramo: “Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò» (v. 1). Questa è la comunicazione che Dio fece ad Abramo, comunicazione chiaramente definita e tramite la quale Dio voleva agire sul cuore e sulla coscienza di colui a cui era indirizzata.

Ma in Atti 7:2-4 leggiamo: «Il Dio della gloria apparve ad Abraamo, nostro padre, mentr’egli era in Mesopotamia, prima che si stabilisse in Carran… e di là, dopo che suo padre morì, Dio lo fece venire in questo paese, che ora voi abitate». Il risultato di questa comunicazione si trova al v. 31 di Genesi 11: «Tera prese Abramo, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, cioè figlio di suo figlio, e Sarai sua nuora, moglie d’Abramo suo figlio, e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nel paese di Canaan. Essi giunsero fino a Caran, e là soggiornarono… poi Tera morì in Caran».

Da questi passi, presi insieme, impariamo che i legami naturali impedirono ad Abramo di rispondere pienamente alla chiamata di Dio. Per quanto chiamato ad andarsene in Canaan, egli si fermò in Caran finché la morte non ruppe i legami naturali che lo trattenevano; solo dopo la morte del padre proseguì, senza più fermarsi, e arrivò nel luogo dove «il Dio di gloria» l’aveva destinato.

Tutto questo è molto significativo. Le influenze della natura umana sono sempre opposte alla piena realizzazione e alla potenza pratica della «chiamata di Dio», di modo che tendiamo ad accontentarci di una parte inferiore rispetto a quella che la chiamata di Dio pone davanti a noi. Ci vuole una fede semplice e integra perché l’anima possa innalzarsi all’altezza dei pensieri di Dio e prendere possesso delle cose che Egli ci rivela.

La preghiera dell’apostolo Paolo, che troviamo in Efesini 1:15-22, ci insegna in che misura egli si rendeva conto delle difficoltà contro le quali i credenti avrebbero dovuto lottare per afferrare «la speranza» alla quale erano stati «chiamati», e quale fosse «la ricchezza della gloria della Sua eredità… riservata nei santi». È evidente che non possiamo camminare «in modo degno» di questa chiamata se non la comprendiamo. Dobbiamo sapere dove siamo chiamati prima di poterci recare là. Se Abramo fosse stato penetrato dalla potenza di questa verità, cioè che era in Canaan che «Dio lo chiamava», non si sarebbe fermato in Caran.

La stessa cosa è per noi. Se lo Spirito Santo ci fa comprendere che la nostra vocazione è celeste, che la nostra dimora, la nostra parte, la nostra speranza, la nostra eredità sono «dove Cristo è seduto alla destra di Dio», non cercheremo mai di farci una posizione in questo mondo, né ricercheremo la reputazione, né accumuleremo. La chiamata celeste non è un vano dogma o una teoria senza potenza ma una realtà divina.

La chiamata di Abramo era forse una semplice speculazione dello spirito, sulla quale egli poteva ragionare o discutere, pur rimanendo in Caran? Certamente no: era una verità divina, potente, pratica. Così è per noi: se desideriamo avere l’approvazione e godere la presenza di Dio, dobbiamo tendere ad arrivare a ciò a cui Dio ci chiama, cioè a una piena comunione col Suo unigenito Figlio: comunione con Lui nella Sua reiezione quaggiù, comunione con Lui nella Sua accettazione nel cielo.

Ma come per Abramo fu la morte a rompere il legame che lo tratteneva a Caran, così per noi è la nostra morte con Cristo che spezza il legame col quale la natura ci lega al presente secolo. Dobbiamo realizzare che siamo morti in Lui, che il nostro posto, nella natura e nel mondo, è fra le cose che erano; che la croce di Cristo è per noi ciò che fu il Mar Rosso per Israele, quello che ci separa per sempre dal paese della schiavitù e del giudizio. È soltanto così che potremo camminare in qualche misura «in modo degno della vocazione che ci è stata rivolta» (Efesi 4:1), vocazione elevata, santa, celeste: la «vocazione di Dio in Cristo Gesù».

8.2 La croce ci mette a parte dal mondo

Fermiamoci un istante a contemplare la croce di Cristo sotto i suoi due aspetti essenziali: come fondamento della nostra adorazione e come fondamento del nostro servizio, quindi anche della nostra pace e della nostra testimonianza, dei nostri rapporti con Dio e dei nostri rapporti con il mondo.

Se, convinto di peccato, guardo la croce del Signore, vedo in essa il fondamento eterno della mia pace; vedo che il «mio peccato» è stato cancellato quanto al suo principio ed alla sua radice, e vedo che i «miei peccati» sono stati portati da Lui. Vedo che Dio è veramente «per me», che è per me nella posizione in cui io mi vedo quando la mia coscienza è stata svegliata: quella di peccatore.

La croce rivela Dio come l’amico del peccatore; lo rivela nel suo carattere meraviglioso di giusto giustificatore del peccatore più empio. La creazione e la provvidenza erano impotenti a fare questo. In esse, senza dubbio, posso imparare a conoscere la potenza di Dio, la Sua maestà e la Sua sapienza. Ma queste cose sono tutte contro di me, perché sono un peccatore, e la potenza, la maestà e la saggezza non possono togliere il mio peccato, né far sì Dio sia giusto accogliendomi.

Alla croce, invece, vedo Dio che fa i conti col peccato, vedo la manifestazione gloriosa e la perfetta armonia di tutti gli attributi divini; vedo l’amore, un amore tale che attrae e persuade il mio cuore, fortificandolo e distaccandolo da ogni altra cosa. Vedo la sapienza, una sapienza che confonde i demòni e stupisce gli angeli. Vedo una potenza che abbatte tutti gli ostacoli. Vedo la santità che respinge il peccato fino ai limiti più lontani dell’universo morale, e che è l’espressione più forte che potesse essere data dell’orrore di Dio per il peccato. E vedo la grazia, una grazia che pone il peccatore nella presenza stessa di Dio, anzi di più, nel cuore di Dio! Dove potrei vedere queste cose altrove che alla croce? Guardate ovunque; non troverete nulla che possa mettere insieme in modo pieno e glorioso queste due grandi cose: «Gloria a Dio nei luoghi altissimi» e «pace in terra» (Luca 2:14).

Che grande valore ha dunque la croce come fondamento della pace del credente, della sua adorazione e della sua relazione eterna con quel Dio che essa rivela in modo tanto glorioso! Che valore ha per Dio, come fondamento sul quale Egli possa, con giustizia, spiegare interamente tutte le Sue incomparabili perfezioni, e agire riguardo al peccatore secondo tutta la distesa della Sua grazia! La croce ha per Dio un tale valore che, come ha detto uno scrittore, «tutto ciò che Dio ha detto, tutto ciò che ha fatto fin dal principio prova che la croce occupava il primo posto nel Suo cuore. E c’è forse da stupirsene quando sappiamo che il Figlio diletto di Dio doveva essere inchiodato su quella croce e là essere l’oggetto della onta e di tutte le sofferenze che gli uomini e i demòni potevano riversare su di Lui, perché trovava piacere a fare la volontà del Padre Suo e a riscattare i figli della Sua grazia? La croce sarà per sempre il grande centro di attrazione, come espressione perfetta del Suo amore per tutta l’eternità».

Ma anche come base del nostro servizio attivo e della nostra testimonianza, la croce richiede da parte nostra la più seria attenzione. La croce, che mi mette in relazione con Dio, m’ha separato dal mondo. Un morto non ha più nulla a che fare col mondo, e il credente, essendo morto in Cristo, è crocifisso per il mondo e il mondo è crocifisso per lui (Galati 6:14); ed essendo risuscitato con Cristo, egli è unito a Lui nella potenza d’una vita e d’una natura nuove.

Inseparabilmente unito a Cristo, il credente partecipa così alla Sua accettazione presso Dio e al Suo rifiuto da parte del mondo. Queste due cose vanno insieme: la prima ci costituisce adoratori e cittadini del cielo, la seconda testimoni e stranieri sulla terra. La prima ci introduce al di là della cortina, nel luogo santissimo (Ebrei 10:19), la seconda ci fa uscire fuori del campo (Ebrei 13:13). E l’una è tanto perfetta quanto l’altra. Se la croce si è posta fra me e i miei peccati, e mi ha messo in pace con Dio, si è posta anche fra me e il mondo, e mi associa a un Cristo rigettato dagli uomini, facendo di me un oggetto della loro inimicizia, pur costituendomi umile e paziente testimone di questa grazia preziosa, inscrutabile ed eterna, che è stata rivelata.

Il credente dovrebbe comprendere bene questi due aspetti della croce di Cristo, ed essere in grado di distinguerli. Non dovrebbe professare di godere delle benedizioni dell’uno, rifiutando di entrare nelle condizioni dell’altro. Se ha l’orecchio aperto per udire la voce di Cristo «dentro la cortina», dovrebbe pure averlo aperto per udire questa voce «fuori del campo». Se afferra l’espiazione che è stata compiuta sulla croce, dovrebbe anche rendersi conto di fatto del rifiuto che essa necessariamente subisce.

Il nostro privilegio è non solo di non avere più nulla a che fare col peccato, ma anche di non avere più nulla a che fare col mondo; perciò l’apostolo Paolo ha potuto dire: «Quanto a me, non sia mai che io mi vanti di altro che della croce del nostro Signore Gesù Cristo, mediante la quale il mondo, per me, è stato crocifisso e io sono stato crocifisso per il mondo» (Galati 6:14).

Meditiamo queste cose con sincerità e preghiera, e che lo Spirito Santo ce ne faccia realizzare tutta la potenza pratica.

8.3 L’obbedienza

Ritorniamo ora al nostro soggetto. Non è detto quanto tempo Abramo si sia fermato in Caran; tuttavia, Dio attese il Suo servitore fino a che, libero da ogni intralcio, obbedisse in pieno al Suo ordine. Non vi fu, e non vi poteva essere, nessun compromesso fra l’ordine di Dio e le circostanze nelle quali si trovava Abramo. Dio ama troppo i suoi servitori per privarli della felicità che accompagna sempre una totale ubbidienza.

È bene notare che Abramo non ricevette nessuna nuova rivelazione durante il suo soggiorno in Caran. Perché Dio ci dia nuova luce, dobbiamo camminare in rapporto con la luce che Egli ci ha dato prima. «A chi ha sarà dato» (Marco 4:25), questo è il principio divino. Ricordiamoci tuttavia che Dio non ci trascinerà mai nel sentiero dell’ubbidienza e del vero servizio; un tale agire comprometterebbe l’eccellenza morale che caratterizza tutte le Sue vie. Dio non trascina, ma attira, e ci fa camminare così nella via che conduce alla felicità ineffabile che è in Lui. Se non comprendiamo che è nel nostro interesse sormontare tutti gli ostacoli che le relazioni umane vorrebbero porre davanti a noi per impedirci di rispondere alla chiamata di Dio, veniamo meno alla grazia che ci è stata fatta. Ma, ahimè, i nostri cuori penetrano poco in queste cose. Spesso incominciamo a fare calcoli intorno ai sacrifici, agli impedimenti, alle difficoltà, invece di correre nel cammino dell’ubbidienza pieni di ardore perché conosciamo e amiamo Colui che ci ha chiamati.

Ogni passo compiuto nel cammino dell’ubbidienza è contrassegnato da benedizioni reali, perché l’ubbidienza è frutto della fede, e la fede ci associa a Dio e ci introduce in una comunione vivente con Lui. Considerando l’ubbidienza sotto questo aspetto, vedremo facilmente quanto differisce dal legalismo in ogni suo carattere. Il principio legale pone l’uomo, carico di tutto il peso dei suoi peccati, sul sentiero del servizio, nell’osservanza della legge di Dio, ma ne risulta, per l’anima, un continuo tormento. La vera ubbidienza, invece, non è che la manifestazione o il frutto di una nuova natura divina comunicata all’uomo per grazia. Dio, nella Sua bontà, dà a questa nuova natura dei precetti, ma la natura divina guidata da precetti divini non produce mai il legalismo. Ciò che lo produce, è la vecchia natura che cerca di seguire i precetti divini con le sue capacità; ora, provare a dirigere la natura decaduta dell’uomo per mezzo della pura e santa legge di Dio, è tanto vano quanto assurdo. Come potrebbe la natura decaduta respirare un’aria così pura? Bisogna che ambedue, la natura e l’aria che essa respira, siano divine!

Ma Dio non soltanto comunica una natura divina al credente e lo guida per mezzo di principi divini; pone anche davanti a lui delle speranze conformi a questa natura. Così, per quello che concerne Abramo, «il Dio della gloria gli apparve»; a che scopo? Per porre davanti a lui qualcosa di desiderabile, «il paese che io ti mostrerò» (Atti 7:2-4). Non c’era costrizione; Dio attirava l’anima. Secondo la valutazione della nuova natura e della fede, il paese dell’Eterno era di gran lunga migliore del paese di Ur o di Caran, e quantunque Abramo non l’avesse visto, la fede ne apprezzava la bellezza e il valore, e stimava che, per possederlo, valesse la pena abbandonare le cose presenti. Perciò leggiamo che «per fede Abraamo, quando fu chiamato, ubbidì, per andarsene in un luogo che egli doveva ricevere in eredità; e partì senza sapere dove andava» (Ebrei 11:8); camminò «per fede e non per visione (cioè per la vista)» (2 Corinzi 5:7). Benché non avesse visto con gli occhi, Abramo credette col cuore e la fede divenne il movente dell’anima sua. La fede si basa sopra un fondamento ben più solido dell’evidenza dei nostri sensi, e questo fondamento è la Parola di Dio. I nostri sensi possono ingannarci, la Parola di Dio non inganna mai.

Il sistema legalista butta a mare tutta la dottrina della nuova natura, come pure i precetti che la guidano e le speranze che la animano; esso insegna che bisogna rinunciare alla terra per ottenere il cielo. Ma come potrebbe la natura dell’uomo abbandonare ciò a cui è legata? Come potrebbe essere attirata da ciò in cui non vede nulla di attraente? Il cielo non ha nulla di desiderabile per la natura umana; è l’ultimo posto in cui le piacerebbe trovarsi. D’altronde, se le fosse possibile entrare nel cielo si troverebbe completamente a disagio e infelice. È vero che sarebbe felice di sfuggire all’inferno e ai suoi tormenti; ma il desiderio di sfuggire all’inferno e quello di ottenere il cielo, derivano da due sorgenti molto diverse. Il primo è insito nella vecchia natura, ma il secondo non si trova che nella nuova. Se non vi fossero nell’inferno lo «stagno ardente di fuoco» (Apocalisse 21:8), né il «verme che non muore», né lo «stridor di denti» (Matteo 8:12), la natura non lo temerebbe. E questo principio è vero per tutti i desideri e per tutto ciò che la natura umana ricerca.

Ma quanto è diverso «il vangelo della gloria del beato Dio» dalla Sua grazia, che toglie il peccato per mezzo del sacrificio di Cristo, sul fondamento d’una giustizia eterna, avendo Egli sofferto per il peccato ed essendo stato «fatto diventare peccato per noi» (2 Corinzi 5:21). E non solo Dio toglie il peccato, ma comunica una vita nuova, una vita di risurrezione che è la vita del suo stesso Figlio, risuscitato e glorificato; una vita che ogni vero credente possiede in virtù del fatto che, nel consiglio eterno di Dio, è unito a Colui che fu inchiodato alla croce, ma che ora è sul trono della maestà nel cielo.

Questa nuova natura, l’abbiamo già fatto notare, è guidata da Dio per mezzo dei precetti della Sua santa Parola e l’opera dello Spirito Santo. Egli incoraggia i credenti, presentando loro delle speranze indistruttibili; rivela in anticipo «la speranza della gloria» (Romani 5:2), «la città che ha le vere fondamenta», «una patria migliore, cioè quella celeste» (Ebrei 11:10, 16), «le molte dimore» (Giovanni 14:2) della casa del Padre, «un regno che non può essere scosso» (Ebrei 12:28), un’eterna unione con Lui in quelle regioni di felicità e di luce, dove il dolore e le tenebre non possono entrare.

Come tutto ciò è diverso dalle idee legaliste! Invece di chiedermi di abbandonare le cose della terra, che amo, per ottenere il cielo che non amo, invece di sviluppare e a governare una natura decaduta, Dio, nella Sua grazia infinita e in virtù del sacrificio di Cristo mi comunica una natura nuova e mi dà un cielo di cui questa natura può godere; e non solo il cielo, ma Lui stesso, sorgente inesauribile di tutta la gioia del cielo.

Queste sono le vie meravigliose di Dio. Il Dio di gloria fece vedere ad Abramo un paese migliore di quello di Ur e di Caran, fece vedere a Saulo da Tarso una gloria così risplendente che i suoi occhi furono chiusi a tutti gli splendori della terra, in modo che, da allora, li stimasse come «tanta spazzatura» (Filippesi 3:8) per guadagnare il Cristo che gli era apparso e la cui voce gli era penetrata nel più profondo dell’anima. Saulo da Tarso vedeva un Cristo celeste nella gloria e per tutto il corso della sua carriera quaggiù, nonostante la debolezza del «vaso di terra», questo Cristo celeste e questa gloria celeste gli colmarono l’anima.

8.4 La tenda e l’altare

«E Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese» (v. 6). La presenza dei Cananei nel paese dell’Eterno doveva essere una prova per Abramo, un richiamo alla sua fede e alla sua speranza, un esercizio di cuore e una prova di pazienza. Aveva lasciato dietro a sé Ur e Caran per recarsi nel paese di cui «il Dio della gloria» gli aveva parlato, e qui trova «i Cananei»; ma vi trova pure l’Eterno. «Il SIGNORE apparve ad Abramo e gli disse: “Io darò questo paese alla tua progenie”» (v. 7).

La relazione fra queste due dichiarazioni è di una commovente bellezza. «I Cananei erano nel paese»; e affinché l’occhio di Abramo non si fermasse troppo sul Cananeo che possedeva il paese, l’Eterno gli apparve come colui che avrebbe dato questo paese a lui e alla sua progenie per sempre. I pensieri di Abramo erano così rivolti verso l’Eterno e non verso i Cananei: e vi è qui un’istruzione preziosa per noi. I Cananei nel paese sono l’espressione della potenza di Satana; ma, invece di occuparci della potenza di Satana, che ci terrebbe lontani dal paese della nostra eredità, siamo chiamati ad afferrare la potenza di Cristo che ci ha introdotti in esso. «Il nostro combattimento non è contro sangue e carne, ma… contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti» (Efesini 6:12). La sfera stessa a cui siamo chiamati è la scena delle nostre lotte. Dovremmo forse essere spaventati? No, poiché Cristo è là per noi, il Cristo vittorioso nel quale siamo «più che vincitori» (Romani 8:37). Perciò, invece di abbandonarci a uno spirito di timore, coltiviamo uno spirito di adorazione.

«Lì Abramo costruì un altare al SIGNORE che gli era apparso. Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente» (v. 7-8).

L’altare e la tenda ci rivelano i due caratteri distintivi di Abramo: adoratore di Dio e straniero in questo mondo. Dio non gli diede alcuna eredità nel paese, «neppure un palmo di terra» (Atti 7:5), ma possedeva Dio e ciò gli bastava.

8.5 La prova: une carestia — soggiorno in Egitto

Dio risponde alla fede, ma la mette anche alla prova. Non dobbiamo pensare che il credente abbia da percorrere un cammino facile e piano, tutt’altro; egli incontra invece continuamente mari burrascosi e cieli tempestosi; ma Dio vuole che egli faccia una più profonda e più matura esperienza di ciò che Dio è per il cuore che confida in Lui. Se il cielo fosse sempre sereno, e la via sempre piana, il credente non conoscerebbe così bene il Dio col quale ha a che fare.

Quanto il nostro cuore è propenso a considerare la pace esteriore come se fosse la pace di Dio! Quando tutto va bene, quando i nostri beni sono al sicuro, i nostri affari prosperano, i nostri figli si comportano bene, la nostra abitazione è piacevole e godiamo di buona salute, quando, insomma, tutto risponde a quello che possiamo desiderare, siamo facilmente disposti a confondere la pace dovuta a un tale stato di cose con quella che deriva dalla presenza sentita di Cristo. Il Signore lo sa; perciò, quando ci adagiamo sulle nostre circostanze invece di riposarci su Lui, Egli interviene e, in un modo o nell’altro, abbatte i nostri falsi appoggi.

Ma vi è di più; siamo facilmente portati a credere che una via sia diritta perché esente da prove, e viceversa. È un grave errore. Il sentiero dell’ubbidienza è sovente quello che è più duro per la carne. Così, Abramo non fu soltanto chiamato ad incontrare i Cananei nel paese in cui Dio l’aveva chiamato, ma anche «venne una carestia nel paese» (v. 10). Doveva egli concludere che non era quello il suo posto? Certamente no, poiché allora avrebbe giudicato secondo la sua propria vista, cosa che la fede non fa mai. Era senza dubbio una prova penosa per il suo cuore, qualcosa d’incomprensibile per la sua natura; ma, per la fede, tutto poteva essere facile e chiaro.

Quando Paolo fu chiamato in Macedonia, la prigione di Filippi (Atti 16) fu una delle prime cose che incontrò. Un cuore che non fosse stato in comunione con Dio avrebbe visto, in quella prova, un colpo mortale inferto alla sua missione. Ma Paolo non mise mai in dubbio di essere nella giusta posizione, e fu reso capace «di cantare le lodi di Dio» dentro quella stessa prigione, rassicurato, com’era, che tutto ciò che succedeva era esattamente quello che doveva succedere. E aveva ragione! La prigione di Filippi conteneva un «vaso di misericordia» (Romani 9:23) che, umanamente parlando, non avrebbe mai udito l’Evangelo se coloro che l’annunciavano non fossero stati gettati nel luogo stesso dove egli si trovava. A dispetto di se stesso, il diavolo fu lo strumento di cui Dio si è servito per far giungere l’Evangelo al carceriere, uno dei suoi eletti.

La fame era dunque nel paese, e oltre a ciò l’Egitto era vicino e offriva una facile soluzione. Abramo si trovava nella situazione in cui Dio l’aveva posto, e non ricevette alcun ordine di uscirne. Ma è sceso in Egitto, e noi riteniamo che abbia fatto male. Era meglio morire di fame in Canaan, se necessario, che vivere nell’abbondanza in Egitto. Meglio soffrire nel sentiero di Dio che essere a proprio agio in quello di Satana. Meglio essere povero con Cristo che ricco senza Lui. Abramo in Egitto «ebbe pecore, buoi, asini, servi e serve, asine e cammelli» prova evidente, verrebbe da dire, che aveva fatto bene a scendere in Egitto; ma, ahimé! non ebbe in Egitto né altare, né comunione con Dio. Il paese del Faraone non era il luogo della presenza di Dio e Abramo, scendendovi, ebbe più perdita che guadagno.

È sempre così; nulla potrebbe mai compensare la comunione col Signore. La liberazione da una calamità e l’acquisto di maggiori beni terreni, sono poveri equivalenti di ciò che si perde allontanandosi, anche di poco, dal retto sentiero dell’ubbidienza.

Quanti di noi possono aderire di cuore a questo modo di vedere? Quanti, per evitare le prove e gli esercizi che si incontrano nel sentiero di Dio, sono scivolati nella corrente del «presente secolo malvagio» (Galati 1:4) e sono caduti in uno stato di sterilità, di aridità, di tristezza e di tenebre spirituali! Può darsi che, secondo l’espressione comune, «abbiano fatto fortuna», abbiano accumulato ricchezze e guadagnato il favore del mondo; ma tutte queste cose possono forse compensare la gioia nel Signore, un cuore tranquillo, una coscienza pura e senza rimproveri, uno spirito di adorazione e di riconoscenza, una testimonianza vivente e un servizio efficace? Guai a chi lo pensasse! Eppure si è visto sovente che queste benedizioni sono state vendute per un po’ più di benessere, un po’ di prestigio, un po’ di denaro.

Il sentiero del Signore è talvolta arduo, ma è sempre sicuro e benedetto. Impegniamoci a mantenere «la fede e una buona coscienza»  (1 Timoteo 1:19) che non potrebbero mai essere sostituiti da nulla. Se viene la prova, invece di scendere in Egitto, contiamo su Dio. E quando siamo tentati di scivolare nelle vie del mondo, ricordiamoci di Colui «che ha dato se stesso per i nostri peccati, per sottrarci al presente secolo malvagio, secondo la volontà del nostro Dio e Padre» (Galati 1:4). Se tale è stato il Suo amore per noi e tale il Suo giudizio sul carattere del «presente secolo», tanto che ha dato Se stesso per liberarcene, lo rinnegheremo noi ritornando ad immergerci in ciò da cui la sua croce ci ha per sempre liberati? Così non sia!

9. Capitoli 13 e 14: Abramo e Lot

9.1 Il ritorno dall’Egitto

Il capitolo 13 si apre con un soggetto di grande interesse.

Quando, in un modo o nell’altro, lo stato spirituale del credente si è abbassato ed egli ha perso la comunione con Dio, c’è il pericolo, non appena la sua coscienza è risvegliata, che egli non afferri la grazia del Signore e non entri pienamente nella realtà della propria «reintegrazione« davanti a Dio. Ora, noi sappiamo che tutto ciò che Dio fa, lo fa in modo degno di Se stesso; che crei o che salvi, che converta o che riabiliti, Egli glorifica il proprio Nome in tutte le Sue vie.

Nel caso che ci occupa, vediamo che non soltanto Abramo fu fatto uscire dall’Egitto, ma fu ricondotto al luogo dove aveva rizzato la sua tenda al principio, al luogo dove c’era l’altare che egli aveva edificato prima; e lì Abramo «invocò il Nome del SIGNORE » (v. 3-4).

Dio non sarà soddisfatto finché non avrà ricondotto nella retta via e perfettamente ristabilito nella Sua comunione colui che s’è sviato. Potremmo pensare che a una tale persona, poiché si è sviata, si addica un posto meno elevato di quello che ha lasciato, e così sarebbe se si trattasse dei nostri meriti; ma trattandosi unicamente di grazia, appartiene a Dio di determinare la misura della reintegrazione, e questa misura ci è data nel passo seguente: «O Israele, se tu torni, dice l’Eterno, devi ritornare a me!» (Geremia 4:1 v. Nuova Diodati). Ecco come Dio valuta le cose. Agire altrimenti sarebbe indegno di Lui.

Quando il lebbroso era riammesso nel campo, era condotto «all’ingresso della tenda di convegno» (Levitico 14:11); quando il figlio prodigo è ritornato alla casa paterna, il padre lo ha fatto sedere a tavola con lui; quando Pietro fu rialzato dalla caduta, poté dire agli uomini d’Israele: «Voi rinnegaste il Santo e il Giusto» (Atti 3:14), accusandoli proprio di ciò che egli stesso aveva commesso! In ognuno di questi casi, vediamo che Dio riabilita perfettamente; riconduce sempre l’anima a Sé, in tutta la potenza della grazia e in tutta la fiducia della fede. «Se tu torni, devi ritornare a me». Abramo «continuò il suo viaggio fino a Bethel, al luogo dove da principio era stata la sua tenda» (v. 3).

L’anima che ha ritrovato la comunione con Dio avrà un sentimento profondo e reale del male da cui è stata liberata, e questo si manifesterà con uno spirito di vigilanza, di preghiera, di santità e di prudenza. Dio non ci risolleva perché consideriamo il peccato con leggerezza e ricadiamo di nuovo; dice: «Va’ e non peccar più» (Giovanni 8:11). Più è profondo il sentimento della grazia di Dio che ci ha rialzati, più profondo anche sarà il sentimento della santità di quest’opera di Dio. È un principio stabilito e insegnato da un capo all’altro della Scrittura, ma specialmente in due passi ben conosciuti: Salmo 23:3 e 1 Giovanni 1:9: «Egli mi ristora l’anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amor del suo Nome»; e «Se confessiamo i nostri peccati, Egli è fedele e giusto da rimetterci i nostri peccati e purificarci da ogni iniquità».

Il sentiero che si addice ad un’anima ristabilita nella comunione con Dio è un sentiero di giustizia: parlare di grazia e vivere nell’ingiustizia significa «volgere in dissolutezza la grazia del nostro Dio» (Giuda 4). Se «la grazia regna mediante la giustizia a vita eterna» (Romani 5:21), questa grazia si manifesta anche con opere di giustizia che sono il frutto di questa vita. La grazia che perdona i nostri peccati ci purifica da ogni iniquità. Sono due cose che non si devono mai separare; unite insieme contrastano sia il legalismo sia l’antinomismo quella falsa dottrina che, pur accettando il principio della salvezza per fede, sostiene che non è affatto necessaria, per chi ha creduto, una vita di santità, di giustizia e di opere buone.

9.2 Lot, nipote d’Abramo

Ma vi fu per Abramo una prova assai più grave della carestia che lo fece scendere in Egitto; quella che proveniva dalla compagnia di suo nipote Lot che, evidentemente, non camminava nell’energia d’una fede personale e nemmeno nel sentimento della propria responsabilità individuale. Sembra che Lot fosse più spinto dall’influenza e dall’esempio di Abramo, che da una sua fede personale in Dio.

Percorrendo la Sacra Scrittura, vediamo che in tutti i grandi movimenti di risveglio prodotti dallo Spirito di Dio, certe persone, credenti o no, si sono unite agli altri senza partecipare personalmente alla potenza che aveva prodotto quel risveglio. Queste persone vanno avanti per un certo tempo pesando come un corpo morto sulla testimonianza, e a volte anche intralciandola. 

Così, l’Eterno aveva chiamato Abramo a lasciare la sua parentela, ma lui, invece di lasciarla, prende con sé il padre Tera che ritarderà il cammino del figlio fino al momento dalla sua morte; Lot lo accompagna un po’ più avanti, ma «l’avidità delle altre cose» (Marco 4:19) lo hanno sopraffatto.

La stessa osservazione può essere fatta durante il grande movimento dell’uscita d’Israele fuori d’Egitto: «un’accozzaglia di gente raccogliticcia» seguì gli Israeliti e divenne per loro una causa d’indebolimento e di turbamento, come vediamo al cap. 11 dei Numeri: «L’accozzaglia di gente raccogliticcia che era tra il popolo fu presa da concupiscenza; e anche i figli d’Israele ricominciarono a piagnucolare e a dire: “Chi ci darà da mangiare della carne?”» (Numeri 11:4). Nello stesso modo, nei primi giorni della Chiesa, e da allora in tutti i risvegli, si è visto un gran numero di persone associarsi sotto spinte diverse che però, non essendo divine, hanno durato poco e hanno anche intralciato il lavoro dei veri servitori di Dio.

Nulla sussisterà se non ciò che è da Dio. Bisogna che realizziamo il legame che ci unisce a Lui, e sentire che è Lui che ci ha chiamati alla posizione in cui siamo, altrimenti non avremo né fermezza né costanza in questa posizione. Non possiamo seguire la strada d’un altro. Dio, nella sua grazia, traccia a ciascuno di noi la via che dobbiamo seguire, dando ad ognuno una sfera d’azione e dei doveri da compiere; dobbiamo solo sapere qual è la nostra vocazione e i doveri relativi, per poter lavorare efficacemente alla gloria di Dio. Importa poco la misura che ci è data, purché ci sia data da Dio. Possiamo aver ricevuto «cinque talenti» oppure «uno solo»; ma se facciamo fruttare quest’unico talento con lo sguardo rivolto al Padrone, udremo certamente le Sue parole «va bene», esattamente come se avessimo fatto fruttare «cinque talenti».

Paolo, Pietro, Giacomo e Giovanni hanno avuto ciascuno la propria «misura» (Romani 12:3), un ministero speciale, ed è così per tutti. Nessuno deve intromettersi nel lavoro altrui. Nel mondo fisico non ci sono esempi di imitazione, ogni creatura opera nella propria sfera, ha le proprie funzioni; a maggior ragione questo è vero nel mondo spirituale. Il campo è abbastanza vasto per tutti. In una stessa casa vi sono vasi di grandezza e di forma diversi, e tutti sono necessari al padrone di casa.

Esaminiamo dunque seriamente, caro lettore, se siamo condotti dal Signore o dalla nostra natura umana, se la nostra fede si basa sulla sapienza umana o sulla potenza divina, se ciò che facciamo lo facciamo perché altri l’hanno fatto, oppure perché il Signore ci chiama a farlo, se ci appoggiamo su quelli che ci circondano o se siamo sorretti da una fede personale.

È senza dubbio un grande privilegio poter godere della comunione dei fratelli, ma se ci appoggiamo su di loro anziché sul Signore ben presto faremo naufragio; nello stesso modo, se oltrepassiamo la nostra misura, la nostra azione sarà ostentata; un certo punto si vedrà se uno lavora al proprio posto e nella propria misura. Chi si avventura in acque profonde senza saper nuotare si dibatterà. Una nave varata senza la capacità di tenere il mare e insufficientemente equipaggiata sarà costretta a ritornare al porto o andrà persa.

Lot aveva lasciato «Ur dei Caldei», ma cadde nella pianura di Sodoma. La chiamata di Dio non aveva raggiunto il suo cuore, e il suo occhio era rimasto chiuso di fronte alla prospettiva della gloria dell’eredità di Dio.

Noi tutti abbiamo un sentiero rischiarato dalla Sua approvazione e dovrebbe essere la nostra gioia camminarvi. La Sua approvazione basta al cuore che lo conosce. Non otterremo sempre l’approvazione dei nostri fratelli, forse saremo incompresi, ma il giorno del Signore metterà ogni cosa al suo posto, e il cuore fedele aspetterà con gioia l’arrivo di quel giorno, sapendo che allora «ciascuno avrà la sua lode da Dio» (1 Corinzi 3:13; 4:5).

9.3 L’amore del mondo

Potrà essere utile esaminare più da vicino ciò che indusse Lot ad abbandonare il sentiero della testimonianza.

Vi è nella storia di ogni uomo un momento di crisi che rivela il fondamento sul quale si appoggia nel suo cammino, i motivi che lo fanno agire e gli scopi che persegue; e fu così di Lot. La causa apparente della sua caduta fu la disputa fra i pastori del suo bestiame e quelli del bestiame di Abramo, ma quando non si cammina con occhio «occhio limpido (o semplice)» (Matteo 6:22) e gli affetti purificati, si inciampa facilmente, un giorno o l’altro, anche  per una piccola pietra. In un certo senso, importa poco quale sia la causa apparente che ci fa abbandonare la diritta via; è la causa reale che conta, e può rimanere nascosta nelle stanze segrete dei nostri affetti, là dove il mondo, in una forma o nell’altra, ha trovato posto.

La disputa fra i pastori sarebbe stata facile da sedare, senza danno spirituale per Lot e per Abramo. Invece quella disputa diventò l’occasione per manifestare la magnifica potenza della fede di Abraamo e la mondanità che c’era nel cuore di Lot. Non che la disputa in sé abbia aumentato la mondanità dell’uno e la fede dell’altro, ma mise in luce, nell’uno come nell’altro, ciò che v’era nel loro cuore.

È sempre così: controversie e dissensi che sorgono talvolta nella Chiesa di Dio diventano per molti un’occasione di caduta facendoli ritornare al mondo; costoro, poi, danno colpa alle controversie e alle divisioni e fanno ricadere su queste cose la responsabilità del loro allontanamento; in realtà, però, quelle non sono state che il mezzo per manifestare la vera condizione dell’anima e l’inclinazione del cuore.

Quando il mondo è nel cuore, in un modo o nell’altro si manifesta. Per quanto deplorevoli siano le controversie e le divisioni, non sarebbe giusto incolpare uomini e circostanze quando la radice del male è in noi stessi. È triste e umiliante vedere dei fratelli contendere in presenza dei Cananei e dei Ferezei, mentre il loro linguaggio dovrebbe sempre essere: «Ti prego, non ci sia discordia fra me e te… perché siamo fratelli» (v. 8-9).

Perché Abramo non scelse Sodoma? Perché la lite non lo spinse nel mondo e non divenne per lui una occasione di caduta? Egli valutò il problema dal punto di vista di Dio. Il suo cuore naturale era certamente propenso ad essere attirato dalle pianure irrigate, come fu per Lot; ma non lasciò che il suo cuore scegliesse. Lasciò la scelta a Lot e volle che Dio scegliesse per lui. Questa è la saggezza che viene dall’alto.

Chi cammina per fede può lasciare volentieri la scelta a chi cammina per ciò che si vede; e dice: «Se tu vai a sinistra io andrò a destra; e se tu vai a destra, io andrò a sinistra» (13:9). Vi è qui altruismo ed elevatezza morale. Si può essere certi che quali che siano la visione del cuore naturale e le umane aspirazioni, esse non metteranno mai le mani sul tesoro della fede, perché la fede pone il suo tesoro in un luogo che il cuore naturale non si sognerebbe mai di visitare!

Quale fu dunque la scelta di Lot, quando poté farla? Scelse Sodoma, proprio il luogo su cui il giudizio di Dio stava per cadere. Perché Lot fece una tale scelta? Perché guardò all’apparenza esteriore e non si curò degli aspetti morali che ne facevano presagire il futuro destino. Il vero carattere di Sodoma era «la malvagità» (v. 13), e il suo destino futuro era il «giudizio», la distruzione mediante fuoco e zolfo dal cielo.

Ma si dirà: Lot ignorava tutto ciò. E’ possibile, e probabilmente anche Abramo; ma Dio lo sapeva, e se Lot avesse lasciato a Dio la cura di scegliere un’eredità per lui, Egli non gli avrebbe indicato un luogo che stava per distruggere. Ma Lot volle scegliere da sé e giudicò che Sodoma andasse bene per lui, benché non andasse bene per Dio. I suoi occhi si soffermarono sulle pianure irrigate e il suo cuore fu attratto da esse. «E Lot andò piantando le sue tende fino a Sodoma» (v. 10-12). Tale è la scelta del cuore naturale. «Dema, avendo amato questo mondo, mi ha lasciato», dirà Paolo (2 Timoteo 4:10). Lot abbandonò Abramo per la stessa ragione; lasciò il luogo della testimonianza per passare a quello del giudizio.

9.4 Conferma delle promesse ad Abramo

«Il SIGNORE disse ad Abramo, dopo che Lot si fu separato da lui: “Alza ora gli occhi e guarda, dal luogo dove sei, a settentrione, a meridione, a oriente, a occidente. Tutto il paese che vedi lo darò a te e alla tua discendenza, per sempre”» (v. 14-15).

La contesa e la separazione, invece di procurare un danno spirituale ad Abramo, servirono a manifestare i principi celesti che lo guidavano e a fortificare la sua vita di fede, rendendo anche più chiaro il suo cammino e liberandolo da una compagnia che non poteva far altro che intralciarlo. Così, ogni cosa concorse al suo bene e gli procurò un’abbondante messe di benedizioni.

Ricordiamoci, e questa è una verità seria e incoraggiante, che a lungo andare ognuno trova il proprio livello, se così posso esprimermi. Tutti quelli che agiscono senza essere mandati finiscono per cadere e ritornare alle cose che dicevano di aver abbandonate; mentre tutti quelli che sono stati chiamati da Dio e s’appoggiano su Lui, sono sostenuti dalla Sua grazia. «Il sentiero dei giusti è come la luce che spunta e va sempre più risplendendo, finché sia giorno pieno» (Proverbi 4:18). Questo pensiero dovrebbe renderci umili e perseveranti nel pregare; «chi pensa di stare in piedi, guardi di non cadere» (1 Corinzi 10:12), poiché certamente, «vi sono degli ultimi che saranno primi e dei primi che saranno ultimi» (Luca 13:30).

Molte navi sono salpate con bella manovra, fra le ovazioni e gli applausi gioiosi della folla, con la prospettiva d’una magnifica traversata, e poi bufere, mareggiate, bassi fondi, rocce e banchi di sabbia hanno cambiato le cose, e il viaggio, incominciato sotto gli auspici più favorevoli, è terminato con un disastro! Faccio allusione qui solo al servizio e alla testimonianza, e non alla salvezza eterna di chi è in Cristo; la salvezza del credente, Dio ne sia benedetto, non dipende in alcun modo da noi, ma da Colui che ha detto delle sue pecore: «Io do loro la vita eterna e non periranno mai e nessuno le rapirà dalla mia mano» (Giovanni 10:28).

E’ capitato che dei cristiani, che avevano intrapreso un servizio speciale con l’idea di essere chiamati da Dio, dopo un certo tempo, hanno naufragio; e altri che, dopo aver professato certi principi di servizio riguardo ai quali non erano stati ammaestrati da Dio, o di cui non avevano pesato dovutamente le conseguenze, finiscono per violare apertamente questi stessi principi. Bisogna che ciascuno riceva la sua missione dal Maestro stesso. Tutti quelli che Cristo chiama a un servizio particolare, saranno certamente sostenuti in questo servizio, poiché mai Dio manda qualcuno a combattere per Lui a proprie spese.

Tuttavia, nessuno può presentare se stesso come modello d’un carattere speciale di servizio o di testimonianza. Sarebbe orgoglio e vana follia! Il compito di chi insegna è di esporre le Scritture, e quello d’un servitore è di compiere la volontà del suo Signore. Ma ben compreso e ammesso tutto questo, non dimentichiamo che dobbiamo calcolare la spesa prima di edificare una torre o di muovere guerra (Luca 14:28). Si vedrebbe meno confusione e miseria fra noi se questo fosse più seriamente considerato.

Abramo fu chiamato da Dio a lasciare Ur dei Caldei per andare in Canaan; e Dio lo condusse lungo tutto il cammino. Quando si fermò in Caran, Dio lo attese; quando scese in Egitto, lo riportò nel suo paese; quando ebbe bisogno di guida, lo guidò, quando vi fu contesa e separazione si prese cura di lui. Abramo non perdette nulla in seguito alla lite dei pastori; egli ebbe anche dopo la sua tenda e il suo altare. «Allora Abramo levò le sue tende e andò ad abitare alle querce di Mamre, che sono a Ebron, e qui costruì un altare al SIGNORE » (v. 18). Scelga pure Lot la sua parte in Sodoma; Abramo cerca e trova il suo tutto in Dio. Non v’era nessun altare in Sodoma; tutti quelli che camminano in quella direzione, cercano tutt’altra cosa che un altare; vale a dire, non è per rendere onore a Dio che si va dalla parte di Sodoma, ma è per l’amore del mondo. E quand’anche si ottenesse ciò che si desidera, la conclusione sarebbe questa: «Egli dette loro quel che chiedevano, ma mandò loro la consunzione» (Salmo 106:15).

9.5 La battaglia dei re

Abbiamo, nel capitolo 14, la storia della rivolta dei cinque re contro Chedorlaomer e della battaglia che seguì.

Lo Spirito Santo si occupa dei movimenti di re e dei loro eserciti solo se queste cose riguardano in qualche modo il popolo di Dio. Abramo non era personalmente implicato in questa guerra e nelle sue conseguenze. La sua tenda e il suo altare non rischiavano certo di suscitare una guerra, né potevano temere di essere danneggiati dallo scoppio o dai risultati di essa. La parte dell’uomo la cui «cittadinanza è nei cieli« (Filippesi 3:19) non può stimolare la gelosia o l’ambizione dei re o dei conquistatori del mondo.

Ma se Abramo non era interessato alla battaglia dei «quattro re contro cinque» (14:9), non era così per Lot; la posizione nella quale si era messo non poteva non coinvolgerlo. Che debole testimonianza poteva dare Lot in Sodoma! Il fatto stesso che si fosse stabilito in quel luogo aveva dato un colpo mortale alla sua testimonianza. Una sola parola pronunciata contro Sodoma e i suoi costumi sarebbe stata la condanna di se stesso; perché si trovava là? Interessi personali e di famiglia sembrano essere stati il movente determinante della sua condotta; e, per quanto l’apostolo Pietro ci dica che Lot «si tormentava ogni giorno nella sua anima giusta a motivo delle loro opere inique» (2 Pietro 2:8), rimane il fatto che aveva ben poca forza per combattere questa malvagità quand’anche fosse stato disposto a farlo.

Io non posso avere come scopo i miei interessi materiali e, nello stesso tempo, quelli dell’Evangelo di Cristo. Nulla mi impedisce, senza dubbio, di attendere ai miei affari e nello stesso tempo di predicare l’Evangelo; ma è chiaro che l’una o l’altra di queste cose devono essere il mio obiettivo primario. Paolo predicava il Vangelo pur fabbricando tende, ma l’Evangelo, e non la confezione delle tende, era il suo scopo. Se i miei affari sono lo scopo della mia vita, la mia predicazione non sarà che un’opera di formalismo senza frutto, se non addirittura un pretesto per «santificare» la mia avidità.

Il nostro cuore è malvagio e ci inganna in modo sorprendente quando desideriamo raggiungere un fine speciale; ci fornisce le ragioni più plausibili per compiere quello che desideriamo, mentre la nostra mente, oscurata da interessi personali o da una volontà non giudicata, è incapace di discernere la natura di questi pretesti. «L’ubbidire è meglio del sacrificio, dare ascolto vale più che il grasso dei montoni» (1 Samuele 15:22); tale è la sola risposta di Dio a tutti i ragionamenti umani.

9.6 L’intervento di Abramo

Ricordiamoci che la vera separazione dal mondo non può risultare che dalla comunione con Dio. Potremmo separarci dal mondo e fare della nostra persona il centro della nostra esistenza, come i monaci o i filosofi cinici; ma la separazione per Dio è tutt’altra cosa. L’una gela e inaridisce, l’altra riscalda e rallegra; l’una esalta noi stessi, l’altra ci fa uscire da noi stessi e ci rende attivi per amore degli altri. L’una fa dell’io e dei suoi interessi il solo centro, l’altra dà a Dio il posto che gli appartiene.

Così, nel caso di Abramo, vediamo che il fatto stesso della sua separazione lo rende capace di compiere un servizio efficace a Lot che per il proprio cammino mondano s’era cacciato nei guai. «Abramo, com’ebbe udito che suo fratello era stato fatto prigioniero, armò trecentodiciotto dei suoi più fidati servi, nati in casa sua, e inseguì i re fino a DanRecuperò così tutti i beni e ricondusse pure Lot suo fratello, con i suoi beni, e anche le donne e il popolo» (14:14-16). Nonostante tutto, Lot è definito qui fratello di Abramo, e l’amore fraterno deve agire. È degno di nota che al v. 12 sia detto: «Presero anche Lot, figlio del fratello di Abramo», e al versetto 14: «Abramo, com’ebbe udito che suo fratello era stato fatto prigioniero…». L’affetto di fratello risponde ai bisogni d’un fratello nell’avversità. Tutto questo è divino. La vera fede ci rende sempre indipendenti, ma mai indifferenti; non s’avviluppa mai di vestiti caldi mentre il fratello patisce freddo.

La fede fa tre cose: «purifica il cuore» (Atti 14:9), «opera per mezzo dell’amore» (Galati 5:6), «vince il mondo» (1 Giovanni 5:4); e questi tre risultati della fede appaiono, in tutta la loro bellezza, in Abramo. Il suo cuore, puro dalle sozzure di Sodoma, manifesta una vera affezione per Lot suo fratello; e, infine, riporta una vittoria completa sui re.

9.7 Melchisedec e la tentazione del re di Sodoma

Tuttavia, colui che cammina per fede non è al riparo dagli assalti del nemico; accade sovente che una nuova tentazione venga ad assalirlo subito dopo una vittoria. È quello che capitò ad Abramo. «Com’egli se ne tornava, dopo aver sconfitto Chedor-laomer e i re che erano con lui, il re di Sodoma gli andò incontro nella valle di Sciave, cioè la valle del re» (14:17). C’era, evidentemente, un insidioso disegno del nemico in questo fatto. Il re di Sodoma rappresenta un pensiero e una fase della potenza del nemico ben diversi da quelli che vediamo in Kedor-Laomer e nei re che erano con lui. Nel primo, udiamo la voce astuta del serpente, negli altri il ruggito del leone. Ma sia che abbia a che fare col serpente, sia che abbia a che fare col leone, ad Abramo la grazia del Signore è sufficiente; e questa grazia agisce in suo favore nel momento del bisogno. «Melchisedec, re di Salem, fece portare del pane e del vino. Egli era sacerdote del Dio altissimo. Egli benedisse Abramo, dicendo: “Benedetto sia Abramo dal Dio altissimo, padrone dei cieli e della terra! Benedetto sia il Dio altissimo, che t’ha dato in mano i tuoi nemici!”» (v. 19-20).

Dobbiamo notare, prima di tutto, il momento in cui Melchisedec entra in scena e, in seguito, il duplice effetto del suo ministero. Non è mentre Abramo insegue Chedorlaomer che Melchisedec gli viene incontro, ma quando il re di Sodoma si presenta ad Abramo; c’è una notevole differenza. Per entrare in una lotta più insidiosa di quella da cui era uscito, Abramo aveva bisogno d’una comunione ancor più profonda con Dio.

Il «pane» e il «vino» di Melchisedec ristorarono l’anima d’Abramo dopo il combattimento contro Chedorlaomer, mentre la benedizione del Dio Altissimo fortificò il suo cuore per la «lotta« che doveva sostenere col re di Sodoma. Benché vittorioso, Abramo doveva ancora combattere; perciò il sacerdote regale ristora l’anima del vincitore e fortifica il cuore del combattente. È molto prezioso il modo in cui Melchisedec presenta Dio ad Abramo; lo chiama «Dio Altissimo, padrone dei cieli e della terra»; poi dichiara che Abramo è «benedetto» dalla parte di un tale Dio. È una potente preparazione per l’incontro col re di Sodoma.

Un uomo benedetto da Dio, non aveva bisogno di ciò che il nemico poteva offrirgli; e se il Padrone del cielo e della terra occupava i suoi pensieri, i beni di Sodoma non potevano avere alcuna attrattiva su di lui. Così, come c’era da aspettarsi, quando il re di Sodoma gli fa questa proposta: «Dammi le persone, i beni prendili per te», Abramo gli risponde: «Ho alzato la mia mano al SIGNORE, il Dio altissimo, padrone dei cieli e della terra, giurando che non avrei preso neppure un filo, né un laccio di sandalo, di tutto ciò che ti appartiene; perché tu non abbia a dire: «Io ho arricchito Abramo”».

Come avrebbe potuto pensare di liberare Lot dalla potenza del mondo se egli stesso fosse stato governato dal mondo? Non posso liberare il mio prossimo se io stesso non sono libero; fin quando sono nel fuoco, è impossibile che io possa tirarne fuori qualcuno. Il cammino della separazione per Dio è il cammino della potenza, e anche il sentiero della pace e della felicità.

Il mondo sotto le sue diverse forme è un mezzo efficace di cui Satana si serve per infiacchire le mani e accaparrarsi le affezioni dei servitori di Cristo; ma, Dio sia benedetto, quando il cuore è integro verso di Lui, Egli viene sempre a rallegrare e a fortificare nel momento opportuno. «Il SIGNORE percorre con lo sguardo tutta la terra per spiegare la sua forza in favore di quelli che hanno il cuore integro verso di lui» (2 Cronache 16:9). Vi è qui una verità incoraggiante per i nostri poveri cuori deboli e timorosi, se desideriamo resistere al mondo, alla carne e a Satana. Cristo sarà la nostra forza e il nostro scudo; Egli «addestra le mie mani al combattimento e le mie dita alla battaglia» (Salmo 144:1). Egli «copre il mio capo nel giorno della battaglia» (Salmo 140:7) e infine «triterà presto Satana sotto i vostri piedi» (Romani 16:20). Conservi il Signore i nostri cuori integri verso di Lui nella scena che ci circonda.

10. Capitolo 15: Rivelazione di Dio ad Abramo

10.1 Il scudo e la ricompensa d’Abramo

«Dopo questi fatti, la parola del SIGNORE fu rivolta in visione ad Abramo, dicendo: “Non temere, Abramo, io sono il tuo scudo, e la tua ricompensa sarà grandissima(lett. Io sono il tuo scudo e la tua grande ricompensa)» (15:1). L’Eterno non permetterà che il suo servitore sia in perdita per aver rifiutato le offerte del mondo. Era infinitamente meglio per Abramo essere al riparo dietro lo scudo dell’Eterno che rifugiarsi sotto la protezione del re di Sodoma, meglio aspettare «la Sua grande ricompensa» che accettare «i beni» di Sodoma.

La posizione nella quale Abramo è posto all’inizio di questo capitolo rappresenta, in modo mirabile, quella nella quale l’anima è introdotta per la fede in Cristo. Nessun dardo del nemico può penetrare nello scudo che protegge anche il più debole discepolo di Gesù. La parte che abbiamo in Lui non si esaurisce mai, la speranza non rende confusi; e l’una e l’altra sono rese infallibilmente sicure dai consigli di Dio e dall’espiazione che Cristo ha compiuta. Il credente che segue una carriera mondana, o che si lascia andare a desideri carnali, non potrebbe godere né dello «scudo» né della «ricompensa». Se lo Spirito Santo è contristato non ci farà godere di ciò che costituisce la parte e la speranza proprie del credente.

10.2 Il figlio e l’erede

La fine del capitolo espone i due grandi principi sul quali si basano la qualità di figlio e quella di erede. «Abramo disse: “Dio, SIGNORE, che mi darai? Poiché io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco”. E Abramo soggiunse: “Tu non mi hai dato discendenza; ecco, uno schiavo nato in casa mia sarà mio erede”» (15:2-3).

Abramo desiderava un figlio poiché sapeva, dalla parola di Dio, che la sua «discendenza» avrebbe dovuto ereditare il paese (cap. 13:15).

Le qualità di figlio e d’erede sono inseparabilmente unite nei pensieri di Dio. «Colui che nascerà da te sarà tuo erede» (v. 4). La qualità di figlio è il risultato del consiglio sovrano e dell’opera di Dio, come leggiamo nella Lettera di Giacomo (cap. 1:18): «Egli ha voluto generarci secondo la sua volontà mediante la parola di verità»; inoltre, questa qualità riposa sul principio eterno e divino della risurrezione. Come potrebbe essere altrimenti? Il corpo di Abramo era «morto«, di modo che il figlio non ha potuto venire all’esistenza se non nella potenza della risurrezione; la sua natura era morta e non poteva né generare né concepire per Dio.

L’eredità in tutta la sua magnificenza si spiegava davanti agli occhi di Abramo; ma dov’era l’erede? Il corpo di Abramo, così come il seno di Sara, erano «morti», ma l’Eterno era il Dio della risurrezione; perciò un corpo morto era proprio quello che Gli occorreva per agire!

Se la natura non fosse stata morta, a Dio sarebbe stato necessario farla morire prima di poter manifestare pienamente la Sua potenza; una scena di morte da cui sono bandite tutte le vane e orgogliose pretese dell’uomo è il quadro che meglio si addice al Dio Vivente! Ecco perché l’Eterno disse ad Abramo: «Guarda il cielo e conta le stelle se le puoi contare», e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza!» (v. 15). Quando l’anima contempla il Dio di risurrezione, non vi sono limiti alle sue benedizioni, perché nulla è impossibile a chi può dare la vita a un morto.

10.3 La fede che giustifica

«Abraamo credette a Dio e ciò gli fu messo in conto come giustizia» (Romani 4:3). Il conferimento della giustizia fatta qui ad Abramo deriva dalla fede che aveva in Dio come «Colui che fa rivivere i morti» (4:17). È sotto questo carattere che Dio si rivela in un mondo dove regna la morte; e l’anima che crede in un tale Dio è considerata giusta davanti a Lui. L’uomo è necessariamente escluso; cosa può fare in mezzo a una scena di morte? Potrà aprire le porte del sepolcro? Saprà sottrarsi alla morte e attraversare, vivente e libero, i confini del suo tenebroso dominio? No, di certo; quindi non può acquistarsi la giustizia, né stabilirsi nella relazione di figlio.

«Dio non è Dio di morti, ma di viventi» (Marco 12:27). Perciò, finché è sotto il dominio del peccato, l’uomo non può conoscere né la relazione di figlio, né la condizione di giusto. Dio solo può conferire all’uomo l’adozione di figlio, come Lui solo può conferire la giustizia; e queste due cose sono legate alla fede in Dio come a Colui che ha risuscitato Cristo dai morti.

È sotto questo aspetto che la Lettera ai Romani ci presenta al cap. 4:23-24 la fede di Abramo: «Or non per lui soltanto sta scritto che questo gli fu messo in conto come giustizia, ma anche per noi, ai quali sarà pure messo in conto; per noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù, nostro Signore». Il Dio di risurrezione è presentato «anche a noi» come oggetto di fede, e la nostra fede in Lui è il solo fondamento della nostra giustificazione.

Se, dopo aver alzato gli occhi al firmamento Abramo li avesse poi diretti sul «suo corpo svigorito» (Romani 4:19), mai avrebbe potuto immaginare una progenie numerosa come le stelle. Ma Abramo fissò l’attenzione sulla potenza di Dio; e poiché era questa potenza che doveva far nascere la progenie promessa, le stelle del cielo e la rena del mare non davano che una pallida idea del suoi effetti meravigliosi.

10.4 La fede in Cristo morte e risuscitato

Pertanto, se un peccatore che ode la buona novella dell’Evangelo potesse vedere, coi suoi occhi, la pura luce della presenza di Dio e poi scendere nelle profondità inesplorate della propria natura peccaminosa, potrebbe con ragione chiedersi: come giungerò alla presenza di Dio? come potrei essere in condizione di abitare in quella luce? Ma se il peccatore si vede assolutamente senza risorse, Dio, sia benedetto il suo Nome, risponde a tutti i suoi bisogni in Colui che è sceso dalla casa del Padre fino alla croce e al sepolcro, ed è stato elevato sul trono, riempiendo così, per mezzo della Sua persona e della Sua opera, lo spazio che separa questi due punti estremi. Non vi può essere nulla di più elevato che il seno del Padre, e nulla di più basso che la croce e il sepolcro; ma Cristo scese nella morte, per lasciare dietro a sé tutto il peso dei peccati e delle iniquità del suo popolo, e dichiarare, per mezzo di essa, la fine dì tutto ciò che è umano, la fine del peccato e dell’ultimo confine del potere di Satana.

Il sepolcro del Signore è la grande fine di tutto. Ma la risurrezione ci trasporta al di là di questo limite e costituisce il fondamento imperituro sul quale la gloria di Dio e la felicità dell’uomo riposano per sempre. Da quando l’occhio della fede contempla Cristo risorto, trova in Lui una risposta trionfante a tutto ciò che si riferisce al peccato, al giudizio, alla morte. Colui che li ha tutti vinti, è risorto dai morti e si è seduto alla destra della maestà nei luoghi celesti; e, più ancora, lo Spirito di Cristo risorto fa del credente un figlio. Il credente esce «vivificato« dalla tomba di Cristo, come è scritto: «Voi, che eravate morti nei peccati e nella incirconcisione della vostra carne, voi, dico, Dio ha vivificati con lui, perdonandoci tutti i nostri peccati» (Colossesi 2:13).

Essendo dunque fondata sulla risurrezione, la nostra posizione di figli è unita alla giustificazione, alla giustizia e alla liberazione perfetta da tutto ciò che, in qualche modo, poteva essere contro di noi. Dio non poteva ammettere una sola macchia di peccato sui Suoi figli; il padre del figlio prodigo non poteva ammettere alla sua tavola il figlio vestito con gli stracci del paese straniero. Poteva andargli incontro, gettarglisi al collo e baciarlo, in quegli stracci; era un atto degno della grazia; ma era impossibile che facesse sedere il figlio alla sua tavola in quelle condizioni. La grazia che fece uscire il padre incontro al figlio regna per mezzo della giustizia che lo fa entrare nella casa, presso il padre in modo degno della sua alta e beata posizione.

Dio, in Cristo, è sceso fino al grado più basso della posizione dell’uomo, per poterlo elevare al più alto grado di benedizione, in comunione con Se stesso.

Da tutto ciò risalta che la nostra posizione di figli, con tutta la gloria e i privilegi annessi, è del tutto indipendente da noi, così come i corpi svigoriti di Abramo e di Sara non potevano partecipare alla progenie numerosa come le stelle del cielo e la sabbia del mare.

Tutto è da Dio. «Dio Padre» ne ha concepita l’idea; il «Figlio» ne ha posto il fondamento; lo «Spirito Santo» ha realizzato l’edificio, e su questo edificio c’è scritto: «Per la grazia, per la fede, senza le opere della legge» (Romani 3:27 e Efesini 2:8) !

10.5 Le sofferenze prima dell’entrata in possesso dell’eredità

Ma questo capitolo 15 ci presenta un altro soggetto molto importante, cioè la qualità di erede. Poiché la figliolanza e la giustizia sono regolate divinamente e senza condizione, Dio dice ad Abramo: «Io sono il SIGNORE che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti questo paese, perché tu lo possegga» (15:7). Qui è presentata e trattata la grande questione dell’eredità, come pure il percorso particolare che gli eredi dovranno percorrere per giungere all’eredità promessa. «Se siamo figli, siamo anche eredi; eredi di Dio e coeredi di Cristo, se veramente soffriamo con lui, per essere anche glorificati con lui» (Romani 8:17).

La strada che conduce al regno di Dio passa anche per la sofferenza, l’afflizione e la tribolazione; ma, grazie a Dio, per fede possiamo dire: «Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria che dev’essere manifestata a nostro riguardo» (Romani 8:18). E ancora: «La nostra momentanea, leggera afflizione ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria» (2 Corinzi 4:17); «Ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l’afflizione produce pazienza, la pazienza esperienza, e l’esperienza speranza» (Romani 5:3-4). È un grande onore e un reale privilegio per noi che ci sia dato di poter bere al calice del nostro benedetto Salvatore ed essere battezzati del suo battesimo (Marco 10:38-39), seguendo in una felice comunione con Lui la via che conduce direttamente alla nostra gloriosa eredità. L’Erede e i coeredi giungono a questa eredità attraverso il sentiero della sofferenza.

Tuttavia, ricordiamoci che le sofferenze alle quali partecipano i «coeredi« sono esenti da ogni giudizio. Essi non hanno da soffrire sotto la mano della giustizia divina a causa del peccato, perché queste sofferenze Cristo le ha pienamente subite ed esaurite sulla croce per noi; «Cristo ha sofferto una volta per i peccati, lui giusto per gli ingiusti» (1 Pietro 3:18). Questo «una volta» fu alla croce, e non altrove. Cristo non ha mai sofferto per il peccato prima, e non ne potrà mai più soffrire. Ha sofferto una volta sola «alla fine dei secoli… per annullare il peccato con il suo sacrificio» (Ebrei 9:26), «è stato offerto una volta sola per portare i peccati» (Ebrei 9:28).

Vi sono due modi di considerare il Cristo sofferente: come colpito da Dio per il peccato e come respinto dagli uomini; sotto il primo aspetto, Egli soffre solo, sotto il secondo abbiamo il privilegio e l’onore di essergli associati. Il Signore solo subì l’ira di Dio; come quella giovenca che era condotta «presso un corso d’acqua perenne, in un luogo dove non si lavora, non si semina» per essere sacrificata (Deuteronomio 21:1-8), Egli vi scese da solo, e là regolò per sempre la questione dei nostri peccati.

Di questa parte delle sofferenze di Cristo gli siamo totalmente debitori, e per l’eternità; non abbiamo partecipato ad esse in nessun modo. Cristo ha combattuto e riportato la vittoria, ma condivide il bottino con noi! Era solo nella «fossa di perdizione», nel «pantano fangoso» (Salmo 40:2), ma dal momento che pone il piede sulla rocca eterna della risurrezione, Egli ci associa a Sé. Era solo quando gettò «il gran grido» sulla croce (Marco 15:37), ma ha dei compagni quando canta «il cantico nuovo» (Salmo 40:2-3).

Ora si tratta di sapere se rifiuteremo di soffrire con Lui da parte degli uomini, dopo che Egli ha sofferto per noi da parte di Dio. Evidentemente, qui siamo chiamati in causa, dal momento che lo Spirito Santo impiega la parola «se» in rapporto con questo soggetto: «se veramente soffriamo con lui» (Romani 8:17), e poi «se abbiamo costanza, con Lui regneremo» (2 Timoteo 2:12).

La nostra sofferenza non ha nulla a che fare con l’essere adottati da Dio come figli; si perviene all’alta dignità di figli, membri della famiglia di Dio, non per mezzo della sofferenza, ma per la potenza vivificante dello Spirito Santo fondata sull’opera compiuta da Gesù, secondo il consiglio eterno di Dio. L’apostolo Paolo non scrive ai Tessalonicesi: «affinché siate stimati degni della famiglia di Dio», ma «vi proclamerà degni di quel regno di Dio, per il quale anche soffrite» (2 Tessalonicesi 1:5). I Tessalonicesi facevano già parte della famiglia, ma erano destinati al regno, ed è attraverso la sofferenza che passa la strada che vi conduce; oltre a ciò, la misura delle loro sofferenze per il regno era in rapporto col grado della loro devozione e della loro conformità al Re. Più Gli saranno simili, più soffriranno con Lui; e più la nostra comunione con Lui nelle sue sofferenze sarà profonda, più lo sarà la nostra comunione con Lui nella gloria.

Vi è una differenza fra la casa del Padre e il regno del Figlio; nella prima si tratta di una posizione che ci è conferita, nel secondo si tratta di impegno che spetta a noi. Tutti i miei figli possono essere seduti alla mia tavola; ma il godimento che avranno nella mia compagnia e nella mia conversazione dipenderà solo dalla loro capacità. Uno di loro può essere seduto sulle mie ginocchia nel pieno godimento della sua relazione di figlio, senza che sia capace, tuttavia, di comprendere le mie parole; un altro, forse, darà prova di una rara intelligenza senza per questo essere più felice del piccolo che mi sta sulle ginocchia.

Ricordiamoci, tuttavia, che soffrire con Cristo non è paragonabile al giogo d’uno schiavo, ma è un privilegio e una dedizione volontaria; non una legge di ferro, ma un favore della grazia. «Poiché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in Lui, ma anche di soffrire per Lui» (Filippesi 1:29). Inoltre, il vero segreto delle sofferenze per Cristo sta nel fatto che le nostre affezioni siano concentrate su Lui. Più ameremo Gesù, più ci terremo vicini a Lui; più ci terremo vicini a Lui, più l’imiteremo fedelmente; e più l’imiteremo fedelmente, più soffriremo con Lui. «Noi amiamo perché Egli ci ha amati per primo» (1 Giovanni 4:19).

Guardiamoci, su questo punto come su tutti gli altri, da uno spirito legalista; non creda qualcuno di soffrire per Cristo sotto il giogo del legalismo; ci sarebbe da temere che non conosca né Cristo, né la posizione benedetta di figlio, e che non sia ancora fermo nella grazia, ma cerchi di entrare nella famiglia per mezzo delle opere della legge. D’altra parte, guardiamoci dall’indietreggiare di fronte al «calice» e al »battesimo» del nostro Maestro (Marco 10:38); non mostriamo di godere i benefici che la croce ci assicura, mentre rifiutiamo di partecipare alla reiezione che questa croce implica. Siamo ben convinti che il sentiero che conduce al regno non è rischiarato dal sole del favore del mondo e che non è cosparso dai fiori della sua felicità. Quando un credente ha successo nel mondo, c’è da temere che non cammini in comunione con Cristo. «Se uno mi serve, mi segua; e là dove sono io, sarà anche il mio servitore» (Giovanni 12:26).

Qual era lo scopo della vita terrena di Cristo? Ha forse cercato di ottenere una posizione elevata nel mondo? No, ma ha trovato il suo posto sulla croce fra due briganti condannati a morte. Qualcuno potrà dire: ma in questo c’era la mano di Dio; ciò è vero, ma c’era anche quella dell’uomo! Ed è quest’ultima verità che comporta necessariamente il nostro rifiuto da parte del mondo, se camminiamo con Cristo.

La nostra associazione con Cristo ci apre il cielo e ci mette al di fuori del mondo; e se professiamo di essere del cielo senza che il mondo ci respinga, significa che c’è qualcosa di falso nella posizione che abbiamo preso. Se Cristo fosse sulla terra ancora oggi, quale sarebbe il Suo cammino? A che tenderebbe, dove terminerebbe? Dio ci conceda di rispondere a queste domande alla luce della Sua Parola che ci pone, così come siamo, sotto lo sguardo dell’Onnipotente. E che lo Spirito Santo ci renda fedeli al nostro Signore assente, crocifisso e respinto.

Chi cammina secondo lo Spirito sarà ripieno di Cristo, ed essendo ripieno di Lui sarà occupato non della sofferenza, ma di Colui per il quale soffre. Se lo sguardo è fissato su Cristo, le sofferenze non saranno per nulla da paragonare alla gioia presente e alla gloria avvenire.

10.6 La visione d’Abramo

Diamo ora un rapido sguardo sulla visione di Abramo riferita negli ultimi versetti di questo capitolo (15:12-17). «Al tramonto del sole, un profondo sonno cadde su Abramo; ed ecco uno spavento, una oscurità profonda cadde su di lui. Il SIGNORE disse ad Abramo: “Sappi per certo che i tuoi discendenti dimoreranno come stranieri in un paese che non sarà loro: saranno fatti schiavi e saranno oppressi per quattrocento anni; ma io giudicherò la nazione di cui saranno stati servi e, dopo questo, se ne partiranno con grandi ricchezze…Or come il sole fu tramontato e venne la notte scura, ecco una fornace fumante e una fiamma di fuoco passare in mezzo agli animali divisi».

Si può dire che tutta la storia d’Israele sia riassunta in queste due figure: la «fornace fumante» e la «fiamma di fuoco». La prima rappresenta le diverse epoche nelle quali gli Israeliti sono stati messi alla prova e hanno sofferto: la lunga schiavitù in Egitto, il tempo della loro soggezione ai re di Canaan, quello della loro cattività in Babilonia, e infine il tempo della loro dispersione (*). Si può considerare Israele come un popolo che passa attraverso la fornace fumante in tutti questi differenti periodi (vedere Deuteronomio 4:20, 1 Re 8:51, Isaia 48:10

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(*) e delle persecuzioni subite nell’ultima guerra mondiale (N. d. T.).

La fiamma di fuoco, o torcia di fuoco, è l’immagine delle varie fasi della storia d’Israele, nelle quali l’Eterno appare in grazia per soccorrere i suoi: tale fu la sua liberazione dall’Egitto per mano di Mosè, la liberazione dalla potenza dei re di Canaan durante il ministero dei Giudici, il ritorno in Giudea dopo la deportazione a Babilonia, in virtù del decreto di Ciro; e infine, la liberazione finale del popolo quando Dio apparirà nella Sua gloria.

Non si giunge all’eredità se non passando attraverso la fornace fumante, e più il fumo della fornace è denso, più sarà brillante la fiamma della salvezza divina. L’applicazione di questo principio non è limitato solo al popolo di Dio nel suo insieme, ma riguarda anche ognuno di quelli che lo compongono. Tutti quelli che sono pervenuti a una posizione eminente come servitori sono passati attraverso la fornace prima di essere chiamati a godere della torcia di fuoco.

Uno spavento e una oscurità profonda cadde su Abramo; Giacobbe dovette subire vent’anni di duro servizio in casa di Labano; Giuseppe trovò la fornace dell’afflizione nella prigione di Egitto; Mosè passò quarant’anni nel deserto.

La Sacra Scrittura ci fa vedere l’applicazione di questo principio ai diaconi (o «servitori») e ai vescovi (o «sorveglianti»): «i diaconi… siano prima provati; poi svolgano il loro servizio se sono irreprensibili» (1 Timoteo 3:8-10); «il vescovo… non sia convertito di recente, affinché non diventi presuntuoso e cada nella condanna inflitta al diavolo» (v. 6).

Essere un figlio di Dio è una cosa, essere un servitore di Cristo è un’altra. Se metto mio figlio a lavorare il giardino, farà forse più male che bene. Perché? Forse perché non è un figlio che amo? No, ma perché non è un servitore esercitato. In questo sta tutta la differenza. Una relazione e un impiego sono due cose distinte; non che ogni figlio di Dio non abbia qualche cosa da fare, da soffrire o da imparare; ma rimane pur sempre vero che il servizio pubblico e la disciplina rimangono intimamente legati nelle vie di Dio. Chi è chiamato ad un servizio pubblico deve avere quella disposizione umile, quel giudizio maturo, quello spirito sottomesso e mantenuto «conforme a Lui nella Sua morte« (Filippesi 3:10), quella volontà subordinata a Dio, quel tono dolce, che sono i risultati della disciplina segreta di Dio. In genere, si vedrà che quelli che si mettono avanti senza avere, almeno in una certa misura, le qualità morali suddette, presto o tardi falliscono allo scopo.

11. Capitolo 16: Sarai e Agar

11.1 Il ricorso a mezzi umani

Qui vediamo che, per la seconda volta, Abramo è distolto dal sentiero della semplice fiducia in Dio. «Sarai disse ad Abramo: “Ecco, il SIGNORE mi ha fatta sterile”» (v. 2). Queste parole sono l’espressione dell’impazienza caratteristica dell’incredulità; Abramo avrebbe dovuto valutarle così, e aspettare pazientemente dal Signore l’adempimento della Sua promessa. Ma il nostro povero cuore naturale preferisce tutt’altra cosa che una posizione di attesa: farà ricorso ad espedienti, farà dei piani, userà una risorsa qualsiasi piuttosto che rimanere in una posizione che tanto gli pesa.

Credere ad una promessa è una cosa, aspettarne pazientemente l’adempimento è un’altra. Abramo dimostra della fede al capitolo 15, però manca di pazienza al capitolo 16; e così comprendiamo meglio il senso e la bellezza di quello che leggiamo al cap. 6 v. 12 della Lettera agli Ebrei: «… affinché non diventiate indolenti, ma siate imitatori di quelli che per fede e pazienza ereditano le promesse». Dio fa una promessa: la fede la crede, la speranza l’anticipa, e la pazienza ne aspetta tranquillamente l’adempimento.

Nelle relazioni commerciali c’è il «valore attuale» di una cambiale o d’un assegno all’ordine. È lo stesso nel mondo della fede. Vi è anche un valore presente delle promesse di Dio, e la misura che regola questo valore è la conoscenza di Dio sperimentata nel cuore: poiché è dal modo in cui apprezziamo Dio che dipende il valore che diamo alle Sue promesse. Inoltre, l’anima sottomessa e paziente trova una ricca e piena ricompensa, rimettendosi così a Dio per l’adempimento di tutto ciò che Egli ha promesso.

In quanto a Sarai, ciò che essa disse ad Abramo significava, in definitiva, questo: ‘l’Eterno è venuto meno; forse la mia serva egiziana sarà una soluzione’. Si è sorpresi nel vedere a quali assurdità talvolta il credente può attaccarsi quando ha perso il sentimento della presenza di Dio, quando dimentica che la Sua fedeltà non fa mai difetto e che Egli è sufficiente a tutto. L’anima perde quella disposizione pacifica e quell’equilibrio così necessari per la testimonianza di chi cammina per la fede.

Ma sottrarsi alla dipendenza assoluta da Dio è cosa amara, e le sue conseguenze sono sempre funeste. Se Sarai avesse detto: «La natura mi ha delusa, ma Dio è la mia risorsa», tutto sarebbe stato molto diverso; sarebbe rimasta sopra un fondamento vero, poiché effettivamente la natura l’aveva delusa. A giudizio di Dio, come a quello della fede, la natura di Agar non era migliore di quella di Sarai: la natura, vecchia o giovane, è la stessa agli occhi di Dio, e quindi anche a quelli della fede. Ma questa verità non ha potenza su di noi se Dio non è diventato il centro della nostra esistenza. Soltanto quando ci appoggiamo seriamente sul Dio vivente possiamo rinunciare a tutto ciò che è umano.

Questo non significa che dobbiamo disprezzare gli strumenti di cui Dio si serve: sarebbe indifferenza e non fede. La fede tiene conto dello strumento non per un suo valore intrinseco, ma per Colui che l’adopera; l’incredulità considera solo lo strumento e fa dipendere il successo da quello, invece che la virtù onnipotente di Colui che se ne serve. Facciamo due esempi contrapposti: Saul, considerando Davide e poi il Filisteo, dice al primo: «Tu non puoi andare a batterti contro quel Filisteo; poiché tu non sei che un ragazzo», Ma per Davide non importava sapere se poteva o no vincere il Filisteo, ma se l’Eterno aveva il potere di farlo.

Il sentiero della fede è un sentiero molto semplice, ma molto stretto. La fede non deifica né disprezza i mezzi; li apprezza per quanto è Dio a servirsene. Ora, vi è una grandissima differenza fra l’uso che Dio fa della creatura per servire me, e l’uso che io ne faccio per escludere Dio. Dio si servì dei corvi per nutrire Elia, ma Elia non si servì dei corvi per escludere Dio. Quando il cuore è realmente occupato di Dio, conta solo su di Lui, nella certezza che qualunque sia il mezzo che adopera, Egli benedirà, aiuterà e provvederà a tutti i bisogni.

11.2 Tristi conseguenze

E’ evidente che Agar non era uno strumento adoperato da Dio per compiere la promessa fatta ad Abramo. Dio aveva promesso un figlio, ma non aveva detto che quel figlio sarebbe stato di Agar; e il racconto biblico ci insegna che Abramo e Sarai ebbero molti problemi ricorrendo ad Agar. La dignità di Sarai fu calpestata da una schiava egiziana la quale, vedendo che aveva concepito, «disprezzò la sua padrona», e questo non fu che il principio di tutti i dispiaceri.

Non si mantiene la propria dignità e la propria autorità se non rimanendo in una posizione di dipendenza da Dio. Nessuno è tanto indipendente da tutto ciò che lo circonda come colui che cammina veramente per fede e aspetta con fiducia l’intervento di Dio. Tutti quelli che seguono il retto cammino incontreranno senza dubbio prove e dolori, ma possono essere certi che saranno compensati dalla gioia dell’approvazione di Dio e dagli interventi del Suo amore.

«Sarai disse ad Abramo: “L’ingiuria fatta a me ricada su te”» (v. 5). Quando abbiamo mancato siamo sovente disposti a dare la colpa a un altro. Sarai non faceva che raccogliere il frutto della sua proposta; tuttavia dice ad Abramo: «L’ingiuria fatta a me ricada su di te». Poi, col permesso di Abramo, cerca di sbarazzarsi della dura prova causata dalla sua impazienza. «Abramo rispose a Sarai: “Ecco, la tua serva è in tuo potere; falle ciò che vuoi”. Sarai la trattò duramente e quella se ne fuggì da lei» (v. 6).

Quando sbagliamo dobbiamo portarne le conseguenze, e non possiamo sottrarci ad esse con l’orgoglio e la violenza; se ci serviamo di questi mezzi, non facciamo che aggravare il male. Quando abbiamo mancato, dobbiamo umiliarci, confessare la nostra colpa e aspettare da Dio la liberazione.

Non vediamo nulla di simile nella condotta di Sarai; anzi, ella non ha affatto coscienza di aver agito male e, lungi dall’aspettare da Dio la liberazione, cerca di liberarsi da sé, a modo suo. Ma tutti gli sforzi che facciamo per raddrizzare i nostri errori, prima di averli pienamente confessati, non fanno che rendere la nostra situazione più difficile. Perciò Dio ha voluto che Agar ritornasse dalla sua padrona e mettesse al mondo un figlio, che non era il figlio della promessa, ma che fu una prova per Abramo e la sua casa, come vedremo in seguito. 

11.3 Si miete quello che si semina

Tutto questo dev’essere considerato sotto un duplice punto di vista. In primo luogo, come manifestazione d’un principio pratico di grande importanza; poi, dal punto di vista dottrinale.

Per prima cosa impariamo che, quando per incredulità, siamo caduti in qualche sbaglio, non è in un momento e nemmeno per mezzo dei nostri espedienti che possiamo porvi rimedio. Bisogna che le cose seguano il loro corso: «Quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà. Perché chi semina per la sua carne, mieterà corruzione dalla carne; ma chi semina per lo Spirito mieterà dallo Spirito vita eterna» (Galati 6:7-8). Questo è un principio invariabile che incontriamo ovunque nella Scrittura e nella nostra storia personale.

Dio perdona il peccato e ristora l’anima; ma è necessario che raccogliamo quello che abbiamo seminato. Abramo e Sarai furono costretti a sopportare per anni la presenza della serva e di suo figlio, e non poterono sbarazzarsi di loro se non al momento voluto da Dio.

Vi è una benedizione particolare nell’abbandonarci a Dio. Se Abramo e Sarai avessero fatto così non sarebbero mai stati tormentati dalla presenza della serva e di Ismaele; ma poiché avevano fatto ricorso a mezzi umani bisognava che ne subissero le conseguenze. Sovente, purtroppo, siamo come tori indomabili, mentre troveremmo la nostra felicità nel rimanere tranquilli «come un bimbo divezzato sul seno di sua madre» (Salmo 131:2). Il toro indomito rappresenta chi si dibatte sotto il peso delle circostanze, e facendo sforzi che fa per liberarsene rende il suo giogo ancora più doloroso; un bimbo divezzato è invece l’immagine di chi curva umilmente il capo sotto ciò che Dio dispensa e, sottomettendosi al Signore, rende la sua sorte più accettabile.

Dal punto di vista dottrinale, invece, siamo autorizzati a considerare Agar e il suo figlio come una figura del patto della Legge e di tutti quelli che per esso sono generati «per la schiavitù« (Galati 4:24). Esaminiamo più a fondo questo aspetto.

11.4 I due patti

«Sta scritto che Abraamo ebbe due figli: uno dalla schiava e uno dalla donna libera; ma quello della schiava nacque secondo la carne, mentre quello della libera nacque in virtù della promessa. Queste cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono due patti; uno, del monte Sinai, genera per la schiavitù, ed è Agar» (Galati 4:22-25).

In questo importante passo, «la carne» è messa in contrasto con «la promessa», e impariamo così qual è il pensiero di Dio, non soltanto sul significato della parola «carne», ma anche riguardo allo sforzo che fece Abramo per ottenere per mezzo di Agar la progenie promessa, invece di confidare nella «promessa» di Dio.

I due patti sono raffigurati da Agar e da Sarai e sono diametralmente opposti l’uno all’altro. L’uno genera per la «schiavitù« in quanto focalizza l’attenzione sulla capacità dell’uomo di fare o non fare, e fa dipendere la vita da questa capacità: «Chi avrà messo in pratica queste cose, vivrà per mezzo di esse» (Galati 3:12). Di questo Agar è una figura. Ma Sara raffigura Dio come il Dio della promessa, promessa interamente indipendente dall’uomo e fondata sul volere e sul potere di Dio per adempierla. Dio non mette nessun «se» alle Sue promesse, le fa senza condizione ed è deciso di adempierle; e la fede fa assegnamento su Lui, in perfetta libertà di cuore.

Nessuno sforzo è necessario da parte della natura per l’adempimento delle promesse di Dio, ed è proprio a questo riguardo che Abramo e Sarai fallirono, tentando di raggiungere uno scopo che era loro stato assolutamente assicurato dalla promessa di Dio.

Uno dei caratteri distintivi della fede è quello di lasciare sempre a Dio il campo libero per la manifestazione di Se stesso, e quando Dio si manifesta, il posto che si addice all’uomo è quello di adoratore.

L’errore nel quale i Galati si erano lasciati trascinare consisteva nell’aggiungere qualcosa che era della «carne» a quello che Cristo aveva già compiuto sulla croce. L’Evangelo che Paolo aveva loro annunziato e che i Galati avevano ricevuto era la semplice presentazione della grazia di Dio, senza riserve e senza condizione. Gesù Cristo crocifisso era stato «rappresentato» davanti ai loro occhi (Galati 3:1). Un Cristo crocifisso regolava tutto, riguardo ai diritti di Dio come ai bisogni dell’uomo; ma falsi dottori stravolgevano, o cercavano di stravolgere, tutto l’Evangelo di Cristo dicendo: «se voi non siete circoncisi secondo il rito di Mosè, non potete essere salvati» (Atti 15:1); e così, secondo la dichiarazione dell’apostolo stesso, «annullavano» la grazia di Dio, e «Cristo sarebbe morto inutilmente» (Galati 2:21).

O Cristo è un Salvatore perfetto, o non è affatto Salvatore. L’Evangelo fa conoscere Dio che scende fino a noi peccatori colpevoli, miserabili e perduti per colpa nostra, e viene a noi portando una piena remissione di tutti i nostri peccati e una piena liberazione del nostro stato di perdizione in virtù dell’opera compiuta da Cristo sulla croce. Sostenendo che la nostra salvezza dipende in qualche modo anche da noi, priveremmo la croce di Cristo di tutta la sua gloria, e questo ci toglierebbe la pace. Infatti, se la salvezza dipende da ciò che siamo o da ciò che facciamo, siamo inevitabilmente perduti. Ma, Dio ne sia benedetto, non è così. Il grande principio fondamentale dell’Evangelo è che Dio è tutto e l’uomo è nulla; non è un miscuglio di Dio e dell’uomo; tutto è da Dio. La pace che dà l’Evangelo non si basa in parte sull’opera di Cristo e in parte sull’opera dell’uomo, ma interamente e unicamente sull’opera di Cristo, perché quest’opera è perfetta per sempre e rende perfetti, com’essa è, tutti quelli che mettono la loro fiducia in essa.

Sotto la legge, Dio, per così dire, stava a vedere ciò che l’uomo avrebbe potuto fare, mentre nell’Evangelo vediamo Dio che opera e l’uomo che sta «fermo» per vedere «la liberazione che il SIGNORE darà» (2 Cronache 20:17). Stando così le cose, l’apostolo ispirato non esita a dire ai Galati: «Voi che volete essere giustificati dalla legge, siete separati da Cristo; siete scaduti dalla grazia» (Galati 5:4). Se l’uomo avesse qualcosa da fare nell’opera della salvezza, Dio sarebbe escluso; e se Dio è escluso, la salvezza è impossibile, poiché è impossibile che l’uomo possa operare la propria salvezza. Se la salvezza è una questione di grazia, bisogna che tutto sia grazia. Non può essere metà grazia e metà legge; i due patti sono perfettamente distinti. Dev’essere Sarai o Agar; se è Agar, Dio resta fuori, se è Sarai, l’uomo rimane fuori ed è così dal principio alla fine.

La legge s’indirizza all’uomo e lo mette alla prova; essa manifesta qual è veramente il valore dell’uomo, dimostra che è scaduto, lo pone e lo tiene «sotto maledizione« fin tanto che egli ha a che fare con essa, cioè fin tanto che vive. «La legge ha potere sull’uomo per tutto il tempo ch’egli vive» (Romani 7:1). Ma quando l’uomo è «morto», l’autorità della legge cessa nei suoi confronti (vedi Romani 7:1-6; Galati 2:19; Colossesi 2:20; 3:3). Ora il credente è morto con Cristo!

L’Evangelo, affermando che l’uomo è perduto, scaduto e «morto», rivela Dio come il Salvatore di quelli che sono perduti, come Colui che perdona i colpevoli e vivifica i morti; non ci presenta Dio che esige qualcosa dall’uomo (che cosa ci si potrebbe aspettare da un uomo morto e fallito?) ma Dio che manifesta la Sua libera grazia in redenzione.

La differenza fra i due patti, quello della legge e quello della grazia, è dunque immensa, e fa comprendere la forza straordinaria del linguaggio dell’apostolo Paolo nella Lettera ai Galati: «O Galati insensati, chi vi ha ammaliati?», «Mi meraviglio», «Io temo di essermi affaticato invano per voi», «Sono perplesso a vostro riguardo», «Si facciano pure evirare quelli vi turbano!». Tale è il linguaggio dello Spirito Santo che conosce il valore di Cristo e della Sua salvezza perfetta, e che sa quanto la conoscenza dell’uno e dell’altra sia necessaria a un peccatore perduto.

Non ritroviamo questo linguaggio in nessun’altra Lettera, nemmeno in quella ai Corinzi, benché vi fossero fra loro dei disordini da reprimere. Ogni sbaglio, ogni errore dell’uomo possono essere corretti introducendo la grazia di Dio; ma i Galati, come Abramo in questo cap. 16, si allontanavano da Dio e ritornavano alla carne. Che rimedio trovare per un caso simile? Come correggere un errore che consiste nell’abbandonare l’unica cosa che può portare rimedio a tutto? Scadere dalla grazia vuol dire ritornare alla legge, dalla quale non si può raccogliere che la «maledizione».

Voglia Dio renderci saldi nella Sua grazia meravigliosa!

12. Capitolo 17: Abramo diventa Abrahamo — Sarai diventa Sara

12.1 L’alleanza di Dio con Abrahamo

Questo capitolo ci fa vedere come Dio rimedia all’errore di Abramo. «Quando Abramo ebbe novantanove anni, il SIGNORE gli apparve e gli disse: “Io sono il Dio onnipotente; cammina alla mia presenza e sii integro” (il termine nella lingua originale è perfetto)» (17:1).

Quando Abramo è chiamato ad essere «perfetto» non significa che doveva essere perfetto in se stesso, nella sua natura, cosa che è impossibile, ma semplicemente perfetto nel senso che le sue affezioni e la sua speranza dovevano essere unicamente basate sul «Dio onnipotente».

Il termine «perfetto» è adoperato nel Nuovo Testamento in almeno quattro diversi significati. In Matteo 5:48 leggiamo: «Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste». Impariamo dal contesto che «perfetto» si riferisce qui al principio che deve regolare il nostro cammino, poiché poco più su, nello stesso capitolo, leggiamo: «Amate i vostri nemici… affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (v. 44-45). Vuole dunque dire: agire verso tutti, anche verso chi ci ingiuria e ci fa del male, in base a un principio di grazia.

La parabola alla fine di Matteo 18 ci insegna che quelli che vogliono difendere ad ogni costo i propri diritti, non rispettano né il vero carattere né gli effetti della grazia. Quel servo non era ingiusto reclamando ciò che gli spettava, ma era spietato. Differiva completamente dal suo signore. Diecimila talenti gli erano stati condonati, e tuttavia era capace a strangolare il suo conservo per cento miseri denari che gli doveva! Con che risultato? Fu consegnato in mano agli aguzzini; aveva perso il sentimento benedetto della grazia e dovette raccogliere i frutti amari della sua insistenza nel difendere i propri diritti, quando egli stesso era un oggetto della grazia. Notate ch’egli è chiamato «servo malvagio » non perché aveva un debito di diecimila talenti, ma perché non aveva condonato i «cento denari»! C’era grazia sufficiente nel padrone per rimettere diecimila talenti, ma il servitore non ne aveva abbastanza per rimettere i cento denari.

Il cap. 9 agli Ebrei ci presenta un’altra accezione del termine «perfetto» e qui ancora è il contesto a stabilirne il senso. Si tratta della perfezione «quanto alla coscienza» (v. 9) e l’uso di quella parola è di grande importanza. L’adoratore, sotto la legge, non poteva mai avere una coscienza perfetta, per il semplice motivo che non possedeva un sacrificio perfetto. Il sangue d’un toro o d’un becco non poteva togliere i peccati, e il valore ch’esso aveva era per un tempo e non per l’eternità: non poteva, dunque, rendere perfetta la coscienza. Ma il più debole credente in Cristo ha il privilegio d’avere una coscienza perfetta. Perché? È forse migliore dell’adoratore sotto la legge? Certamente no, ma possiede un sacrificio migliore. Se il sacrificio di Cristo è perfetto, se lo è per sempre, e la coscienza del credente è perfetta, per sempre (Ebrei 9: 9-14, 25-26; 10:14).

È necessario distinguere bene la perfezione nella «carne« e quella nella coscienza. Pretendere di avere la prima, vuol dire esaltare l’io; rigettare l’ultima è disonorare Cristo. Lo stesso apostolo Paolo non possedeva e non riusciva a raggiungere la perfezione nella carne. La carne non è mai presentata nella Scrittura come qualcosa che debba essere perfezionata; dev’essere crocifissa. La differenza è enorme. Il cristiano ha del peccato in sé ma non su di sé. Perché? Perché Cristo, che in se stesso era senza peccato, lo ebbe su di sé quando fu inchiodato alla croce.

Per finire, al cap. 3 della Lettera ai Filippesi, troviamo un altro significato del termine «perfetto». L’apostolo dice: «Non che io abbia già attenuto tutto questo (cioè il premio) o sia già arrivato alla perfezione» (v. 12), e subito dopo: «Sia questo dunque il sentimento di quanti siamo perfetti» (la versione italiana traduce, inesattamente, «maturi») (v. 15). Nel primo passo, «la perfezione» si riferisce alla piena conformità dell’apostolo con Cristo nella gloria che si raggiungerà quando saremo nel cielo; nel secondo, al fatto che Cristo è l’oggetto esclusivo del cuore del credente che ha compreso queste cose.

È evidente che quando Abramo acconsentì all’espediente di Sarai riguardo ad Agar non camminava nella presenza del Dio Onnipotente. Solo la fede ci rende capaci di vivere liberamente davanti a Dio, mentre l’incredulità fa entrare in gioco l’io, le circostanze avverse e tante altre cose secondarie, e ci priva così della gioia, della pace e della santa dipendenza, che sono la parte di chi si appoggia unicamente sul braccio dell’Onnipotente.

«Cammina alla mia presenza». Camminare così significa non aver nulla davanti al cuore all’infuori di Dio. Se facciamo affidamento sulla creatura, non camminiamo davanti a Lui ma davanti agli uomini. Perciò è importante sapere davanti a chi si cammina e con quali propositi. A chi guardo, e su chi mi appoggio in questo momento? È Dio stesso che riempie interamente il mio avvenire? Fino a che punto gli uomini e le cose del mondo trovano posto in me? Il solo modo per elevarsi al di sopra del mondo è camminare per fede, poiché la fede riempie la scena di Dio, e lo fa in modo tale che non vi rimane posto né per la creatura né per il mondo. Se Dio riempie tutto il mio campo visuale, ogni altro oggetto sparisce, e posso dire col salmista: «Anima mia, trova riposo in Dio solo, poiché da lui proviene la mia speranza. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza; egli è il mio rifugio; io non potrò vacillare» (Salmo 62:5-6). È da notare che Dio non condivide la sua gloria con la creatura, né nei dettagli della nostra vita giornaliera, né nella questione della salvezza. Dal principio alla fine dev’essere Lui solo e soltanto Lui. Non basta che confidiamo da Lui a parole, quando poi il cuore riposa sull’uomo.

«Cammina alla mia presenza e sii integro». Tale è la via che conduce al vero scopo. Quando, per mezzo della grazia, l’anima cessa di confidarsi nella creatura, solo allora è nella disposizione voluta perché Dio possa agire; e quando Dio agisce, tutto va bene. Non lascia nulla di incompleto; regola perfettamente tutto ciò che riguarda quelli che mettono in Lui la loro fiducia. Quando la sovrana sapienza, l’onnipotenza e l’amore infinito di Dio operano insieme, il credente può godere d’un dolce riposo. Solo se potessimo trovare una circostanza troppo grande o troppo piccola per «il Dio Onnipotente», allora avremmo motivo per preoccuparci!

Questa è una verità benedetta e atta a porre tutti quelli che credono nella beata posizione nella quale troviamo Abramo in questo capitolo. Dal momento che Dio gli ebbe detto esplicitamente «abbandonami tutto ed io provvederò a tutto, al di là dei tuoi più cari desideri e delle tue più care speranze», la progenie, l’eredità e tutto ciò che ne deriva furono perfettamente ed eternamente assicurate secondo il patto del Dio Onnipotente.

«Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra» (v. 3). Beata posizione! La sola che si addica a un peccatore debole davanti al Dio vivente, creatore dei cieli e della terra, possessore di ogni cosa, «l’Onnipotente». «E Dio gli parlò». Quando l’uomo è nella polvere, Dio può parlargli in grazia. La posizione che Abramo prende qui è l’espressione del suo abbassamento completo in presenza di Dio; egli sta davanti a Lui nel sentimento della propria debolezza e della propria nullità, e questo abbassamento è il sicuro precursore della rivelazione di Dio all’anima sua. Solo così Dio può manifestare ciò che è, in tutta la gloria della sua Persona.

Che differenza nella posizione di Abramo in questi due capitoli! In uno fa ricorso ai propri espedienti e a quelli di Sarai, qui si abbandona con tutto quello che lo riguarda nelle mani di Dio e permette a Lui di agire. Perciò Dio può dire: «Io farò», «Io ti stabilirò », «Io ti darò», «Io ti benedirò». In una parola, Dio solo e la sua opera sono in causa, e in questo sta il vero riposo del cuore che ha imparato a conoscersi.

«Io stabilirò il mio patto fra me e te e ti moltiplicherò grandemente… Non sarai più chiamato Abramo, ma il tuo nome sarà Abraamo, poiché io ti costituisco padre di una moltitudine di nazioni» (17:2-5). L’effetto di questa dichiarazione fu che Abraamo si prostrò con la faccia a terra.

Dio stabilisce ora un legame fra Sé e Abramo per giungere a quel grande risultato che aveva in vista. Su questa base, Dio gli dà un nuovo nome, un nuovo divino onore. Si è spiritualmente innalzati quando si riceve da Dio un nome nuovo; è come quando un re conferisce un titolo onorifico a qualcuno dei suoi sudditi. Dio ha il diritto di conferire nobiltà a chi vuole. Il nome Abramo, che significa «Padre grande o onorato», indica ciò che egli fu personalmente come capo della famiglia della fede; ma Abraamo, «Padre di una moltitudine», indica la grandezza di questa famiglia; egli doveva essere non solo padre di una moltitudine di persone, ma di una moltitudine di nazioni. Dio voleva moltiplicare grandemente la discendenza della fede, e spiega qui l’estensione e la vastità del risultato che si ottiene sulla base del principio della fede e della promessa.

Poco dopo Dio disse ad Abraamo: «Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamare più Sarai; il suo nome sarà invece Sara… Re di popoli usciranno da lei» (v. 15-16). Da «Donna nobile» diventa «Principessa»; anch’essa aumenta di grado. Da donna sterile, figura di Israele che non può produrre nulla per Dio, diventa la madre della discendenza della promessa, grazie a quel Dio che ha il potere regale di agire sovranamente e innalzare chi vuole.

12.2 La circoncisione

Ora è introdotto il patto della circoncisione. Ogni membro della famiglia della fede deve portare nella sua carne il segno del Suo patto.

«Questo è il mio patto che voi osserverete… : ogni maschio fra voi sia circonciso… Quello nato in casa tua e quello comprato con denaro dovrà essere circonciso; e il mio patto nella vostra carne sarà un patto perenne. L’incirconciso, il maschio che non sarà stato circonciso nella carne del suo prepuzio, sarà tolto via dalla sua gente: egli avrà violato il mio patto» (17:9-14). Il cap. 4 della Lettera ai Romani ci insegna che la circoncisione era il « segno (lett. sigillo) della giustizia della fede» (v. 11). «Abraamo credette a Dio e ciò gli fu messo in conto come giustizia» (v. 3). Essendo così considerato giusto, Dio mette il suo «sigillo» su di lui.

Il sigillo col quale il credente di oggi è sigillato, non è un segno nella carne, come allora, ma è quello dello Spirito Santo di Dio (Efesini 4:30). Questo è fondato sull’eterna relazione che il credente ha con Cristo e sulla sua perfetta identificazione con Lui nella morte e nella risurrezione, come è scritto: «Voi avete tutto pienamente in lui, che è il capo di ogni principato e di ogni potenza; in lui siete anche stati circoncisi di una circoncisione non fatta da mano d’uomo, ma della circoncisione di Cristo, che consiste nello spogliamento del corpo della carne: siete stati con lui sepolti nel battesimo, nel quale siete anche stati risuscitati con lui mediante la fede nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti. Voi, che eravate morti nei peccati e nella incirconcisione della vostra carne, voi, dico, Dio ha vivificati con lui, perdonandoci tutti i nostri peccati» (Colossesi 2:10-13). Questo magnifico passo ci insegna il vero significato della circoncisione.

Non vi è una sola macchia di peccato sulla coscienza dei suoi, né un principio di peccato nella loro natura, di cui Cristo non abbia portato il giudizio sulla croce. Ora i credenti sono considerati come morti con Cristo, come essendo stati messi nel sepolcro con Lui, e risuscitati con Lui, resi graditi a Dio in Lui; i loro peccati, le loro iniquità, le loro trasgressioni, la loro inimicizia, sono stati completamente tolti alla croce. La sentenza di morte grava sulla carne; ma il credente possiede una vita nuova unita al Capo risuscitato nella gloria.

Nel passo che abbiamo citato, l’apostolo ci insegna che la Chiesa è uscita vivificata dalla tomba di Cristo; inoltre, che il perdono dei peccati della Chiesa è tanto perfetto ed è così interamente opera di Dio, quanto lo è la risurrezione di Cristo dai morti. Ora questo fu, come sappiamo, il risultato dell’intervento dell’eccellente grandezza della «forza di Dio» (oppure: «l’immensità della sua potenza») (Efesini 1:19).

Che espressione forte per descrivere la grandezza e la gloria della redenzione, come pure il solido fondamento sulla quale essa riposa! Che perfetto riposo il cuore e la coscienza trovano qui! Che liberazione completa per un’anima stanca e aggravata! Tutti i nostri peccati sono seppelliti nella tomba di Cristo; nemmeno uno, fosse anche il più piccolo, è rimasto fuori! Dio ha fatto questo per noi! Tutto ciò che di negativo l’occhio Suo ha potuto scorgere in noi, Egli l’ha posto sul capo di Cristo quando era sulla croce! Fu allora che su quella croce Dio giudicò Cristo, invece di giudicare noi e precipitarci nelle pene dell’inferno! Tali sono i preziosi frutti dei consigli insondabili ed eterni dell’amore redentore. Tutta la famiglia della fede è sigillata non con un sigillo esteriore, nella carne, ma dallo Spirito Santo. Il valore e l’immutabile efficacia del sangue di Cristo sono tali che lo Spirito Santo, la terza persona dell’Eterna Trinità, può fare la propria dimora in ciascuno di quelli che hanno messo nel Signore la loro fiducia.

Che rimane dunque da fare a coloro che sanno queste cose, se non rimanere «saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell’opera del Signore» (1 Corinzi 15:58)?

13. Capitolo 18: Visita dei messaggeri celesti a Abrahamo

13.1 Comunione con il Signore

Questo capitolo ci offre un bell’esempio dei risultati di una vita di separazione dal male e di ubbidienza a Dio.

«Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l’amerà, e noi verremo da lui e dimoreremo presso di lui» (Giovanni 14:23). Questo passo, messo in rapporto col contenuto del capitolo che studieremo, ci mostra che il genere di comunione di cui gode un’anima ubbidiente è assolutamente sconosciuto a chi si muove in un’atmosfera mondana; ma questo non tocca in nessun modo la questione del perdono e della giustificazione. Tutti i credenti sono rivestiti della medesima veste di giustizia. Sono tutti posti davanti a Dio, sotto una sola e unica giustificazione. La stessa vita scende dalla Testa che è nel cielo, e si spande in tutti i membri del Suo corpo sulla terra. Questa’importante dottrina, sviluppata a più riprese già nelle pagine precedenti, è stabilita nel modo più chiaro nelle Scritture.

Ma dobbiamo ricordare che la giustificazione e i frutti della giustificazione sono due cose del tutto diverse. Essere un figlio è una cosa, essere un figlio ubbidiente un’altra. Un padre ama un figlio ubbidiente e farà di lui il depositario dei suoi pensieri e dei suoi piani. Non è forse così del nostro Padre celeste? Le parole sopra citate del nostro Signore (Giovanni 14:23-24) lo confermano; inoltre, esse dimostrano che pretendere di amare Cristo e non «osservare la sua Parola» è ipocrisia: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola». Non osservare la Sua parola sarebbe la prova evidente che non camminiamo nell’amore del nome di Cristo. Il nostro amore per Cristo si manifesta nel fare le cose che Egli ci ha comandato, e non nel dire: «Signore, Signore!». A che serve dire «Vado, Signore», mentre in cuore non ci sogniamo nemmeno di andare? (vedi Matteo 21:28-32).

Benché Abraamo sia caduto in alcuni errori, vediamo nondimeno in lui un uomo che si distingue per un cammino di comunione con Dio elevato, autentico, intimo e che, nella parte della sua storia che meditiamo in questo momento, gode di tre privilegi particolari: offrire a Dio qualcosa che gli è gradito, essere in piena comunione con Lui e intercedere per gli altri davanti a Dio. Sono questi i privilegi gloriosi che accompagnano un cammino santo, una vita di separazione e di ubbidienza.

L’ubbidienza è gradita a Dio, perché è il frutto della Sua grazia nel nostro cuore. Il solo uomo perfetto che sia mai esistito, il Signore Gesù, era ubbidiente e faceva le delizie del Padre: a più riprese Dio gli rese testimonianza dal cielo dicendo: «Questo è il mio diletto Figlio nel quale mi sono compiaciuto» (Matteo 3:17). La vita di Cristo sulla terra era un soggetto di gioia continua per il cielo; tutte le Sue vie erano sempre come una fragranza d’incenso che saliva al trono di Dio. Dalla mangiatoia alla croce, Egli ha sempre fatto le cose che piacevano al Padre. Non vi erano, nelle Sue vie, né interruzioni, né variazioni. Egli fu il solo perfetto.

Seguendo il corso della storia sacra troviamo, qua e là, un’anima che, occasionalmente, ha rallegrato il cielo. Così in questo troviamo lo «straniero di Mamre» nella sua tenda che offre all’Eterno ciò che può soddisfarlo. I doni sono offerti con amore e accettati con benevolenza.

Vediamo poi Abraamo godere una comunione intima con l’Eterno; intercede presso di Lui prima per quel che lo riguarda personalmente (v. 9-15) poi per gli abitanti di Sodoma (v. 16-21). Quale conferma delle divine promesse furono per il cuore di Abramo le parole: «Sara, tua moglie, avrà un figlio!» (v. 10). Tuttavia questa promessa non fece che produrre un sorriso in Sara (v. 12), come aveva fatto per Abraamo nel capitolo precedente.

Vi sono nella Scrittura due tipi di «sorrisi»; prima quello di cui l’Eterno riempie la bocca del Suo popolo, quando in un momento di grande prova gli viene in aiuto in modo clamoroso: «Quando il SIGNORE fece tornare i reduci di Sion, ci sembrava di sognare. Allora spuntarono sorrisi sulle nostre labbra e canti di gioia sulle nostre lingue. Allora si diceva tra le nazioni: “Il SIGNORE ha fatto cose grandi per loro”» (Salmo 126:1-3). Ma c’è anche il riso dell’incredulità, quando le promesse di Dio sono troppo gloriose per essere ricevute nei nostri piccoli cuori, oppure quando i mezzi di cui Dio si serve ci paiono troppo piccoli per l’adempimento dei Suoi grandi disegni. Non vergogniamoci del primo di questi sorrisi e non temiamo di confessarlo. I figli di Sion non hanno vergogna di dire: «Allora spuntarono sorrisi sulle nostre labbra».

«Allora Sara negò, dicendo: “Non ho riso”; perché ebbe paura» (v. 15). L’incredulità fa di noi dei bugiardi; è la fede che dà ardire e rende sinceri, capaci di «avvicinarsi» a Dio con piena certezza di fede e «con cuore sincero« (Ebrei 4:16; 10:22).

13.2 La rivelazione dei disegni di Dio

Ma vi è di più: Dio fa di Abraamo il depositario dei Suoi pensieri e dei Suoi progetti riguardo Sodoma, poiché egli è abbastanza vicino a Dio per essere portato a conoscenza dei Suoi segreti disegni riguardo a quella città. «Il Signore disse: “Dovrei forse nascondere ad Abraamo quanto sto per fare?”» (18:17).

Se vogliamo conoscere le intenzioni di Dio in merito alla sorte del presente «secolo malvagio» (Galati 1:4), dobbiamo essere interamente separati da esso e non prendere nessuna parte ai suoi intrallazzi e alle sue speculazioni. Più ci terremo vicini a Dio, più saremo sottomessi alla Sua Parola e meglio anche conosceremo i Suoi pensieri. Non abbiamo bisogno dei vari mezzi di comunicazione per sapere ciò che sta per accadere al mondo: la Scrittura ci rivela tutto quello che concerne le caratteristiche, il corso e il destino di questo mondo. Se invece ricorriamo agli uomini per istruirci su queste cose, Satana se ne servirà per ingannarci e impedirci di vedere. Se Abraamo fosse andato in Sodoma per mettersi al corrente di ciò che vi accadeva e si fosse indirizzato a qualcuno dei suoi capi più intelligenti per sapere qual era il suo pensiero intorno allo stato morale di quella popolazione e le sue prospettive per l’avvenire, che cosa gli avrebbero risposto? Senza dubbio avrebbero portato l’attenzione di Abraamo sulle imprese agricole e architettoniche dei loro concittadini e sulle immense risorse del paese; avrebbero fatto passare davanti a lui tutta una scena di attività febbrile: acquisti, vendite, costruzioni, piantagioni, banchetti. Gli abitanti di Sodoma non avrebbero nemmeno sognato un giudizio da parte di Dio; e se qualcuno ne avesse parlato, avrebbe suscitato sulle loro labbra il riso dell’incredulità.

È evidente che non era a Sodoma che bisognava andare per sapere quale sarebbe stata la sua fine. Il luogo dove Abraamo «si era prima fermato davanti al SIGNORE» (Genesi 19:27) era il solo da cui lo sguardo poteva abbracciare tutta la scena. Da lì Abraamo dominava tutte le oscure nubi che si accumulavano sopra Sodoma. Nella serenità e nella calma della presenza di Dio, tutto era diventato chiaro per lui.

13.3 L’intercessore

Che uso fece Abraamo di ciò che Dio gli aveva rivelato e della beata posizione di cui godeva? Di che cosa era occupato nella presenza di Dio? Intercedere, davanti all’Eterno, per coloro che si trovavano mescolati al popolo corrotto di Sodoma ed erano in pericolo di essere coinvolti nel terribile giudizio di questa città colpevole. E’ questo il terzo privilegio concesso ad Abraamo.

Come accade sempre in casi simili, Abraamo fece buon uso della sua posizione vicino a Dio. L’anima che può avvicinarsi a Lui «in piena certezza di fede», avendo il cuore e la coscienza perfettamente in pace, riposandosi su Dio per il passato, per il presente e per l’avvenire, sarà anche in grado di intercedere per gli altri e lo farà. Chi ha rivestito l’armatura completa di Dio può pregare «per tutti i santi». (Efesini 6:18); e, sotto tutti gli aspetti, questo ci fa intravedere l’intercessione del «nostro gran sommo sacerdote che è passato attraverso i cieli, Gesù, il Figlio di Dio» (Ebrei 4:14)! Il Signore Gesù siede sul trono del Padre, nello splendore della gloria, e intercede per coloro che sono in mezzo alle pene e alle contaminazioni di questo mondo. Quanto sono felici e al sicuro i credenti! Piacesse a Dio che i nostri cuori fossero meglio penetrati del valore di tale privilegio e potessero capire meglio l’infinita pienezza della Sua grazia e della Sua provvidenza in tutti i nostri bisogni!

Vediamo in questo passo che, per quanto benedetta potesse essere l’intercessione di Abraamo, essa era tuttavia limitata, perché l’intercessore non era che un uomo; non poteva arrivare all’altezza del bisogno. Abraamo dice: «Parlerò ancora questa volta soltanto» (v. 32), poi si ferma, come se temesse di aver presentato, al tesoro della grazia, una richiesta troppo onerosa o come se dimenticasse, per così dire, che «l’assegno« della fede è sempre stato onorato alla «banca» di Dio. Non che Dio lo tenesse sulle spine; vi era abbondanza di grazia e di pazienza in Lui per ascoltare le richieste del suo caro servitore, se avesse perseverato ad intercedere per amore di tre o anche di un solo giusto, cos’avrebbe fatto Dio? Non lo sappiamo; ma il servitore teme di oltrepassare l’ammontare del suo «fido» e cessa di domandare.

Non è cosi del nostro benedetto Intercessore: di Lui si può dire: «Può salvare perfettamente… dal momento che vive sempre per intercedere per loro» (Ebrei 7:25). Possiamo noi attaccarci a Lui nelle nostre debolezze e nelle nostre lotte!

13.4 Gli eventi futuri e la speranza della Chiesa

Prima di terminare questo capitolo, vorrei fare una riflessione. Quando si studiano le Scritture è molto importante distinguere fra il «governo» di Dio riguardo al mondo e la speranza particolare della Chiesa. Tutte le profezie dell’Antico Testamento e gran parte di quelle del Nuovo trattano del governo morale di Dio sul mondo e offrono così al credente un soggetto di studio di grande interesse. È infatti interessante sapere ciò che Dio fa e farà riguardo a tutte le nazioni della terra; leggere i Suoi pensieri in merito a Tiro, a Babilonia, a Ninive, a Gerusalemme, all’Egitto, all’Assiria e al paese d’Israele. Ma ricordiamoci che queste profezie non trattano della speranza della Chiesa, poiché l’esistenza della Chiesa non è rivelata nell’Antico Testamento in modo diretto, e tanto meno la sua speranza.

Ciò non significa che le profezie dell’Antico Testamento non contengano una ricca messe di principi divini e morali da cui la Chiesa può trarre profitto. Ma la sua speranza non ha nessun rapporto con ciò che riguarda le vie di Dio verso le nazioni; essa consiste nell’attesa di  andare incontro al Signore Gesù nell’aria, per essere sempre con Lui e resi simili a Lui (ved. 1 Tessalonicesi 4:13 e seg.).

Alcuni dicono: «Non sono portato per lo studio della profezia». È possibile; ma se amate Cristo, amerete anche la Sua venuta, quand’anche foste incapaci di investigazioni profetiche. Una moglie che ama suo marito può mancare di capacità per entrare nei suoi affari, ma se egli è assente avrà il cuore occupato del suo ritorno; può non comprendere nulla del suo diario o dei suoi libri, ma riconosce il suo passo e distingue la sua voce. Il meno istruito fra i credenti, se ama la persona del Signore Gesù può nutrire il più intenso desiderio di vederlo; e tale è la speranza della Chiesa.

L’apostolo poteva dire ai Tessalonicesi: «Vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivente e vero, e per aspettare dai cieli il Figlio suo» (1 Tessalonicesi 1:9-10). È evidente che al momento della loro conversione, i santi di Tessalonica avevano una conoscenza molto incompleta della profezia e del soggetto speciale di cui essa si occupa: eppure, fin d’allora, sono stati messi in possesso e posti sotto la potenza della speranza propria della Chiesa, che è di aspettare la venuta dello Sposo. È così da un capo all’altro del Nuovo Testamento. Anche qui troviamo delle profezie e il governo morale di Dio; ma un gran numero di passi ci provano che la speranza comune dei credenti dei tempi apostolici era la venuta del Figlio di Dio e il Suo ritorno.

Possa lo Spirito Santo far rivivere questa «beata speranza» nei nostri cuori e «preparare al Signore un popolo ben disposto» (Luca 1:17).

14. Capitolo 19: La distruzione di Sodoma

14.1 Una posizione falsa

Il Signore, nella Sua grazia, usa due metodi per distogliere il cuore dell’uomo dalle cose del mondo: prima rivela il prezzo e l’immutabilità delle «cose di lassù», poi fa conoscere la vanità e l’instabilità di«quelle che sono sulla terra» (Colossesi 3:1-2).

La fine del cap. 12 della Lettera agli Ebrei ci offre un magnifico esempio di questi due metodi. Dopo aver stabilito la verità, cioè che ci siamo «avvicinati al monte Sion, alla città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste» (v. 22) e a tutte le gioie e a tutti i privilegi che vi sono collegati, l’apostolo prosegue dicendo: «Badate di non rifiutarvi d’ascoltare colui che parla; perché se non scamparono quelli, quando rifiutarono d’ascoltare colui che promulgava oracoli sulla terra, molto meno scamperemo noi, se voltiamo le spalle a colui che parla dal cielo; la cui voce scosse allora la terra e che adesso ha fatto questa promessa: “Ancora una volta farò tremare non solo la terra, ma anche il cielo”. Or questo “ancora una volta” sta a indicare la rimozione delle cose scosse come di cose fatte perché sussistano quelle che non sono scosse» (v. 25-27).

Ora, è meglio essere attirati dalle gioie del cielo che esservi spinti dai dispiaceri della terra. Il credente non dovrebbe aspettare che il mondo lo abbandoni per abbandonare il mondo; dovrebbe lasciare le cose della terra per mezzo della potenza della comunione con le cose che sono in alto. Uno spazzino venuto in possesso, improvvisamente, d’una grande fortuna non continuerebbe il suo mestiere per molto tempo. Nello stesso modo, se afferriamo per la fede il valore e la realtà dei beni immutabili che sono nei cieli e la parte che abbiamo in essi, non avremo difficoltà ad abbandonare le gioie fittizie della terra.

Volgiamo ora la nostra attenzione sulla parte solenne della storia sacra alla quale siamo giunti. Lot è seduto «alla porta di Sodoma», ha fatto la sua strada nel mondo, ha avuto successo, umanamente parlando. Al principio, aveva rizzato le sue tende verso Sodoma; più tardi, entrò nella città; ed ora, lo troviamo «seduto alla porta», nel posto dove stavano gli uomini influenti.

Com’è diverso tutto questo dalla scena che apre il capitolo precedente! La causa, caro lettore, è evidente: «Per fede, Abraamo dimorò nella terra promessa come straniero dimorando sotto le tende». Nulla di simile è detto di Lot. Non si potrebbe dire: «Per fede, Lot sedette alla porta di Sodoma». Ahimé! Lot non ha posto fra i nobili uomini di fede, quel «gran nuvolo» di testimoni della potenza della fede. Il mondo fu per lui un laccio, e le cose presenti la sua perdita. Egli non «rimase costante, come se vedesse colui che è invisibile» (Ebrei 11:27). Il suo sguardo era intento «alle cose che si vedono» e che «sono per un tempo», mentre lo sguardo di Abraamo rimaneva intento «a quelle che non si vedono» e che «sono eterne» (2 Corinzi 4:18).

La differenza fra questi due uomini era immensa; benché avessero incominciato il loro cammino insieme, giunsero a un risultato diametralmente opposto, almeno quanto alla loro testimonianza. Senza dubbio Lot è un salvato, ma lo è «come attraverso il fuoco» poiché «l’opera sua sarà arsa» (1 Corinzi 3:15). Ad Abraamo invece fu «ampiamente concesso l’ingresso nel regno eterno del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo» (2 Pietro 1:11).

A Lot non fu concesso di godere gli onori e i privilegi di cui fu onorato Abraamo. Invece di ricevere, sotto la propria tenda, la visita del Signore, Lot «si tormentava ogni giorno nella sua anima giusta» (2 Pietro 2:8); invece di godere della comunione del Signore, si trova distante da Lui; invece di intercedere per gli altri, tutto quello che può fare è intercedere per sé. Dio rimane con Abraamo per comunicargli i Suoi pensieri, mentre a Sodoma manda i Suoi angeli, ed è a fatica che questi acconsentono ad entrare in casa sua e ad accettarne l’ospitalità: «No, – essi dicono – passeremo la notte sulla piazza» (v. 2). Che rimprovero!

Com’è diversa la risposta che il Signore diede ad Abramo dicendogli: «Fa’ pure come hai detto» (18:5). Ricevere ospitalità da qualcuno è un atto molto significativo; è l’espressione di una vera comunione con colui dal quale la si riceve (Apocalisse 3:20). «Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, entrate in casa mia, e alloggiatevi» (Atti 16:15).

La risposta che gli angeli danno a Lot è dunque una condanna esplicita della posizione di Lot in Sodoma: preferiscono passare la notte sulla strada che entrare sotto il tetto di qualcuno che si trova in una falsa posizione. Infatti il loro unico scopo, recandosi a Sodoma, sembra essere la liberazione di Lot, e questo grazie ad Abraamo, come è scritto: «Fu così che Dio si ricordò d’Abraamo, quand’egli distrusse le città della pianura e fece scampare Lot al disastro, mentre distruggeva le città dove Lot aveva abitato» (v. 29). Questa dichiarazione prova che fu per amore di Abraamo che Lot venne risparmiato.

Il Signore non simpatizza con un cuore mondano, ed è quest’amore del mondo che aveva indotto Lot a stabilirsi in mezzo alla corruzione di Sodoma. Non fu né la fede, né lo spirito del cielo, né «la sua anima giusta», ma l’amore del «presente secolo malvagio» che trascinò Lot prima a «scegliere», poi «a andare piantando le sue tende fino a Sodoma» e, infine, a sedersi «alla porta di Sodoma». Che scelta, ahimé! Una «cisterna screpolata, che non contiene acqua»; «una canna rotta, che penetra nella mano di chi vi si appoggia» (Geremia 2:13 e Isaia 36:6).

Un credente che non tiene conto di Dio nelle scelte della vita non può far altro che commettere dei gravi errori. È infinitamente meglio lasciare a Dio la cura di tracciarci la via rimettendo a Lui, come piccoli fanciulli, tutto quel che ci riguarda perché Egli vuole prendersi cura di noi secondo la Sua sapienza e il Suo amore infinito.

Senza dubbio, Lot credeva di far bene i conti andando a Sodoma; le pianure circostanti erano ben irrigate e promettevano ricchezza; ma il seguito della sua storia dimostra quanto fosse grave l’errore commesso e ci esorta a vegliare per essere preservati, sin dall’inizio, dagli effetti dello spirito del mondo. «Siate contenti delle cose che avete» (Ebrei 13:5). Perché? Forse perché state bene in questo mondo, o perché vi trovate tutto quello che il vostro cuore desidera? È forse questo che deve essere il fondamento della nostra contentezza? No, assolutamente no: ma perché Dio stesso ha detto: «Io non ti lascerò e non ti abbandonerò» (Ebrei 13:5). Se Lot si fosse accontentato, non avrebbe mai ricercato la pianura ben irrigata di Sodoma.

14.2 Una testimonianza nulla

Se abbiamo bisogno di ulteriori motivi per coltivare in noi la contentezza d’animo, li troveremmo in questo capitolo. Cosa ha ottenuto Lot in fatto di felicità e di soddisfazione? Ben poco; gli uomini di Sodoma circondano la sua casa e minacciano di forzarne l’uscio; ed egli cerca invano di calmarli con la più umiliante delle proposte: «Ecco, ho due figlie… lasciate che io ve le conduca fuori, e voi farete di loro quel che vi piacerà» (v. 8).

Il credente che si mescola al mondo per cercare il successo deve aspettarsi di subire le dolorose conseguenze della sua condotta. Non possiamo servirci del mondo per il nostro interesse e poi testimoniare efficacemente contro di esso. «Quest’individuo è venuto qua come straniero, e vuol fare il giudice!» (v. 9), dicono di lui. Si può esercitare un’efficace influenza sul mondo soltanto tenendosi separati da esso, nella potenza morale della grazia. Cercare di convincere il mondo di peccato rimanendogli associati è pura vanità; il mondo non fa caso a una simile. Fu così della testimonianza di Lot verso i suoi generi: «Ai suoi generi parve che volesse scherzare» (v. 14). È inutile parlare d’un giudizio che si avvicina fintanto che troviamo il nostro posto, la nostra parte e il nostro godimento, nella scena stessa su cui il giudizio sta per cadere!

Abraamo era in una posizione assai migliore per parlare di giudizio, poiché non era sceso nelle pianure di Sodoma e Sodoma poteva bruciare senza che le sue tende fossero in pericolo!

Possano i nostri cuori ricercare con più ardore i frutti benedetti che sono la parte di coloro che professano di essere «forestieri e pellegrini sulla terra» (Ebrei 11:13) invece di essere come il povero Lot, trascinati forzatamente fuori dal mondo.

14.3 Il disastro completo

Lot, evidentemente, rimpiangeva il luogo che era costretto ad abbandonare, tanto che non solo quegli angeli dovettero afferrarlo e trascinarlo fuori, ma quando fu esortato a fuggire verso il monte per salvare la sua vita (la sola cosa che poteva salvare dalla catastrofe), egli rispose: «No, mio signore! Ecco, il tuo servo ha trovato grazia ai tuoi occhi e tu hai mostrato la grandezza della tua bontà verso di me, conservandomi in vita; ma io non posso salvarmi sui monti prima che il disastro mi travolga e io muoia. Ecco, c’è questa città vicina per rifugiarmi è piccola e lascia che io fugga lì e non è forse piccola? e così io vivrò» (v. 18-20).

Che quadro! Lot assomiglia a un uomo che sta annegando e che tende la mano verso una piuma per aggrapparsi! Benché l’angelo gli ingiunga di fuggire sul monte, egli rifiuta e si attacca ancora ad una «piccola città» chiamata Tsoar, ad un piccolo lembo di quel mondo a cui è tanto attaccato. Teme di incontrare la morte nel luogo che la misericordia di Dio gli indica; paventa ogni sorta di male, e non vede speranza di salvezza che in quella piccola città, un luogo di propria scelta. Ecco ciò che fa Lot invece di abbandonarsi interamente a Dio! 

Ahimé, egli aveva da troppo tempo camminato lontano da Dio, aveva troppo a lungo respirato la pesante atmosfera della città corrotta per poter apprezzare l’aria pura della Sua presenza e appoggiarsi sul braccio dell’Onnipotente. L’anima sua è turbata, il suo nido terreno stava per essere improvvisamente distrutto, e Lot non ha fede sufficiente per rifugiarsi nel seno di Dio. Non è vissuto in una comunione abituale col mondo invisibile, ed ora il mondo visibile gli sfugge. Il «fuoco e lo zolfo del cielo» stavano per cadere su tutte le cose sulle quali aveva concentrato le sue speranze e il suo affetto. Non ha più risorse morali e il mondo, che ha messo nel suo cuore profonde radici, lo domina e lo spinge a cercare rifugio in «una piccola città» che non era stato Dio a indicargli.

Ma anche là, non si sente sicuro, e se ne va sul monte, riducendosi a fare, per paura, quello che aveva rifiutato di fare secondo il comandamento del messaggero di Dio. E così, quale è la sua fine? Le sue figlie lo inebriano e nel vergognoso stato in cui si trova, diventa l’inconscio generatore di due figli, capostipiti degli Ammoniti e dei Moabiti, che saranno sempre nemici giurati del popolo di Dio.

Quante solenni istruzioni in tutto questo! Che commento a questa storia di Lot, l’avvertimento breve, ma così importante: «Non amate il mondo, né le cose che sono nel mondo» (1 Giovanni 2:15)!

Tutte le Sodoma e le Tsoar di questo mondo si rassomigliano; il cuore non trova in esse né sicurezza, né pace, né riposo, né soddisfazione durevole. Così è anche oggi: il giudizio di Dio è sospeso su questo mondo corrotto e Dio, nella sua lunga e misericordiosa pazienza, trattiene ancora la spada del giudizio, non volendo che nessuno perisca, ma che tutti vengano a ravvedimento (2 Pietro 3:9).

Sforziamoci dunque di seguire una via santa, al di fuori del mondo e di tutto ciò che gli appartiene, nutrendoci e dilettandoci nella speranza del ritorno del nostro Maestro, affinché le pianure ben irrigate della terra non abbiano nessuna attrattiva per i nostri cuori, e ci sia dato di considerare gli onori e le ricchezze del mondo alla luce della gloria futura di Cristo. Come Abraamo, eleviamoci verso il Signore e, vicini a Lui, guardiamo questa terra; la vedremo come un vasto campo di rovine e di desolazioni fumanti, poiché, effettivamente, così avverrà. «La terra e le opere che sono in essa saranno bruciate» (2 Pietro 3:10). Tutte le cose per le quali i figli di questo secolo si tormentano ricercandole con tanto ardore, per le quali combattono con tanto accanimento, saranno interamente distrutte.

Dove sono Sodoma e Gomorra? Dove sono le città della pianura, una volta piene di vita, di attività, di commerci? Sono passate! Spazzate via dal giudizio di Dio, consumate dal fuoco e dallo zolfo del cielo! Ebbene, ora i giudizi di Dio sono sospesi su questo mondo che lo rifiuta e lo insulta. Il giorno è vicino e, nell’attesa, la buona novella della grazia è annunziata a molti. Beati coloro che l’odono e credono questo messaggio; beati coloro che si mettono in salvo sulla roccia incrollabile della salvezza di Dio, che si rifugiano sotto la croce del Figlio di Dio e vi trovano perdono e pace!

Aspettiamo dunque il nostro Signore con la coscienza purificata dal peccato e le affezioni purificate dalla influenza corruttrice di questo mondo!

15. Capitolo 20: Abrahamo a Gherar

15.1 Una mancanza seria

Questo capitolo ci presenta due cose distinte: il decadimento morale nel quale un figlio di Dio può lasciarsi andare e la dignità morale che Dio, comunque, sempre gli riconosce.

Abraamo manifesta di nuovo quel timore delle circostanze critiche che è tanto frequente anche a noi. Egli soggiorna in Gherar e teme gli uomini del paese; sapendo che Dio non è in mezzo a loro, dimentica che Egli è però sempre con lui. Sembra più occupato degli abitanti di Gherar che di Colui che è più potente di loro tutti. Così ricorre alla medesima astuzia di cui aveva fatto uso in Egitto, parecchi anni prima dicendo che Sara era sua sorella.

Tutto questo contiene un serio avvertimento per noi. Il padre dei credenti è trascinato nel male perché ha distolto il suo sguardo da Dio. Se non ci teniamo fermamente attaccati a Dio, nel sentimento della nostra totale debolezza, non avremo nessuna forza per resistere alla tentazione. Nulla ci può nuocere quando camminiamo nel sentiero da Lui ordinato. Se Abraamo avesse semplicemente fatto assegnamento su Dio, gli uomini di Gherar non si sarebbero occupati di lui e avrebbe avuto il privilegio di sperimentare la fedeltà di Dio in mezzo alle circostanze più difficili. Inoltre, avrebbe conservata la propria dignità come credente.

È doloroso vedere come i figli di Dio disonorano facilmente il loro Padre, e di conseguenza, abbassano se stessi davanti al mondo. Finché possiamo dire con sincerità, come il salmista: «tutte le fonti della mia gioia sono in te» (Salmo 87:7), riusciamo a rimanere al disopra del mondo sotto tutte le sue forme. Non vi è nulla che elevi tanto il nostro essere morale come la fede; essa ci trasporta fuori della portata dei pensieri del mondo, poiché come potrebbe l’uomo del mondo, oppure anche il credente mondano, comprendere la vita di fede? La sorgente alla quale questa vita si abbevera è inaccessibile alla loro intelligenza. Chi ha fede appare, all’incredulo, come un noncurante, un visionario, un fatalista. Solo chi conosce Dio può approvare gli atti della fede, visto che solo Lui è capace di comprendere i motivi solidi e veramente ragionevoli.

In questo capitolo vediamo l’uomo di Dio esporsi, col suo modo di fare, alla riprensione e ai rimproveri del mondo. Non può essere diversamente poiché, come abbiamo detto, solo la fede comunica una vera nobiltà morale al carattere e alla condotta di un uomo. Si incontrano, è vero, delle persone d’un carattere per natura buono e onorabile, ma non ci si può fidare di queste virtù naturali se non sono accompagnate dalla fede; esse posano su un cattivo fondamento e sono soggette a cedere, da un momento all’altro, sotto la pressione delle circostanze.

I credenti, se si allontanano dal cammino della fede, cadono anche più in basso degli altri uomini. Qui sta la spiegazione della condotta di Abraamo in questa parte della sua storia. Tuttavia, per grazia, Abraamo è condotto a scoprire la radice di questo male, a giudicarlo a fondo e a sbarazzarsene. La pazienza di Dio è instancabile; Egli aspetta, sopporta, ma non innalza mai un’anima all’apice della benedizione e della potenza fin tanto che serba in sé un rimasuglio di male, conosciuto e non giudicato.

Così fu riguardo Abimelec e Abraamo. Consideriamo ora la dignità morale di quest’ultimo agli occhi di Dio.

15.2 Come Dio vede i suoi

Se si considera la storia dei figli di Dio, sia nel loro insieme sia individualmente, si rimane colpiti dalla differenza che esiste fra ciò che essi sono agli occhi di Dio e ciò che sono agli occhi degli uomini del mondo. Dio vede i Suoi in Cristo, attraverso la Sua Persona; quindi sono davanti a Lui «senza macchia, senza ruga o altri simili difetti». Nella loro posizione, sono davanti a Dio quale Cristo è. Non sono «nella carne, ma nello Spirito» (Efesini 5:27; 1:4-6; 1 Giovanni 4:17; Romani 8:9).

In sé stessi, sono esseri poveri, deboli, imperfetti, soggetti all’errore e ad ogni sorta d’incoerenza, e il mondo questo vede; ma c’è una grande differenza fra stima del mondo e quella di Dio. A Dio appartiene la prerogativa di manifestare la bellezza, la dignità e la perfezione del Suo popolo; a Lui solo, perché è Lui che ha dispensato ai Suoi tutte queste cose. Non hanno alcuna bellezza se non quella di cui Egli stesso li ha dotati; ed Egli la proclama in modo tanto più glorioso in quanto il nemico vorrebbe ingiuriare, accusare e maledire. Così, quando Balac cercò di maledire la progenie di Abramo, l’Eterno disse: «Io non scorgo iniquità in Giacobbe, non vedo perversità in Israele». «Come sono belle le tue tende, o Giacobbe, le tue dimore o Israele!» (Numeri 23:21; 24:5). E ancora, quando Satana stava in piedi alla destra di Giosuè per accusarlo, l’Eterno gli disse: «Ti sgridi il SIGNORE, Satana! Ti sgridi il SIGNORE… non è forse costui un tizzone strappato dal fuoco?» (Zaccaria 3:1-2).

Il Signore si interpone sempre fra i Suoi ed ogni voce che si innalza per accusarli. Non risponde all’accusa tenendo conto di quello che essi sono in se stessi, o di ciò che sono agli occhi del mondo, ma tenendo conto di ciò che Egli li ha fatti essere e della posizione in cui li ha posti.

Vediamo che è così di Abraamo: perde la sua dignità agli occhi di Abimelec re di Gherar, e Abimelec lo riprende; ma quando Dio si leva in suo favore, dice ad Abimelec: «Ecco, tu sei morto!» e di Abraamo dice: «È profeta, ed egli pregherà per te» (20:3-7). Nonostante avesse agito con «integrità di cuore e purezza di mani», il re di Gherar non era altro che un uomo «morto»; e doveva dipendere dalle preghiere di uno straniero, smarrito e incoerente, per essere ristabilito in salute con tutta la sua casa!

Così agisce Dio; Egli può avere, in segreto, più di una questione da regolare coi suoi figli riguardo alla loro condotta; ma dal momento che un nemico solleva una questione contro di loro, Dio difende la loro causa: «Non toccate i miei unti, e non fate male ai miei profeti». «Chi tocca voi, tocca la pupilla dell’occhio suo». «Dio è colui che li giustifica. Chi li condannerà?» (1 Cronache 16:22; Zaccaria 2:8; Romani 8:34).

Nessun dardo del nemico può penetrare nello scudo al riparo del quale l’Eterno nasconde il più debole agnello del gregge che si è acquistato al prezzo del sangue di Cristo. Dio tiene i Suoi nascosti nel segreto del Suo tabernacolo; mette i loro piedi sulla Roccia dei secoli, innalza il loro capo al disopra dei nemici che li attorniano e riempie i loro cuori dell’eterna gioia della Sua salvezza (Salmo 27:5-6).

Sia per sempre benedetto il Suo Nome!

16. Capitolo 21: Nascita d’Isacco

16.1 L’adempimento della promessa

«Il SIGNORE visitò Sara come aveva detto; e il SIGNORE fece a Sara come aveva annunciato» (21:1).

Abbiamo qui l’adempimento della promessa, il frutto dell’attesa paziente. Nessuno s’è mai confidato in Dio invano. L’anima che, per fede, afferra la promessa di Dio, è in possesso d’una realtà che non le farà mai difetto. Così fu per Abraamo e per tutti i fedeli, d’età in età; e sarà sempre così per tutti coloro che, in qualche modo, fanno assegnamento sul Dio vivente. Che felicità avere Dio in mezzo alle ombre menzognere e illusorie che attraversiamo; che consolazione, che tranquillità per le nostre anime avere per sostegno queste due cose immutabili: la Parola e il giuramento di Dio!

Quando Abraamo vide realizzata la promessa di Dio, poté rendersi conto dell’inutilità dei propri sforzi per raggiungerne il compimento. Ismaele, li figlio nato dalla serva Agar, era inutile per la promessa di Dio. Abraamo amò quel figlio, ma questo in seguito rese il suo compito assai più difficile; Ismaele non servì all’adempimento dei disegni di Dio e alla conferma della fede di Abraamo, ma fu piuttosto al contrario.

La natura umana, senza Dio, non può far nulla per Lui. Bisogna che «Dio visiti», che «Dio faccia», e bisogna che la fede aspetti. Allora, la gloria divina può risplendere, e la fede trovare in questa manifestazione la sua ricca ed eccellente ricompensa.

«Sara concepì e partorì un figlio ad Abraamo, quando egli era vecchio, al tempo che Dio gli aveva fissato» (v. 2). Esiste un tempo «fissato» da Dio, e bisogna che il fedele sappia aspettarlo pazientemente. Il tempo può sembrare lungo e la speranza differita può far languire il cuore; ma l’uomo spirituale sarà sempre incoraggiato dalla certezza che ogni cosa ha come scopo la manifestazione finale della gloria di Dio. «Perché è una visione per un tempo già fissato; essa si affretta verso il suo termine e non mentirà; se tarda, aspettala; poiché certamente verrà; e non tarderà… Ma il giusto per la sua fede vivrà» (Abacuc 2:3-4). La fede è una cosa meravigliosa! Essa introduce nel nostro presente tutto il futuro di Dio e si nutre delle promesse di Dio come d’una realtà presente.

«Abraamo aveva cent’anni quando gli nacque suo figlio Isacco». Quando l’uomo è assolutamente senza risorse, allora viene il «tempo di Dio»: «Sara disse: Dio mi ha dato di che ridere» (v. 6). Per la Sua potenza, l’anima resta attaccata a Dio quando tutto ciò che è esterno sembra essere contro di essa, e, al tempo preciso, Dio «riempie di risa« la sua bocca. Tutto è gioia, gioia trionfante quando Dio può manifestarsi.

16.2 Isacco e Ismaele

Ma se la nascita di Isacco riempie di gioia Sara, introduce anche un problema nuovo nella casa d’Abraamo. La nascita del figlio della donna «libera» (Sara) evidenzia il vero carattere del figlio della schiava (Agar). Infatti, come principio spirituale, Isacco rappresenta per la casa di Abraamo ciò che è l’innesto della «nuova natura» proveniente da Dio nell’anima d’un peccatore. Ismaele non era cambiato, ma Isacco era nato. Il figlio della schiava non poteva mai essere altro che quello che era. Diventi pure un grande popolo, dimori pure nel deserto, sia pure tiratore d’arco e abiti di fronte ai suoi fratelli e generi dodici principi (16:10-12, 17:20); rimane pur sempre figlio della schiava e Isacco, per debole e disprezzato che fosse, era figlio della donna libera. Possedeva ogni cosa da parte del Signore, la posizione, il rango, i privilegi, le speranze. «Quello che è nato dalla carne è carne; e quello che è nato dallo Spirito è spirito» (Giovanni 3:6).

16.3 La nuova e la vecchia natura

La rigenerazione operata da Dio in chi ha creduto in Cristo non è un cambiamento della vecchia natura umana, ma l’introduzione della natura e della vita dell’ «ultimo Adamo», il «secondo uomo» (1 Corinzi 15:45, 47). Essa avviene per mezzo dell’opera dello Spirito Santo, fondata sulla redenzione compiuta da Cristo in perfetto accordo con la volontà e il consiglio sovrano di Dio. Dal momento che un peccatore crede di cuore nel Signore Gesù e lo confessa con le labbra, entra in possesso d’una nuova vita; e questa vita è Cristo. Il credente è nato da Dio, è un figlio di Dio, è figlio della donna libera (ved. Romani 10:9; Colossesi 3:4; 1 Giovanni 3:1-2; Galati 3:26; 4:31).

L’introduzione di questa nuova natura non cambia minimamente il carattere intrinseco della vecchia. Questa rimane ciò che è, senza alcun miglioramento, e il suo cattivo carattere cerca di manifestarsi in piena opposizione con l’elemento nuovo. «La carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; sono cose opposte tra di loro» (Galati 5:17).

La dottrina della coesistenza delle due nature nel credente è generalmente poco compresa, e fintanto che rimane ignorata e latente non può che disorientare riguardo alla vera posizione e ai privilegi del figlio di Dio. Alcuni credono che la rigenerazione sia un cambiamento graduale compiuto nella vecchia natura, finché l’intero essere abbia subito una completa trasformazione. È facile dimostrare, per mezzo di alcuni passi del Nuovo Testamento, l’errore di questa opinione. Così leggiamo: «infatti ciò che brama la carne è inimicizia contro Dio». Ciò che è «inimicizia contro Dio» potrebbe forse essere migliorato? Perciò l’apostolo continua dicendo: «perché non è sottomesso alla legge di Dio e neppure può esserlo» (Romani 8:7). Se non può sottomettersi alla legge di Dio, come potrebbe essere migliorato? Trattate la «carne« come volete, rimane pur sempre carne. «Anche se tu pestassi lo stolto in un mortaio, in mezzo al grano con il pestello, la sua follia non lo lascerebbe», disse Salomone (Proverbi 27:22). Si lavora invano se si cerca di rendere savia la follia. Bisogna introdurre nel cuore la sapienza che viene da alto.

«Vi siete spogliati dell’uomo vecchio» (Colossesi 3:9), dice Paolo; non: «avete migliorato», o «cercate di migliorare» il «vecchio uomo», ma ve ne siete spogliati; è la differenza che c’è fra mettere da parte un vestito vecchio o cercare di rammendarlo. Nel pensiero dell’apostolo si trattava appunto di spogliare un vecchio vestito e indossarne uno nuovo.

Si potrebbero moltiplicare le citazioni per provare che la teoria del miglioramento graduale della vecchia natura è falsa, e per provare che questa vecchia natura è morta e assolutamente incorreggibile. La sola cosa che possiamo fare è tenerla «sotto i piedi» nella potenza della nuova vita che possediamo in virtù della nostra unione col nostro Capo risuscitato nei cieli.

La nascita di Isacco non migliorò Ismaele; anzi, non fece che mettere in evidenza la sua vera opposizione contro il figlio della promessa. Poteva aver avuto una condotta pacifica e regolata fino alla venuta di Isacco, ma poi dimostrò ciò che era, beffandosi del «figlio della risurrezione» e perseguitandolo. Qual era il rimedio a questo male? Rendere migliore Ismaele? No, ma come dice Sara: «Caccia via questa serva e il suo figlio; perché il figlio di questa serva non dev’essere erede con mio figlio, con Isacco» (v. 10). Ecco l’unico rimedio. «Ciò che è storto non può essere raddrizzato» (Ecclesiaste 1:15), e di conseguenza bisogna sbarazzarsi di quello che è storto per occuparsi di ciò che è divinamente diritto.

Ogni sforzo che è fatto in vista di migliorare la vecchia natura, è vano davanti a Dio. Gli uomini possono trovare un vantaggio a coltivare e migliorare quello che è loro utile, ma Dio ha dato ai Suoi figli qualcosa d’infinitamente migliore da fare: coltivare ciò che è Sua creazione; e i frutti di quella creazione, oltre a non innalzare mai la natura umana, sono interamente alla lode e alla gloria di Dio.

16.4 Libertà e servitù

L’errore nel quale le chiese della Galazia erano cadute era di voler far dipendere la salvezza da qualcosa che l’uomo poteva essere o fare. Avevano seguito questo insegnamento sbagliato: «Se voi non siete circoncisi secondo il rito di Mosè, non potete essere salvati» (Atti 15:1). Si rovinava così il glorioso edificio della redenzione, che riposa unicamente su quello che Cristo è e su quello che ha fatto. Far dipendere la salvezza, anche nella più piccola misura, da qualcosa che sia nell’uomo o che sia fatto dall’uomo, vuol dire annullare la salvezza. In altri termini: bisogna che Ismaele sia scacciato e che le speranze di Abraamo riposino su ciò che Dio ha fatto e dato nella persona di Isacco.

È ovvio che questa salvezza non lascia all’uomo nulla  di cui possa gloriarsi. Se la felicità presente o futura dipendesse da un cambiamento, anche divino, operato nella natura umana, ossia nella «carne», l’«io» potrebbe gloriarsi e Dio non avrebbe tutta la gloria che gli spetta. Ma se sono introdotto in una nuova creazione, vedo che tutto è di Dio, il progetto, l’opera e il suo adempimento. È Dio che agisce, e io adoro: è Lui che benedice, e io sono benedetto. Egli è il superiore e io sono «l’inferiore» (Ebrei 7:7). Egli è il donatore, e io colui che riceve. Ecco ciò che è il vero cristianesimo e ciò che, nello stesso tempo, lo distingue da ogni altro sistema religioso umano. La religione dell’uomo dà sempre un posto alla creatura; mantiene, nella casa, la serva e suo figlio, e dà all’uomo motivo di gloriarsi. Il vero cristianesimo, invece, esclude la creatura e non le concede nessuna parte nell’opera della salvezza: «scaccia la schiava e suo figlio», e rende ogni gloria a Colui al quale solo appartiene.

Vediamo ora ciò che sono realmente questa schiava e il suo figlio, e ciò che raffigurano. Il cap. 4 della Lettera ai Galati ci dà chiari insegnamenti, e il lettore troverà profitto a studiarlo con cura.

La schiava rappresenta il patto della «legge», e suo figlio «tutti quelli che si basano sulle opere della legge» (Galati 3:10) o su questo principio legale. La schiava genera per la servitù e non può dare alla luce un uomo libero. La legge non ha mai potuto dare la libertà, poiché signoreggia l’uomo per tutto il tempo che egli vive (Romani 7:1). Fintanto che sono posto sotto l’autorità d’un altro, chiunque egli sia, non sono libero; mentre sono in vita, la legge domina sopra me, e la morte sola può sottrarmi al suo dominio, come impariamo dalla dottrina del cap. 7 della Lettera ai Romani. «Così, fratelli miei, anche voi siete stati messi a morte quanto alla legge mediante il corpo di Cristo, per appartenere a un altro, cioè a colui che è risuscitato dai morti, affinché portiamo frutto a Dio» (Romani 7:4). Ecco la libertà: «Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi» (Giovanni 8:36). «Perciò, fratelli, noi non siamo figli della schiava, ma della donna libera» (Galati 4:31).

È nella potenza di questa libertà che possiamo ubbidire al comandamento: «Caccia via questa serva e suo figlio» (v. 10). Se non so di essere libero, cercherò di ottenere la vita osservando la legge, stabilendo così la mia propria giustizia. Senza dubbio, per rifiutare questo elemento di servitù, dovrò lottare, poiché il legalismo è naturale al cuore dell’uomo: «La cosa dispiacque moltissimo ad Abraamo a motivo di suo figlio» (v. 11). Tuttavia, per quanto doloroso possa essere l’atto in questione, è secondo la volontà di Dio che rimaniamo fermi nella libertà nella quale Cristo ci ha posti affrancandoci, e che non siamo di nuovo trattenuti sotto un giogo di servitù (Galati 5:1).

Ci sia dato, caro lettore, di entrare pienamente e sperimentalmente nel pieno possesso delle benedizioni che Dio ci ha procurato in Cristo, perché possiamo liberarci da ogni influenza della carne, da tutto ciò che essa è, e produce. Vi è, in Cristo, una pienezza che rende assolutamente superfluo e vano ogni ricorso alla natura umana.

17. Capitolo 22: Il sacrificio d’Isacco

17.1 Dio prova la fede d’Abrahamo

Abraamo si presenta ora in uno stato morale adatto perché il suo cuore possa sostenere una dolorosissima prova.

Al cap. 20, ha dovuto pregare per Abimelec e certamente riconoscere il peccato commesso, per la seconda volta, nel dire che Sara era sua sorella; al cap. 21 ha scacciato la serva col suo figlio; ed ora si trova nella posizione più onorata nella quale un’anima possa trovarsi: nella prova sotto la mano di Dio stesso.

Vi sono parecchi tipi di prove: la prova il cui autore è il diavolo, la prova che proviene dalle circostanze esteriori, e quella che viene direttamente da Dio, quando Egli pone i suoi figli diletti nella fornace per testare la realtà della loro fede. Dio lo fa perché vuole della realtà; non basta dire: «Signore, Signore», oppure «vado, signore» (Matteo 7:21, 21:29). Bisogna che il cuore sia provato fino in fondo affinché nessun elemento di ipocrisia o di falsa professione vi si annidi. Dio dice: «Figlio mio, dammi il tuo cuore» (Proverbi 23:26); non dice: Dammi la tua intelligenza o i tuoi talenti o la tua lingua o il tuo denaro, ma «dammi il tuo cuore». Vi può essere molta verità sulle labbra e nell’intelligenza; ma Dio ama che «la verità risieda nell’intimo» (Salmo 51:6). E, per provare la sincerità della nostra risposta agli ordini della Sua grazia, Egli mette la mano su ciò che tocca più da vicino i nostri affetti.

Dio disse ad Abraamo: «Prendi ora tuo figlio, il tuo unico, colui che ami, Isacco, e va’ nel paese di Moria, e offrilo là in olocausto sopra uno dei monti che ti dirò». (22:2). Questo significava andare in profondità nel cuore di Abraamo e farlo passare nel crogiuolo più rovente.

Delle prove comuni d’amore non lo possono soddisfare; Egli stesso non si è limitato a darci una prova ordinaria del Suo amore per noi; ha dato il suo Figlio! E non dovremmo noi desiderare di dare delle prove evidenti del nostro amore per Lui che ci ha amati così tanto quando eravamo morti nelle nostre colpe e nei nostri peccati?

È necessario tuttavia che ci rendiamo conto che provandoci così Dio ci onora altamente. Non leggiamo che Dio abbia provato Lot; egli non raggiunse mai un livello tale da essere provato dalla mano stessa dell’Eterno. Il basso stato dell’anima sua era troppo evidente perché fosse necessaria la prova per metterlo in luce. Sodoma non avrebbe presentato nessuna tentazione per Abraamo; il suo incontro col re di quella città (cap. 14) lo mostra chiaramente. Dio sapeva che Abraamo lo amava, ma voleva mettere in evidenza che lo amava al disopra di ogni altra cosa, anche di ciò che aveva di più caro.

«Prendi ora tuo figlio, il tuo unico, colui che ami». Isacco era il figlio della promessa, l’oggetto della speranza intensamente e lungamente attesa, il centro dell’amore del padre, colui nel quale tutte le famiglie della terra dovevano essere benedette. E proprio lui doveva essere offerto in olocausto! Questo era davvero mettere la fede alla prova, affinché questa, «ben più preziosa dell’oro che perisce, e tuttavia è provato con il fuoco, sia motivo di lode, di gloria e di onore» (1 Pietro 1:7). Se Abraamo non si fosse appoggiato unicamente, e con tutto il cuore, su Dio, non avrebbe potuto ubbidire senza titubanza ad un ordine che lo toccava così profondamente. Ma Dio stesso era il sostegno vivente e permanente della sua anima: perciò era pronto ad abbandonare tutto per Lui.

L’anima che ha trovato in Dio «tutte le fonti» della sua gioia (Salmo 87:7) può, senza perplessità, abbandonare tutte le «cisterne» umane (Geremia 2:13). Possiamo rinunciare alla creatura soltanto in proporzione alla conoscenza che abbiamo del Creatore. Voler rinunciare alle cose visibili altrimenti che con l’energia della fede che afferra quelle invisibili, è il lavoro più sterile che si possa immaginare. L’anima si terrà stretto il suo Isacco, finché non ha trovato il suo tutto in Dio. E quando può dire per la fede «Dio è per noi un rifugio ed una forza, un aiuto sempre pronto nelle difficoltà», può anche aggiungere: «Perciò non temiamo se la terra è sconvolta, se i monti si smuovono in mezzo al mare» (Salmo 46:1-2).

17.2 Abrahamo ubbidisce

«Abraamo si alzò la mattina di buon’ora…» (22:3). Abraamo non tarda, ubbidisce subito. Come il salmista, potrebbe dire: «Senza indugiare, mi sono affrettato a osservare i tuoi comandamenti» (Salmo 119:60).

La fede non si sofferma mai a considerare le circostanze o a ponderare gli eventuali risultati; non guarda che a Dio e dice, con l’apostolo Paolo: «Ma Dio che m’aveva prescelto fin dal seno di mia madre e mi ha chiamato mediante la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché io lo annunciassi fra gli stranieri. Allora io non mi consigliai con nessun uomo (lett. con carne e sangue)» (Galati 1:15-16). Dal momento che prendiamo consiglio dalla carne e dal sangue, pregiudichiamo la nostra testimonianza e il nostro servizio, poiché la carne e il sangue non possono ubbidire. Per essere felici e perché Dio sia glorificato dobbiamo, come Abraamo, levarci la mattina di buon’ora e, per la grazia, compiere il comandamento di Dio. Se la Parola di Dio è la sorgente di ogni nostra attività, Egli ci darà forza e fermezza per agire; invece, se agiamo solo per impulso umano, cessato questo cesserà anche la nostra azione.

Due cose sono necessarie per una vita attiva, coerente e ferma: lo Spirito Santo come potenza e la Scrittura come guida. Abraamo possedeva queste due cose; aveva ricevuto da Dio la potenza per agire e anche da Dio l’ordine di agire.

La sua ubbidienza aveva un carattere molto deciso, e questo è importantissimo. Ogni tanto si incontra della dedizione, ma spesso è solo l’attività, spesso incostante, d’una volontà non sottomessa alla potente azione della Parola di Dio. Una tale dedizione ha solo apparenza ma poco valore, e l’impulso che ne è il movente si dilegua più o meno rapidamente. Si può stabilire come principio che ogni volta che la dedizione oltrepassa certi limiti stabiliti da Dio è sospetta: se si ferma prima di questi limiti, è imperfetta; se va oltre, è errata. Vi sono senza dubbio degli interventi e delle vie straordinarie, tipiche dello Spirito di Dio, nelle quali Egli proclama la propria sovranità e si eleva al disopra dei limiti ordinari; ma, in tali casi, l’evidenza dell’azione divina è abbastanza potente per convincere ogni uomo spirituale. Questi casi straordinari non contraddicono, poi, in nessun modo, la verità che la fedeltà e la vera devozione sono sempre fondate su un principio divino e governate da un principio divino. Si potrebbe pensare che sacrificare un figlio sia uno straordinario atto di devozione, ma non è così. Ciò che dà valore all’atto di Abraamo è il semplice fatto che è fondato sull’ubbidienza ad un preciso comandamento di Dio.

Vi è ancora un’altra cosa che è unita alla vera dedizione: è lo spirito d’adorazione: «Io e il ragazzo, andremo fin là e adoreremo» (v. 5). Un servitore veramente devoto fissa gli occhi non sul proprio servizio, per quanto importante possa essere, ma sul suo Signore; e questo produce lo spirito di adorazione. Se io amo il mio padrone, poco mi importerà di essere chiamato a pulire le sue scarpe o a guidare la sua automobile; ma se penso a me stesso più che a lui, preferirò senza dubbio essere autista piuttosto che lustrascarpe. È lo stesso nel servizio del Signore: se penso solo a Lui, non ci sarà differenza tra fondare delle chiese o fabbricare delle tende.

Possiamo fare la stessa osservazione riguardo al ministero degli angeli. Importa poco, ad un angelo, di essere mandato a distruggere un esercito oppure a proteggere un credente; è il Padrone che occupa i suoi pensieri. Come qualcuno ha ben detto, se due angeli fossero mandati dal cielo, uno per governare un impero, l’altro per pulire le strade d’una città, di certo non contenderebbero!

Non dovrebbe essere così anche per noi? Il carattere del servitore e quello dell’adoratore dovrebbero sempre essere uniti, e l’opera delle nostre mani dovrebbe sempre esalare il buon profumo del nostro amore per il Signore. In altri termini, dovremmo lavorare avendo sempre nel cuore queste parole: «Io e il ragazzo andremo fin là e adoreremo». Eviteremmo così di compiere un servizio puramente meccanico, o di lavorare soltanto per amore del lavoro o di noi stessi, essendo più occupati della nostra opera che del nostro Maestro. Bisogna che tutto derivi da una semplice fede in Dio e dall’ubbidienza alla Sua Parola.

«Per fede Abraamo, quando fu messo alla prova, offrì Isacco; egli, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito» (Ebrei 11:17). Poter incominciare, proseguire e terminare le nostre opere secondo Dio dipende da quanto camminiamo per la fede. Abraamo non solo s’incamminò per offrire il suo figlio, ma proseguì imperturbabile il suo cammino fino al punto indicato da Dio (v. 1).

«Abraamo prese la legna per l’olocausto e la mise addosso a Isacco suo figlio, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutti e due insieme»; e più avanti leggiamo: «Abraamo costruì l’altare e vi accomodò la legna; legò Isacco suo figlio, e lo mise sull’altare, sopra la legna. Abraamo stese la mano e prese il coltello per scannare suo figlio» (v. 6-10).

V’era in questo l’«opera della fede» e «le fatiche dell’amore» (1 Tessalonicesi 1:3), nel senso più elevato, non una semplice apparenza. Abraamo non s’avvicinava a Dio con le labbra soltanto ma con il cuore era lontano da Lui. Non diceva «vado, signore», e non vi andava, come il figlio disubbidiente della parabola di Matteo 21:29. Tutto era profonda realtà, quella realtà che la fede trova piacere a produrre e che Dio si compiace di accettare.

È facile far mostra di devozione, quando non si è in obbligo di manifestarla; è facile dire: «Quand’anche tu fossi per tutti un’occasione di caduta, non lo sarai mai per me…», «quand’anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò» (Matteo 26:33-35); quello che conta è rimanere fermi e sormontare la tentazione. Quando Pietro fu messo alla prova, cadde. La fede non parla mai di quello che vuole fare; ma fa quello che può per mezzo della forza del Signore. Nulla è più miserabile dell’orgoglio e delle pretese.

Dio è glorificato da questa santa attività della fede; è Lui che ne è l’obiettivo come pure la sorgente. Di tutti gli atti della fede di Abraamo non ve n’è alcuno nel quale Dio sia stato più glorificato che in questa scena che si svolse sul monte Moria. Qui Abraamo poté rendere testimonianza che «tutte le fonti» della sua gioia (Salmo 87:7) erano in Dio e che le aveva trovate non solo prima della nascita di Isacco, ma anche dopo. Riposarsi sulle benedizioni di Dio è ben diverso dal riposarsi su Dio stesso; confidare in Dio quando si hanno sotto gli occhi le Sue benedizioni è tutt’altra cosa che confidare in Lui quando queste mancano!

Abraamo manifesta l’eccellenza della sua fede sapendo contare sulla promessa d’una innumerevole progenie, non soltanto quando Isacco era davanti a lui pieno di salute e di forza, ma anche quando lo vedeva vittima sull’altare. Che gloriosa fiducia! Fiducia senza compromessi, non fondata in parte sul Creatore e in parte sulla creatura, ma stabilita su un fondamento solido, su Dio stesso. Egli stimò che Dio “poteva”, e non pensò mai che Isacco “avrebbe potuto”… Per lui, Isacco senza Dio era nulla, ma Dio, anche senza Isacco, era tutto.

Vi è, in questo, un principio della massima importanza e una pietra di paragone per provare il cuore a fondo. La mia fiducia viene forse meno quando vedo prosciugarsi i canali delle mie benedizioni? Oppure, rimango io abbastanza vicino alla sorgente, là dove l’acqua sgorga, perché mi sia possibile vedere, in uno spirito di adorazione, tutti i ruscelli umani prosciugarsi? Credo io, con abbastanza semplicità, che Dio è sufficiente a tutto, per poter in qualche modo stendere la mia mano e afferrare il coltello? Abraamo ne fu reso capace perché guardava al Dio della risurrezione e «era persuaso che Dio è potente da risuscitare» il suo unico figlio anche di mezzo ai morti; «e riebbe Isacco come per una specie di risurrezione» (Ebrei 11:17-19).

Il Dio di grazia non poteva permettere che Abraamo andasse fino all’estremo limite. Egli risparmiò al cuore del patriarca l’angoscia che non risparmiò a Se stesso quando si trattò di colpire il proprio Figlio per i nostri peccati; lì Egli, benedetto sia il Suo Nome, andò fino agli estremi limiti. Egli “non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi”. «Il SIGNORE ha voluto stroncarlo con i patimenti» (Romani 8:31; Isaia 53:10). Nessuna voce si fece udire dal cielo, quando, sul Calvario, il Padre offrì il suo unigenito Figlio. Il sacrificio fu perfettamente compiuto e, nel suo adempimento, fu suggellata la nostra eterna pace!

17.3 La prova della fede

Tuttavia, la dedizione di Abraamo a Dio fu chiaramente dimostrata e pienamente accettata. «Ora so che tu temi Dio, poiché non mi hai rifiutato tuo figlio, l’unico tuo» (22:12). Notate queste parole: «ora so». Fino a quel momento la prova non era stata data; la fede c’era, e Dio lo sapeva; ma il punto importante è che Dio fa dipendere la conoscenza che ha di questa fede dalla prova concreta che Abraamo stesso ha dato davanti all’altare sul monte Moria.

La fede si manifesta sempre per mezzo delle opere, e il timore di Dio per mezzo dei frutti che ne derivano. «Abraamo nostro padre, non fu forse giustificato per le opere quando offrì il suo figlio Isacco sull’altare?» (Giacomo 2:21). Chi oserebbe mettere in dubbio la sua fede? Spogliate Abraamo della sua fede, ed egli appare sul monte Moria come un micidiale e un pazzo. Tenete conto della sua fede, ed egli appare come un adoratore fedele e devoto, un uomo che teme Dio ed è giustificato.

Bisogna che la fede sia dimostrata: «A che serve, fratelli miei, se uno dice di aver fede ma non ha opere?» (Giacomo 2:14). Una professione di fede senza potenza e senza frutti non soddisfa né Dio né gli uomini. Dio cerca della realtà e la onora dovunque la trova. Quanto agli uomini, essi non comprendono che un’espressione vivente e intelligibile d’una fede che si manifesta per mezzo delle opere.

Viviamo in un’atmosfera di pietà apparente: il linguaggio della fede è su molte labbra, ma la fede stessa è una perla quanto mai rara; quella fede che rende capaci di lasciare la sponda delle circostanze presenti per andare incontro ai marosi, per affrontarli, per sostenerne l’impeto mentre il Maestro sembra addormentato (Matteo 8:24)..

17.4 Giustificato dalla fede, giustificato dalle opere

Non sarà superfluo dire una parola in merito all’armonia che esiste fra l’insegnamento di Giacomo e quello di Paolo sulla “giustificazione”. Il lettore intelligente e spirituale che accetta la piena ispirazione delle Sacre Scritture sa benissimo che non è né con Giacomo né con Paolo che abbiamo a che fare in questa importante questione. Lo Spirito Santo si è servito di questi due uomini, onorati da Dio, per trasmettere i Suoi pensieri,ma non si può parlare di contraddizione in quanto lo scrittore è uno solo. È tanto impossibile che due uomini ispirati si contraddicano quanto è impossibile che due corpi celesti possano venire in collisione seguendo ciascuno l’orbita tracciatagli da Dio.

Vi è dunque la più perfetta armonia fra questi due apostoli; anzi, sulla questione della giustificazione, uno è il complemento e il commentatore dell’altro. L’apostolo Paolo ci dà il principio interiore, Giacomo la manifestazione esterna dello stesso principio. Il primo si occupa della vita interiore, l’altro della vita manifestata; Paolo considera l’uomo in relazione a Dio, Giacomo lo considera nei suoi rapporti con i propri simili. Abbiamo bisogno dell’uno e dell’altro, poiché il principio interiore non può esistere senza la vita esteriore, come del resto quest’ultima non avrebbe né valore, né potenza, senza il principio interiore.

«Abraamo fu giustificato» quando «credette a Dio», e «Abraamo fu giustificato» quando «offrì suo figlio». Nel primo caso si tratta della sua condizione segreta davanti a Dio, nel secondo della sua manifestazione davanti al cielo e alla terra. È bene comprendere questa differenza. Non vi fu alcuna voce dal cielo quando «Abraamo credette a Dio», per quanto Dio l’abbia visto e l’abbia tenuto per giusto; ma quando fu pronto ad offrire il suo figlio sull’altare, Dio ha potuto dire: «Ora so che tu temi Dio» (v. 12), e il mondo intero ebbe la prova inconfutabile del fatto che Abraamo era un uomo giustificato.

Sarà sempre così. Dove c’è il principio interiore vi è anche l’atto esteriore, e tutto il valore di quest’ultimo dipende dal suo rapporto col primo. Se si separa per un momento l’atto di Abraamo, come Giacomo lo presenta, dalla fede di Abraamo, quale Paolo la espone, quale virtù giustificante possederebbe ancora questa fede? Nessuna, di certo! Tutto il suo valore, tutta la sua efficacia, derivano dal fatto che esso è la manifestazione esteriore di quella fede in virtù della quale Abraamo era già stato considerato giusto davanti a Dio.

Questa è l’armonia perfetta fra Giacomo e Paolo; o, piuttosto, questa è l’unità della voce dello Spirito Santo, che si faccia udire per mezzo di Paolo o per mezzo di Giacomo.

17.5 Il risultato della prova

Ma torniamo al soggetto del capitolo di cui ci stiamo occupando. È molto interessante vedere come la prova della fede di Abraamo lo porti ad una conoscenza più profonda delle caratteristiche peculiari di Dio.

Quando ci è dato di sostenere la prova che Dio stesso ci dispensa, possiamo essere certi di fare nuove esperienze relativamente a Lui, e di imparare così ad apprezzare il valore della prova. Se Abraamo non avesse alzato la mano per «scannare» il suo figlio, non avrebbe mai conosciuto tutta l’eccellente grandezza delle ricchezze del nome che ora egli dà a Dio, cioè: «Iavè-Irè» (v. 14) ossia: «L’Eterno provvede».

È solo quando siamo messi alla prova che scopriamo quello che Dio è. Senza prove non potremo essere che dei teorici, ma Dio non vuole che siamo soltanto teorici; vuole che penetriamo nella profondità della vita che è in Lui stesso, nelle realtà di una comunione personale con Lui. Con quali convinzioni e sentimenti Abraamo dovette rifare la strada da Moria a Beer-Seba! Come i suoi pensieri riguardo a Dio, riguardo a Isacco e riguardo ad ogni altra cosa dovevano essere differenti!

Possiamo dire veramente: «Beato l’uomo che sopporta la prova» (Giacomo 1:12). La prova è un onore conferito da Dio stesso, e sarebbe difficile apprezzare tutta la gioia che deriva dall’esperienza che essa produce. Quando l’uomo è indotto a riconoscere che tutta la sua saggezza viene meno (Salmo 107:27), allora è in grado di scoprire ciò che Dio è.

Ci aiuti il Signore a sopportare la prova affinché la Sua opera si manifesti e il Suo Nome sia glorificato in noi!

17.6 Conferma delle promesse

Prima di chiudere questo capitolo, soffermiamo ancora per un istante la nostra attenzione sulla benevolenza con la quale l’Eterno rende testimonianza ad Abraamo per aver egli compiuto quell’azione per la quale si era dimostrato così preparato.

«Io giuro per me stesso, dice il SIGNORE, che, siccome tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, l’unico tuo, io ti colmerò di benedizioni e moltiplicherò la tua discendenza come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; e la tua discendenza s’impadronirà delle città dei suoi nemici. Tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché tu hai ubbidito alla mia voce» (22:16-18). Questo corrisponde mirabilmente al modo in cui lo Spirito Santo riferisce l’opera di Abraamo nel capitolo 11 della Lettera agli Ebrei, e nel  cap. 2 della Lettera di Giacomo. Nell’una e nell’altra di queste parti della Scrittura, Abraamo è considerato come se avesse davvero offerto il suo figlio sull’altare. Il grande principio messo in rilievo da queste testimonianze è che Abraamo era pronto ad abbandonare ogni cosa fuorché Dio; ed è lo stesso principio che lo rese un uomo “giusto” e che dimostrò che era giusto.

La fede può fare a meno di tutto fuorché di Dio; essa ha la piena consapevolezza che Dio è sufficiente a tutto. Perciò Abraamo poteva apprezzare al loro giusto valore queste parole di Dio: «Io giuro per me stesso». Sì, questo «per me stesso» era tutto per quell’uomo di fede; «infatti, quando Dio fece la promessa ad Abraamo, siccome non poteva giurare per qualcuno maggiore di lui, giurò per se stesso… gli uomini giurano per qualcuno maggiore di loro; e per essi il giuramento è la conferma che pone fine a ogni contestazione.  Così Dio, volendo mostrare con maggiore evidenza agli eredi della promessa l’immutabilità del suo proposito, intervenne con un giuramento» (Ebrei 6:13, 16, 17).

La parola e il giuramento del Dio vivente dovrebbero mettere fine a tutte le contestazioni e a tutta l’attività della volontà dell’uomo, ed essere l’ancora immutabile dell’anima in mezzo ai marosi e al turbinio di questo mondo burrascoso.

Dobbiamo giudicarci continuamente a causa della poca potenza che le promesse di Dio esercitano sul nostro cuore. Le promesse ci sono, e noi le crediamo, ma, ahimè! esse non sono sempre per noi quella immutabile e potente realtà che dovrebbero essere! Se è così, non ne ricaviamo quella «ferma consolazione» che hanno lo scopo di comunicare.

Come poco siamo pronti a sacrificare, nella potenza della fede, il nostro Isacco! Domandiamo a Dio che ci conceda una conoscenza più profonda della beata realtà d’una vita di fede in Lui, affinché comprendiamo anche meglio il valore di queste parole dell’apostolo Giovanni: «Questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede» (1 Giovanni 5:4).

È solo per la fede che possiamo vincere il mondo. L’incredulità ci pone sotto la potenza delle cose presenti, o in altri termini, dà al mondo la vittoria su noi; mentre l’anima che, per mezzo dell’insegnamento dello Spirito Santo, ha imparato a realizzare che Dio è sufficiente a tutto, è indipendente dalle cose di quaggiù. Ci sia dato, caro lettore, di farne l’esperienza per la nostra pace e la nostra gioia in Dio, affinché Egli sia glorificato in noi.

18. Capitolo 23: Morte di Sara — La spelonca di Macpela

Questo breve capitolo della Scrittura contiene parecchi insegnamenti utili per l’anima. Lo Spirito Santo traccia qui un bel quadro del modo in cui il credente dovrebbe sempre condursi verso quelli del di fuori. Se è vero che la fede rende il credente indipendente dagli uomini del mondo, non è meno vero che essa gli insegna sempre a camminare onestamente nei loro confronti. Siamo esortati nella 1ª Lettera ai Tessalonicesi (4:12) a «camminare dignitosamente verso quelli di fuori», nella 2ª ai Corinzi (8:21) a vegliare per «agire onestamente non solo davanti al Signore, ma anche di fronte agli uomini»; e in quella ai Romani (13:8) a non aver «altro debito con nessuno, se non di amarvi gli uni gli altri». Sono precetti importanti e che sono stati debitamente osservati da tutti i fedeli servitori di Cristo, prima ancora che fossero chiaramente enunciati, ma a cui si dà poca importanza nei tempi attuali.

Il cap. 23 della Genesi merita quindi una particolare considerazione.

Questo capitolo, che si apre con la morte di Sara, ci fa vedere Abraamo sotto un carattere nuovo, quello di uno che è nel dolore. «Abraamo venne a far lutto per Sara e a piangerla» (23:2).

Il credente attraversa momenti di dolore, ma non li attraversa come gli altri. Il grande fatto della risurrezione lo consola e dà al suo dolore un carattere particolare (1 Tessalonicesi 4:13-14). Egli può trovarsi di fronte alla tomba d’un fratello o d’una sorella, nella felice certezza che quel sepolcro non tratterrà a lungo il suo prigioniero: «infatti, se crediamo che Gesù morì e risuscitò, crediamo pure che Dio, per mezzo di Gesù, ricondurrà con lui quelli che si sono addormentati». La redenzione dell’anima assicura “la redenzione del nostro corpo” (Romani 8:23); possediamo la prima e aspettiamo la seconda.

18.1 Fede nella risurrezione

Acquistando Macpela per farne un sepolcro, Abraamo esprime, ci sembra, la sua fede nella risurrezione. «Poi Abraamo si alzò, si allontanò dalla salma» (lett. si levò da presso al suo morto) (23: 3).

La fede non si ferma molto tempo a contemplare la morte; essa possiede un oggetto più elevato, grazie al «Dio vivente» che glielo ha dato! La fede contempla la risurrezione, la sua visione ne è assorbita; e, nella potenza della risurrezione, può levarsi da presso al suo morto.

Questo atto di Abraamo è significativo e abbiamo bisogno di comprenderne meglio la portata, visto che siamo propensi fin troppo ad occuparci della morte e delle sue conseguenze. La morte è il limite della potenza di Satana; ma dove Satana finisce, Dio incomincia. Abraamo lo aveva compreso quando si alzò da presso al suo morto e acquistò dai figli di Chet la caverna di Macpela per farne un luogo di riposo per Sara. Questo atto era l’espressione del pensiero di Abraamo riguardo all’avvenire. Egli sapeva che nei secoli a venire, la promessa di Dio riguardo la terra di Canaan, si sarebbe adempiuta; così poté deporre il corpo di Sara nella tomba, sapendo che quel paese sarebbe un giorno appartenuto alla sua discendenza.

I figli di Chet, che erano Cananei ittiti, non circoncisi, ignoravano queste cose. I pensieri che occupavano l’anima del patriarca erano loro sconosciuti. Per loro, era cosa di poca importanza che Abraamo seppellisse il suo morto in un posto piuttosto che in un altro, ma per lui era importante. «Io sono straniero e di passaggio tra di voi; datemi la proprietà di una tomba in mezzo a voi per seppellire la salma e toglierla dalla mia vista» (v. 4).

I figli di Chet dovevano trovare strano che Abraamo si preoccupasse tanto per una sepoltura, ma «il mondo non ci conosce, perché non ha conosciuto Lui» (1 Giovanni 3:1). I tratti più belli e più salienti della fede sono quelli meno compresi dal mondo. Quei Cananei non avevano alcuna idea delle speranze che caratterizzavano gli atti di Abraamo in quella occasione; non si rendevano conto che egli prevedesse il giorno in cui avrebbe posseduto il paese, mentre per il momento cercava solo un lembo di terra in cui, come uomo mortale, avrebbe potuto aspettare il tempo fissato da Dio.

Abraamo sentiva che non aveva nessuna controversia da fare con i figli di Chet, tanto che era pronto a coricarsi, come Sara, nella tomba, lasciando a Dio la cura di agire per lui, su di lui e per mezzo di lui.

«Tutti costoro sono morti nella fede, senza ricevere le cose promesse, ma le hanno vedute e salutate da lontano, confessando di essere forestieri e pellegrini sulla terra» (Ebrei 11:13).

Questo è un lato della vita divina di grande bellezza. Questi «testimoni» di cui parla la Lettera agli Ebrei nel cap. 11, non soltanto vissero per fede, ma anche testimoniarono che le promesse di Dio erano tanto reali e soddisfacenti, per le loro anime, alla fine della loro carriera, quanto lo erano state al principio.

18.2 Onestà davanti al mondo

L’acquisto di una sepoltura nel paese della promessa era, ci sembra, una dimostrazione della potenza della fede non soltanto per vivere, ma anche per morire. Perché Abraamo era così insistente e scrupoloso nell’atto d’acquistare un sepolcro? Perché era così disposto a pagare il prezzo intero, per assicurarsi un pieno diritto di proprietà sul campo e sulla spelonca di Efron, su un principio di giustizia? La risposta è contenuta in questa parola: la fede. È per fede che fece tutto ciò.

Questo capitolo può dunque essere considerato sotto due punti di vista: esso stabilisce un principio di condotta semplice e pratico di fronte alla gente del mondo; e poi mette in luce l’importanza della beata speranza da cui il credente dovrebbe sempre essere animato. La speranza che ci è proposta nell’Evangelo è una gloriosa immortalità, che, innalzando il cuore al disopra delle influenze della natura e del mondo, ci fornisce un santo e nobile principio che deve regolare tutta la nostra condotta verso quelli del di fuori. «Sappiamo che quand’Egli sarà manifestato, saremo simili a lui, perché lo vedremo come Egli è». Ecco la nostra speranza. Quale ne è l’effetto morale? «E chiunque ha questa speranza in lui, si purifica come’egli è puro» (1 Giovanni 3:2-3). Se fra poco dovrò essere simile a Cristo, mi sforzerò di essergli simile, per quanto possibile, fin d’ora. Il credente dovrebbe dunque cercare di camminare con purezza, integrità e grazia morale di fronte a tutti quelli che lo circondano.

È quello che fece Abraamo nei suoi rapporti coi figli di Chet; egli dimostrò in tutta la sua condotta una grande nobiltà e un vero disinteresse. Era fra loro «un principe di Dio» (23:6) e sarebbero stati felici di fargli un favore; ma Abraamo aveva imparato a non ricevere favori che dal Dio della risurrezione; e mentre pagava a quegli Ittiti il prezzo di Macpela, confidava in Dio per la terra di Canaan. I figli di Chet conoscevano benissimo il valore della «moneta corrente sul mercato» (v. 16) e Abraamo conosceva anche il valore della spelonca di Macpela che, per lui, valeva assai più che per loro. Quella terra di quattrocento sicli d’argento secondo la loro valutazione, aveva per lui un valore illimitato, era pegno d’un’eredità eterna e, poiché tale, non poteva essere posseduta che nella potenza della risurrezione. La fede trasporta l’anima nell’avvenire di Dio; vede le cose come Dio le vede, le stima secondo il giudizio del santuario.

19. Capitolo 24: Rebecca, una moglie per Isacco

19.1 Una figura dell’appello della Chiesa

Il legame che c’è tra questo capitolo e i due precedenti è degno di nota. Nel capitolo 22, il figlio è offerto sull’altare; nel 23, Sara è messa da parte; nel 24, il servo Eliezer riceve l’incarico di andare a cercare una moglie per colui che, in figura, era risorto di fra i morti. La successione di questi avvenimenti coincide in modo sorprendente con l’ordine dei fatti relativi all’appello della Chiesa. Tale coincidenza, comunque interpretata, è certo notevole.

I grandi fatti che troviamo nel Nuovo Testamento sono: in primo luogo il rifiuto di Cristo da parte del Suo popolo e la Sua condanna a morte; in seguito, la messa da parte della nazione d’Israele; poi la chiamata della Chiesa alla gloriosa posizione di «sposa dell’Agnello» (Apocalisse 21:9). Tutto ciò corrisponde esattamente al contenuto di questo capitolo e dei due precedenti.

Bisognava che la morte di Cristo fosse un fatto compiuto, prima che la Chiesa potesse essere chiamata. Bisognava che «il muro di separazione» fosse abolito prima che «un solo uomo nuovo»  (Efesini 2:14-15) potesse essere costituito. È importante comprendere bene questo, affinché sappiamo il posto che la Chiesa occupa nelle vie di Dio. Fintanto che la dispensazione giudaica sussisteva, Dio aveva stabilito e voleva mantenere la più rigorosa separazione fra Giudei e Gentili (per Gentili, le genti, si intendono i non Giudei, gli stranieri); perciò l’idea di un’unione dei Giudei coi Gentili non entrava nella mente d’un Giudeo. Questi era propenso a considerarsi in una posizione superiore sotto ogni aspetto a quella d’un non Giudeo, a considerare quest’ultimo come totalmente impuro, un uomo col quale ogni relazione era proibita (Atti 10:28).

Se Israele avesse camminato con Dio nell’integrità dei rapporti nei quali la grazia di Dio l’aveva posto, sarebbe stato mantenuto in questa posizione speciale di separazione e di superiorità che gli era stata data. Ma Israele seguì un’altra via e perciò, quando ebbe raggiunto il colmo alla misura delle sue iniquità crocifiggendo il Principe di Dio, il Signore di gloria, e respingendo la testimonianza dello Spirito Santo, l’apostolo Paolo fu suscitato per essere l’amministratore d’un nuovo ordine di cose, nascosto da ogni tempo in Dio, mentre proseguiva ancora la testimonianza ad Israele: «Per questo motivo io, Paolo, il prigioniero di Cristo Gesù per voi stranieri… Senza dubbio avete udito parlare della dispensazione della grazia di Dio affidatami per voi; come per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero, di cui più sopra vi ho scritto in poche parole; leggendole, potrete capire la conoscenza che io ho del mistero di Cristo. Nelle altre epoche non fu concesso ai figli degli uomini di conoscere questo mistero, così come ora, per mezzo dello Spirito, è stato rivelato ai santi apostoli e profeti di lui» (i profeti del Nuovo Testamento) «vale a dire che gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo» (Efesini 3:1-6).

Ecco qualcosa di conclusivo. Il mistero della Chiesa, composta di Giudei e di Gentili battezzati in un solo corpo da un medesimo Spirito e uniti a un capo glorioso nei cieli, non era stato rivelato fino ai giorni di Paolo. Di quel mistero — prosegue l’apostolo — «io sono diventato servitore secondo il dono della grazia di Dio a me concessa in virtù della sua potenza» (Efesini 3:7).

Gli apostoli e i profeti del Nuovo Testamento furono col loro insegnamento il fondamento di quel nuovo edificio (vedere Efesini 2:20). Dato questo, è evidente che l’edificio non poteva essere incominciato prima di allora (Matteo 16:18: «Io edificherò la mia Chiesa», col verbo al futuro). Se questo “edificio” esistesse dai giorni di Abele, l’apostolo avrebbe detto: «edificata sul fondamento dei santi dell’Antico Testamento», ma egli non dice così; quindi concludiamo che qualunque sia la posizione assegnata ai santi dell’Antico Testamento, è impossibile che possano far parte d’un “corpo”, quale la Chiesa è, che fino alla morte e alla risurrezione di Cristo, e alla discesa dello Spirito Santo, non esisteva se non nei disegni di Dio. Questi santi erano salvati, Dio ne sia benedetto! Salvati per mezzo del sangue di Cristo e destinati a godere della gloria celeste con la Chiesa, ma non potevano far parte di un corpo che non esisteva ancora.

Possiamo chiederci se sia il caso di considerare questa parte interessante della Scrittura come una figura della chiamata della Chiesa. Per conto mio, comunque, preferisco considerarla come un’immagine di quest’opera gloriosa. Non possiamo ammettere che lo Spirito Santo abbia voluto occuparci così a lungo dei dettagli d’un semplice patto di famiglia, se questo patto non fosse tipico o figurativo di qualche grande verità, perché «tutto ciò che fu scritto nel passato, fu scritto per nostra istruzione» (Romani 15:4).

Così, benché l’Antico Testamento non contenga nessuna rivelazione diretta del grande mistero della Chiesa, è importante notare che esso contiene tuttavia scene e circostanze che la raffigurano in modo notevole; ne è prova la storia che ci presenta questo capitolo, il padre che manda il servo in cerca d’una sposa per il suo figlio, a suo tempo offerto in sacrificio, in figura, e restituito alla vita.

Per dare una comprensione chiara e completa del contenuto ci questo capitolo, considereremo i punti seguenti: il giuramento, la testimonianza e il risultato della missione di Eliezer.

19.2 Il giuramento del servitore

È bello vedere che la chiamata e l’elevazione di Rebecca erano fondati sul giuramento che suggellava l’accordo di Abraamo e del servitore. Rebecca ignorava queste cose, benché nei disegni di Dio fosse lei l’oggetto di questo accordo. È lo stesso della Chiesa di Dio, sia considerata sia come un tutto unico, sia in ogni sua parte costitutiva.

«Le mie ossa non t’erano nascoste, quando io fui formato in segreto… e nel tuo libro erano tutti scritti i giorni che mi eran destinati, quando nessuno d’essi era sorto ancora» (Salmo 139:15-17). «Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo. In lui ci ha eletti prima della creazione del mondo perché fossimo santi e irreprensibili dinanzi a lui, nell’amore» (Efesini 1:3-4). «Quelli che ha preconosciuti, li ha pure predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli; e quelli che ha predestinati li ha pure chiamati; e quelli che ha chiamati li ha pure giustificati; e quelli che ha giustificati li ha pure glorificati» (Romani 8:29-30). Vi è una mirabile armonia fra questi passi e il soggetto che ci occupa. La chiamata, la giustificazione e la gloria della Chiesa, tutto è fondato sul disegno eterno di Dio, sulla Sua parola e il Suo giuramento, ratificati dalla morte, dalla risurrezione e dall’esaltazione del Figlio. È nella profondità dell’eterno pensiero di Dio, al di là dei limiti del tempo, che traeva origine questo meraviglioso disegno che aveva la Chiesa per oggetto, indissolubilmente legato al pensiero di Dio riguardo alla gloria del Figlio.

Il giuramento fatto dal servitore ad Abraamo aveva per oggetto «una compagna» per il Figlio. Al desiderio di Abraamo per Isacco, Rebecca dovette l’alta posizione che occupò in seguito. Beato chi comprende queste cose, beato chi vede che la sicurezza e la felicità della Chiesa sono legati inseparabilmente a Cristo e alla Sua gloria! «Perché l’uomo non viene dalla donna, ma la donna dall’uomo; e l’uomo non fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo» (1 Corinzi 11:8-9). E ancora: «Il regno dei cieli è simile ad un re, il quale fece le nozze di suo figlio» (Matteo 22:2).

Il Figlio è centro di tutti i pensieri e i consigli di Dio; e se a qualcuno sono conferite gloria o dignità, ciò non può essere che in relazione al Figlio. A causa del peccato, l’uomo ha perso il diritto a tutte queste cose e alla vita stessa; ma Cristo prese su di Sé il castigo dovuto al peccato, si rese responsabile per quelli che avrebbero creduto, fu inchiodato alla croce come loro rappresentante, portò i loro peccati «nel suo corpo, sul legno della croce» (1 Pietro 1:24) e scese nella tomba, carico di questo pesante fardello. Nulla dunque può essere più perfetto della liberazione di cui i suoi redenti sono al beneficio. La Chiesa esce vivificata dalla tomba di Cristo, nella quale tutti i peccati di quelli che la compongono sono stati deposti.

La vita che la Chiesa possiede è il trionfo sulla morte e su ogni ostacolo; essa è legata alla giustizia divina ed è fondata su questa giustizia; i diritti di Cristo stesso alla vita sono fondati sul fatto che Egli ha annientato la potenza della morte. Cristo è la vita della Chiesa. Così la Chiesa gode della vita divina, e la speranza che la anima è la speranza della giustizia (vedete i passi seguenti: Giovanni 3:16, 36; 4:27, 40, 47, 68; 11:25; 17:2; Romani 5:21; 6:23; 1 Timoteo 1:16; 1 Giovanni 2:25; 5:20; Giuda 21; Efesini 2:1-6, 14,15; Colossesi 1:12-22; 2:10-15; Romani 1:17; 3:21-26; 4:5, 23-25; 2 Corinzi 5:21; Galati 5:5).

Questi passi stabiliscono in modo perfetto la vita, la giustizia e la speranza della Chiesa, perché la Chiesa è una stessa cosa con Colui che è risuscitato. Ora, nulla può raffermare il cuore come la convinzione che l’esistenza della Chiesa è essenziale alla gloria di Cristo. «La donna è la gloria dell’uomo» (1 Corinzi 11:7). La Chiesa è chiamata: «il compimento di Colui che porta a compimento ogni cosa» (Efesini 1:23). Quest’espressione è notevole; la parola tradotta «compimento» o «pienezza» significa parte aggiunta, cosa che, aggiunta ad un’altra, forma un tutto unico con essa e la completa. Così Cristo, il capo, e la Chiesa, il corpo, costituiscono il «solo uomo nuovo» (Efesini 2:15).

Se consideriamo il soggetto da questo punto di vista, non ci stupiremo che la Chiesa sia stata l’oggetto dei consigli eterni di Dio prima della fondazione del mondo. Rebecca era necessaria ad Isacco, perciò era l’oggetto d’un consiglio segreto, quando essa stessa ignorava ancora il suo alto destino. Tutti i pensieri di Abraamo si riferivano a Isacco: «Io ti farò giurare per il SIGNORE, il Dio dei cieli e il Dio della terra, che tu non prenderai per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei in mezzo ai quali abito» (24:3).

«Una moglie per il mio unico figlio»: è qui il punto essenziale. «Non è bene che l’uomo sia solo» (Genesi 2:18). Impariamo così ciò che è la Chiesa, nei consigli di Dio è “necessaria” a Cristo; e, nell’opera compiuta da Cristo, è stato divinamente provveduto a tutto, perché potesse essere chiamata all’esistenza. Considerando la verità sotto questo punto di vista, non si tratta più della potenza di Dio per salvare dei peccatori, ma Dio vuol fare «le nozze di suo figlio» (Matteo 22:2), e la Chiesa è la sposa che gli è destinata: essa è l’oggetto dei disegni del Padre, dell’amore del Figlio e della testimonianza dello Spirito Santo. È eletta a condividere la dignità e tutta la gloria del Figlio, e ha anche parte a tutto l’amore di cui Egli è amato dall’eternità.

Ascoltate le parole stesse del Figlio: «Io ho dato loro la gloria che tu hai data a me, affinché siano uno come noi siamo uno; io in loro e tu in me; affinché siano perfetti nell’unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me» (Giovanni 17:22-23).

Queste parole ci fanno conoscere i pensieri del cuore di Cristo riguardo alla Chiesa. Essa non è soltanto destinata ad essere com’Egli è, ma è già fin d’ora, simile a Lui secondo che è scritto: «In questo l’amore è reso perfetto in noi: che nel giorno del giudizio abbiamo fiducia, perché qual egli è, tali siamo anche noi in questo mondo» (1 Giovanni 4:17). Questa preziosa verità dà all’anima una piena fiducia. «Noi siamo in colui che è il Vero, cioè, nel suo Figlio Gesù Cristo» (1 Giovanni 5:20).

Tutto ciò che apparteneva a Isacco diventa proprietà di Rebecca, perché Isacco era suo; così pure tutto ciò che appartiene a Cristo appartiene anche alla Chiesa. «Tutto vi appartiene… il mondo, la vita, la morte, le cose presenti, le cose future, tutto è vostro! E voi siete di Cristo; e Cristo è di Dio» (1 Corinzi 3:21-23).

Cristo è il capo supremo della Chiesa (Efesini 1:22), e sarà la Sua gioia manifestare la Chiesa nella gloria e la bellezza di cui l’avrà rivestita per tutta l’eternità; poiché la gloria della Chiesa non sarà che il riflesso della Sua propria gloria e della Sua propria bellezza. Gli angeli e i principati contempleranno, nella Chiesa, il meraviglioso spiegamento della sapienza, della potenza e della grazia di Dio in Cristo.

19.3 La testimonianza del servitore

Esaminiamo ora il secondo punto di cui abbiamo parlato più su, cioè la testimonianza. Il servitore di Abraamo era latore d’una testimonianza chiara e precisa. «Io sono servo d’Abraamo. Il SIGNORE ha benedetto abbondantemente il mio signore, che è diventato ricco; gli ha dato pecore e buoi, argento e oro, servi e serve, cammelli e asini. Or Sara, moglie del mio signore, ha partorito nella sua vecchiaia un figlio al mio padrone, il quale gli ha dato tutto quello che possiede» (24:34-36). Il servitore rivela il padre e il figlio; questa è la sua testimonianza; parla delle immense ricchezze del padre e dice che questi ha dato tutti i suoi beni al figlio in virtù del fatto che è il suo figlio unico e amato. Per mezzo di questa testimonianza, il servitore cerca di ottenere una sposa per il Isacco.

È quasi superfluo dire che la Scrittura ci pone dinanzi, in figura e in modo notevole, la testimonianza dello Spirito Santo mandato sulla terra il giorno della Pentecoste. «Ma quando sarà venuto il Consolatore che io vi manderò da parte del Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, Egli testimonierà di me» (Giovanni 15:26). E ancora: «Quando però sarà venuto lui, lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità, perché non parlerà di suo, ma dirà tutto quello che avrà udito, e vi annuncerà le cose a venire. Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve lo annuncerà. Tutte le cose che ha il Padre, sono mie; per questo ho detto che prenderà del mio e ve lo annuncerà» (Giovanni 16:13-15). Il modo con cui queste parole coincidono con la testimonianza del servitore di Abraamo, è istruttivo e molto interessante. È parlando di Isacco che il servitore cerca di guadagnare il cuore di Rebecca; ed è parlando di Gesù che lo Spirito Santo cerca di distogliere i poveri peccatori da un mondo di peccato e di follia, per farli entrare nella beata e santa unità del corpo di Cristo. Egli «prenderà del mio e ve lo annuncerà» (v. 14). Lo Spirito Santo non conduce mai un’anima a guardare a se stessa o alla propria opera, ma sempre e soltanto a Cristo. Così, più un’anima è veramente spirituale, più sarà esclusivamente occupata di Cristo.

Considerare sempre il nostro cuore e indugiare su ciò che vi troviamo potrebbe sembrare una prova di grande spiritualità, ma non è così; parlando dello Spirito, Gesù dice espressamente: Egli «non parlerà di suo» (v. 13), ma «prenderà del mio e ve lo annuncerà». Perciò, ogni volta che uno guarda a sé e si adagia su ciò che di spirituale può scoprirvi, può essere certo che in questo non è condotto dallo Spirito di Dio. Lo Spirito attira le anime a Dio presentando loro Cristo. Conoscere Cristo è la vita eterna; e la rivelazione che il Padre fa del Figlio per mezzo dello Spirito Santo costituisce il fondamento della Chiesa.

Quando Pietro riconosce Gesù come il Cristo, Figlio del Dio vivente, Gesù gli risponde: «Tu sei beato, Simone, figlio di Giona, perché non la carne e il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli. E anch’io ti dico: tu sei Pietro, e su questa pietra (o su questa roccia) edificherò la mia chiesa, e le porte dell’Ades non la potranno vincere» (Matteo 16:17-18). Quale roccia? Pietro? No! Questa «roccia» è semplicemente la rivelazione di Cristo come «Figlio del Dio vivente», e questa rivelazione è il solo mezzo per il quale un’anima può essere introdotta nella Chiesa di Cristo.

Impariamo qui qual è il vero carattere dell’Evangelo. Esso è anzitutto la rivelazione di una persona, la persona del Figlio; non è solo una dottrina. E questa rivelazione, ricevuta per la fede, attira il cuore a Cristo e diventa la sorgente della vita e della potenza, e il fondamento della nostra unione con Cristo come membra del suo corpo. «Dio… si compiacque di rivelare in me il Figlio suo» scrive Paolo (Galati 1:15-16). Il vero principio che costituisce «la roccia» è dunque Dio che rivela il suo Figlio. È così che s’innalza l’edificio; è su questo solido fondamento che esso si basa, secondo il disegno eterno di Dio.

È dunque particolarmente interessante per noi trovare, in questo capitolo 24 un’immagine così bella della missione e della testimonianza speciale dello Spirito Santo.

Cercando una sposa al figlio di Abraamo, il servitore descrive tutta la gloria e le ricchezze che gli sono state conferite dal padre e l’amore col quale è amato; e tutto ciò toccherà il cuore di Rebecca e lo staccherà dalle cose in mezzo alle quali viveva. Egli addita a Rebecca una persona lontana, e le rivela la felicità che vi sarebbe, per lei, nel diventare una con quella persona così tanto favorita. Tutto ciò che apparteneva a Isacco sarebbe appartenuto anche a lei, dal momento che sarebbe diventata una stessa cosa con lui. Così pure lo Spirito parla di Cristo, della Sua gloria, della bellezza, della pienezza, della grazia, delle «insondabili ricchezze di Cristo» (Efesini 3:8), della dignità della Sua persona e della perfezione della Sua opera. E rivela la felicità inesprimibile che c’è nell’essere una stessa cosa con Lui.

L’insegnamento spirituale sarà sempre caratterizzato da una piena e costante presentazione della persona di Cristo. Se qualcuno serve l’Evangelo nella potenza dello Spirito di Dio, si occuperà, nel suo ministero, più di Cristo che di qualunque altra cosa. I ragionamenti della logica umana non vi troveranno posto, perché non sono adatti se non dove l’uomo vuol mettersi avanti.

19.4 Il risultato della missione del servitore

Infine, dobbiamo occuparci dei risultati della testimonianza. La verità e l’applicazione pratica della verità sono due cose molto diverse. Una cosa è il parlare delle glorie particolari della Chiesa, altra cosa è sentirsi partecipe di questa verità e viverla.

Per quanto riguarda Rebecca, il risultato della testimonianza resa dal servo Eliezer fu netto e positivo. La sua testimonianza penetrò profondamente nel suo cuore ed ebbe l’effetto di staccare completamente le sue affezioni da tutto quello che la circondava. Ora, ella è pronta a lasciare ogni cosa per “proseguire la corsa”, e afferrare ciò per cui era stata afferrata (vedere Filippesi 3:12-13). È impossibile che potesse credersi l’oggetto di un destino così glorioso rimanendo in mezzo alle circostanze nelle quali si trovava. Se la testimonianza riguardo al suo futuro era vera, rimanere attaccata al presente sarebbe stata la peggiore delle follie. Se la speranza di andare sposa ad Isacco ed essere coerede con lui di tutta la sua gloria, era per lei una realtà, non poteva continuare a pascolare le pecore di Labano; sarebbe stato disprezzare, in pratica, tutto ciò che Dio, nella Sua grazia, le aveva posto davanti. No; la speranza che le stava davanti era troppo gloriosa perché Rebecca la valutasse con leggerezza! Non ha ancora visto Isacco, è vero, e nemmeno l’eredità; ma ha creduto alla testimonianza che le è stata resa e, in certo qual modo, ha ricevuto la caparra dell’eredità: questo è sufficiente per il suo cuore. Perciò, senza esitazione, si alza e dichiara di essere pronta a partire. «Sì, andrò», ella dice (24:58).

«Andrò». E dimenticando le cose «che stanno dietro» e protendendosi verso quelle «che stanno davanti», Rebecca corre «verso la meta per ottenere il premio della celeste vocazione» (vedere Filippesi 3:13-14). È una bella e commovente immagine della Chiesa che, sotto la guida dello Spirito Santo, s’incammina incontro al suo celeste Sposo. Questo, almeno, è ciò che la Chiesa dovrebbe fare; ma purtroppo si vede in lei ben poco di quella santa gioia che le fa sormontare ogni ostacolo, nella potenza della comunione colla sua celeste guida, col suo compagno di viaggio, il cui incarico è di comunicare le cose che sono di Gesù.

Come il servo di Abraamo certamente si compiaceva nel farle udire nuove testimonianze riguardo al figlio, mentre avanzavano verso il momento in cui lo gioia e la gloria dello sposa si sarebbero compiute, così la nostra guida celeste si compiace a parlarci di Gesù. Abbiamo un reale bisogno di questo ministero dello Spirito che rivela Cristo alle nostre anime, facendoci ardentemente desiderare di vederlo come Egli è, e di essergli resi simili per sempre. Lui solo ha il potere di staccare i nostri cuori dalla terra e da tutto ciò che appartiene alla natura. Che cosa, se non la speranza di essere unita ad Isacco, avrebbe mai potuto indurre Rebecca a dire «andrò» quando suo fratello e sua madre dicevano: «rimanga la fanciulla alcuni giorni con noi, almeno una decina» (v. 55)? Così, anche per noi, soltanto la speranza di vedere Gesù può renderci capaci di purificarci, per essere puri come Egli è puro (1 Giovanni 3:3).

20. Capitolo 25: Fine della vita di Abrahamo

20.1 Il secondo matrimonio di Abrahamo

Questo capitolo ci parla del secondo matrimonio di Abraamo, avvenimento che non è senza interesse per l’uomo spirituale, se lo si considera in rapporto al contenuto del capitolo precedente.

Gli scritti profetici del Nuovo Testamento ci insegnano che la progenie di Abraamo riapparirà sulla scena dopo il rapimento della Sposa di Cristo. Così, dopo il matrimonio di Isacco, lo Spirito Santo ci intrattiene sulla storia della progenie di Abraamo, in connessione con un nuovo matrimonio, e, in seguito, di alcuni incidenti della vita del patriarca e della sua progenie secondo la carne.

Il libro della Genesi, come già abbiamo detto, racchiude, in embrione, i grandi principi elementari della storia delle relazioni di Dio con l’uomo, di cui i libri seguenti, e il Nuovo Testamento in particolare, contengono lo sviluppo. È vero che nella Genesi questi principi sono presentati in figura, mentre nel Nuovo Testamento sono sviluppati in modo didattico: ma le figure sono molto interessanti e riescono a far penetrare potentemente la verità nel cuore.

20.2 Esaù sprezza la sua primogenitura

La fine di questo cap. 25 ci rivela alcuni principi importanti e di carattere molto pratico. Il carattere e la vita di Giacobbe passeranno presto sotto i nostri occhi; ma prima di procedere, fermiamoci un poco sulla vita di Esaù, in merito a quel che riguarda il diritto di primogenitura e a tutto quello che implicava questo diritto.

Il cuore naturale non attribuisce alcuna importanza alle cose di Dio; dato che non conosce Dio, le cose di Dio sono per lui qualcosa di molto annebbiato senza valore e senza potenza. Ecco perché le cose presenti hanno tanto peso nella valutazione degli uomini ed esercitano su di loro una così grande influenza! L’uomo apprezza ciò che vede perché è condotto dalla vista e non dalla fede. Per lui il presente è tutto, il futuro invece ha una sola cosa certa: la morte. Così era Esaù. Ascoltiamo il suo insidioso ragionamento: «Ecco, io sto morendo; a che mi serve la primogenitura?» (v. 32). Strano ragionamento! Il presente mi sfugge, perciò io mi disinteresso del futuro! Il tempo svanisce davanti ai miei occhi, perciò rinuncio a qualsiasi parte nell’eternità! «Fu in questo modo che Esaù disprezzò la primogenitura» (v. 34); così gl’Israeliti «disprezzarono il paese delizioso»; così disprezzarono Cristo; così, anche, gli invitati alle nozze disprezzarono l’invito (Salmo 106:24; Zaccaria 11:13; Matteo 22:5). L’uomo non ha gusto per le cose di Dio; una «minestra di lenticchie» (v. 34) vale di più, per lui. La ragione per la quale Esaù non si preoccupava del suo diritto di primogenitura era proprio quella che avrebbe dovuto indurlo ad attribuirle il massimo valore.

Più vedo l’incertezza e la vanità delle cose presenti e più darò importanza all’avvenire che mi presenta Dio. Questo è il pensiero di Dio e quindi così ragiona la fede: «Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi, quali non dovete essere voi, per santità di condotta e per pietà, mentre attendete e affrettate la venuta del giorno di Dio, in cui i cieli infocati si dissolveranno e gli elementi infiammati si scioglieranno! Ma, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia » (2 Pietro 3:11-13). Le cose presenti devono dissolversi: disprezzeremo noi quelle che non si vedono e che sono eterne? Certamente no. Il giorno presente è come un’ombra che si dilegua. Qual è la nostra risorsa? La Scrittura ci dice in proposito: «mentre attendete e affrettate la venuta del giorno di Dio» (2 Pietro 3:12). Ogni altro ragionamento è quello d’un profano, come il ragionamento di Esaù che per una sola pietanza vendette la sua primogenitura (Ebrei 12:16).

21. Capitolo 26: Isacco a Gherar poi a Beer Sheba

«Nel paese ci fu una carestia, oltre la prima che c’era già stata ai tempi d’Abraamo» (26:1). Questo primo versetto si riallaccia al cap. 12.. Le prove che i credenti incontrano sono tutte press’a poco della stessa natura, e tendono sempre a manifestare fino a che punto il loro cuore ha trovato il suo tutto in Dio. È cosa difficile camminare con Dio in un’intimità di comunione tale che l’anima sia del tutto indipendente dagli uomini e dalle cose. Gli Egitto e i Gherar che sono alla nostra destra e alla nostra sinistra, ci offrono potenti tentazioni sia per allontanarci dal retto cammino, sia per trattenerci al disotto della nostra posizione come servitori del Dio vivente e vero.

«E Isacco andò da Abimelec, re dei Filistei a Gherar». Vi è, fra l’Egitto e Gherar, una differenza rilevante. L’Egitto è l’espressione del mondo con le sue risorse naturali e la sua indipendenza da Dio. Rispetto a Canaan era più lontano da di Gherar e, moralmente, esprime uno stato d’animo più lontano da Dio. È fatta menzione di Gherar, in questi termini, al cap. 10 v. 19: «I confini dei Cananei andarono da Sidon, in direzione di Gherar, fino a Gaza e in direzione di Sodoma, Gomorra, Adma e Seboim fino a Lesa». Apprendiamo così che da Gherar a Gerusalemme vi era la distanza di tre giorni di cammino. Gherar era dunque vicina, in paragone all’Egitto, ma era in una zona con pericolosissime influenze.

Abraamo trovò difficoltà e problemi quando scese a Gherar (cap. 20), e così pure Isacco. Abraamo rinnegò sua moglie, e Isacco fece altrettanto. È solenne vedere il padre e il figlio cadere, uno dopo l’altro, nello stesso peccato, e cadervi nello stesso luogo. Questo dimostra che l’influenza di quel luogo era nefasta. Se Isacco non si fosse recato da Abimelec, re di Gherar, non si sarebbe trovato nella situazione di rinnegare sua moglie, ma il più piccolo allontanamento dalla retta via è accompagnato da debolezza spirituale.

Quanto a Isacco, e evidente che non era felice a Gherar. È vero che Dio gli aveva detto: «Soggiorna in questo paese» (v. 3), ma non accade forse sovente che Dio dia ai suoi degli ordini moralmente adatti allo stato nel quale Egli li vede, per far sì che si rendano conto del loro stato? L’Eterno ordinò a Mosè (Numeri 13) di mandare degli uomini a esplorare il paese di Canaan; ma se la situazione morale del popolo non fosse stata molta bassa, questo procedimento non sarebbe stato necessario. Sappiamo che la fede non ha bisogno di esplorare ciò che la promessa di Dio le assicura. Nello stesso modo (Numeri 11:16) l’Eterno ordina a Mosè di scegliere settanta uomini fra gli anziani d’Israele perché portino con lui il carico del popolo; ma se Mosè avesse pienamente compreso la sua alta posizione e la gioia che vi era connessa, questo comandamento non sarebbe stato necessario. È lo stesso riguardo l’ordine che diede l’Eterno a Samuele di stabilire un re sul popolo d’Israele (1 Samuele 8). Il popolo non avrebbe dovuto aver bisogno d’un re. È dunque necessario, per valutare giustamente un ordine dato, sia a un individuo sia a un popolo, prendere in considerazione lo stato di quest’individuo o di questo popolo.

Ma forse si dirà: se Isacco era in una falsa posizione in Gherar, perché è detto: «Isacco seminò in quella terra, e in quell’anno raccolse il centuplo; il SIGNORE lo benedisse» (v. 12)? Rispondiamo che la prosperità non prova che ci troviamo nella posizione voluta da Dio; come già abbiamo avuto occasione di dire, vi è una grande differenza fra la benedizione del Signore e la Sua presenza. Non poche persone godono della prima e non della seconda; tuttavia il cuore è indotto a confondere la benedizione con la presenza di Dio, o, per lo meno, a persuadersi che l’una deve necessariamente accompagnare l’altra. È un grave errore. Non è raro vedere delle persone circondate dalle benedizioni di Dio, ma che non godono della Sua presenza e nemmeno la desiderano. È importante discernere questo. Uno può diventar grande oltre misura, fino ad essere padrone di greggi di pecore, di mandrie di buoi e di numerosa servitù (vers. 13 a 15) pur senza godere pienamente e liberamente della presenza di Dio. Greggi di pecore e mandrie di buoi non sono la presenza del Signore: questi beni potevano suscitare l’invidia dei Filistei, ma non era in quello che consisteva la presenza del Signore. Isacco avrebbe potuto godere della più felice comunione con Dio, senza che i Filistei lo avessero notato per la semplice ragione che non erano in grado né di comprenderne né di apprezzarne il valore.

Tuttavia, più tardi, Isacco si allontanò dai Filistei e salì a Beer-Seba. «Il SIGNORE gli apparve quella stessa notte e gli disse: “Io sono il Dio d’Abraamo tuo padre; non temere, perché io sono con te e ti benedirò» (v. 24). Non era più soltanto la benedizione del Signore, ma il Signore stesso che era con lui. E perché? Perché Isacco se n’era andato lasciando dietro di sé i Filistei con tutta la loro invidia, i loro contrasti e le loro contestazioni, per recarsi a Beer-Seba. Là l’Eterno poteva manifestarsi al suo servitore, mentre non poteva accompagnarlo con la Sua presenza in Gherar, benché, con mano liberale, avesse sparso su lui le Sue benedizioni mentre era in quel luogo. Per godere della presenza di Dio, bisogna essere dove Egli è, e non è fra le dispute e le contestazioni d’un mondo empio che lo troveremo, di modo che più il credente si farà premura di lasciare queste cose e meglio sarà per lui. Tale fu l’esperienza d’Isacco. Finché stette fra i Filistei, non ebbe alcuna influenza salutare sopra essi, né trovò riposo per l’anima sua. Il vero mezzo per essere utili agli uomini di questo mondo, è di esserne separati ma nella potenza della comunione con Dio e dell’amore per Lui, mostrando così il modello della «via per eccellenza» (1 Corinzi 12:31).

Il progresso spirituale fatto da Isacco si manifesta nel suo cammino. «Poi di là Isacco salì a Beer-Sceba… In quel luogo egli costruì un altare, invocò il nome del SIGNORE e vi piantò la sua tenda. E i servi d’Isacco vi scavarono un pozzo» (v. 23, 25). Notiamo, in tutto ciò, un felice progresso. Dal momento che ebbe fatto il primo passo nella diritta via, Isacco va di forza in forza, entra nella gioia della presenza di Dio e gusta le dolcezze di un vero culto; e dimostra di essere straniero e pellegrino, trovando pace e riposo, e anche un pozzo che i Filisei non potevano turare perché non erano presenti.

Questi bei risultati produssero anche un salutare effetto sugli altri. «Abimelec partì da Gherar e andò da lui con Auzat, suo amico, e con Picol, capo del suo esercito. Isacco disse loro: “Perché venite da me, visto che mi odiate e mi avete mandato via dal vostro paese?” Quelli risposero: “Noi abbiamo chiaramente visto che il SIGNORE è con te; e abbiamo detto: ‘Si faccia ora un giuramento tra di noi’, cioè fra te e noi, e facciamo un’alleanza con te. Giura che non ci farai alcun male, così come noi non ti abbiamo toccato, e non ti abbiamo fatto altro che del bene e t’abbiamo lasciato andare in pace’» (v. 26-31).

Per poter agire sul cuore e sulla coscienza della gente del mondo, bisogna vivere in una separazione completa da loro, pur usando, a loro riguardo, grazia e amore. Fintanto che Isacco dimorò in Gherar, non vi fu tra lui e loro altro che dispute e contestazioni; Isacco non raccolse che dispiaceri e non fece alcun bene a quelli che lo circondavano. Ma dal momento che li ebbe lasciati, i loro cuori furono toccati; ed essi lo hanno seguito e hanno voluto fare alleanza con lui.

La storia dei figli di Dio ci offre numerosi esempi dello stesso genere. Ciò che deve anzitutto preoccuparci è di sapere se siamo nella posizione nella quale Dio ci vuole, e se siamo in regola con Lui, non soltanto nella nostra posizione, ma nella condizione morale dell’anima nostra. Se siamo in regola con Dio, possiamo sperare di agire sugli altri in modo salutare. Dal momento che Isacco salì a Beer-Seba e prese la posizione di adoratore, l’anima sua fu ristorata e Dio si servì di lui per agire su quelli che lo circondavano. La povertà spirituale ci priva di molte benedizioni e ci fa venir meno alla nostra testimonianza e al nostro servizio.

Il comandamento di Dio è: «Smettete dal fare il male»; poi quando abbiamo ubbidito a questo, Dio ce ne fa udire un altro: «Imparate a fare il bene» (Isaia 1:16-17). Siamo in errore se pretendiamo d’imparare a fare il bene prima di cessare di fare il male. «Risvegliati, o tu che che dormi, e risorgi da’ morti, e Cristo t’inonderà di luce» (Efesini 5:14).

«Smettete di far male»; siamo pur certi che se ubbidiamo a questa parola, non saremo per molto tempo nell’ignoranza riguardo al cammino che dobbiamo seguire. Solo l’incredulità ci porta a credere che non possiamo cessare di fare il male prima di aver trovato qualche cosa di buono da fare. Ci dia il Signore un occhio semplice e uno spirito docile.

22. Capitolo 27: Giacobbe e Esaù

I capitoli da 27 a 35 ci fanno conoscere la storia di Giacobbe o, per lo meno, gli avvenimenti principali della sua vita; lo Spirito ci dà un insegnamento profondo sui consigli della grazia di Dio come pure sulla totale incapacità e la corruzione della natura umana.

22.1 L’elezione della grazia

Al capitolo 25 ho lasciato intenzionalmente da parte un passo che si riferisce a Giacobbe perché ha un posto più indicato qui.

«Isacco implorò il SIGNORE per sua moglie Rebecca, perché ella era sterile. Il SIGNORE l’esaudì e Rebecca, sua moglie, concepì. I bambini si urtavano nel suo grembo ed ella disse: “Se così è, perché vivo?” E andò a consultare il SIGNORE. Il SIGNORE le disse: “Due nazioni sono nel tuo grembo e due popoli separati usciranno dal tuo seno. Uno dei due popoli sarà più forte dell’altro, e il maggiore servirà il minore”» (Genesi 25:19-23).

Malachia fa allusione a questo passo: « “Io vi ho amati”, dice il SIGNORE; “e voi dite: ‘In che modo ci hai amati?’
Esaù non era forse fratello di Giacobbe?”, dice il SIGNORE, “eppure io ho amato Giacobbe
 e ho odiato Esaù”» (Malachia 1:2-3). Queste parole del profeta sono citate dall’apostolo Paolo (Romani 9:11-12): «Prima che i gemelli fossero nati e che avessero fatto del bene o del male (affinché rimanesse fermo il proponimento di Dio, secondo elezione, che dipende non da opere, ma da colui che chiama), le fu detto: “Il maggiore servirà il minore”; com’è scritto: “Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù”».

Il consiglio eterno di Dio, secondo l’elezione della grazia, ci è così chiaramente presentato. Quest’espressione l’elezione della grazia ha una portata immensa; essa annienta tutte le pretese dell’uomo, e proclama il diritto di Dio di agire come gli piace. L’uomo non può godere di alcuna felicità reale finché non è stato condotto a chinare il capo davanti alla grazia sovrana di Dio. Deve agire così perché è peccatore e, come tale, assolutamente senza titoli per agire o per prescrivere a Dio qualche cosa. Il grande vantaggio che risulta, per noi, da questa posizione è che, quando siamo su questo terreno, non si tratta più di quello che meritiamo, ma di quello che piace a Dio di darci. Il figlio prodigo può, per umiltà, voler essere trattato come un servo; ma se si trattasse di merito, non sarebbe nemmeno degno nemmeno di occupare il posto di servo! Non gli resta allora che accettare ciò che il padre trova buono di dargli, cioè il posto più elevato, quello della comunione con Lui nella sua casa. Non può essere diversamente, poiché sarà la grazia a coronare tutta l’opera di Dio nei secoli dei secoli.

Beati noi che sia così! Man mano che avanziamo, facendo giorno per giorno nuove scoperte riguardo a ciò che siamo, abbiamo bisogno, per essere sostenuti, dell’incrollabile fondamento della grazia di Dio. La rovina dell’uomo è senza speranza; è necessario, perciò, che la grazia sia infinita; e lo è. Dio ne è la sorgente, Cristo il veicolo e lo Spirito Santo la potenza che la applica all’anima e ne trasmette il godimento. La Trinità è manifestata nella grazia, la grazia che salva il povero peccatore: «… affinché, come il peccato regnò mediante la morte, così pure la grazia regni mediante la giustizia a vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore» (Romani 5:21).

La grazia non poteva regnare se non in redenzione. Nella creazione possiamo contemplare la saggezza e la potenza; nella provvidenza, la bontà e la longanimità; ma soltanto nella redenzione vediamo il regno della grazia e, questo, fondato a sua volta sul regno della giustizia.

Ora, in Giacobbe, vediamo la potenza della grazia divina, poiché in lui abbiamo un notevole esempio della forza e dell’ostinazione della natura umana. In lui la natura umana si esplica in tutta l’ambiguità delle sue vie, e così la grazia di Dio si manifesta in tutta la Sua potenza e la Sua bellezza morale.

Dai fatti che ci sono riferiti, pare che già prima di nascere, all’atto della sua nascita e dopo, la straordinaria energia della natura di Giacobbe si sia manifestata. Leggiamo che, prima di nascere, «i bambini si urtavano nel suo grembo» (25:22); al momento della nascita, Giacobbe «con la mano teneva il calcagno di Esaù» (v. 26) e, dopo la sua nascita, da un’estremità all’altra della sua carriera, non vediamo altro (pur senza escludere la fase del cap. 32) che il manifestarsi di un temperamento assai poco amabile; ma tutto ciò, come uno sfondo nero, serve a far risaltare la grazia di Colui che accondiscende a chiamarsi col nome di «Dio di Giacobbe», quel nome che è della grazia una commovente espressione.22.2 Giacobbe si fa passare per Esaù

In questo capitolo 27 abbiamo il più umiliante quadro di perfidia e di astuzia; e sotto quale luce triste e vergognosa esse appaiono quando, come qui, queste cose si trovano in un figlio di Dio!

Tuttavia lo Spirito Santo è sempre vero e fedele: bisogna che sveli ogni cosa. Quando racconta la storia di un uomo, non può darcene un quadro incompleto; egli lo dipinge così com’è, non come non è. Così pure, quando rivela il carattere e le vie di Dio, lo Spirito ci mostra Dio quale effettivamente è, ed è proprio ciò di cui abbiamo bisogno.

Per noi è necessaria la rivelazione di un Dio perfetto in santità e, nello stesso tempo, perfetto in grazia e in misericordia, tanto da scendere in tutta la profondità della miseria e della degradazione dell’uomo, e là entrare in relazione con noi e farci uscire dalla nostra triste condizione di peccatori perduti.

Ricordiamoci che nel descriverci tutti i lati del carattere dell’uomo, lo Spirito Santo ha in vista semplicemente di magnificare le ricchezze della grazia di Dio e di istruirci, ammonendoci. Il suo scopo non è quello di perpetuare il ricordo del peccato, cancellato per sempre agli occhi di Dio dal sangue di Cristo. Le debolezze e gli errori di Abraamo, di Isacco e di Giacobbe, sono stati lavati e cancellati perfettamente, e questi uomini hanno preso posto fra gli «spiriti dei giusti resi perfetti» (Ebrei 12:23). Ma la loro storia rimane nelle pagine del libro ispirato perché la grazia di Dio sia manifestata e perché serva di avvertimento ai figli di Dio in ogni epoca; e anche per farci vedere chiaramente che non è con uomini perfetti che Dio ha avuto a che fare nei tempi che ci hanno preceduti, ma con uomini che avevano «le stesse nostre passioni» (Giacomo 5:17) e dei quali Egli ha dovuto sopportare gli stessi difetti, le stesse infermità, gli stessi errori per i quali noi pure soffriamo ogni giorno.

Tutto questo serve a fortificare il cuore. Le biografie scritte dallo Spirito Santo sono in contrasto notevole con quelle scritte dalla maggioranza dei biografi che spesso non raccontano la storia di uomini come noi, ma di esseri esenti da debolezze e da errori. Biografie di questo tipo sono più nocive che utili, più propense a scoraggiare che a edificare. Esse raccontano ciò che l’uomo dovrebbe essere piuttosto che ciò ch’egli è realmente. Invece, nulla può edificare come la manifestazione delle vie di Dio verso l’uomo così com’è, con la sua miseria e il suo peccato.

Troviamo qui il vecchio patriarca Isacco sulla soglia dell’eternità. La terra e tutto ciò che appartiene alla natura svaniscono rapidamente davanti a lui; tuttavia egli è occupato della «pietanza saporita» di cui è parlato ben sei volte in questo capitolo, e sta per agire in totale opposizione al consiglio di Dio, benedicendo il più vecchio invece del più giovane. Ecco la natura, la natura con gli “occhi ormai indeboliti” (27:1). Se Esaù ha venduto il diritto alla primogenitura per una minestra di lenticchie, Isacco è sul punto di dare la benedizione in cambio di un piatto di selvaggina! Quanto ciò è umiliante! Bisogna tuttavia che il proposito di Dio resti invariato e Dio compirà tutta la propria volontà. La fede lo sa, e nell’energia di questa conoscenza può aspettare il tempo fissato da Dio, mentre la natura, incapace di attendere, deve cercare di raggiungere i suoi scopi con mezzi di sua propria invenzione! Ed è quello che Giacobbe ha fatto.

I due grandi fatti che emergono dalla storia di Giacobbe sono, da un lato, il disegno di Dio in grazia e, dall’altro, la natura che imposta i propri piani e i propri progetti per ottenere ciò che, senza piani e senza progetti, il consiglio di Dio avrebbe comunque fatto avvenire. Questa considerazione vale a semplificare, in maniera singolare, tutta la storia di questo patriarca e ad aumentarne l’interesse.

Nessuna virtù forse ci manca tanto come quella di saper aspettare con pazienza e dipendere completamente da Dio. Quando la natura agisce rischia sempre di ostacolare la manifestazione della grazia e della potenza divina. Per compiere i propri disegni Dio non aveva bisogno di elementi come la fine astuzia di Rebecca e lo sfrontato inganno di Giacobbe. Dio aveva detto: «Il maggiore servirà il minore» (25:23), e ciò bastava; bastava per la fede, ma non certo per la natura che, non sapendo cosa voglia dire dipendere da Dio, si riduce sempre a usare i propri discutibili mezzi.

22.3 Sapere aspettare il tempo fissato da Dio

Non c’è posizione più benedetta di quella di un’anima che, con la semplicità di un bambino, vive in una totale dipendenza da Dio, perfettamente soddisfatta di aspettare il Suo tempo. Una tale posizione implica delle prove, è vero, ma l’anima rinnovata impara le lezioni più profonde e fa le più dolci esperienze facendo affidamento nel Signore. E più sarà forte la tentazione di sottrarsi al governo di Dio, più abbondante sarà la benedizione se sappiamo rimanere nella beata posizione di fiduciosa attesa.

È infinitamente dolce dipendere da qualcuno per il quale benedire è una gioia. Soltanto coloro che hanno gustato la realtà di questa meravigliosa posizione possono apprezzarla; e l’unico che l’ha realizzata in modo perfetto e senza interruzione è il Signore Gesù. Egli è stato sempre dipendente da Dio e ha respinto in modo assoluto ogni proposta del nemico per farlo uscire da quella dipendenza. Il Suo parlare era, come profeticamente scriveva il salmista a Suo riguardo: «Io confido in te»; «a te fui affidato fin dalla mia nascita» (Salmi 16:1; 22:10). E quando il diavolo lo tentò e volle indurlo a servirsi di un mezzo spettacolare per soddisfare la sua fame, Egli rispose: «Sta scritto: “Non di pane soltanto vivrà l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”» (Matteo 4:4). Quando Satana gli propose di gettarsi giù dal pinnacolo del tempio, la sua risposta fu: «È altresì scritto: “Non tentare il Signore Dio tuo”» (Matteo 4:7). Quando volle ch’Egli prendesse i regni del mondo dalla sua mano, e non da Dio, e adorasse lui, e non Dio, Egli rispose ancora: «Sta scritto: “Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi il culto”» (Matteo 4:10).

In una parola, Satana non riuscì a indurre il Signore a sottrarsi dalla dipendenza da Dio. Sicuramente, era nei disegni di Dio di nutrire e sostenere il proprio figlio; era nei suoi disegni ch’Egli venisse ed entrasse «subito nel suo tempio» (Malachia 3:1); e così pure a Lui Egli destinava i regni del mondo: ma era proprio quella la ragione per la quale il Signore Gesù volle, semplicemente e con perseveranza, confidare in Dio per il compimento dei Suoi piani, al momento e nel modo voluti da Lui. Gesù non mangerà se non quando Dio gli darà del pane; non entrerà nel tempio se non quando sarà Dio a mandarlo, e salirà sul trono solo quando Dio lo vorrà: «Siedi alla mia destra, finché io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi» (Salmo 110:1).

Questo completo assoggettarsi del Figlio al Padre è ammirevole. Benché perfettamente uguale a Dio, Egli prese, come uomo, la posizione della dipendenza, avendo sempre il grande e immutabile scopo di glorificare il Padre. E quando finalmente tutto fu compiuto, quando ebbe portato a termine perfettamente l’opera che gli era stata affidata, Egli rimise il suo spirito nelle mani del Padre mentre la Sua carne riposava nella speranza della gloria e della realizzazione delle promesse.

«Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre» (Filippesi 2:5-11).

22.4 Gli espedienti di Giacobbe

Quanto poco, all’inizio della sua carriera, Giacobbe conosceva questo sentimento benedetto! Quanto poco era disposto ad affidarsi a Dio per la scelta del tempo e dei mezzi! Egli preferiva raggiungere la benedizione e l’eredità con ogni sorta di inganni e di frodi, piuttosto che con la semplice dipendenza e sottomissione a quel Dio che l’aveva eletto per grazia, per farlo erede delle promesse, e che con la Sua saggezza e la Sua forza onnipotente avrebbe infallibilmente compiuto in suo favore tutto ciò che gli aveva promesso.

Ma sappiamo fin troppo bene quanto il cuore sia opposto a questa dipendenza e a questa sottomissione. Basta questo per insegnarci il vero carattere della natura umana; per conoscerla, non è necessario addentrarsi in quei luoghi dove regnano liberamente il vizio e la criminalità. Basta, per metterla alla prova, porla per un certo tempo in una posizione di dipendenza e si vedrà subito come si comporta. Non conoscendo Dio, non può confidare in Lui e qui sta il vero motivo della sua miseria e della sua degradazione morale. Essa ignora il vero Dio e, di conseguenza, non può essere che miserabile e inutile. La conoscenza di Dio è sorgente di vita; anzi, di più, è la vita stessa. E cos’è l’uomo, cosa può essere, finché non ha la vita di Dio?

In Rebecca e in Giacobbe il carattere naturale prende il sopravvento su quello di Isacco e Esaù. La loro condotta non è diversa: in loro non v’è alcuna dipendenza da Dio né fiducia in Lui. Era facile ingannare Isacco dal momento che i suoi occhi erano velati; e Rebecca e Giacobbe si propongono di fare così, invece di guardare a Dio che avrebbe reso completamente vana la deliberazione, che Isacco aveva presa, di benedire colui che Dio non voleva benedire. «Isacco amava Esaù» non perché era il primogenito, ma «perché la cacciagione era di suo gusto» (25:28). Com’è umiliante tutto ciò!

Quando vogliamo sottrarre al controllo di Dio le nostre persone, le nostre circostanze o il nostro destino, attiriamo sempre su di noi nient’altro che il tormento. Quando siamo nella prova non dimentichiamo mai che ciò di cui abbiamo bisogno non è di vedere cambiate le nostre circostanze, ma di riportare la vittoria su noi stessi. È ciò che avvenne a Giacobbe nel seguito della sua storia.

Qualcuno ha fatto notare che Giacobbe, da quando ha ottenuto con inganno la benedizione di suo padre, ha avuto ben poca felicità in questo mondo. Suo fratello concepì il progetto di ucciderlo e l’obbligò a fuggire dalla casa paterna. Labano, suo zio, lo ingannò, come egli aveva ingannato il padre, e lo trattò con durezza; dopo ventun’anni di servitù fu costretto a lasciare clandestinamente lo zio, non senza correre il rischio di essere ricondotto da dove era fuggito o ucciso dal fratello adirato. Appena liberato da queste paure, fu amareggiato per la condotta immorale di suo figlio Ruben; e poi ebbe a deplorare la violenza e la crudeltà di Simeone e di Levi verso gli abitanti di Sichem. Più tardi dovette soffrire per la morte della moglie tanto amata e i suoi figli lo ingannarono facendogli credere che Giuseppe fosse stato sbranato da una belva. Infine, al colmo di tutte queste sventure, la carestia lo obbligò a scendere in Egitto dove morì, in terra straniera.

Sono queste le vie della provvidenza, sempre giuste, meravigliose e piene di istruzione. E questo è Giacobbe! Ma qui c’è solo un aspetto della sua vita, quello buio. Ce n’è però anche un altro, Dio ne sia benedetto, poiché Dio aveva a che fare con Giacobbe. Se, come vedremo, il patriarca ha dovuto raccogliere i frutti delle proprie macchinazioni e falsità, il Dio di Giacobbe trasse il bene dal male e fece abbondare la grazia al di sopra del peccato del suo povero servo.

22.5 L’atteggiamento d’Isacco

È molto interessante vedere, al principio di questo capitolo, come Isacco conservi, per fede, la dignità di cui Dio l’aveva rivestito nonostante la sua estrema debolezza. Egli pronuncia la benedizione nel sentimento del potere che gli è stato conferito per benedire, e dice: «L’ho benedetto, e benedetto egli sarà… Io l’ho costituito tuo padrone, gli ho dato tutti i suoi fratelli per servi e l’ho provveduto di frumento e di vino; che potrei dunque fare per te, figlio mio?» (27:33-37). Isacco parla come un uomo che, per fede, ha tutti i tesori della terra a sua disposizione; non c’è in lui della falsa umiltà; egli non scende, dalla posizione elevata che occupa, per colpa delle manifestazioni del suo carattere naturale. Egli commette un grave errore, è vero, agendo in opposizione al consiglio di Dio, tuttavia, conosce Dio e prende il posto che gli spetta dispensando benedizioni in tutta la dignità e l’energia della fede. «L’ho benedetto, e benedetto egli sarà… l’ho provveduto di frumento e di vino».

È la caratteristica della fede di elevarsi al di sopra di tutti i nostri sbagli e delle loro conseguenze, per farci occupare il posto che la grazia di Dio ci ha assegnato.

22.6 Rebecca e Esaù

Quanto a Rebecca, dovette sopportare i risultati dei suoi espedienti. Senza dubbio credeva di concludere tutto scaltramente ma ella non rivide più Giacobbe! Come sarebbe stato diverso il risultato se avesse lasciato tutto nelle mani di Dio! «E chi di voi può, con la sua preoccupazione aggiungere un’ora sola alla durata della sua vita?» (Luca 12:25).

Non guadagniamo nulla a preoccuparci e a formulare dei progetti; non facciamo altro che escludere Dio e questo, certamente, non è un guadagno. Nulla è più triste di un credente che dimentica la sua posizione e i suoi privilegi, al punto di voler prendere nelle proprie mani la direzione dei suoi affari. «Gli uccelli del cielo» e «i gigli della campagna» (Matteo 6:26-28) possono ammaestrarci, quando dimentichiamo fino a questo punto la nostra posizione di dipendenza da Dio.

Infine, per quanto riguarda Esaù, la Parola lo definisce «un profano» (Ebrei 12:15-17); «più tardi, quando volle ereditare la benedizione, fu respinto, sebbene la richiedesse con lacrime, perché non ci fu ravvedimento». Impariamo di qui che «profano» è uno che vuole possedere, nello stesso tempo, la terra e il cielo, godere del presente senza perdere i diritti per il futuro. Ogni cristiano mondano, la cui coscienza non sia mai stata toccata dalla Verità e il cui cuore sia sempre rimasto estraneo all’influenza della grazia, si trova in questa situazione; ed è grande il numero di tali persone!

23. Capitolo 28: Giacobbe fuggitivo

23.1 La disciplina di Dio

Seguiremo ora Giacobbe lontano dalla casa paterna, quando errò solitario e senza rifugio.

Dio, a questo punto, incomincia ad occuparsi di lui in modo speciale e lui incomincia a raccogliere, in una certa misura, i frutti amari della sua condotta nei confronti di Esaù. Intanto, vediamo Dio passare sopra tutta la debolezza e la follia del Suo servitore, e spiegare, nelle proprie vie a suo riguardo, la Sua grazia sovrana e la Sua saggezza infinita.

Dio compirà i suoi disegni, qualunque sia, peraltro, il mezzo che adopererà. Ma se, per impazienza e incredulità, il figlio di Dio vuole sottrarsi al governo del suo Dio, deve aspettarsi di fare brutte esperienze e di passare attraverso una dolorosa disciplina. È ciò che avvenne a Giacobbe: non avrebbe avuto bisogno di fuggirsene a Caran se avesse lasciato a Dio l’incarico di agire per lui. Dio si sarebbe certamente occupato di tutti: di Esaù per fargli trovare il posto e la parte che gli erano destinati, e di Giacobbe che avrebbe potuto godere di quella dolce pace che si trova soltanto in una completa sottomissione a Dio e alle sue deliberazioni. Ma è qui che si manifesta la nostra debolezza.

«Fermatevi e riconoscete che io sono Dio» (Salmo 46:10). È un precetto al quale nessuno potrebbe ubbidire se non per mezzo della potenza della grazia. «La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino. Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti». E quale ne sarà il risultato? «E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù» (Filippesi 4:5-7).

Tuttavia, mentre raccogliamo i frutti della nostra impazienza e incredulità, Dio, nella sua grazia, si serve della nostra debolezza per farci conoscere meglio la sua tenera grazia e la sua perfetta saggezza. Ma sono proprio l’incredulità e l’impazienza, per quanto deplorevoli, che fanno fa risaltare in modo ammirevole la bontà del nostro Dio, facendo gioire il nostro cuore anche quando attraversiamo circostanze penose, prodotte dai nostri sbagli. Dio è sopra ogni cosa e, inoltre, è sua prerogativa di trarre il bene dal male; «dal mangiatore è uscito del cibo, e dal forte è uscito del dolce» (Giudici 14:14). Così, se è perfettamente vero che Giacobbe fu costretto a vivere in esilio, è altrettanto vero che se fosse rimasto tranquillamente sotto il tetto paterno non avrebbe mai imparato cosa significhi «Betel», come vedremo al paragrafo successivo. Questi due lati della medaglia sono fortemente impressi in ogni scena della storia di Giacobbe. Solo quando la sua stoltezza l’ha cacciato dalla casa paterna egli fu indotto a gustare la felicità e la solennità della «casa di Dio».

23.2 Bethel, la casa di Dio

«Giacobbe partì da Beer-Sceba e andò verso Caran. Giunse ad un certo luogo e vi passò la notte, perché il sole era già tramontato. Prese una delle pietre del luogo, se la mise per capezzale e lì si coricò» (28:10-11).

Qui Giacobbe, errante e fuggitivo, si trova proprio nella posizione nella quale Dio può incontrarsi con lui e manifestargli i gloriosi consigli della Sua grazia. Non vi è nulla che esprima meglio l’impotenza dell’uomo dello stato in cui Giacobbe è ridotto qui: nella debolezza del sonno, all’aperto, esposto ai pericoli, non aveva che una pietra per guanciale.

«Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima toccava il cielo; e gli angeli di Dio salivano e scendevano per la scala. Il SIGNORE stava al di sopra di essa e gli disse: “Io sono il SIGNORE, il Dio d’Abraamo tuo padre e il Dio d’Isacco. La terra sulla quale tu stai coricato, io la darò a te e alla tua discendenza… Io sono con te, e ti proteggerò dovunque tu andrai e ti ricondurrò in questo paese, perché io non ti abbandonerò prima di aver fatto quello che ti ho detto”» (v. 12-15).

Ecco come il Dio di Betel rivela a Giacobbe i suoi disegni riguardo a lui e alla sua progenie. Questa scala che «poggiava sulla terra» induce naturalmente il cuore a meditare sulla manifestazione della grazia di Dio nella persona e nell’opera del Figlio. È sulla terra che fu compiuta quest’opera meravigliosa, solido ed eterno fondamento di tutti i consigli di Dio sia riguardo a Israele, che alla Chiesa e al mondo. È sulla terra che Gesù è vissuto, ha lavorato ed è spirato per togliere con la Sua morte tutto ciò che costituiva un ostacolo all’adempimento dei piani di Dio per la benedizione dell’uomo.

Ma la cima della scala «toccava il cielo». Essa rappresentava il mezzo di comunicazione fra il cielo e la terra: ed ecco «gli angeli di Dio che salivano e scendevano per la scala», bella e notevole immagine di Colui per mezzo del quale Dio è disceso in tutta la profondità della miseria dell’uomo e per mezzo del quale pure ha elevato l’uomo, ponendolo alla Sua presenza per sempre, nella potenza della divina giustizia. Dio ha provveduto a tutto quello che era necessario per il compimento dei Suoi piani, a dispetto della follia e del peccato dell’uomo; ed è un’eterna felicità quella dell’anima che, per mezzo dell’insegnamento dello Spirito Santo, può così vedersi racchiusa nei confini dei progetti della grazia di Dio.

23.3 La grazia sovrana di Dio

Il profeta Osea ci trasporta nei tempi in cui le cose rappresentate dalla scala di Giacobbe avranno il loro adempimento: « “Quel giorno io farò per loro un patto con le bestie dei campi, con gli uccelli del cielo e con i rettili del suolo; spezzerò e allontanerò dal paese l’arco, la spada, la guerra, e li farò riposare al sicuro. Io ti fidanzerò a me per l’eternità; ti fidanzerò a me in giustizia e in equità, in benevolenza e in compassioni. Ti fidanzerò a me in fedeltà, e tu conoscerai il SIGNORE. Quel giorno avverrà che io ti risponderò”, dice il SIGNORE, “risponderò al cielo, ed esso risponderà alla terra; la terra risponderà al grano, al vino, all’olio, e questi risponderanno a Izreel. Io lo seminerò per me in questa terra, e avrò compassione di Lo-Ruama; e dirò a Lo-Ammi: Tu sei mio popolo! ed egli mi risponderà: Mio Dio!”» (Osea 2:18-23).

Le parole del Signore stesso racchiudono un’allusione alla visione di Giacobbe (Giovanni 1:51): «In verità, in verità, vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo».

Questa visione di Giacobbe è una meravigliosa rivelazione della grazia di Dio verso Israele; Dio non poteva agire che in grazia verso di lui se doveva essere benedetto. Né il suo carattere, né la sua nascita, gli davano diritto a qualcosa. Esaù, in virtù della sua nascita e del suo carattere, avrebbe potuto pretendere qualcosa a condizione, però, che non fosse messo da parte il supremo diritto di Dio. Giacobbe non aveva diritto a nulla; peccatore com’era, non poteva basarsi su altro che sulla sola, sovrana e pura grazia di Dio.

23.4 Una coscienza a disagio

La rivelazione di Dio ricorda a Giacobbe, o semplicemente annunzia, ciò che Lui, l’Eterno, avrebbe ancora compiuto: «Io sono il SIGNORELa terra sulla quale tu stai coricato, Io la darò a teIo ti proteggerò… Io ti ricondurrò… Io non ti abbandonerò prima di aver fatto quello che ti ho detto» (vers. 13-15). Tutto è da Dio, senza alcuna condizione.

Quando è la grazia che agisce non c’è, e non può esserci, né il «se», né il «ma». Non si trova la grazia dove c’è un se. Dio può, è vero, porre l’uomo in una posizione di responsabilità, nella quale  bisogna ch’egli si rivolga a lui con il «se». Ma Giacobbe, addormentato su di un guanciale di pietra, ben lontano dal trovarsi in una posizione di responsabilità, si trova, invece, nella nudità e nella debolezza più complete; e, proprio per questo, si trovava in una posizione in cui poteva ricevere una rivelazione della più ricca e incondizionata grazia di Dio.

Non possiamo fare altro che apprezzare il godimento infinito che si prova ad essere in una posizione tale da non avere nulla su cui appoggiarci se non su Dio solo, e nella quale ogni vera benedizione ed ogni gioia si basino sui diritti supremi di Dio e sulla Sua fedeltà. In base a questo principio sarebbe dunque, per noi, una perdita irreparabile avere qualcosa davanti a noi su cui poter fare affidamento, come sarebbe se avessimo a che fare con Dio sul principio della nostra responsabilità; in questo caso tutto sarebbe inevitabilmente perduto per noi.

Giacobbe era così cattivo che solo Dio poteva essere sufficiente a ciò che il suo stato richiedeva. E, facciamo attenzione, fu per non aver riconosciuto questa verità che Giacobbe si immerse in tanti dispiaceri e calamità.

La rivelazione che l’Eterno fa di se stesso è una cosa; attenersi a questa rivelazione è un’altra. L’Eterno si rivela a Giacobbe nella Sua grazia infinita, ma Giacobbe non si è neppure ancora risvegliato dal sonno che già lo vediamo mettere in evidenza il suo vero carattere, dimostrando così di conoscere assai poco, in pratica, il Dio benedetto che si era appena rivelato a lui in un modo così meraviglioso. «Ebbe paura e disse: “Com’è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!”» (v. 17).

Il cuore di Giacobbe non era a proprio agio alla presenza di Dio. Poiché soltanto quando l’uomo è spogliato di se stesso che si trova a proprio agio con Dio; Dio prende piacere nel cuore contrito, sia benedetto il suo nome!, e il cuore contrito è felice presso Dio. Ma Giacobbe non era ancora in una tale posizione e non aveva ancora imparato a riposarsi, come un bambino, sull’amore perfetto di Colui che ha potuto dire: «Ho amato Giacobbe» (Malachia 1:2; Romani 9:13). «L’amore perfetto caccia via la paura», scrive Giovanni (1ª Lettera 4:18). Dove questo amore non è completamente conosciuto e realizzato, c’è sempre del dubbio e del disagio.

Anche oggi la casa e la presenza di Dio non incutono alcuna paura all’anima che conosce l’amore di Dio come si è manifestato nel sacrificio di Cristo; anzi, è piuttosto portata a dire: «O SIGNORE, io amo trattenermi nella tua casa, nel luogo dove risiede la tua gloria» (Salmo 26:8). E ancora: «Oh, quanto sono amabili le tue dimore, SIGNORE degli eserciti! L’anima mia langue e vien meno,
sospirando i cortili del SIGNORE; il mio cuore e la mia carne mandano grida di gioia al Dio vivente» (Salmo 84:1-2). Quando il cuore è saldo nella conoscenza di Dio, si ama la Sua casa, sia essa Betel o il tempio di Gerusalemme o la Chiesa che è ora formata da tutti i veri credenti, entrati «a far parte dell’edificio che ha da servire come dimora a Dio per mezzo dello Spirito» (Efesini 2:22).

Che la conoscenza che Giacobbe aveva di Dio e della Sua casa fosse limitata, in questo momento della sua storia, risulta evidente dal compromesso che vuol fare con Dio, negli ultimi versetti del cap. 28. «Giacobbe fece un voto, dicendo: “Se Dio è con me, se mi protegge durante questo viaggio che sto facendo, se mi dà pane da mangiare e vesti da coprirmi, e se ritorno sano e salvo alla casa di mio padre, il SIGNORE sarà il mio Dio e questa pietra, che ho eretta come monumento, sarà la casa di Dio; di tutto quello che tu mi darai, io certamente ti darò la decima”» (28:20-22). A dispetto di una tale promessa, il povero cuore di Giacobbe non è capace di elevarsi oltre il «se»,  né di avere, della bontà di Dio, un concetto più alto di quello che si riferisce al «pane da mangiare» e alle «vesti» per coprirsi.

Questi erano i pensieri di un uomo che proprio allora aveva avuto la visione magnifica della scala dalla terra al cielo e sulla quale c’era il Signore che gli prometteva un’innumerevole progenie e un’eredità eterna. Evidentemente, Giacobbe era incapace di penetrare nella realtà e nella pienezza dei pensieri di Dio; misurava Dio col suo metro e si faceva di Dio un’idea completamente sbagliata. In poche parole, Giacobbe non aveva ancora finito con se stesso, non aveva ancora giudicato la sua natura, e di conseguenza non aveva ancora incominciato con Dio.

24. Capitoli da 29 a 31: Giacobbe a casa di Labano

24.1 Alla scuola di Dio

«Poi Giacobbe si mise in cammino e andò nel paese degli Orientali» (29:1).

Come abbiamo visto nel cap. 28, Giacobbe non sa afferrare il vero carattere di Dio e accoglie l’abbondanza della grazia di Betel con un «se», accompagnato da un misero baratto per del pane e degli abiti; così ora dobbiamo seguirlo in una successione ininterrotta di compromessi.

«Quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà» (Galati 6:7). È impossibile sfuggire a questo principio. Giacobbe non aveva ancora trovato il proprio livello davanti a Dio e Dio ha dovuto servirsi delle circostanze per castigarlo e umiliarlo. È qui il segreto di tanti dispiaceri e di tante prove che abbiamo in questo mondo. Se non ci siamo mai giudicati, mai stati spogliati di noi stessi, siamo sempre al punto di partenza. Nessuno può realmente godere di Dio se non ha posto fine al proprio «io», per la semplice ragione che Dio incomincia a manifestarsi proprio là, dove ha termine la carne. Se dunque non l’ho fatta finita con la mia carne, per mezzo di una profonda e positiva esperienza, è moralmente impossibile che io abbia un’intelligenza, sia pure limitata, del carattere di Dio. Bisogna che in un modo o nell’altro impari a conoscere quanto poco valgo come uomo naturale; e, per portarmi a questa conoscenza, il Signore si serve di svariati mezzi, che di per se stessi non sarebbero efficaci se non fosse Lui ad adoperarli, per rivelare ai nostri occhi il vero carattere di tutto ciò che si trova nei nostri cuori.

«Il SIGNORE è in questo luogo e io non lo sapevo… Com’è tremendo questo luogo!» (28:16-17), aveva esclamato Giacobbe. Eppure da tutto ciò Giacobbe non ricevette alcuna istruzione, tanto che fu necessaria una disciplina di trent’anni e una dura scuola, che neanche bastò a vincerlo completamente.

24.2 L’ingannatore a casa dell’ingannatore

Ora Giacobbe entra in un’atmosfera perfettamente adatta al suo stato morale. L’affarista Giacobbe incontra Labano, affarista e commerciante, e li vediamo gareggiare in inganni e astuzie per imbrogliarsi a vicenda. Per Labano non c’è da stupirsi, perché non era stato a Betel; non aveva visto il cielo aperto e la scala che toccava cielo e terra; non aveva udito le gloriose promesse dalla bocca dell’Eterno che gli assicurava il possesso della terra di Canaan e una progenie tanto numerosa da non potersi contare. Labano, uomo del mondo, ha come unica risorsa i propri bassi sentimenti e la propria cupidigia. E si serve di quello. Come si potrebbe far uscire la purezza dall’impurità? Ma nulla è più umiliante di vedere Giacobbe, dopo l’esperienza di Betel, lottare con un uomo del mondo e sforzarsi di accumulare dei beni con dei mezzi simili a quelli adoperati da lui.

Purtroppo non è raro vedere dei credenti che dimenticano la loro sorte elevata e la loro eredità celeste a tal punto da scendere in campo coi figli di questo mondo e lottare con loro per le ricchezze e gli onori di una terra colpita dalla maledizione del peccato. Tutto questo è talmente vero che, in questi  credenti, è difficile scoprire qualche traccia di quel principio di cui parla Giovanni, «quello che vince il mondo» (1 Giovanni 5:4).

Considerando e giudicando Giacobbe e Labano dal punto di vista dei loro caratteri naturali, sarebbe difficile trovare fra i due una differenza. Bisognerebbe essere dietro al sipario ed entrare nei pensieri di Dio per vedere a qual punto differiscono. Ma è Dio che ha posto una differenza fra loro, non Giacobbe; la stessa cosa avviene oggi. Benché possa essere difficile da scoprirsi, esiste un’immensa differenza fra i figli della luce e quelli delle tenebre: una differenza basata sul fatto solenne che i primi sono «vasi di misericordia che (Dio) aveva già preparati prima per la gloria», mentre gli altri sono «vasi d’ira preparati per la perdizione» (non da Dio ma dal peccato) (Romani 9:22-23). I Giacobbe e i Labano differiscono e differiranno sempre, anche se i primi possono venir meno alla realizzazione e alla manifestazione del loro vero e glorioso carattere.

Ogni uomo spirituale noterà che quando Paolo parla dei «vasi d’ira» si limita a dire che erano tutti «preparati per la perdizione»; non dice che è Dio che li ha preparati. D’altro canto, quando fa allusione ai «vasi di misericordia» dice che è Dio che li «aveva già preparati prima per la gloria». Questa distinzione è importantissima.

Se il mio lettore consulta Matteo 25:34-41, vi troverà un esempio altrettanto notevole della medesima dottrina. Quando il Re si rivolge a quelli che gli stanno alla destra dice: «Venite, voi, i benedetti del Padre mio; ereditate il regno che vi è stato preparato fin dalla fondazione del mondo» (v. 34); ma quando parla a quelli della sinistra dice: «andate via da me, maledetti». Non dice maledetti dal Padre mio; poi aggiunge «nel fuoco eterno. preparato – non per loro, ma – per il diavolo e per i suoi angeli» (v. 41). In poche parole, è evidente che Dio ha «preparato» un regno di gloria e dei vasi di misericordia che ereditino questo regno, e che non ha preparato il «fuoco eterno» per degli uomini ma per il diavolo e i suoi angeli; e non è lui che ha preparato i vasi d’ira, ma questi si sono preparati da loro stessi.

Se dunque la Parola di Dio stabilisce chiaramente l’elezione, esclude, con altrettanta cura, l’idea di un Dio che respinge a priori. Vedendosi in cielo, ogni beato avrà da rendere grazie a Dio solo; e chiunque si troverà nell’inferno non potrà accusare altri che se stesso.

Quanto a Giacobbe, tutta la sua fatica e il suo lavoro, come pure quel miserevole baratto del capitolo precedente, risultano dall’ignoranza della grazia e dall’incapacità di confidare ciecamente nella promessa di Dio. Colui che, dopo aver ricevuto da Dio la promessa, senza riserve, di dargli la terra di Canaan, osava dire «se mi dà pane da mangiare e vesti da coprirmi», non aveva certo che una ben debole idea di Dio e di ciò che era la Sua promessa. Così vediamo l’uomo sforzarsi a fare i propri interessi nel modo che gli risulta più vantaggioso.

Chi crederebbe che la visione non abbia rivelato a Giacobbe ciò che era la grazia Dio? Come mai la rivelazione di Dio a Betel e la condotta di Giacobbe a Caran sono tanto differenti? È perché la sua condotta non era che l’espressione di come egli aveva compreso la grazia. Il carattere e la condotta di un uomo sono l’esatta misura dell’esperienza e della convinzione dell’anima sua qualunque sia la professione esteriore che egli fa. Giacobbe non era ancora stato costretto a vedersi, tale qual era, davanti a Dio; di conseguenza ignorava la grazia, e manifestò la propria ignoranza mettendosi allo stesso livello di Labano e adottandone i principi e i comportamenti.

Giacobbe andò, dunque, a Caran, il paese di Labano e di Rebecca, proprio alla scuola da cui erano usciti i principi che egli, con tanta abilità, metteva in pratica e che, in quella famiglia, erano insegnati e applicati. Per sapere chi è Dio bisognava andare a Betel; per sapere chi è l’uomo, bisognava andare a Caran. Ora Giacobbe, non avendo potuto afferrare la rivelazione che Dio gli aveva fatto di Sé a Betel, dovette andare a Caran perché si manifestasse chi egli era: e là, quanti sforzi dovette fare, quanti sotterfugi, quanti inganni, quanti artifici. Non un briciolo di santa e gloriosa fiducia in Dio, ma nonostante questo Dio era con Giacobbe poiché nulla può impedire alla grazia di risplendere.

Giacobbe, pur riconoscendo in qualche caso la presenza e la fedeltà di Dio, non può stare senza fare i suoi piani e i suoi progetti. Non può lasciare a Dio il compito di decidere per lui ciò che riguarda le sue mogli e i suoi impegni e cerca di aggiustare ogni cosa con i suoi espedienti. In poche parole, dal principio alla fine, Giacobbe è il «soppiantatore» (perché questo è il significato del suo nome!). Dove trovare un esempio di astuzia più clamoroso di quello che ci è riferito al cap. 30:37-42? Invece di lasciare a Dio l’incarico di moltiplicare le pecore macchiate e vaiolate e gli agnelli neri, Giacobbe, per raggiungere il suo scopo, si serve di un mezzo che solo un cervello come il suo avrebbe potuto escogitare. Se ci fu un risultato, non fu grazie all’assurdo espediente dei rami scortecciati, ma per un intervento di Dio stesso, come leggiamo al cap. 31 v. 12.

Nei vent’anni di soggiorno in casa di Labano, Giacobbe agisce nello stesso modo e, alla fine, fugge, mostrandosi così, in tutto, coerente con se stesso.

24.3 La conoscenza della grazia e la conoscenza di noi stessi

Seguendo ora Giacobbe e osservandone il carattere da un punto all’altro della sua straordinaria storia, possiamo contemplare le meraviglie della grazia di Dio. Nessuno, all’infuori di Dio, avrebbe potuto sopportare un Giacobbe e nessuno, all’infuori di lui, avrebbe voluto occuparsene. La grazia ci raggiunge nella più infima delle condizioni. Prende l’uomo così com’è e agisce nei suoi riguardi con la piena conoscenza di chi egli è. È importante capire bene, fin dal principio, questo carattere della grazia, per essere in grado di sopportare, con fermezza, le scoperte che facciamo della nostra indegnità e che così spesso minano la fiducia di tanti credenti e ne turbano la pace.

Molte persone non si rendono conto della completa rovina della vecchia natura, così come appare alla luce della presenza di Dio, benché i loro cuori siano realmente stati attirati dalla grazia e le loro coscienze rese tranquille dalla fede nel sangue di Cristo. La conseguenza è che, man mano che progrediscono nella vita cristiana e fanno delle scoperte più profonde del male che è in loro, finiscono per dubitare di essere davvero figli di Dio. Allora, ricorrono agli ordinamenti della legge per mantenere il tono della loro pietà, oppure ricadono, delusi, in uno stato di completa mondanità. Questa è la sorte di colui il cui cuore non è stato «reso saldo dalla grazia» (Ebrei 13:9).

25. Capitoli da 32 a 34: Di ritorno in Canaan

25.1 Gli arrangiamenti umani e la preghiera

«Giacobbe continuò il suo cammino e gli vennero incontro degli angeli di Dio» (32:1). Nonostante tutto, Dio accompagna Giacobbe. Nulla potrebbe far mutare il Suo amore che è come Lui, «lo stesso ieri, oggi e in eterno» (Ebrei 13:8).

«Giacobbe mandò davanti a sé dei messaggeri a Esaù suo fratello nel paese di Seir, nella campagna di Edom» (v. 3). Certamente Giacobbe non si sente a suo agio pensando di incontrarsi col fratello e il motivo c’era: aveva agito molto male nei suoi confronti e la sua coscienza non era tranquilla. Ma, invece di abbandonarsi nelle braccia di Dio, egli ricorre di nuovo, per placare l’ira di Esaù, ai suoi abituali espedienti: cerca di lusingarlo, invece di appoggiarsi su Dio. «E diede loro quest’ordine: “Direte queste cose a Esaù mio signore: Così dice il tuo servo Giacobbe: Io ho abitato presso Labano e vi sono rimasto fino ad ora» (32:4). Tutto questo rivela un’anima lontana dall’avere il suo centro in Dio. «Mio signore» e «tuo servo» non sono espressioni di fratello a fratello, né di persona che ha il sentimento della dignità che la presenza di Dio conferisce. È il linguaggio di Giacobbe, di un Giacobbe che ha una cattiva coscienza.

«I messaggeri tornarono da Giacobbe, dicendo: “Siamo andati da tuo fratello Esaù ed eccolo che ti viene incontro con quattrocento uomini”. Allora Giacobbe fu preso da gran paura e angoscia» (v. 6-7). Cosa farà quindi? S’abbandonerà a Dio? No; ricomincia ad escogitare degli accomodamenti. «Divise in due schiere la gente, le greggi, gli armenti, i cammelli che erano con lui e disse: “Se Esaù viene contro una delle schiere e la batte, l’altra che rimane potrà salvarsi”» (v. 7-8).

Il primo pensiero di Giacobbe è sempre di fare dei piani. In questo c’è un’immagine veritiera del povero cuore dell’uomo. È vero che dopo aver organizzato il suo piano, si rivolge all’Eterno e grida a Lui perché lo liberi, ma appena ha finito di pregare torna a confidare nei propri espedienti.

Ora, pregare e fare dei piani personali sono due cose che non vanno d’accordo: quando io metto in opera i miei disegni, finisco col riposare più o meno su di essi; quando prego, devo confidare esclusivamente in Dio. Quando i miei sguardi sono assorbiti dai miei propri piani, non sono preparato a vedere Dio intervenire in mio favore; allora, la preghiera non è l’espressione dello stato in cui mi trovo, ma il compimento di qualcosa che credo sia necessario fare, o forse anche la richiesta a Dio di santificare i miei progetti. Dio non vuole che io gli chieda di santificare e di benedire i miei mezzi, bensì che io rimetta tutto nelle Sue mani affinché sia Lui a intervenire in mio favore. Indubbiamente, quando la fede lascia agire Dio, Egli adopererà i propri mezzi; ma ciò è ben diverso dal riconoscere e benedire i piani e gli arrangiamenti dell’incredulità e dell’impazienza.

Sebbene Giacobbe abbia chiesto a Dio che lo liberasse da suo fratello Esaù, appare evidente che non aveva fiducia nel Suo intervento poiché pensa «io lo placherò con il dono che mi precede» (v. 20). La sua fiducia si basa sul dono e non su Dio soltanto. «Il cuore è ingannevole più d’ogni altra cosa, e insanabilmente maligno» (Geremia 17:9). È sovente difficile scoprire quale sia il vero fondamento della nostra fiducia. Spesso immaginiamo, e cerchiamo di persuadercene, di appoggiarci su Dio quando, invece, abbiamo posto la fiducia in qualche sistema di nostra invenzione. Chi avesse udito Giacobbe pregare così: «Liberami, ti prego, dalle mani di mio fratello, dalle mani di Esaù, perché io ho paura di lui e temo che venga e mi assalga, non risparmiando né madre né figli» (v. 11), come avrebbe immaginato che Giacobbe potesse dire ancora «io lo placherò con il dono che mi precede»? Aveva forse dimenticato la preghiera che aveva fatto? Faceva del dono un dio? Riponeva la fiducia negli animali piuttosto che in Dio a cui, proprio allora, aveva affidato la sua sorte?

Queste domande vengono spontanee e possiamo leggere la risposta nel nostro stesso cuore. Sarà lui ad insegnarci, non meno della storia di Giacobbe, come siamo disposti ad appoggiarci di più sui piani elaborati dalla nostra saggezza che sul Signore; bisogna che arriviamo al punto di porre fine a tutto ciò che è il prodotto dei nostro «io», perché Dio possa manifestarsi; e, perché possiamo farla finita con i nostri piani, bisogna aver imparato che «ogni carne è come l’erba e tutta la sua grazia è come il fiore del campo» (Isaia 40:6).

25.2 Giacobbe a Peniel

Dopo aver preso tutte le sue precauzioni la Parola ci dice che «Giacobbe rimase solo, e un uomo lottò con lui fino all’apparir dell’alba» (32:24). Incomincia qui una nuova fase della storia di quest’uomo.

Per arrivare ad una esatta consapevolezza di noi stessi e delle nostre vie, è necessario che ci siamo trovati soli con Dio. Per conoscere il vero valore della nostra natura e delle sue invenzioni, bisogna che le pesiamo con la “bilancia del santuario”. Poco importa ciò che pensiamo di noi stessi o ciò che gli altri possono pensare; l’importante è sapere ciò che ne pensa Dio; e, per saperlo, bisogna che siamo lasciati «soli», lontani dal mondo e dal nostro «io», lontani da qualunque pensiero, dai ragionamenti, dalle emozioni della natura. Soli con Dio.

«Giacobbe rimase solo, e un uomo lottò con lui». La Scrittura non ci dice, notiamolo bene, che Giacobbe lottò con un uomo, ma che un uomo lottò con lui. Sovente questo fatto è stato erroneamente presentato come un esempio dell’energia con la quale Giacobbe pregava. Ma dire che io lotto con un uomo o che un uomo lotta con me, sono due cose differenti; nel primo caso sono io che voglio ottenere qualcosa da un altro, nel secondo caso, invece, è un altro che vuole ottenere qualcosa da me. Dio lotta con Giacobbe per fargli sentire che non è altro che una debole e miserabile creatura; poi, vedendo che Giacobbe sostiene il combattimento con tanta ostinazione, «gli toccò la giuntura dell’anca, e la giuntura dell’anca di Giacobbe fu slogata» (v. 25).

Bisogna che la sentenza di morte sia scritta su ogni carne. Bisogna aver afferrato la portata della croce di Cristo prima di poter camminare con Dio con fermezza e gioia.

Abbiamo seguito Giacobbe in tutti i sotterfugi e le attività del suo straordinario carattere; l’abbiamo visto arrangiarsi, fare dei piani per tutti i vent’anni in cui ha soggiornato presso Labano, ma soltanto quando è lasciato solo egli si fa una giusta idea di quanto sia debole e impotente. Essendo allora minata la sede della sua forza, impara a dire «non ti lascerò andare» (v. 26). Noti il lettore, che Giacobbe parla così soltanto quando l’articolazione dell’anca gli è stata lussata. Questo semplice fatto ci dà la chiave di tutta la scena. Se Dio lotta con Giacobbe è perché il Suo scopo è di condurlo a questo punto. Dio e la creatura debbono occupare, distintamente, ciascuno il proprio posto, e ciò si realizzerà nell’anima di chi conosce la santa realtà di una vita di fede.

Ma, ahimé, è proprio a questo riguardo che spesso pecchiamo! Nascondiamo la vera incredulità dei nostri cuori con la teoria, apparentemente pia, che bisogna darsi da fare, e ci illudiamo di rimetterci a Dio per la benedizione dei nostri mezzi; ma, in realtà, è su questi che noi ci appoggiamo e non su Dio. Ci sia dato di capire quanto sia falso tutto questo, di attaccarci soltanto a Dio con più semplicità affinché la nostra vita porti il carattere di un’elevata spiritualità che ci pone al di sopra delle circostanze che attraversiamo.

25.3 Giacobbe diventa Israele

Non è facile arrivare a riconoscere la nullità della creatura, a tal punto da poter dire «non ti lascerò andare prima che tu mi abbia benedetto» (32:26). Dire questo con sincerità di cuore e vivere nella potenza del significato di quelle parole, è il segreto della vera forza. Giacobbe parlò così soltanto quando l’articolazione della sua anca fu lussata, non prima. Lottò a lungo prima di cedere, poiché la sua fiducia nella carne era forte. Ma Dio può piegare fin nella polvere il carattere più ostinato; può colpire le risorse della forza naturale e imprimervi la sentenza di morte. Bisogna essere prima «deboli» per essere poi «forti». La «potenza di Cristo» agirà in me in proporzione alla conoscenza che ho delle mie debolezze (2 Corinzi 12:9). Dio non può apporre il suggello della Sua approvazione sulla forza della natura dell’uomo o sulla sua saggezza o sulla sua gloria; bisogna che tutte queste cose «diminuiscano» perché «Egli cresca» (Giovanni 3:30). La natura non servirà mai da piedestallo per la potenza della grazia di Cristo; se ciò fosse possibile, la carne avrebbe di che gloriarsi davanti a Dio, ma sappiamo che questo non avverrà mai.

Ora, dal momento che la manifestazione della gloria, del nome o del carattere di Dio, è legata all’annientamento della carne, è evidente che l’anima non può beneficiare di questa manifestazione prima che la carne sia stata realmente messa da parte. È per questo che Giacobbe, benché invitato a dire il proprio nome, che significa «soppiantatore», non ottiene nessuna rivelazione circa il nome di chi ha lottato con lui e che l’ha abbattuto fin nella polvere. Egli riceve il nome di «Israele», «principe», ed è già un notevole progresso; ma quando dice a chi aveva lottato con lui «ti prego, svelami il tuo nome», riceve la risposta: «perché chiedi il mio nome?» (v. 29). Dio rifiuta di rivelargli il Suo nome, benché abbia indotto Giacobbe a dirgli la verità riguardo a se stesso e lo abbia, di conseguenza, benedetto. Quanti casi analoghi sono racchiusi negli annali della famiglia di Dio! L’«io» è messo a nudo in tutta la sua morale perversità; e ciò che Dio è non è compreso, e non è stato compreso neppure quando è venuto così vicino a noi e ci ha benedetti. Giacobbe riceve il nuovo nome di «Israele» quando l’articolazione dell’anca è stata colpita. Diventa un potente «principe» quando ha imparato e riconosciuto di non essere altro che un debole uomo, ma il nome di Colui che aveva messo a nudo il vero nome e la vera condizione di Giacobbe non gli è rivelato. Impariamo da questo che essere benedetti da Dio e ricevere, per mezzo dello Spirito, la rivelazione del Suo carattere sono due cose diverse. «E lo benedisse lì» (v. 30), è detto, ma non gli rivelò il Suo nome.

C’è sempre una benedizione nell’essere spinti a conoscersi; questo ci pone su un cammino in cui siamo resi capaci di discernere più chiaramente ciò che Dio è per noi in ogni minimo particolare. Avvenne così a Giacobbe. Da quando l’articolazione della sua anca fu colpita, egli si trovò in una condizione nella quale solo Dio poteva aiutarlo. Un misero zoppo poteva fare ben poco; era dunque vantaggioso per lui affidarsi all’Onnipotente.

Per finire questo capitolo, si può notare che il Libro di Giobbe è, in un certo senso, un commento di questa scena della storia di Giacobbe. Da un capo all’altro dei primi trentun capitoli del libro, Giobbe lotta coi suoi amici e difende la propria tesi contro tutti i loro argomenti; ma al cap. 32 Dio, servendosi di Eliu, entra in lotta con lui; e al cap. 38 lo affronta direttamente nella piena manifestazione della Sua grandezza e della Sua gloria, e gli trae di bocca quelle ben note parole: «Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l’occhio mio ti ha visto. Perciò mi ravvedo, mi pento sulla polvere e sulla cenere» (Giobbe 42:5-6).

Dio gli aveva colpito l’articolazione dell’anca! E notate l’espressione: «l’occhio mio ti ha visto». Giobbe non dice soltanto «ho visto me stesso», ma «ho visto Te!» Soltanto la visione di ciò che Dio è può produrre un reale pentimento e la condanna di se stesso. Avverrà così al popolo d’Israele, la cui storia ha una grande analogia con quella di Giobbe; quand’essi «riguarderanno a Colui che hanno trafitto e ne faranno cordoglio», allora Dio li benedirà e li riabiliterà pienamente; ed essi comprenderanno il significato di questa parola: «È la tua perdizione, Israele, l’essere contro di me, contro il tuo aiuto» (Osea 13:9).

25.4 Incontro con Esaù

Vedremo come tutte le paure di Giacobbe furono senza fondamento e tutti i suoi piani inutili. Nonostante la lotta e la lussazione che lo rese zoppo, Giacobbe continua a mettere in atto dei piani di sua invenzione. «Giacobbe alzò gli occhi, guardò, ed ecco Esaù che veniva avendo con sé quattrocento uomini. Allora divise i figli tra Lea, Rachele e le due serve. Mise davanti le serve e i loro figli, poi Lea e i suoi due figli, e infine Rachele e Giuseppe» (33:1-2). I suoi timori non erano finiti; s’aspettava ancora la vendetta di Esaù ed espone per primi quelli a cui era meno affezionato. O inaudite profondità del cuore umano! Quanto è restio a confidare in Dio! Se Giacobbe si fosse realmente abbandonato a Lui, non avrebbe avuto tutta quella paura per sé e per i suoi. Ma sappiamo bene come il cuore stenti a confidare con semplicità, serenamente fiducioso, su un Dio onnipresente, onnipotente e infinitamente misericordioso.

Dio ci insegna qui com’è vana tutta questa ansia. «Ed Esaù gli corse incontro, l’abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero» (v. 4). Il dono di Giacobbe non era necessario e il suo piano non era servito a nulla. Dio placò Esaù come già aveva fatto con Labano. Dio si compiace così di farci sperimentare la viltà e l’incredulità del nostro povero cuore e di dissipare ogni nostra paura. Invece della spada di Esaù, Giacobbe incontra le braccia aperte di un fratello! Invece di dover combattere l’uno contro l’altro, essi piangono insieme!

Ecco le vie di Dio! Chi non confiderebbe in Lui? Come si spiega che, nonostante le prove innumerevoli di fedeltà verso chi confida in Dio, siamo, ad ogni nuova occasione, così disposti a dubitare? È perché non conosciamo abbastanza Dio. «Riconciliati dunque con Dio; avrai pace» (Giobbe 22:21). Per l’incredulo come per il credente, tutto ciò è ugualmente vero. Conoscere Dio realmente, essergli veramente uniti, ecco la via della pace. «E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo» (Giovanni 17:3).

Quanto più intimamente conosceremo Dio, tanto più solida sarà la nostra pace e noi saremo elevati al di sopra della nostra vecchia natura e delle sue limitazioni. «Dio è la rocca del mio cuore» (Salmo 73:26); non abbiamo che da appoggiarci su Lui per sapere quanto Egli sia pronto a sostenerci e potente per farlo.

25.5 Giacobbe si stabilisce a Succot

Dopo questa dimostrazione della bontà di Dio, vediamo Giacobbe stabilirsi a Succot e, contrariamente al principi e allo spirito della vita di pellegrino, costruisce una casa come se quello fosse stato il suo ambiente definitivo. È evidente che Succot non era il luogo che Dio gli aveva destinato. L’Eterno non gli aveva detto «io sono il Dio di Succot» ma «sono il Dio di Betel». È quindi Betel che Giacobbe avrebbe dovuto avere in vista come meta principale. Ma noi siamo sempre portati ad accontentarci di una posizione e di una parte inferiori a quelle che Dio, nella sua bontà, vorrebbe assegnarci!

Poi Giacobbe prosegue fino a Sichem e vi compra un appezzamento di terreno, restando sempre al di fuori dei confini che Dio gli aveva assegnati e mostrando, dal nome che dà al suo altare, lo stato morale della sua anima. Lo chiama «El-Eloè-Israel» (33:20), cioè “Dio è il Dio d’Israele”; senza dubbio abbiamo il privilegio di conoscerlo come nostro Dio, ma è più elevato poterlo conoscere come il Dio della sua propria casa, ritenendoci appartenenti a quella casa. Il credente ha il privilegio di conoscere Cristo come suo «Capo», ma è un privilegio più grande ancora conoscerlo come Capo del suo corpo, la Chiesa, e sapere che noi siamo membra di questo corpo.

Al cap. 35 vedremo poi Giacobbe spinto a farsi di Dio un’idea assai più elevata e più gloriosa, ma qui, a Sichem, la sua condizione morale è ancora poco elevata. Egli ne soffre ed è sempre così quando non sappiamo raggiungere la posizione assegnataci da Dio. Le due tribù e mezza che si stabilirono al di qua del Giordano (Giosuè 14:3) furono le prime a cadere nelle mani del nemico; la stessa cosa avvenne a Giacobbe.

25.6 Guai a Sichem

Il cap. 34 ci mostra i frutti amari del soggiorno di Giacobbe a Sichem, la macchia che segnò la sua famiglia, nonostante gli sforzi di Simeone e Levi che avevano creduto di cancellarla con la violenza, commettendo un atto che aggiunse nuovo affanno ai dispiaceri di Giacobbe. Egli, a dire il vero, è più indignato delle conseguenze della loro violenza che dell’insulto fatto alla figlia: «Allora Giacobbe disse a Simeone e a Levi: “Voi mi causate grande angoscia, mettendomi in cattiva luce davanti agli abitanti del paese, ai Cananei e ai Ferezei. Io non ho che pochi uomini; essi si raduneranno contro di me, mi piomberanno addosso e sarò distrutto io con la mia casa”» (v. 30). Sono le conseguenze che da quella faccenda avrebbero potuto derivare per lui e per la sua famiglia, a preoccupare di più Giacobbe.

Pare che Giacobbe sia vissuto in una costante paura di qualche pericolo per sé e per la sua famiglia, manifestando sempre un animo inquieto, pauroso, calcolatore, incompatibile con una vita di vera fede in Dio. Non è detto che Giacobbe non fosse un credente; come sappiamo egli ha un posto nella «grande schiera di testimoni» (Ebrei 11); però non camminò nell’esercizio abituale di questo principio divino e, di conseguenza, fece tristi cadute. Poteva la fede fargli dire: «sarò distrutto io con la mia casa» dal momento che Dio gli aveva fatto questa promessa: «Io sono con te, e ti proteggerò… io non ti abbandonerò» (cap. 28:15)?

Giacobbe era più occupato del pericolo che correva fra i Sichemiti, che non della sicurezza nella quale si trovava fra le mani di Dio. Avrebbe dovuto invece giudicare se stesso e chiedersi perché si era stabilito a Sichem. Se non si fosse trovato là, Dina non sarebbe stata violentata, e la violenza dei suoi figli non si sarebbe manifestata. Quanti cristiani vediamo immersi nei dispiaceri e negli affanni a causa della loro infedeltà, e li udiamo accusare le circostanze invece di giudicare se stessi! Gemono e sono angosciati nel vedere l’insubordinazione e la mondanità dei loro figli, ma il più delle volte non hanno che da biasimare se stessi, perché non hanno camminato fedelmente davanti a Dio riguardo alla loro educazione. Giacobbe non avrebbe dovuto stabilirsi a Sichem e, dal momento che non possedeva una sensibilità delicata che gli facesse scoprire quell’errata posizione, Dio, nella sua fedeltà, si serve delle circostanze per fargli scuola.

«Non vi ingannate; non ci si può beffare di Dio; perché quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà» (Galati 6:7). Questo è un principio al quale nessuno può sfuggire; ma per il credente è una grazia mietere i frutti dei propri errori, ed essere spinti a provare, in un modo o nell’altro, quanto sia amaro allontanarsi dal Signore. Dobbiamo imparare che questo mondo non è il luogo del nostro riposo, perché Dio non vuole darci un riposo in un luogo contaminato. Sia benedetto il Suo nome! Il desiderio di Dio è che dimoriamo in Lui e con Lui. Una falsa umiltà, frutto dell’incredulità, induce chi s’è sviato o è rimasto indietro a prendere una posizione inferiore a quella che Dio gli ha assegnata, perché non conosce il principio in base al quale Dio ristora chi è caduto, né in qual misura Egli lo fa. Il figlio prodigo chiede di diventare servo del padre (Luca 15:19), non sapendo di non avere diritto né alla posizione di servo né a quella di figlio, e che sarebbe indegno per il carattere del padre metterlo in una tale posizione. Bisogna andare a Dio su un principio e in modo degno di Lui.

26. Capitolo 35: Giacobbe a Bethel

«Dio disse a Giacobbe: “Àlzati, va’ ad abitare a Betel…”» (35:1). Queste parole confermano ciò di cui ci siamo ora occupati. Quando c’è una caduta o un declino spirituale, il Signore chiama l’anima a ritornare a lui; «Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti, e compi le opere di prima» (Apocalisse 2:5). Bisogna che l’anima ritorni al punto più elevato della sua posizione, che sia ricondotta alla misura divina. Il Signore non dice «ricordati dove sei», ma «ricordati dell’alta posizione da cui sei caduto». Solo così si impara come ci si è sviati, come si è caduti in basso e come si può ritornare sui propri passi. Quanto male non giudicato si era accumulato sulla famiglia di Giacobbe, prima che la sua anima fosse risvegliata da questa chiamata: «Va’ a Betel»! Non era certo a Sichem, in quell’atmosfera impregnata di elementi impuri, che Giacobbe poteva scoprire tutto quel male e discernere di quello il vero carattere. Ma, dal momento che Dio lo chiama a recarsi a Betel, Giacobbe dice alla sua famiglia e a tutti quelli ch’erano con lui: «Togliete gli dèi stranieri che sono in mezzo a voi, purificatevi e cambiatevi i vestiti; partiamo, andiamo a Betel; là farò un altare al Dio che mi esaudì nel giorno della mia angoscia e che è stato con me nel viaggio che ho fatto» (v. 2-3).

Il solo ricordo della casa di Dio fa vibrare l’anima del patriarca e gli fa ripassare nella mente, in un attimo, la storia di vent’anni densi di vicissitudini. A Betel, non a Sichem, aveva appreso chi era Dio; per questo bisogna che ritorni a Betel e che edifichi là un altare. Lì Giacobbe poteva parlare di Dio, del Dio di “Israele”, in mezzo a cose incompatibili con la santità della casa di Dio.

È importante afferrare questo. Non vi è nulla che possa mantenerci in una vita di separazione dal male, con fermezza e intelligenza, come la coscienza di ciò che è la «casa di Dio» e di ciò che si addice a questa casa. Se guardo a Dio solo in vista di me stesso non avrò mai una piena intelligenza né un giusto apprezzamento della relazione esistente fra Dio e la sua casa. Vi sono persone che pur essendo sincere non fanno molto caso a trovarsi associate con qualcosa di impuro nel culto che rendono a Dio. In altri termini, credono di poter adorare a Sichem e che un altare chiamato «Dio è il Dio di Israele» vada bene e sia altrettanto elevato quanto quello chiamato «Dio di Betel, Dio della casa di Dio».

Il lettore spirituale scoprirà subito l’immensa differenza morale che c’è fra la condizione di Giacobbe a Sichem e la sua condizione a Betel. Ebbene, la stessa differenza esiste fra i due altari. Le nostre idee riguardo al culto risentono necessariamente del nostro stato spirituale e quel culto sarà povero e limitato, oppure intelligente ed elevato, in proporzione al modo con cui avremo saputo comprendere il carattere di Dio e alla relazione nella quale ci troviamo con Lui. Il nome del nostro “altare” e il carattere del nostro culto esprimono ambedue la stessa idea. Il culto reso al Dio di Betel è più elevato di quello reso al “Dio di Israele”, perché il primo è connesso ad un’idea di Dio più elevata del secondo, dove Dio, anziché essere riconosciuto come Dio della sua casa, figura come il Dio di un solo individuo. Ogni pietra della casa di Dio, ogni vero credente, è una «pietra vivente» (1 Pietro 2:4) in quanto legata al «Dio vivente» e ha comunione con Lui per mezzo dello «Spirito della vita» (Romani 8:2).

Ma l’appello rivolto a Giacobbe perché ritorni a Betel racchiude anche un altro insegnamento. Dio gli dice: «Àlzati, va’ ad abitare a Betel; là farai un altare al Dio che ti apparve quando fuggivi davanti a tuo fratello Esaù» (v. 1). Molto spesso è utile che ci sia fatto ricordare ciò che eravamo nel periodo della nostra vita in cui ci siamo trovati al livello più basso. È così che Samuele ricorda a Saul il tempo in cui egli «si considerava piccolo» (1 Samuele 15:17); ed è necessario per tutti noi il ricordo di quando eravamo «piccoli» ai nostri propri occhi. In quella posizione, il cuore riposava realmente in Dio.

All’inizio di una carriera di servizio o di testimonianza, quale sentimento abbiamo della nostra debolezza e incapacità, e quale bisogno di appoggiarci su Dio! Quante ferventi preghiere facciamo salire a Lui per ottenere forza e soccorso! Poi, quando abbiamo lavorato per molto tempo, acquistiamo un’opinione migliore di noi stessi; pensiamo di poter camminare da soli o, almeno, non abbiamo più la stessa sensazione della nostra debolezza e non dipendiamo più da Dio, come prima. Allora il nostro servizio diventa povero, vuoto, fatto di tante parole ma privo di potenza; non sgorga più dalla sorgente inesauribile dello Spirito, ma dai nostri miserabili pensieri.

Nei v. 9-15 Dio rinnova la promessa a Giacobbe e gli conferma il nuovo nome di «principe», datogli da Lui stesso in luogo di quello di «soppiantatore», e Giacobbe chiama ancora una volta quel luogo col nome di «Betel».

Il v. 18 ci dà un interessante esempio della differenza che c’è fra il giudizio della fede e quello della natura umana. Quest’ultima vede le cose attraverso la nebbia del mondo che la circonda, mentre la fede le vede alla luce della presenza e dei pensieri di Dio. E Rachele, «mentre l’anima sua se ne andava, perché stava morendo, chiamò il bimbo Ben-Oni; ma il padre lo chiamò Beniamino». La natura umana gli pone nome «figlio del mio dolore», ma la fede lo chiama «figlio della mia destra»!

È sempre così: i pensieri della natura differiscono sempre da quelli della fede, e noi dovremmo desiderare ardentemente che siano questi a guidare i nostri cuori.

27. Capitolo 36: La discendenza di Esaù

Questo capitolo contiene la genealogia dei figli di Esaù, con i nomi e il luogo della loro abitazione. Non ci soffermeremo, ma passeremo subito a una delle più ricche e interessanti parti della Scrittura.

28. Capitolo 37: Giuseppe e i suoi fratelli

28.1 Una figura di Cristo

Non conosco una figura di Cristo più bella e più perfetta di quella di Giuseppe, sia che lo consideriamo come l’oggetto dell’amore del padre e dell’odio dei «suoi» fratelli, sia nella sua umiliazione, nella sofferenza e nella morte, o nella sua esaltazione e nella gloria.

Conosciamo, dal cap. 37, i sogni di Giuseppe che risvegliarono l’odio dei suoi fratelli. Giuseppe era molto amato dal padre ed era chiamato a un destino glorioso; e poiché il cuore dei fratelli non era in comunione con quello del loro padre ed era estraneo a tutto ciò che attendeva Giuseppe, essi lo odiavano. Non volevano sottomettersi all’idea che Giuseppe dovesse essere innalzato. In questo, i fratelli rappresentano i Giudei ai giorni di Cristo. «È venuto in casa sua e i suoi non l’hanno ricevuto» (Giovanni 1:11); «Non aveva forma né bellezza da attirare i nostri sguardi, né apparenza, da farcelo desiderare» (Isaia 53:2). Non vollero riconoscerlo né come Figlio di Dio né come re di Israele. I loro occhi non erano aperti per contemplare «la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre» (Giovanni 1:14). Non l’hanno voluto. Non solo, l’hanno odiato!

Giuseppe, sebbene non fosse amato dai suoi fratelli, rimane fermo nella sua testimonianza. «Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai suoi fratelli; allora questi lo odiarono più che mai… Egli fece ancora un altro sogno e lo raccontò ai suoi fratelli» (v. 5, 9). Non faceva altro che rendere una semplice testimonianza, basata su una rivelazione divina, ma questa l’avrebbe fatto scendere nella cisterna. Se avesse taciuto, se avesse lasciato smussarsi la potenza della sua testimonianza, sarebbe stato risparmiato, senza dubbio: ma egli dice ai suoi fratelli tutta la verità e perciò l’hanno odiato!

La stessa cosa avvenne al grande «antitipo» di Giuseppe, il Signore Gesù Cristo. Egli testimoniò della verità (Giovanni 18:37), non la nascose ma la manifestò nel suo parlare, perché Egli stesso era la verità; e l’uomo rispose alla sua testimonianza con la croce, la spugna imbevuta d’aceto e la lancia del soldato. La testimonianza di Cristo era connessa alla gloria più piena, più ricca, più perfetta. Egli era venuto, oltre che come «la verità», anche come l’espressione perfetta di tutto l’amore del Padre. «La grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo» (Giovanni 1:17). Egli era la rivelazione perfetta, all’uomo, di ciò che Dio era. Per questo l’uomo è senza scusa (id. 15:22-25).

Il Signore venne a manifestare Dio all’uomo, e l’uomo odiò Dio di un odio perfetto. Vediamo questo alla croce; e la fossa in cui Giuseppe è stato gettato dai suoi fratelli ce ne dà già una commovente immagine. «Essi lo videro da lontano e, prima che egli fosse vicino a loro, complottarono per ucciderlo. Dissero l’uno all’altro: “Ecco, il sognatore arriva! Forza, uccidiamolo e gettiamolo in una di queste cisterne; diremo poi che una bestia feroce l’ha divorato e vedremo che ne sarà dei suoi sogni”» (v. 18-20).

Queste parole ci ricordano in modo commovente la parabola dei vignaiuoli del cap. 21 del vangelo secondo Matteo. «Finalmente, mandò loro suo figlio, dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio”. Ma i vignaiuoli, veduto il figlio, dissero tra di loro: “Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e facciamo nostra la sua eredità” (v. 38-39). Lo presero, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero». Dio mandò il Suo Figlio nel mondo dicendo: «Avranno rispetto per mio figlio», ma ahimé!, il cuore dell’uomo non ebbe alcun rispetto per il «diletto» del Padre. Lo gettarono fuori. A causa di Cristo la terra e il cielo erano, e sono tuttora, divisi e opposti: l’uomo l’ha crocifisso, ma Dio l’ha risuscitato dai morti; l’uomo l’ha messo su una croce fra due ladroni, Dio l’ha fatto sedere alla propria destra nei cieli; l’uomo gli ha assegnato l’ultimo posto sulla terra, Dio gli ha offerto la posizione più elevata nei cieli e l’ha rivestito della più splendida maestà.

28.2 Le sofferenze e la gloria

Troviamo tutto questo nella storia di Giuseppe. «Giuseppe è un albero fruttifero; un albero fruttifero vicino a una sorgente; i suoi rami si stendono sopra il muro. Gli arcieri lo hanno provocato, gli hanno lanciato frecce, lo hanno perseguitato,  ma il suo arco è rimasto saldo;  le sue braccia e le sue mani sono state rinforzate dalle mani del Potente di Giacobbe, da colui che è il pastore e la roccia d’Israele, dal Dio di tuo padre che ti aiuterà e dall’Altissimo che ti benedirà con benedizioni del cielo di sopra, con benedizioni dell’abisso che giace di sotto, con benedizioni delle mammelle e del grembo materno. Le benedizioni di tuo padre sorpassano le benedizioni dei miei progenitori, fino a raggiungere la cima delle colline eterne. Esse saranno sul capo di Giuseppe, sulla fronte del principe dei suoi fratelli» (49:22-26).

Questi versetti dipingono in modo ammirevole il quadro «delle sofferenze di Cristo e delle glorie che dovevano seguirle» (1 Pietro 1:11). «Gli arcieri» hanno agito contro di lui, ma Dio è stato più forte di loro. Hanno tirato contro il vero Giuseppe e l’hanno gravemente ferito nella casa dei suoi amici, ma «le sue braccia e le sue mani sono state rinforzate» nella potenza della risurrezione. Ora la fede Lo riconosce come il fondamento su cui poggiano tutti i disegni di Dio per la benedizione e la gloria della Chiesa, di Israele, e dell’intera creazione. Se consideriamo Giuseppe nella cisterna e in prigione, poi come viceré dell’Egitto, vediamo la differenza che c’è tra i pensieri di Dio e quelli degli uomini.

È stata la venuta di Cristo a mettere a nudo ciò che l’uomo realmente provava per Dio. «Se io non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero colpa» (Giovanni 15:22). Non che gli uomini non sarebbero stati peccatori, ma «non avrebbero colpa». È detto pure, in un altro passo, «se foste ciechi, non avreste alcun peccato» (id. 9:41). Dio, nella persona del Figlio, è venuto vicinissimo all’uomo, per questo non hanno «scusa per il loro peccato» (id. 15:22). Chi dice di vedere, non ha scusa. La gravità consiste non nell’essere ciechi, se si confessa di esserlo, ma nel fare professione di vedere. In un tempo di professione esteriore come il nostro, questo principio è ancora più serio.

Gli occhi di chi sa di essere cieco possono essere aperti da Gesù; ma che fare a colui che crede di vedere, e non vede?

29. Capitolo 38: Giuda e sua famiglia

Questo capitolo ci mostra una di quelle notevoli circostanze nelle quali la grazia di Dio trionfa gloriosamente sul peccato dell’uomo.

«È noto infatti che il nostro Signore è nato dalla tribù di Giuda» (Ebrei 7:14). In che modo? «Giuda generò Fares e Zara da Tamar» (Matteo 1:3). Questo fatto merita tutta la nostra attenzione. Nella sua infinita grazia, Dio si eleva al di sopra del peccato e della follia dell’uomo, per compiere i disegni del Suo amore e della Sua misericordia. Così, poco dopo, in questo stesso Evangelo (v. 6) leggiamo: «Davide generò Salomone da quella ch’era stata moglie d’Uria» È degno di Dio agire così. Lo Spirito ci fa seguire la genealogia di Cristo secondo la carne e mette in questo elenco i nomi di Tamar (la nuora di Giuda che si unì a suo suocero) e di Bat-Sceba (la donna per la quale Davide commise adulterio e omicidio)! Alla fine di questo capitolo di Matteo arriviamo a Gesù, Dio manifestato in carne, rivelato come tale dalla penna dello Spirito Santo.

L’uomo non avrebbe mai potuto inventare una simile genealogia. Da un punto all’altro essa è divina e nessun uomo spirituale può leggerla senza trovare, nel suo contesto, una manifestazione della grazia di Dio e della divina ispirazione di quest’Evangelo (vedi 2 Samuele 11 e Genesi 38).

30. Capitoli da 39 a 45: Giuseppe in Egitto

30.1 Gli atti degli uomini e i disegni di Dio

Leggendo queste parti così interessanti del libro di Dio, si scopre una mirabile concatenazione di avvenimenti provvidenziali che tendono tutti a un grande fine principale, cioè l’esaltazione dell’uomo che è stato nella cisterna. Giuseppe doveva essere esaltato, e questo avvenne quando Dio «chiamò la fame sul paese e fece mancare del tutto il sostegno del pane”. Egli “chiamò la carestia nel paese e fece mancare il pane che li sostentava. Mandò davanti a loro un uomo, Giuseppe, che fu venduto come schiavo. Gli legarono i piedi con ceppi; fu oppresso con catene di ferro. Fino al tempo in cui si avverò quanto aveva predetto, la parola del SIGNORE lo affinò. Il re lo fece slegare, il dominatore di popoli lo liberò; lo stabilì signore della sua casa e governatore di tutti i suoi beni, per istruire i prìncipi secondo il suo giudizio e insegnare ai suoi anziani la sapienza» (Salmo 105:16-22).

Lo scopo principale di tutti questi avvenimenti era di esaltare colui che gli uomini avevano rifiutato, e di far sentire a questi stessi uomini il peccato da essi commesso respingendolo. Le circostanze meno importanti come le più solenni, quelle che paiono più favorevoli come quelle che sembrano più contrarie, servono per l’adempimento dei disegni di Dio. Satana, al cap. 39, si serve della moglie di Potifar per cacciare Giuseppe in prigione; al cap. 40 si serve della negligenza e dell’ingratitudine del gran coppiere per farlo rimanere là. Ma tutto è inutile. Dio era dietro la scena e dirigeva con la propria mano tutte le sequenze di questa concatenazione di circostanze e, al momento giusto, ha fatto apparire l’uomo dei Suoi consigli e lo ha posto in una posizione altamente elevata.

Come siamo felici di poter seguire, in ogni frangente, la mano e i disegni del nostro Padre! E com’è dolce sapere che Egli dispone di tutti gli strumenti possibili, angeli, uomini, demòni; li tiene tutti sotto la Sua potente mano e li adopera tutti, a Suo piacimento, per l’esecuzione dei Suoi piani.

Tutto questo ci è presentato in modo particolare nei capitoli che stiamo meditando. Dio visita la casa di un ufficiale pagano e poi quella di un re pagano; non solo questo, ma visita il re sul proprio letto e fa persino concorrere le visioni della sua mente all’attuazione dei Suoi sovrani consigli. Anche l’Egitto e tutti i paesi circostanti sono chiamati a comparire sulla scena; in poche parole, la terra tutta è stata preparata dalla mano di Dio per essere il teatro della manifestazione della gloria e della grandezza «di colui che è principe tra i suoi fratelli» (Deuteronomio 33:16). Tali sono le vie di Dio; ed è un esercizio benedetto ed edificante, per un credente, seguire così l’opera meravigliosa del suo Padre celeste.

Fermatevi un istante nella prigione del capitano delle guardie: vedrete un uomo «nei ceppi» (Salmo 105:18), accusato del più orribile dei misfatti, disprezzato e rigettato dalla società; poi, contemplatelo innalzato alla più alta carica! Chi potrebbe negare la presenza di Dio in tutto ciò?

«Così il faraone disse a Giuseppe: “Poiché Dio ti ha fatto conoscere tutto questo, non c’è nessuno che sia intelligente e savio quanto te. Tu avrai autorità su tutta la mia casa e tutto il popolo ubbidirà ai tuoi ordini; per il trono soltanto io sarò più grande di te”. Il faraone disse ancora a Giuseppe: “Vedi, io ti do potere su tutto il paese d’Egitto”. Poi il faraone si tolse l’anello dal dito e lo mise al dito di Giuseppe; lo fece vestire di abiti di lino fino e gli mise al collo una collana d’oro. Lo fece salire sul suo secondo carro e davanti a lui si gridava: “In ginocchio!” Così il faraone gli diede autorità su tutto il paese d’Egitto. Il faraone disse a Giuseppe: “Io sono il faraone! Ma senza tuo ordine, nessuno alzerà la mano o il piede in tutto il paese d’Egitto”» (41:39-44).

30.2 Giuseppe, meravigliosa figura di Cristo

Nello stesso tempo, le differenti circostanze per le quali Giuseppe passa sono per noi una straordinaria figura delle sofferenze e della gloria del Signore Gesù. Giuseppe è tirato fuori dalla fossa e fatto uscire dalla prigione, dove l’avevano messo l’invidia dei suoi fratelli e il falso giudizio dei pagani, per essere stabilito governatore su tutto il paese d’Egitto, e, più ancora, per diventare lo strumento della benedizione della sua famiglia e il sostegno della vita sua e di tutto il mondo.

Non potrebbe esservi un tipo più perfetto: un uomo spinto dalla mano dell’uomo nel luogo della morte, poi risuscitato dalla mano di Dio ed elevato in dignità e in gloria. Non è esattamente ciò che è avvenuto al Signore? «Uomini d’Israele, ascoltate queste parole! Gesù il Nazareno, uomo che Dio ha accreditato fra di voi mediante opere potenti, prodigi e segni che Dio fece per mezzo di lui, tra di voi, come voi stessi ben sapete, quest’uomo, quando vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e la prescienza di Dio, voi, per mano di iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste; ma Dio lo risuscitò, avendolo sciolto dagli angosciosi legami della morte, perché non era possibile che egli fosse da essa trattenuto» (Atti 2:22-24).

Oltre ai punti che abbiamo segnalato, vi sono, nella storia di Giuseppe, altri due avvenimenti che rendono l’allegoria ammirevolmente perfetta: il suo matrimonio con una donna straniera (cap. 41) e l’intervista coi suoi fratelli (cap. 45). Tali avvenimenti si succedono con quest’ordine: Giuseppe si presenta ai fratelli come mandato dal padre; lo respingono e lo gettano nella cisterna. Dio lo trae dalla fossa e lo eleva alla più alta dignità; nella sua elevata posizione sposa una donna e, quando i fratelli secondo la carne, prostrati davanti a lui, sono completamente umiliati, egli si fa riconoscere, li tranquillizza e li introduce nella benedizione; poi diventa il canale della benedizione per loro e per il mondo intero.

30.3 Una moglie, compagna della sua gloria

Non saranno superflue alcune osservazioni sul matrimonio di Giuseppe e la riabilitazione dei suoi fratelli. La moglie straniera è la figura della Chiesa. Cristo si presenta ai Giudei e, rigettato, ritorna nel cielo da dove manda lo Spirito Santo per formare la Chiesa, composta da Giudei e Gentili, destinati ad essere uniti a Lui nella gloria celeste. Abbiamo già parlato della dottrina della Chiesa quando ci siamo occupati del cap. 24, ma troviamo qui qualche nuovo particolare sullo stesso soggetto. La sposa egiziana di Giuseppe era intimamente associata a lui nella gloria e occupava grazie a lui un posto notevole. È la stessa cosa della Chiesa, la sposa dell’Agnello; essa è unita a Cristo per partecipare al Suo obbrobrio (e in questo è raffigurata dalla moglie non ebrea di Mosè) e alla Sua gloria (la moglie egiziana di Giuseppe). È la posizione di Cristo che dà il carattere alla posizione della Chiesa ed è questa posizione che dovrebbe sempre caratterizzare il cammino della Chiesa.

Se siamo uniti a Cristo, lo siamo come elevati in gloria, non nell’umiliazione di questo mondo: «Quindi, da ora in poi, noi non conosciamo più nessuno da un punto di vista umano; e se anche abbiamo conosciuto Cristo da un punto di vista umano, ora però non lo conosciamo più così» (2 Corinzi 5:16) . Il centro del radunamento della Chiesa è Cristo: «E io, quando sarò innalzato dalla terra, attirerò tutti a me» (Giovanni 12:32). La piena comprensione di questo principio ha un’importanza pratica più grande di quanto possa sembrare. Lo scopo di Satana, così come la tendenza dei nostri cuori, è di farci rimanere indietro rispetto alle vie di Dio specialmente per quanto riguarda il centro della nostra unità come cristiani. Molti credono che sia il sangue di Cristo a costituire il centro dell’unità dei santi. Il sangue infinitamente prezioso di Cristo è ciò che ci fa, individualmente, adoratori alla presenza di Dio. È il sangue che costituisce il fondamento divino della nostra comunione con Dio. Ma quando si tratta del nostro centro di unità come Chiesa, non bisogna perdere di vista che lo Spirito Santo ci raduna attorno alla persona di un Cristo crocifisso, ma poi glorificato. Questa grande verità imprime il suo santo e glorioso carattere alla nostra unità come cristiani. Se ci poniamo su un terreno meno elevato, cadiamo inevitabilmente in una setta; se ci raduna un ordinamento, sia pure importante, o una verità, sia pure fondata, abbiamo per centro qualcosa che è meno di Cristo.

È dunque molto importante valutare le conseguenze pratiche che ne derivano: noi siamo riuniti intorno a un Capo risuscitato e glorificato nei cieli. Se Cristo fosse sulla terra, saremmo radunati attorno a Lui quaggiù; ma poiché Egli siede nei cieli, la Chiesa trae il proprio carattere dalla posizione del suo «Capo» lassù. Per questo Cristo poteva dire: «Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo» e ancora: «Per loro io santifico me stesso, affinché anch’essi siano santificati nella verità» (Giovanni 17:16-19). Così pure nella prima Lettera di Pietro (2:4-5) è scritto: «Accostandovi a lui, pietra vivente, rifiutata dagli uomini, ma davanti a Dio scelta e preziosa, anche voi, come pietre viventi, siete edificati per formare una casa spirituale, un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo ». Se siamo riuniti attorno a Cristo, bisogna che lo siamo attorno a Lui tale qual Egli è, e là dove si trova.

Non è nella cisterna e nemmeno nella prigione che la sposa di Giuseppe gli era unita, ma nella dignità e nella gloria della sua posizione in Egitto; per quanto la riguarda, ci è facile discernere la differenza che c’è fra le due posizioni. Più avanti leggiamo: «Prima che venisse il primo anno della carestia, nacquero a Giuseppe due figli» (41:50). Doveva venire un tempo di prova ma, prima, c’è il frutto della sua unione. La stessa cosa avverrà alla Chiesa: tutti i membri che la compongono saranno chiamati, il corpo sarà completato e riunito alla Testa nei cieli prima dei giudizi della «grande tribolazione» (Matteo 24:21) che verrà su tutto il mondo abitato.

30.4 Restaurazione dei fratelli di Giuseppe

Esaminiamo ora il colloquio intercorso tra Giuseppe e i suoi fratelli. Esso rassomiglia in più punti alla storia di Israele negli ultimi giorni. Durante il periodo in cui non era riconosciuto, i fratelli furono chiamati ad attraversare una prova dura e profonda e a passare per esercizi di coscienza assai dolorosi. In uno di questi momenti di tristezza aprirono il loro cuore, dicendo: «Sì, noi fummo colpevoli verso nostro fratello, giacché vedemmo la sua angoscia quando egli ci supplicava, ma non gli demmo ascolto! Ecco perché ci viene addosso quest’angoscia». Ruben rispose loro: “Non ve lo dicevo io: “Non commettete questo peccato contro il ragazzo?” Ma voi non voleste darmi ascolto. Perciò, ecco, il suo sangue ci è ridomandato» (42:21-22). Poi, al cap. 44: «Giuda rispose: che diremo al mio signore? Quali parole useremo? O come ci giustificheremo? Dio ha trovato l’iniquità dei suoi servi».

Nessuno può insegnare come Dio. Nessuno può produrre nell’anima il sentimento reale del peccato e la coscienza del proprio stato davanti a Dio. L’uomo prosegue, incurante, a vivere nel peccato finché i dardi dell’Onnipotente non gli trafiggono la coscienza; allora deve passare per questi dolorosi esercizi di cuore e di coscienza che non possono trovare conforto se non nelle immense ricchezze dell’amore redentore.

I fratelli di Giuseppe non avevano la minima idea delle conseguenze che ci sarebbero state per loro a motivo di come si erano comportati verso il loro fratello. Lo avevano preso e gettato nella cisterna… e “poi si sedettero per mangiare» (37:25); guai a quelli che bevono il vino in ampie coppe e si ungono con gli oli più pregiati, ma non si addolorano per la rovina di Giuseppe» (Amos 6:6). Tuttavia, mediante vie meravigliose Dio tocca il cuore dei fratelli di Giuseppe ed esercita la loro coscienza.

Erano trascorsi molti anni ed essi avevano potuto illudersi che tutto sarebbe andato bene, ma ecco i «sette anni di abbondanza e i sette anni di carestia». Cosa rappresentano? Da dove provengono? A cosa devono servire? Meravigliosa saggezza di Dio! La fame si fa sentire nel paese di Canaan, e i bisogni della fame spingono quei fratelli colpevoli ai piedi di colui che hanno oltraggiato! La spada della convinzione di peccato ha trafitto la loro coscienza, ed essi si ritrovano in presenza dell’uomo che, con le loro «mani di iniqui» (Atti 2:23), avevano maltrattato e venduto. La loro iniquità li ha ritrovati, ma in presenza di Giuseppe! Che grande favore!

«Allora Giuseppe non poté più contenersi davanti a tutto il suo seguito e gridò: “Fate uscire tutti dalla mia presenza!” Nessuno rimase con Giuseppe quando egli si fece riconoscere dai suoi fratelli» (cap. 45:1). A nessun estraneo fu concesso di essere testimone di questa sacra scena; quale estraneo, infatti, avrebbe potuto comprenderla o apprezzarla? Quando la convinzione di peccato e la grazia si incontrano, ogni questione è risolta.

«Giuseppe disse ai suoi fratelli: “Io sono Giuseppe; mio padre vive ancora?” Ma i suoi fratelli non gli potevano rispondere, perché erano atterriti dalla sua presenza. Giuseppe disse ai suoi fratelli: “Vi prego, avvicinatevi a me!” Quelli s’avvicinarono ed egli disse: “Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi vendeste perché fosse portato in Egitto. Ma ora non vi rattristate, né vi dispiaccia di avermi venduto perché io fossi portato qui; poiché Dio mi ha mandato qui prima di voi… perché sia conservato di voi un residuo sulla terra e per salvare la vita a molti scampati. Non siete dunque voi che mi avete mandato qui, ma è Dio”» (45:3-8). È proprio la grazia che pone la coscienza convinta di peccato in un perfetto riposo. I fratelli di Giuseppe si erano già giudicati, così egli non ha che da spandere il balsamo sui loro cuori contriti.

Tutto questo è una preziosa figura del modo con cui Dio agirà riguardo a Israele negli ultimi giorni, quando «guarderanno… a colui che essi hanno trafitto, e ne faranno cordoglio». Sperimenteranno allora la realtà della grazia divina e l’efficacia di quella «fonte aperta per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme, per il peccato e per l’impurità» (Zaccaria 12:10 e 13:1).

Nel cap. 3, v. 13-15, degli Atti, vediamo lo Spirito Santo che cerca di produrre, per mezzo della voce di Pietro, questa convinzione divina nella coscienza dei Giudei: «Il Dio di Abraamo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi metteste nelle mani di Pilato e rinnegaste davanti a lui, mentre egli aveva giudicato di liberarlo. Ma voi rinnegaste il Santo, il Giusto e chiedeste che vi fosse concesso un omicida; e uccideste il Principe della vita, che Dio ha risuscitato dai morti. Di questo noi siamo testimoni». Queste parole avevano lo scopo di far uscire dal cuore e dalla bocca degli uditori la confessione dei fratelli di Giuseppe: «Sì, noi fummo colpevoli» (Genesi 42:21). Poi viene la grazia; «Ora, fratelli, io so che lo faceste per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma ciò che Dio aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, cioè, che il suo Cristo avrebbe sofferto, egli lo ha adempiuto in questa maniera. Ravvedetevi dunque e convertitevi, perché i vostri peccati siano cancellati e affinché vengano dalla presenza del Signore dei tempi di ristoro» (Atti 3:17-20).

Sebbene i Giudei abbiano dato libero corso all’inimicizia dei loro cuori facendo morire Gesù, come avevano fatto i fratelli di Giuseppe, la grazia di Dio appare a ciascuno di loro nella dimostrazione che tutto è stato decretato e predetto da Dio per la loro benedizione. È la grazia perfetta che supera ogni nostro pensiero; ma, per usufruirne, bisogna che la verità di Dio abbia prodotto nella coscienza una reale convinzione di peccato. Chi poteva dire «Sì, noi fummo colpevoli!», poteva anche capire le parole «Non siete dunque voi… ma è Dio» (45:8). Bisogna che sia sempre così: l’anima che ha giudicato se stessa è in grado di comprendere e di apprezzare il divino perdono.

31. Capitoli da 46 a 50: Giacobbe in Egitto

Gli ultimi capitoli della Genesi trattano della partenza di Giacobbe e della sua famiglia, e del loro stabilirsi in Egitto; delle azioni di Giuseppe negli anni di fame, delle benedizioni di Giacobbe ai dodici patriarchi; e poi della morte di Giacobbe e della sua sepoltura. Non ci soffermiamo sui particolari di questi soggetti benché contengano ampia materia di meditazione.

31.1 La fine di Giacobbe

La fine della vita di Giacobbe è in netto contrasto con tutte le scene precedenti della sua storia così feconda di avvenimenti. Ci fa pensare ad una sera serena che conclude una giornata burrascosa; il sole, nascosto durante il giorno dalle nuvole e dai vapori, tramonta risplendente di maestà, indorando l’occidente e promettendo un radioso domani. Per il nostro vecchio patriarca fu la stessa cosa. Tutti gli atti che hanno oscurato la sua vita, gli inganni, gli espedienti, i sotterfugi, le frodi, i timori egoisti, frutti dell’incredulità, tutte queste nuvole scure della natura umana e della terra si sono dileguate, e Giacobbe appare in tutta la serenità e l’elevatezza della fede, dispensando benedizioni e conferendo dignità, secondo quella conoscenza santificata che si acquista solo nella comunione con Dio.

Benché i suoi occhi siano oscurati, la vista della fede è penetrante. Non si lascia ingannare nella posizione che Dio, nei suoi disegni, ha assegnata a Efraim e a Manasse, i due figli di Giuseppe. Non fu, come suo padre Isacco nel cap. 27, «preso da un tremito fortissimo» (v. 33) per un funesto errore. A Giuseppe, stupito che il padre benedica prima il secondogenito e poi il primogenito, Giacobbe risponde con intelligenza: «Lo so, figlio mio, lo so» (48:19). La sua vita spirituale non è stata oscurata dai sensi. Giacobbe ha imparato, alla scuola dell’esperienza, a tenersi fermamente attaccato all’intento di Dio e nessuna influenza della natura umana lo può distogliere.

Il cap. 48:11 ci dà un prezioso esempio del modo con cui Dio si eleva al di sopra di tutti i nostri pensieri e si mostra superiore ad ogni nostra paura. «Israele disse a Giuseppe: “Io non pensavo più di rivedere il tuo volto ed ecco che Dio mi ha dato di vedere anche la tua prole”». «Le cose che occhio non vide, e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell’uomo, sono quelle che Dio ha preparate per coloro che lo amano» (1 Corinzi 2:9). Ci sia data una più profonda comprensione di Dio e delle Sue vie!

È interessante notare come sono presentati i nomi di «Giacobbe» e «Israele» alla fine del Libro. Nel cap. 48:2 leggiamo: «Giacobbe ne fu informato e gli fu detto: “Ecco, tuo figlio Giuseppe viene da te». Israele raccolse le sue forze e si mise seduto sul letto”». Poi la Parola aggiunge: «Giacobbe disse a Giuseppe: “Il Dio onnipotente mi apparve a Luz”» (v. 3). Sappiamo che nella Scrittura tutto ha un particolare significato, e l’uso alternato di questi due nomi racchiude un insegnamento per noi. Si può vedere in generale che «Giacobbe» esprime le profondità nelle quali l’uomo è sceso, «Israele» l’altezza alla quale quell’uomo fu elevato.

31.2 Giuseppe e il Faraone

Noteremo ancora soltanto i timori infondati di Giacobbe, dissipati nel vedere il figlio vivo ed esaltato, e la grazia che dirige ogni cosa seguita dal giudizio, poiché i figli di Giacobbe furono costretti a scendere in quello stesso paese in cui avevano mandato il loro fratello. Non meno interessante è la grazia di Giuseppe che appare da un capo all’altro della sua vita. Sebbene elevato in gloria dal Faraone egli, in un certo senso, si mette da parte e lega il popolo al suo re in un obbligo perenne (47:14-26). Sinteticamente, Faraone dice al popolo: Andate da Giuseppe. E Giuseppe dice loro: Ciò che avete e ciò che siete, è di Faraone.

Tutto questo è commovente e interessantissimo, e trasporta l’anima al tempo in cui, per decreto di Dio, il Figlio dell’uomo prenderà in mano le redini del governo e regnerà su tutta la creazione. Allora la Sua Chiesa, la Sposa dell’Agnello, occuperà il posto più vicino a Lui e di maggiore intimità, secondo i consigli eterni di Dio; la casa d’Israele, pienamente ristorata, sarà nutrita e sostenuta dalla sua mano benefattrice e tutta la terra conoscerà la gioia inesprimibile di trovarsi sotto il Suo scettro. Ma quando tutte le cose gli saranno state sottoposte, allora il Figlio stesso sarà sottoposto a Colui che gli ha sottoposto ogni cosa «affinché Dio sia tutto in tutti» (1 Corinzi 15:28).

Da tutto questo abbiamo un’idea di ciò che è racchiuso per noi nella storia di Giuseppe. Dio ci mostra chiaramente, in figura, la missione del Figlio per la casa di Israele, la sua umiliazione e il suo obbrobrio, la profonda afflizione, il pentimento finale e la riabilitazione d’Israele, l’unione di Cristo con la Chiesa, l’innalzamento e il governo di Cristo. E, alla fine, i nostri sguardi sono rivolti ai tempi in cui Dio sarà tutto, in noi e in tutti.

È inutile aggiungere che tutto ciò che ci ha occupati nel Libro della Genesi è insegnato e largamente confermato da un capo all’altro delle Scritture. È molto edificante trovare, già in quei tempi primitivi, le immagini di tutte le più preziose verità e poter constatare, così, la divina unità di tutta la Scrittura. Nella Genesi come nella Lettera agli Efesini, nei profeti del Vecchio Testamento come in quelli del Nuovo, troviamo le medesime verità, perché «ogni Scrittura è ispirata da Dio» (2 Timoteo 3:16).

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