Lettera di Paolo ai Filippesi

Lettera di Paolo ai Filippesi  –  Il libro dell’esperienza cristiana

di Henri Rossier

Pubblicato con il permesso di Edizioni il Messaggero Cristiano

Introduzione

Anche nella Lettera ai Filippesi, come in quelle agli Efesini e ai Colossesi, Dio rivela la posizione che i credenti hanno in Cristo; ma in quella ai Filippesi è sottolineato soprattutto l’aspetto del credente di passaggio nel mondo dove vive da cristiano. In questa Lettera non si trovano argomenti dottrinali, ma viene descritto il credente che corre “verso la meta” nella potenza dello Spirito di Dio, in quanto la caratteristica del credente è il cammino nella potenza dello Spirito. Per questo motivo nella Lettera non si trovano né il problema del peccato (il termine “peccato” non è neppure citato), né alcun combattimento nel vero senso del termine. Il credente, visto come “atleta”, non ha già ottenuto il premio, ma fa l’unica cosa necessaria per poterlo ottenere: corre con la potenza dello Spirito di Dio, elevandosi al di sopra di tutto ciò che avviene nel mondo e di tutte le circostanze della sua vita.

La Lettera ai Filippesi può essere definita come la lettera dell’esperienza cristiana e in particolare dell’esperienza secondo la potenza dello Spirito nella quale il credente, pur soggetto a commettere errori, è in grado di camminare.

La “carne” che abbiamo in noi è sempre la stessa, allora come oggi. Non è possibile raggiungere la meta finché si è sulla terra, perché sulla terra non esiste la perfezione (nemmeno Paolo l’aveva già raggiunta, 3:12); tuttavia è possibile agire coerentemente con la chiamata di Dio che pone davanti a noi Cristo nella gloria come obiettivo e premio della corsa; perché il credente ha un solo obiettivo da raggiungere: essere con Cristo e simile a Lui. In questa Lettera, tuttavia, il credente viene considerato superiore a qualsiasi circostanza, in quanto il suo stesso cammino è posto al di sopra delle contraddizioni e delle difficoltà della vita.

Il fatto che dobbiamo percorrere un cammino mostra chiaramente che l’uomo è uscito dal luogo nel quale Dio l’aveva posto inizialmente; nel mondo non siamo a “casa nostra”. Dio, nella sua grazia, ci concede di fare un percorso nel deserto con il soccorso del Signore e con la sua forza. Come avvenne agli Ebrei, anche noi credenti siamo stati liberati dalla schiavitù e siamo usciti dall’Egitto (dal mondo), però non ci troviamo ancora in Canaan (la nostra patria celeste); per questo stiamo “correndo” verso la meta.

Molti ostacoli si frappongono durante il percorso, ma noi, come Paolo (3:14), una sola cosa dobbiamo fare: correre! Ad ogni passo accresce la nostra conoscenza di Cristo, della sua divina grandezza, del suo amore per noi, come se percorressimo un lungo corridoio con una luce in fondo, e quella luce è Cristo. Ad ogni passo che facciamo, man mano che ci avviciniamo, essa diventa sempre più luminosa, più splendente ai nostri occhi; ma non abbiamo ancora raggiunto la sorgente di quella luce. Progredendo nel cammino con un obiettivo così elevato, noi sentiamo, è vero, il peso delle circostanze avverse, ma non ne siamo né sopraffatti né troppo influenzati. Avendo in vista quella meta sublime, possiamo essere liberati dalla schiavitù dell’“io”.

Capitolo 1

“Paolo e Timoteo, servi di Cristo Gesù, a tutti i santi in Cristo Gesù che sono in Filippi, con i vescovi e i diaconi, grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo.” (v. 1-2)

 La Lettera è certamente scritta da Paolo, ma Paolo associa a sé anche Timoteo, il suo “figlio nella fede” e fedele compagno e collaboratore nell’opera del Signore. Essa non è indirizzata solo ai fratelli maggiormente responsabili della chiesa o particolarmente impegnati nel servizio dei santi, come i vescovi e i diaconi, ma a tutta la chiesa, fratelli e sorelle. A tutti augura che la grazia del Signore e la Sua pace siano sperimentate e realizzate nella loro vita.

“Io ringrazio il mio Dio di tutto il ricordo che ho di voi; e sempre, in ogni mia preghiera per tutti voi, prego con gioia a motivo della vostra partecipazione al vangelo, dal primo giorno fino ad ora.” (v. 3-5)

I Filippesi avevano partecipato con zelo alla “difesa” e alla “conferma” del Vangelo (v. 7) dimostrando così il loro amore sincero, e Paolo li ricordava in ogni sua preghiera perché aveva sempre nel cuore non solo tutta la Chiesa di Dio, ma anche ogni fratello e sorella, singolarmente. Paolo pensava a tutte le cose buone che vedeva in loro e rendeva grazie a Dio. Anche ai Corinzi dice: “Io ringrazio sempre il mio Dio per voi” (1 Corinzi 1:4).

Ciò che occupa i pensieri di Cristo dovrebbe occupare anche i nostri. Se Cristo è la nostra vita e, grazie all’opera dello Spirito, la sorgente dei nostri pensieri, allora noi penseremo come Lui e sapremo quello che, per Lui, è buono e giusto. Vivere una vita cristiana significa affrontare ogni circostanza nel modo in cui avrebbe fatto Lui.

Commettere il male o agire secondo la carne non è mai una necessità, non è mai inevitabile; non c’è nessun motivo perché debba essere la carne ad agire sui nostri pensieri e a manifestarsi nel nostro comportamento. Se siamo ripieni di Cristo, sarà Lui a suggerire i pensieri corretti.

Penetrando nei sentimenti e nei pensieri di Cristo, non potremo sopportare di avere del male in noi né di vederlo nei nostri fratelli; l’unico nostro desiderio sarà di essere noi, e di vedere loro, sempre più simili al nostro comune Salvatore.

Il Signore lavora nella sua Chiesa “per santificarla dopo averla purificata lavandola con l’acqua della parola” (Efesini 5:25-26), e noi dovremmo camminare con Lui, nello stesso spirito. Egli per prima cosa ha dato se stesso per i suoi, poi si adopera per purificarli e per renderli come Lui vuole. Lasciamolo lavorare, avendo anche noi lo stesso suo desiderio.

Sebbene non siamo in grado di usufruirne completamente, abbiamo a disposizione molta potenza per compiere questo servizio di preghiera per gli altri. Il Signore può elargire la sua grazia oggi, così come ha fatto nei giorni più gloriosi dell’apostolo Paolo. In Davide c’erano molti più motivi di gioia quando fuggiva davanti a Saul come una “pernice sulle montagne”, che in Salomone con tutta la sua gloria; perché nella sofferenza di Davide c’era la forza della fede.

E’ insieme agli altri santi, “abbracciandoli” tutti, che siamo chiamati a “conoscere” la grandezza dell’amore di Gesù (Efesini 3:18); se non lo facciamo tutti insieme, ci priviamo di molte benedizioni.

Pregare per i credenti dà, a chi lo fa, la capacità di vedere tutto il bene che è in loro. Le Lettere dell’apostolo Paolo ne sono un esempio, ad esclusione di quella ai Galati nella quale egli non parla delle cose che poteva lodare ma, senza preamboli, si concentra subito sul male perché i Galati avevano abbandonato il fondamento. Se pregassimo di più per i credenti ci rallegreremmo di più di loro e avremmo maggiore coraggio per agire in loro favore.

“Ho questa fiducia: che Colui che ha cominciato in voi un’opera buona, la condurrà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù. Ed è giusto ch’io senta così di tutti voi, perché vi ho nel cuore, voi tutti che, tanto nelle mie catene quanto nella difesa e nella conferma del vangelo, siete partecipi con me della grazia.” (v. 6-7)

E’ sempre negativo scoraggiarsi per quanto concerne i credenti. Il Signore è sempre presente, il suo amore non può fallire e noi possiamo contare su questo amore con gioia, trovando consolazione e incoraggiamento. Anche quando aveva detto ai Galati “sono perplesso a vostro riguardo” (Galati 4:20), Paolo, guardando subito a Cristo, aggiunge: “Riguardo a voi, io ho questa fiducia nel Signore…” (Galati 5:10). Egli vedeva i credenti sotto lo sguardo di Dio e da Lui benedetti. Siamo noi capaci di vederli con il cuore di Cristo e di essere consolati e incoraggiati perché sappiamo che in Lui c’è grazia sufficiente per noi e per loro?

Spesso non ci rendiamo conto di quanto sia reale l’unità dello Spirito, pur riconoscendola come verità dottrinale. Tale unità esiste grazie allo Spirito che si trova in ogni credente, tanto che è scritto che “se un membro soffre”, gli altri “soffrono”; non “dovrebbero soffrire” (1 Corinzi 12), ma soffrono. La sofferenza con gli altri non ci è richiesta come un dovere, ma è una manifestazione spontanea dell’unità e dell’amore. Se abbiamo un dolore in una parte del corpo, altre parti sono coinvolte, la nostra psiche ne risente, ci mancano le energie, e non riusciamo a lavorare come faremmo normalmente e nemmeno a leggere o a svolgere altre attività più leggere. Analogamente, se veniamo a sapere che c’è una grande opera dello Spirito fra i credenti dell’India, per esempio, noi dell’Europa non ne saremo forse rallegrati? Così, quando i santi pregavano per Paolo affinché Dio lo fortificasse, rendimenti di grazie salivano a Lui da parte di tutti (2 Corinzi 1:11).

L’opera dello Spirito di Dio esercita un’influenza positiva su tutti coloro che ascoltano. Ma quando Paolo, in prigione, è stato costretto a dire “tutti mi hanno abbandonato” (non avevano abbandonato Cristo, ma non avevano il coraggio di affrontare i pericoli occupandosi dell’apostolo) ha comunque proseguito il suo cammino da solo.

Infatti Dio mi è testimone come io vi ami tutti con affetto profondo in Cristo Gesù. E prego che il vostro amore abbondi sempre più in conoscenza e in ogni discernimento, perché possiate apprezzare le cose migliori, affinché siate limpidi e irreprensibili per il giorno di Cristo, ricolmi di frutti di giustizia che si hanno per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.” (v. 8-11)

Il tono della Lettera ai Filippesi è evidente al v. 8. Paolo non era un uomo che dimenticava; anzi, egli ricorda ogni manifestazione di bontà, ogni più piccola dimostrazione di affetto nei suoi confronti. Così, nelle sue preghiere, chiede che coloro che si ricordavano di lui abbondino ancor più nell’amore, nella conoscenza e nell’intelligenza spirituale, perché facciano le cose migliori sapendole distinguere dalle altre, e diventando in questo modo esperti nel cammino cristiano. Questo significa non solo evitare di cadere nel peccato, ma avere l’intelligenza necessaria per sapere come comportarsi in ogni circostanza. La nostra regola, infatti, dovrebbe essere questa: “Cos’è che soddisfa il cuore di Cristo?”, e non solo “Che male c’è in questo o in quello?”. E’ come se dicesse: “Desidero che voi pensiate al Signore Gesù e sappiate bene ciò che piacerà al suo cuore”, perché piacere a Cristo rende felici e dà gioia, grazie all’energia attiva dello Spirito di Dio.

“Desidero che voi sappiate, fratelli, che quanto mi è accaduto ha piuttosto contribuito al progresso del vangelo; al punto che a tutti quelli del pretorio e a tutti gli altri è divenuto noto che sono in catene per Cristo; e la maggioranza dei fratelli del Signore, incoraggiati dalle mie catene, hanno avuto più ardire nell’annunciare senza paura la parola di Dio.” (v. 12-14).

E’ da notare come l’apostolo Paolo si elevi al di sopra di tutto ciò che avevano comportato gli anni di carcere già subiti, i due di Cesarea, sia quelli che stava subendo a Roma (in tutto saranno quattro anni). In questi versetti parla delle circostanze particolari a cui doveva far fronte, e che potevano essere considerate un ostacolo alla propagazione del Vangelo e ben deprimenti per lui. Paolo avrebbe anche potuto dire: Se non fossi andato a Gerusalemme e se avessi dato ascolto al profeta che mi supplicava di non andare (Atti 21:10-12), ora non mi troverei a Roma in catene e sarei ancora libero di predicare il Vangelo. Ma egli non parla in questo modo. Il credente che ama Dio e vive al di sopra delle cose della terra sa che tutte le cose cooperano per il suo bene.

L’apostolo valuta quindi quelle circostanze in rapporto a Cristo. Era nella solitudine d’una prigione, e apparentemente questo era un grave ostacolo alla predicazione; il suo servizio pubblico era terminato. Ma voleva che i credenti sapessero che la sua carcerazione si era volta in benedizione per lui e aveva favorito l’avanzamento del messaggio di salvezza. Per quanto riguardava se stesso, Paolo, invece di scoraggiarsi per quelle catene, poteva rallegrarsi, perché era evidente a tutti che si trovava “in catene” non per una colpa, ma “per Cristo”; e si rallegrava di essere stimato degno di soffrire per Lui!

Per quanto riguarda il Vangelo, le catene di Paolo erano diventate un’occasione per raggiungere gente del pretorio (il rango sociale più elevato). I suoi lettori sapevano che quando era stato con loro a Filippi ed era stato gettato nella parte più interna del carcere, aveva potuto cantare delle lodi a Dio. Allora, le sue catene erano diventate un mezzo per raggiungere il carceriere, un peccatore ben in fondo alla scala sociale. Le catene, la cella, la notte… tutto aveva contribuito all’avanzamento del Vangelo.

Inoltre, l’opposizione del mondo a Cristo, messa in evidenza dalla carcerazione dell’apostolo, era stata un’occasione per stimolare alcuni fratelli, forse più timidi per natura, a farsi avanti arditamente per annunciare senza timore la parola di Dio.

“Vero è che alcuni predicano Cristo anche per invidia e per rivalità; ma ce ne sono altri che lo predicano di buon animo. Questi lo fanno per amore, sapendo che sono incaricato della difesa del vangelo; ma quelli annunziano Cristo con spirito di rivalità, non sinceramente, pensando di provocarmi qualche afflizione nelle mie catene. Che importa? Comunque sia, con ipocrisia o con sincerità, Cristo è annunziato; di questo mi rallegro, e mi rallegrerò ancora;” (v. 15-18).

Purtroppo c’erano delle persone che predicavano il Vangelo spinte da motivi che non erano puri. Mossi da gelosia e dal malvagio desiderio di accrescere le tribolazioni di Paolo, essi approfittavano della sua carcerazione per valorizzare se stessi, e lo facevano annunciando il Vangelo. Ma l’apostolo, che metteva Cristo davanti a tutto e non pensava a sé, poteva rallegrarsi perché, in ogni caso, Cristo era annunciato. Nonostante le motivazioni malvagie e il procedere carnale di quei predicatori, Paolo lasciava al Signore la cura di occuparsi di loro a suo tempo e nel modo che avrebbe ritenuto opportuno, e si rallegrava che il messaggio della grazia fosse portato a conoscenza di molti.

“so infatti che ciò tornerà a mia salvezza, mediante le nostre suppliche e l’assistenza dello Spirito di Gesù Cristo,” (v. 19).

Qui l’attività sempre più grande e l’energia crescente dello Spirito Santo sono definite da Paolo “l’assistenza dello Spirito di Gesù Cristo”. Non c’è da aspettare una seconda discesa dello Spirito, in quanto lo Spirito è già venuto, ma possiamo e dobbiamo affidarci all’“assistenza” dello Spirito e a tutto ciò che la sua grazia ci porta tramite la Parola.

“secondo la mia viva attesa e la mia speranza di non aver da vergognarmi di nulla; ma che con ogni franchezza, ora come sempre, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia con la vita, sia con la morte. Infatti per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno.

Ma se il vivere nella carne porta frutto all’opera mia, non saprei che cosa preferire. Sono stretto da due lati: da una parte ho il desiderio di partire e di essere con Cristo, perché è molto meglio; ma, dall’altra, il mio rimanere nel corpo è più necessario per voi. Ho questa ferma fiducia: che rimarrò e starò con voi  per il vostro progresso e per la vostra gioia nella fede, affinché, a motivo del mio ritorno in mezzo a voi, abbondi il vostro vanto in Cristo Gesù.” (v. 20-26).

Qui vediamo chiaramente che la perfezione nella carne non è realizzabile, in quanto Paolo aspettava di essere simile a Cristo nella gloria. Il suo cuore è sincero quando dice “per me vivere è Cristo”. Cristo era il suo solo scopo, ed egli camminava giorno dopo giorno attingendo alla fonte, che è Cristo stesso, e avendolo come motivo di vita. Durante tutto il suo cammino, Cristo era il suo “tutto” per la potenza dello Spirito, di modo che l’odio dell’uomo e di Satana non avevano alcun potere su di lui. L’io era praticamente tenuto da parte.

Quando pensava a se stesso non sapeva cosa avrebbe dovuto scegliere, se andare a gustare il riposo con Cristo oppure rimanere nel corpo e continuare a servirlo. Essere con Lui era molto meglio, ma se fosse andato con Cristo non avrebbe più potuto essere utile ai fratelli. Paolo conta su Cristo per i bisogni della Chiesa, e non appena si rende conto che il “rimanere nel corpo era più necessario” per loro, dice: “Ho questa ferma fiducia: che rimarrò e starò con tutti voi per il vostro progresso e per la vostra gioia nella fede” (v. 25).

Che il Signore sia l’unico vero scopo della nostra vita; che Egli ci aiuti a non distoglierci da Lui, affinché possiamo dire come Paolo: “Una cosa faccio… corro verso la meta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù” (3:13-14). Se fosse così per tutti noi, che testimone gloriosa e gioiosa sarebbe la Chiesa di Dio!

Se oggi incontriamo meno opposizioni di Paolo, non è forse anche perché lavoriamo con minore energia?

“Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo, per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio. Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in Lui, ma anche di soffrire per lui, sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.” (v. 27-30).

Paolo desidera che la condotta dei Filippesi sia degna dei Vangelo di Cristo, che sonda a fondo ciascuno di noi, perché in noi c’è ancora la “carne”. Se non ci fosse la grazia di Dio, la carne potrebbe spingerci a comportamenti di livello inferiore non solo a quello degno di un credente ma a quello di una persona “per bene” del mondo.

Perché i credenti di Filippi possano camminare degnamente, l’apostolo li esorta a mantenersi saldi contro ogni avversario; per riuscirci, essi dovevano rimanere in uno stesso spirito, in modo da combattere insieme d’uno stesso animo, per la fede del vangelo, rendendo così vani gli sforzi di Satana volti a privare i santi della verità.

Paolo vuole anche evidenziare che il combattimento è la condizione naturale del cristiano. “Sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo” (v. 30). I Filippesi in questo caso stavano davvero attraversando una prova, ma l’intera vita cristiana è una lotta contro Satana. Questo non significa che dobbiamo pensarci continuamente; l’importante è aver rivestito la completa armatura di Dio. Tuttavia, se non abbiamo preso coscienza della vittoria di Cristo, corriamo il rischio di essere spaventati. Anche se conosciamo poco, o solo in piccola misura, questa lotta, è pur vero che la conosciamo.

Quando resistiamo a Satana, dobbiamo pensare che Cristo lo ha vinto completamente. Per questo, nella Lettera di Giacomo, leggiamo: “Resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi” (Giacomo 4:7). Se camminiamo con Cristo, anche se la potenza di Satana e del mondo può sembrare più grande della nostra, in realtà non è così. Perché spaventarsi? Pensiamo a Gerico: cosa importava se la città era grande e fortificata, se poi Dio avrebbe fatto crollare le sue mura?

Le difficoltà che incontriamo non sono superiori a quelle che poteva incontrare Pietro camminando sulle acque. Pietro camminava sull’acqua per andare verso Gesù, ma quando si è reso conto che il vento era forte ha avuto paura. Anche se il mare fosse stato calmo come uno stagno non avrebbe certo potuto camminarci sopra. L’errore di Pietro è stato di guardare intorno a sé, al vento e al mare agitato.

Dobbiamo ricordarci sempre che Cristo ha “legato” Satana, e così “gli saccheggerà la casa” (Marco 3:27). Egli può permettere che Satana mandi qualcuno in prigione per essere provato, ma Satana non guadagna nulla: di fronte ad una persona che cammina con Cristo non ha alcun potere. E’ possibile che soffriamo, ma si tratta di una “grazia” che ci viene “concessa” da parte di Dio. Mosè ha potuto “stimare” non soltanto gli “oltraggi”, ma “gli oltraggi di Cristo  ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto” (Ebrei 11: 24-26). Le acque potranno essere agitate o calme, e verremo sempre sommersi, se Cristo non è con noi; ma vi cammineremo sopra se Egli è con noi.

Capitolo 2

Questo capitolo presenta l’umiltà nella vita cristiana, così come il capitolo seguente ne descrive l’energia. La grazia che ci associa a Cristo è meravigliosa, e noi siamo chiamati ad avere lo stesso sentimento che è stato in Lui. Si tratta di seguire il modello di vita che Cristo ci ha lasciato e di avere un cammino caratterizzato da quell’umiltà che si mostra nella stima degli altri, nel vivo interesse che abbiamo per loro, e nella dolcezza e nella grazia in ogni nostra relazione.

L’apostolo Paolo dice che avrebbe tenuto presso di sé Timoteo e che poi lo avrebbe mandato da loro non appena avesse visto come la sua situazione sarebbe evoluta; e fa questo proprio perché contava sul loro reale e sincero interesse per tutto ciò che lo riguardava. Non aveva invece voluto trattenere presso di sé Epafrodito, ma l’aveva mandato, perché era stato malato e i Filippesi, avendolo saputo, si erano molto preoccupati per lui. Paolo lo aveva voluto mandare proprio perché i Filippesi, rivedendolo, si rallegrassero e lui stesso fosse incoraggiato nel ricevere loro notizie.

Anche in queste piccole cose vediamo da parte di Paolo la considerazione, l’attenzione, l’interesse profondo e perseverante per gli altri, doti così rare nel mondo e in qualche caso anche fra quelli che si dichiarano cristiani.

“Se dunque v’è qualche consolazione in Cristo, se vi è qualche conforto d’amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri.” (v. 1-4)

La preoccupazione dei Filippesi per Paolo era evidente, ma nonostante ciò essi non erano perfettamente uniti in Cristo. Paolo però non vuole rimproverarli, considerando il grande amore che dimostravano nei suoi confronti. Per questo affronta l’argomento dicendo che, se vogliono renderlo completamente felice, devono avere un unico pensiero; così avrebbero reso perfetta la sua gioia. Era un’esortazione importante, sebbene trasmessa nel modo più delicato possibile.

In seguito, troviamo il principio sul quale si fonda l’ “unico sentire”: “ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso” (v. 3). Da un certo punto di vista la raccomandazione appare come impossibile da realizzare. Ma quando c’è una vera umiltà e si cammina con Cristo, trovando tutta la gioia in Lui, ci si riconosce come creature povere e deboli, che devono solo fare affidamento sulla Sua grazia.

Tutte le grazie e le virtù le vediamo nel Signore; e più ce ne appropriamo, più ci rendiamo conto di non essere altro che degli strumenti imperfetti, nei quali la nostra carne è spesso un ostacolo che impedisce alla luce di brillare. Paolo, quando guarda un suo fratello, vede tutta la grazia che Cristo ha sparso anche su di lui, e apprezza e cerca di imitare quelle caratteristiche che in lui riflettono Cristo. Così dovremmo fare noi.

Paolo poteva dire ai Corinzi, anche se vivevano in modo non sempre corretto: “Io ringrazio sempre il mio Dio per voi, per la grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù” (1 Corinzi 1:4), riconoscendo prima di tutto quello che c’era di positivo. Nel suo amore, egli evidenziava tutto il bene che c’era in loro e così portava i loro cuori a prestare attenzione alle sue riprensioni. Se amo e sono umile, non vedo subito il male che può esserci nel cuore del mio fratello, ma vedo prima di tutto il male che c’è nel mio cuore.

Nel mio fratello vedo la bontà, la grazia, il coraggio, la fedeltà; e se ho da fargli notare la “pagliuzza” che c’è nel suo occhio, devo prima togliere la “trave” che c’è nel mio (Matteo 7:3). Ogni spirito di parte, ogni vanagloria viene meno, e non potrebbe essere altrimenti se il cuore è occupato di Cristo. Il volto di Mosè, quando scese dal Sinai per la seconda volta, era diventato splendente; e questo non grazie al suo valore o a qualche sua particolare caratteristica, ma perché aveva avuto un contatto con la gloria di Dio.

Se devo essere occupato di me stesso è solo per giudicare le cose che non vanno, senza mai dimenticare questo principio: “cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri” (v. 4).

Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.” (v. 5-11)

Il cammino che ha portato Cristo dalla gloria del cielo all’abbassamento della croce è posto ora davanti a noi. “Essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente”; Egli non si limitò a sopportare tutto pazientemente, ma “svuotò se stesso, prendendo forma di servo”. Lasciò la “forma di Dio” e fu trovato nell’esteriore come un uomo; e come uomo abbassò se stesso facendosi ubbidiente fino alla morte. Senza dubbio, anche quando venne in forma di uomo, tutta la gloria morale brillava in Lui, in parole, in opere, in spirito e in tutte le sue manifestazioni. “Voi conoscete la grazia del nostro Signore Gesù Cristo il quale, essendo ricco, si è fatto povero per voi, affinché, mediante la sua povertà, voi poteste diventar ricchi” (2 Corinzi 8:9).

Ci sono due aspetti dell’umiliazione del Signore: il primo è che, essendo in forma di Dio, “svuotò” se stesso, si “annullò”; il secondo è che, essendo stato trovato nell’esteriore come un uomo, abbassò se stesso “facendosi ubbidiente” non solo durante la sua vita ma fino alla morte, rinunciando così a se stesso. E non solo accettò di morire, ma di morire in croce, supplizio riservato agli schiavi e ai malfattori.

Dunque, dalla “forma di Dio” è sceso fino alla morte percorrendo un cammino di ubbidienza e di umiliazione, completamente opposto a quello del primo Adamo. Adamo, infatti, non era in forma di Dio, ma si è innalzato con l’illusione di diventare come Dio, e si è fatto disubbidiente fino alla morte! Dio ha detto: “Chi si innalza sarà abbassato”, e Adamo fu abbassato perché si era innalzato. Cristo, al contrario, si è abbassato ed ha aspettato che fosse Dio ad innalzarlo.

Quando l’uomo fa la propria volontà e non tiene conto della Parola di Dio, come ha fatto Adamo, Dio è disonorato e la sua gloria calpestata. Ma ecco che Cristo viene, e Dio riconosce che in Lui la Sua gloria è pienamente manifestata e rivendicata in tutta la sua essenza; poiché, per mezzo della croce, Dio è stato glorificato in tutto ciò che Egli è, la sua maestà salvaguardata, la sua verità messa in evidenza, la sua giustizia manifestata, il suo amore perfetto reso evidente. L’espiazione dei nostri peccati è solo una parte della gloria della croce; la croce è il fondamento grazie al quale Dio ha risolto il problema del peccato, portando a compimento i suoi consigli eterni.

Cristo ha preso “forma di servo (lett. schiavo)” e ha adempiuto i suoi anni di servizio sulla terra, raffigurato da quel servo ebreo del capitolo 21 del libro dell’Esodo che, pur potendo andarsene libero, ha voluto rimanere servo per amore del suo padrone e della sua famiglia, e si è fatto “forare l’orecchio” sullo stipite della porta.

Nel giardino di Getsemani, il Signore avrebbe potuto ottenere il soccorso di più di dodici legioni di angeli, ma non ha voluto avvalersene (Matteo 26:53).

Quando, nel capitolo 13 del Vangelo di Giovanni, Egli stava per passare da questo mondo al Padre ed entrare nella gloria, mantenne la sua posizione di servitore: si alzò da tavola e, come uno alla pari dei suoi discepoli, come un loro compagno, si mise a lavare loro i piedi. E questo, Gesù lo fa ancora adesso per noi. Egli vuole che abbiamo una parte con Lui, che nessuna contaminazione del mondo ostacoli la nostra comunione con Dio.

L’egoismo desidera esser servito, ma l’amore ama servire. L’amore di Cristo lo vediamo anche nel servizio che ora compie per noi nel cielo, quello di sommo sacerdote e di avvocato.

È anche per questo che Dio lo ha sovranamente innalzato. Dio ha posto tutte le cose sotto i suoi piedi, Egli è l’erede di tutte le cose e associa a sé i credenti quali suoi coeredi. Dio vuole che nel nome di Gesù si inginocchino tutti gli esseri celesti, terrestri ed infernali; anche questi ultimi saranno obbligati a riconoscere che Gesù Cristo ha diritto alla gloria alla quale Dio lo ha elevato.

La Lettera ai Colossesi (1:14-20) ce lo presenta come Creatore, come Figlio di Dio, come Figlio dell’uomo e come Redentore. Per mezzo di Lui “tutte le cose” saranno “riconciliate” con Dio; non giustificate, perché le “cose” non hanno peccato, ma è sotto il titolo di Redentore che Cristo porterà la creazione ad una felicità esente da contaminazione.

I pensieri di Dio si compiranno completamente, ma noi conosciamo già ora la redenzione: “Egli vi ha riconciliati… per mezzo della sua morte” (Colossesi 1:22); anche se tutti i risultati non sono ancora evidenti, la redenzione è già compiuta, e noi siamo “le primizie delle sue creature” (Giacomo 1:18).

Dobbiamo dunque avere lo stesso sentimento, lo stesso pensiero che è stato in Cristo. Com’è espresso nella lettera agli Ebrei, Dio gli aveva “preparato un corpo” (10:5), ma in Lui abitava tutta “la pienezza della deità”. Ora è nel cielo, innalzato alla destra di Dio, e noi siamo lasciati sulla terra per vivere come Lui è vissuto.

Il primo uomo, Adamo, e il “secondo uomo”, Cristo (1 Corinzi 15:47), hanno dato inizio ciascuno ad una stirpe. Adamo, dopo aver peccato, è diventato capostipite di una discendenza di peccatori; parallelamente, Cristo è diventato capostipite di una nuova discendenza dopo aver compiuto la redenzione. Il primo uomo stava nel paradiso ed è stato scacciato; Cristo è entrato nel mondo corrotto dal peccato e, dopo la sua opera di redenzione, è tornato in cielo. L’uno ha colmato la misura dei propri peccati rovinando tutta la sua discendenza; l’Altro ha glorificato Dio, e ha riversato su quelli che credono l’abbondanza della grazia di Dio (Romani 5:15).

Il problema dell’uomo è l’orgoglio, e il credente deve imparare a tenere a freno la propria carne. Mosè uccise l’Egiziano per un residuo di orgoglio dovuto alla posizione che aveva alla corte del faraone. Le armi del mondo non sono fatte per sostenere le battaglie di Dio. Il nostro compito, in tutti i dettagli del nostro cammino, è di aspettare umilmente che sia Dio a istruirci e a farci capire qual è la posizione che dobbiamo prendere, come l’uomo della parabola che si siede in fondo alla tavola e al quale il Signore dice: “Amico, vieni più avanti” (Luca 14:10). Se siamo in grado di essere contenti anche dell’ultimo posto, perché è quello che Lui ci ha assegnato, ci risparmieremo rimproveri e amarezze.

“Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quand’ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore; infatti è Dio che produce in voi il volere e l’agire, secondo il suo disegno benevolo” (v. 12, 13)

Pur privati del lavoro di Paolo in loro favore, i Filippesi non erano stati privati di Dio, che continuava invece a operare in loro favore. Paolo dice: ora che sono assente, adoperatevi per la vostra salvezza. Egli si era adoperato per loro; aveva avuto a che fare con l’opposizione di Satana nelle sue cure apostoliche per loro, e il suo spirito di saggezza li aveva guidati nel cammino. Ora dice: la mia assenza non altera la potenza attuale della grazia; Dio stesso opera in voi. I Filippesi dovevano ora affrontare faccia a faccia il nemico, ma Paolo questa volta non era in prima linea a condurli; che importa, dice l’apostolo, “adoperatevi” voi “al compimento della vostra salvezza”.

La “salvezza” di cui Paolo parla qui non si riferisce alla giustificazione o alla vita eterna. Nella lettera ai Filippesi la salvezza è sempre vista come la fine della corsa del fedele, il suo risultato finale in gloria.

Quale fu l’effetto per Israele della “redenzione” dalla schiavitù dell’Egitto? Essi non entrarono direttamente in Canaan, ma in un cammino che attraversava il deserto. Dove avrebbero preso il cibo? E cosa fare coi nemici che avrebbero creato ostacoli? Come leggiamo nel cap. 1 del Deuteronomio, c’erano solo undici giorni di viaggio dall’Egitto fino a Canaan, ma i figli d’Israele, a motivo della loro incredulità, girovagarono per quarant’anni prima di arrivare alle pianure di Moab. Un israelita nel deserto sapeva benissimo di non essere più in Egitto. Era possibile che un israelita una mattina non raccogliesse la manna, e per quel giorno non aveva niente da mangiare; ma non per questo pensava di essere ancora in Egitto; allo stesso modo un credente non dubita di essere riscattato.

Come cristiano, io devo glorificare il nome di Dio, anche se il diavolo cerca di distogliermi o fermarmi. Per questo devono esserci in me “timore e tremore”. Satana ci sbarra la strada anche oggi. Dopo che abbiamo ascoltato la Parola di Dio, il diavolo cerca di strapparci il frutto che possiamo averne ricavato, e farà di tutto per risvegliare il nostro orgoglio e impedirci di manifestare l’umiltà e la mansuetudine di Cristo. Pietro dice: “Se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l’opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno” (1 Pietro 1:17).

Noi siamo in lotta con Satana, con il mondo e con la nostra carne, ma siamo in perfetta pace con Dio. La salvezza, al cui compimento dobbiamo adoperarci, è qualcosa di completamente diverso dalla relazione di figli che abbiamo con Dio Padre grazie alla fede nell’opera di Cristo. Dal momento che abbiamo creduto, la nostra relazione col Padre è stabilita perfettamente e per sempre; non abbiamo da fare nient’altro per ottenerla né nulla per mantenerla; dobbiamo solo realizzarla vincendo il peccato e lasciando che lo Spirito Santo operi in noi. Non è la liberazione dalla condanna del peccato che dobbiamo compiere, ma la liberazione dalla potenza del peccato nella nostra vita di tutti i giorni; e questo avviene in modo naturale se siamo ripieni di Cristo. “Chiunque ha questa speranza in lui, si purifica com’Egli è puro” (1 Giovanni 3:3). Quando Cristo verrà a prenderci, saremo liberati per sempre dalla presenza del peccato.

La vita del credente dev’essere caratterizzata da uno spirito di grazia, di devozione e di considerazione per gli altri, come vediamo in tutto il capitolo. Con lo sguardo fisso sul Signore (Ebrei 12:2), e nella misura in cui abbiamo il suo spirito di umiltà, saremo al riparo dalle seduzione del mondo e dal potere del nemico. Allora potremo essere una testimonianza per Cristo davanti al mondo.

 “Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute, perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato.” (v. 14-16).

Dobbiamo fare “ogni cosa senza mormorii e senza dispute”. Il Signore infatti, pur soffrendo nel vedere le sofferenze degli uomini e a causa della loro malvagità, non si è lasciato sfuggire dalle sue labbra nessun mormorio, perché nessuna ribellione c’era nei suoi pensieri. È stato detto giustamente: “Dio permette un gemito, ma mai un mormorio”. Inoltre, siamo messi in guardia contro i ragionamenti di chi non conosce il Signore e che vorrebbero farci mettere in questione le vie di grazia di Dio verso di noi. Per quanto fosse doloroso il suo cammino, il Signore non sollevò nessuna obiezione contro le vie di Dio nei suoi riguardi; anzi, quando dovette constatare che il suo ministero di grazia non aveva toccato il cuore degli uomini, e fu accusato di agire per la potenza del diavolo, ha detto: “Sì, Padre, perché così ti è piaciuto” (Matteo 11:26).

È bene per noi, quando riceviamo qualche insulto o incontriamo una prova, camminare sulle sue orme e sottometterci senza ragionamenti umani a ciò che Dio permette, con lo spirito d’umiltà del Signore. Agendo così, saremo “irreprensibili e integri” davanti a Dio, e “senza biasimo” davanti agli uomini.

Queste parole esprimono ancora qualcosa della perfezione di Cristo, poiché Egli era “santo, innocente, immacolato, separato dai peccatori” (Ebrei 7:26). Seguendo le sue orme, saremo dei “figli di Dio senza biasimo”. Del Signore Gesù era stato detto profeticamente “la vergogna (lett.: l’obbrobrio) mi copre la faccia” (Salmo 69:7), ma nessuno ha potuto fargli mai un solo rimprovero fondato.

Noi abbiamo così il privilegio di portare “l’obbrobrio di Cristo” (Ebrei 11:26), ma badiamo bene al nostro modo di agire e di parlare, e a tutto ciò che non si addice a dei figli di Dio, in mezzo a persone che, coi loro costumi “storti e perversi”, dimostrano di non essere in relazione con Dio.

Mosè, a suo tempo, ha testimoniato che Dio è “fedele e senza iniquità”, che è “giusto e retto”, ma ha subito aggiunto che si trovava in mezzo a un popolo che si era corrotto nei confronti di Dio: “Hanno agito perversamente contro di lui… questi corrotti, razza storta e perversa” (Deuteronomio 32:4, 5).

Malgrado la luce portata dal Vangelo, il mondo non è cambiato. È sempre un mondo di esseri umani “i cui sentieri sono contorti” e che “percorrono vie tortuose” (Proverbi 2:15). In questo mondo noi siamo lasciati per splendere “come astri… tenendo alta la parola di vita”.

Gesù è stato la “luce del mondo” e ha precisato: “Le parole che vi ho dette sono spirito e vita” (Giovanni 6:63). La luce emana da ciò che siamo, più che da ciò che diciamo. Presentare la “parola di vita” si riferisce alla testimonianza resa proclamando la verità della Parola di Dio, ma tutto il nostro agire deve riflettere qualcosa delle perfezioni di Cristo, di modo che le nostre parole annuncino la strada che porta alla vita.

Come risultato del ministero di Paolo, i credenti erano portati a vedere l’umiltà di Cristo e a diventare così suoi testimoni; perciò l’apostolo poteva rallegrarsi di non aver “corso invano, né invano faticato”. Con queste espressioni sembra che Paolo distingua fra “vita” e “testimonianza”, perché “correre” ci fa pensare al suo modo di vivere, e “faticare” al suo ministero.

Se vivremo realizzando queste esortazioni, rallegreremo il cuore di Dio, glorificheremo Cristo, aiuteremo i fratelli in fede e saremo in benedizione al mondo; e nel giorno di Cristo riceveremo la ricompensa. Se tutti i credenti si comportassero così, non ci sarebbero discordie; saremmo un solo gregge che segue un solo Pastore.

“Ora spero nel Signore Gesù di mandarvi presto Timoteo per essere io pure incoraggiato nel ricevere vostre notizie. Infatti non ho nessuno di animo pari al suo che abbia sinceramente a cuore quel che vi concerne. Poiché tutti cercano i loro propri interessi, e non quelli di Cristo Gesù. Voi sapete che egli ha dato buona prova di sé, perché ha servito con me la causa del vangelo, come un figlio con il proprio padre. Spero dunque di mandarvelo appena avrò visto come andrà a finire la mia situazione; ma ho fiducia nel Signore di poter venire presto anch’io.” (v. 17-24)

Nel resto di questo capitolo ci sono posti davanti due esempi di credenti di quell’epoca che, in misura notevole, manifestarono l’umiltà di Cristo dimenticando se stessi e servendo gli altri; essi brillarono veramente come degli astri in questo mondo tenendo alta la parola di vita.

Il primo di questi è Timoteo. Paolo ne parla come di uno che è “di animo pari al suo”; in lui Paolo aveva trovato un uomo che aveva “sinceramente a cuore” i fratelli in fede di Filippi e che serviva Dio insieme a lui, presentando il Vangelo. Poiché Timoteo realizzava l’umiltà di Cristo, Paolo poteva servirsi di lui per prendersi cura dei credenti, e sperava di mandarlo alla chiesa di Filippi appena avesse conosciuto l’esito del processo che lo attendeva.

La Chiesa, già in quegli anni, nei primi decenni della sua esistenza, aveva manifestato segni di declino spirituale: “Tutti cercano i loro propri interessi” (v. 21), dice l’apostolo. Com’è possibile? E in seguito la situazione si deteriorò sempre di più. Per questo Paolo esorta i santi di Filippi a proseguire nel loro cammino di devozione, di ubbidienza e di servizio, nonostante la situazione generale.

Anche noi, non scoraggiamoci ma rallegriamoci per ciò che è fatto di buono; e se vediamo che tutti cercano i loro propri interessi sentiamoci spinti ad assomigliare sempre più a Cristo. È una consolazione e un incoraggiamento sapere che, anche se le membra possono fallire, il Capo, la Testa, non fallisce mai.  Non esiste situazione nella quale Cristo non sia sufficiente in pienezza di potenza e di grazia. Abbiamo bisogno soltanto di metterci umilmente ai suoi piedi. Se siamo con Dio nella luce, riconosciamo la nostra pochezza; e se tutti cercano i loro propri interessi, la Sua grazia e tutto ciò che Egli è risplendono ancora di più. Ci aiuti il Signore di guardare a Lui come a Colui che è la nostra vita e la nostra forza.

“Però ho ritenuto necessario mandarvi Epafròdito, mio fratello, mio compagno di lavoro e di lotta, inviatomi da voi per provvedere alle mie necessità; egli aveva un gran desiderio di vedervi tutti ed era preoccupato perché avevate saputo della sua malattia. È stato ammalato, infatti, e ben vicino alla morte; ma Dio ha avuto pietà di lui; e non soltanto di lui, ma anche di me, perché io non avessi dolore su dolore. Perciò ve l’ho mandato con gran premura, affinché vedendolo di nuovo vi rallegriate, e anch’io sia meno afflitto. Accoglietelo dunque nel Signore con ogni gioia e abbiate stima di uomini simili; perché è per l’opera di Cristo che egli è stato molto vicino alla morte, avendo rischiato la propria vita per supplire ai servizi che non potevate rendermi voi stessi.” (v. 25-30)

Nel secondo servitore citato da Paolo, Epafròdito, abbiamo un altro esempio di quell’umiltà che dimentica se stessa nell’ardente desiderio di fare del bene agli altri. Epafròdito non era soltanto un “fratello” in Cristo, ma un “compagno di lavoro” nell’opera del Signore e un “compagno di lotta” nel combattimento per la verità, un inviato dei fratelli e un servitore per i bisogni dell’apostolo. Nel suo amore disinteressato, egli pensava ai credenti con vivo affetto, e temeva che i Filippesi potessero essere preoccupati per la sua malattia che lo aveva portato vicino alla morte.

Paolo, senza pensare a se stesso né al fatto che un amico così prezioso gli sarebbe molto mancato, manda quel servitore ai Filippesi, per la loro gioia. Era con piena gioia e stima che potevano riceverlo nel Signore. Epafròdito era notevole per la sua fedeltà nell’opera di Cristo e, in piena umiltà, era pronto, seguendo l’esempio di Cristo, ad affrontare la morte nel suo servizio per gli altri.

Incoraggiati da questi esempi, fissiamo lo sguardo su Cristo, il nostro divino modello, e impegniamoci a camminare secondo il suo pensiero. Potremo così essere dei suoi veri ed efficaci testimoni, e attraverseremo questo mondo con l’approvazione di Dio.

Capitolo 3

Esempio di Paolo nella corsa cristiana

Nel cap. 2 il Signore Gesù è stato presentato come Colui che ha lasciato la gloria celeste per prendere la forma di schiavo ed abbassarsi sempre più e che in seguito è stato sovranamente innalzato; questo è il cammino che anche noi siamo chiamati a seguire, se vogliamo avere il medesimo pensiero di Cristo.

Paolo, terminata la descrizione dello stato nel quale le nostre anime dovrebbero trovarsi, guarda avanti verso la gloria; Colui che è davanti a noi, cioè Cristo, ci preserverà da ciò che può fermare la nostra corsa. Non si tratta qui solo della grazia, della devozione, della considerazione per gli altri, come nel capitolo precedente; si tratta dell’energia della vita divina che tende con sforzo e impegno verso la meta. Talvolta, pur agendo con grazia e umiltà, ci manca l’energia; altre volte, invece, abbiamo dell’energia, ma manchiamo di dolcezza e di interesse per gli altri. Nelle cose di Dio, però, non si può avere qualcosa sì e qualcosa no: bisogna avere tutto, altrimenti c’è una mancanza di equilibrio. Se in noi Cristo è tutto, l’anima è liberata dall’egoismo e la nuova vita si manifesta nel discernimento per individuare il male e nella forza per respingerlo. Il Signore è davanti a noi e non possiamo abbandonarlo per fare piacere alla carne.

Del resto, fratelli miei, rallegratevi nel Signore. Io non mi stanco di scrivere le stesse cose, e ciò è garanzia di sicurezza per voi.” (v. 1)

Questo è il punto di partenza: “Rallegratevi sempre nel Signore – dirà più avanti –. Ripeto: rallegratevi” (4:4). Se non mi occupo più di me stesso, avrò sempre dei motivi per rallegrarmi, e questi motivi sono “nel Signore”. Come sappiamo, nulla ci può separare dal suo amore, ma quando gioiamo per tutte le cose che Dio ci dona, siamo esposti al pericolo di riposarci sulle benedizioni e di perdere il sentimento di dipendenza da Colui che ci benedice. Davide scrive: “Quanto a me, nella mia prosperità dicevo: Non sarò mai smosso. O SIGNORE, per la tua benevolenza avevi reso forte il mio monte; tu nascondesti il tuo volto e io rimasi smarrito” (Salmo 30:6, 7). Quando il “suo monte” è sparito, si è reso conto di essersi appoggiato sul “monte” e non sul Signore. Quando dice: “Il SIGNORE è il mio Pastore” (Salmo 23:1), non era scosso perché si riposava sull’Eterno. Quando il cuore si libera dall’io, allora trova riposo in Lui. Il cuore, però, è talmente ingannevole che il credente che gioisce grandemente può rischiare di cadere se non rimane in una posizione di dipendenza. Ma Dio, in seguito, lo riabiliterà, come troviamo nel Salmo: “Egli mi ristora l’anima” (Salmo 23:3).

Paolo stava per subire una condanna e forse era in gioco la sua stessa vita. Era stato in prigione per quattro anni di cui due anni incatenato a dei soldati pagani. Tuttavia, dice di aver imparato ad essere contento del suo stato, che si tratti di essere abbassato o di essere nell’abbondanza, di essere saziato o di avere fame (4:11-13). Sofferenze e afflizioni, gioie e consolazioni, aveva provato tutto, e non era scoraggiato come avrebbe potuto essere un uomo costretto a vivere con gente grossolana e spesso brutale. Sempre legato con una catena.

E non è tutto, perché avrebbe potuto dire che, essendo in prigione, non gli era possibile proseguire l’opera del Signore; invece, è convinto che tutto tornerà a suo vantaggio. Come già abbiamo visto, anche se Cristo era predicato con spirito di contesa, egli dice: “In questo mi rallegro e mi rallegrerò ancora”.

Paolo era come un viaggiatore che attraversava il deserto ma che, durante il suo cammino, guardava dritto al Signore e si rallegrava in Lui. Si rallegrava nel suo servizio, sia quando poteva predicare in pubblico, sia predicando, come a Roma, a tutti coloro che gli facevano visita. Paolo aveva sperato di potersi recare in Spagna dopo aver goduto per un po’ di tempo della compagnia dei santi; ma qui era in prigione, e nonostante questo si rallegrava.

Cristo si frappone fra noi e le tribolazioni; solo l’incredulità è un ostacolo. Per accettare che “tutte le cose concorrono al bene di quelli che amano Dio” (Romani 8:28) dobbiamo contare sul Suo amore, versato nei nostri cuori. Ecco il grande punto di partenza: “Del resto, fratelli miei, rallegratevi nel Signore.”

Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno mutilare; perché i veri circoncisi siamo noi, che offriamo il nostro culto per mezzo dello Spirito di Dio, che ci vantiamo in Cristo Gesù, e non mettiamo la nostra fiducia nella carne;” (v. 2)

Tutto diventa semplice per chi ha lo sguardo rivolto a Cristo! La religione dei Giudei era una religione fatta di regole, di opere, di ordinamenti e tradizioni, e c’erano dei cristiani che volevano mettere i credenti in Cristo sotto la schiavitù della legge, pretendendo l’osservanza di riti e, soprattutto, la circoncisione. L’apostolo Paolo giudica queste cose dicendo: “Guardatevi dai cani”, dove per “cani” intende uomini impuri e con malvagie motivazioni.

Un Giudeo poteva essere umile e sottomesso, e compiere tutte le prescrizioni della sua religione pur non avendo Dio nel cuore. Ma Dio dice: “Figlio mio, dammi il tuo cuore” (Proverbi 23:26). Cosa se ne faceva delle offerte se il cuore non era per Lui? (Salmo 50:10, 12).

Caino, lavorando la terra, faceva forse più fatica di quanta ne facesse Abele per allevare gli agnelli che offriva; tuttavia, Caino non si era mai posto con la coscienza davanti a Dio, ignorava la Sua santità e non si era mai reso conto della rovina causata dal peccato. Abele offriva degli agnelli e Dio li gradiva. Quando comprendiamo pienamente l’opera dell’espiazione e della nostra accettazione in Cristo, siamo simili ad Abele. Dio non può respingerci quando gli presentiamo Cristo; noi siamo ricevuti esclusivamente per mezzo di Lui che è, per così dire, il nostro “passaporto” per il cielo.

Il modo col quale Paolo tratta questo argomento è degno di nota. Non parla di una coscienza appesantita dalle colpe, ma dell’inutilità delle regole. Per questo allude a quelli della circoncisione con l’espressione dispregiativa “quelli che si fanno mutilare”. La vera regola è che siano i cuori ad essere circoncisi; come diceva il profeta Geremia: “Circoncidetevi per il SIGNORE, circoncidete i vostri cuori” (4:4).

“I veri circoncisi siamo noi, che offriamo il nostro culto per mezzo dello Spirito di Dio”. La carne ha una religione di forme, e tende ad osservare delle regole che la soddisfino. La carne si lascia “imporre dei precetti, quali: non toccare, non assaggiare, non maneggiare… secondo i comandamenti e le dottrine degli uomini”; ma si tratta di cose che hanno “una reputazione di sapienza per quel tanto che è in esse di culto volontario, di umiltà e di austerità nel trattare il corpo, ma non hanno alcun valore”  (Colossesi 2:21, 23). La carne va giudicata e tenuta per morta.

Senza dubbio, questi avvertimenti di Paolo sono ancora attuali. L’insegnamento dei “giudaizzanti”, che era così pericoloso per la chiesa delle origini, col tempo è dilagato nella cristianità e ha prodotto una mescolanza corrotta di giudaismo e di cristianesimo; le pratiche formali e i riti hanno preso il posto del culto mediante lo Spirito, e le opere dell’uomo, ritenute meritorie, hanno messo in ombra l’opera del Signore. Questa religione piace all’uomo naturale in quanto non pone l’accento sul suo stato di peccato e sulla  necessità della “nuova nascita” e della fede personale in Cristo. La cristianità è diventata un’imitazione del giudaismo, con “l’apparenza della pietà, mentre ne hanno rinnegato la potenza” (2 Timoteo 3:5). Come i credenti ebrei, anche noi che abbiamo creduto in Cristo siamo esortati a uscire da questo ambiente e ad andare “a Lui portando il suo obbrobrio” (Ebrei 13:13).

benché io avessi motivo di confidarmi anche nella carne. Se qualcun altro pensa di aver motivo di confidarsi nella carne, io posso farlo molto di più; io, circonciso l’ottavo giorno, della razza d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio di Ebrei; quanto alla legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che è nella legge, irreprensibile.” (v. 4-6)

Se potessimo dire di noi “quanto alla giustizia che è nella legge, irreprensibile”, saremmo persone molto religiose e la gloria andrebbe a noi, e non certo a Dio o a Cristo. Ora, Paolo sa che questo tipo di giustizia non ha alcun valore in quanto accredita l’io, ma non è la giustizia di Cristo. Essa può costare molto ed essere perseguita con fatica e privazioni; può consistere in azioni che arrivano addirittura a punire se stessi, ma è totalmente senza valore. L’ubbidienza, anche la più stretta, alle prescrizioni della legge di Mosè, se non è accompagnata dalla fede non può salvare nessuno perché Dio dice: “Il mio giusto per la sua fede vivrà” (Abacuc 2:4). Il modo con cui Paolo affronta questo soggetto è dunque degno di nota. In questa circostanza egli non parla della carne che commette peccati, ma che agisce pensando di ottenere la giustizia che viene dall’osservanza della legge.

Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in Lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede.” (v. 7-9)

Paolo era ebreo d’Ebrei, irreprensibile, e viveva da fariseo secondo la più stretta setta del giudaismo; umanamente, tutto ciò era per lui un guadagno. Ma dice che quelle cose non erano altro che tanta spazzatura di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo! Non si trattava di peccati, ma di comportamenti buoni, rispettosi delle prescrizioni di Dio; il problema era che quel genere di giustizia non onorava Dio, ma il suo “io”; era l’io peccatore “riparato” e “lucidato”. Chi vorrebbe indossare degli abiti sporchi, com’è definita la giustizia umana in Isaia 64:6,  quando potrebbe avere Cristo come propria giustizia? Le concupiscenze sono detestabili, come lo è la “carne” religiosa con le sue pretese.

Paolo aveva compreso così chiaramente l’eccellenza di Cristo e di ciò che Cristo è agli occhi di Dio, che dice: Non mi interessa questa miserabile giustizia che proviene dalla legge, né voglio aggiungerla a quella che proviene da Dio; Cristo solo è tutto.

Il desiderio di Paolo è quello di sbarazzarsi dell’io e mettere Cristo al suo posto; e ce lo espone dettagliatamente. Notiamo che non dice: Alla mia conversione ritenevo ogni cosa un danno. Sappiamo che quando ci si converte, Cristo è tutto; il mondo, con i suoi inganni e le sue vanità, viene messo completamente da parte e “le cose che non si vedono” riempiono il cuore. Però, col passare del tempo, il credente, anche se compie i suoi doveri e continua ad amare il Signore, potrebbe perdere la consapevolezza che ogni altra cosa è “danno” e “spazzatura”. L’apostolo Paolo invece usa il tempo presente, “io ritengo”. E’ una gran cosa potersi esprimere in questo modo; Cristo dovrebbe sempre occupare nei nostri cuori il posto che aveva quando la salvezza è stata rivelata alle nostre anime.

Vorrei anche aggiungere che una persona potrebbe vedere in Cristo un esempio e vivere in modo umanamente irreprensibile, senza però averlo ricevuto nel cuore. Con una tale persona il vero credente non trova rispondenza quando si parla di Cristo.

Paolo dice ora qual è la potenza che gli permette di considerare ogni cosa come un danno. Egli vuole “guadagnare” Cristo, farlo entrare sempre più pienamente nei suoi affetti, nei suoi pensieri, nella sua vita; abbandonare tutto in vista di questo obiettivo potrebbe sembrare un enorme sacrificio, ma è tutt’altro.

Io so di essere esposto a molteplici tentazioni che tormentano e travagliano la mia anima, ma la maggior parte di queste non hanno presa su di me se “l’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù” avesse il posto giusto nel mio cuore. Questo tipo di conflitto cesserebbe e smetterei di occuparmi di me stesso, ma sarei impegnato a strappare tante anime agli inganni di Satana.

Quando diamo a Cristo il primo posto nel nostro cuore, ogni altra cosa perde di valore; se l’occhio è puro tutto il corpo è illuminato (Matteo 6:22). Paolo stimava Cristo talmente prezioso da abbandonare tutto il resto, e conservava questo apprezzamento nel suo cuore tanto da “correre” per “guadagnare” Lui. Non lo aveva ancora “afferrato”, ma era stato afferrato da Lui, e correva verso la méta con lo sguardo fisso sulla sua Persona.

Paolo ha quindi due obiettivi (v. 8-9): innanzitutto “guadagnare Cristo” e, in secondo luogo, ottenere  una “giustizia” non sua ma quella di Dio. Non è possibile possedere contemporaneamente questi due tipi di giustizia. Quando si conosce, mediante la fede, la giustizia che Dio dà per grazia, ci si rende conto che la propria non vale nulla: “È grazie a lui che voi siete in Cristo Gesù, che da Dio è stato fatto per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (1 Corinzi 1:30-31).

Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte, per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti.” (v. 10-11)

“Guadagnare Cristo” è la prima cosa; ma pur correndo per ottenere il premio alla fine della corsa, Paolo ha ben presente un’altra cosa: “conoscere Cristo”, conoscerlo già al presente avendo in vista la gloria futura alla quale ogni credente aspira e verso la quale tende.

“Conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione”, dice Paolo. Egli voleva:

  • conoscere Lui, il suo perfetto amore e la sua vita perfetta;
  • che fosse Lui a riempire la sua anima, i suoi pensieri e il suo cuore;
  • crescere verso di Lui e poi conoscere la potenza della sua risurrezione.

Così tutta la potenza di Satana sarebbe stata annullata.

Aveva parlato della giustizia che si ha mediante la fede in Cristo, e non in se stessi né nell’ubbidienza alla legge; ora vuole conoscere la potenza della vita espressa nella risurrezione di Cristo. Dopo aver conosciuto il Signore e la sua vittoria sulla morte, può intraprendere il servizio dell’amore come ha fatto Cristo, e conoscere  “la comunione delle sue sofferenze”.

Ci si potrebbe chiedere se l’espressione “conoscere Cristo” e “la potenza della sua risurrezione” si riferisce al presente o al futuro; si tratta della potenza presente prodotta dall’avere lo sguardo fisso su Cristo. “Chiunque ha questa speranza in Lui si purifica com’egli è puro” (1 Giovanni 3:3): è l’effetto presente prodotto dalla contemplazione di Cristo glorioso e dall’attesa del suo ritorno.

Chi conosce la potenza della risurrezione ha la morte dietro di sé; così, per lui, la morte ha perso la sua potenza. Paolo guardava la morte in faccia e non parlava con superficialità. Cosa poteva fargli la morte? Attraversandola sarebbe stato più simile al suo Signore!

Paolo aggiunge di voler conoscere “la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte, per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti” (v. 11).  Egli entra così profondamente in questo cammino che si serve delle parole che Cristo stesso avrebbe potuto pronunciare: “sopporto ogni cosa per amor degli eletti…” (2 Timoteo 2:10). Nelle sofferenze, Paolo aveva una grande parte; non gli importava ciò che gli sarebbe costato e se avrebbe dovuto incontrare la morte; era un modo per giungere alla “risurrezione dei morti”, o più correttamente “dai morti”, col significato di risurrezione “d’infra i morti”.

Il termine risurrezione della fine del v. 11 è, nel testo originale, una parola particolare che non si trova altrove nel Nuovo Testamento e che significa “alzarsi” come si alzano quelli che si erano addormentati. Cristo è “la primizia di quelli che sono morti” (1 Corinzi 15:20-23), ovviamente non dei malvagi che sono morti. Cristo è risuscitato perché è Dio e la vita era in Lui, ma la sua risurrezione è anche una prova che Dio ha trovato in Lui il suo compiacimento, sia per il suo cammino perfetto, che lo aveva perfettamente glorificato, sia per il suo sacrificio alla croce; allo stesso modo, per noi credenti la risurrezione è il segno che apparteniamo a Dio e che abbiamo, per la fede, la vita di Cristo.

Nel cap. 9 di Marco, appena sceso dal monte della trasfigurazione, il Signore disse ai discepoli di non raccontare ciò che avevano visto, se non quando il Figlio dell’uomo sarebbe risuscitato “dai” morti: ed essi “tennero per sé la cosa, domandandosi tra di loro che significasse quel risuscitare dai morti” (v. 9). Egli è risuscitato mentre gli altri morti sono rimasti nella morte; è risuscitato per non morire più ed è stato accolto nella gloria, alla destra di Dio; e queste cose non potevano ancora essere comprese dai discepoli.

Dopo di Lui, quando verrà a rapire la sua Chiesa, risusciteranno allo stesso modo i credenti deceduti. Questa risurrezione dai morti è un atto infinitamente glorioso di divina potenza, perché in quest’atto la giustizia di Dio è manifestata. Non si tratta in alcun modo di una risurrezione generale; tutto il cap. 15 della prima lettera ai Corinzi riguarda i santi, perché  per i malvagi non ci sarà una “risurrezione di vita” ma una “risurrezione di giudizio” (Giovanni 5:29).

L’idea di una risurrezione comune e generale di tutti i morti è un grave errore. Se tutti i morti fossero risuscitati insieme, la giustizia di Dio non sarebbe manifestata. Ma la Parola ci dice: “Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti vivificherà anche i vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Romani 8:11). I corpi dei credenti, dunque, risusciteranno mentre i corpi degli altri rimarranno nella morte. Questo è un segno del favore divino verso i suoi riscattati.

Paolo dice anche “in qualche modo”, cioè a qualsiasi prezzo; dovesse anche costargli la vita non gli importa purché possa arrivarci.

“Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato, ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la mèta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù” (v. 12-14).

La chiamata celeste è la chiamata “in alto”. Paolo desiderava essere simile a Cristo da subito e non solo quando sarebbe morto e il suo corpo sarebbe stato nella tomba e lo spirito in paradiso. Se avesse dovuto morire, sapeva che sarebbe stato simile a Lui, ma non era questo ciò che attendeva; egli voleva già al presente essere reso conforme all’immagine del Figlio di Dio che è nella gloria.

Anch’io, mentre aspetto questo momento, devo diventare ogni giorno più simile a Lui, soffrendo nella potenza dell’amore nel quale egli servì il Padre; poiché il mio sguardo è rivolto a Cristo nella gloria, sono sempre più interiormente trasformato alla sua immagine.

Il Figlio di Dio modellava la vita di Paolo giorno dopo giorno, e lui non faceva altro che proseguire la sua corsa. Non era solo in qualità di apostolo che Paolo entrava nella comunione delle sofferenze di Cristo e si conformava alla sua morte, ma in quanto cristiano. Ogni cristiano dovrebbe fare come lui.

La conoscenza dell’eccellenza di Cristo ha riempito totalmente il nostro cuore? Se ci limitiamo ad essere contenti che i nostri peccati sono perdonati saremo governati dalle ansie, dalle occupazioni  e dalle mille vanità della vita quotidiana; e alle tentazioni rischieremo di soccombere. Se i nostri occhi contemplano Lui solo, il nostro cuore si distaccherà da ogni altra cosa e avremo la potenza e l’energia per superare tutte le difficoltà che incontriamo nella nostra corsa.

Abbiamo considerato in che modo il fissare lo sguardo su Gesù Cristo (Ebrei 12:2) produce un’energia che spinge a raggiungere la mèta. Paolo era stato afferrato da Cristo per questo, e a sua volta egli cercava di afferrare Cristo nella gloria.

Abbiamo anche visto che la lettera ai Filippesi considera il credente in cammino nel deserto in vista del traguardo, cioè di quando entrerà in possesso di tutte le cose promesse. Avendo la potenza della risurrezione di Cristo, il credente possiede già la potenza della vita e, come Paolo, vuole averla nella gloria; in pratica, il risultato è che corre diritto verso la mèta come qualcuno che ha questo unico scopo. Davanti a lui c’è un solo obiettivo: guadagnare Cristo ed essere egli stesso risuscitato per partecipare alla Sua gloria.

È a questo fine che Dio ci ha predestinati: “essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Romani 8:29); essere simili a Lui non solo quando il nostro corpo sarà nella tomba e la nostra anima in paradiso. Senza dubbio, “quand’egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo com’egli è” (1 Giovanni 3:2); ma la nostra “cittadinanza” è già ora “nei cieli” (v. 20).

La parola “cittadinanza” non rende bene il senso del termine originale che abbraccia tutte le nostre relazioni viventi e vere col Signore nel cielo.

Noi siamo “del cielo”. Per questo Paolo dice: “Una cosa faccio”, ed è “correre” tendendo con sforzo verso la mèta, il luogo glorioso, premio della “celeste” chiamata, sul quale i suoi occhi sono rivolti e che ha influenzato tutta la sua vita. Per noi credenti non esiste altra perfezione se non quella che gusteremo lassù. Ma dal momento che abbiamo conosciuto Cristo nel suo abbassamento e nella sua ubbidienza fino alla morte in croce, nessuna gloria è troppo grande in risposta a ciò che Egli ha fatto, perché tutto è “frutto del tormento dell’anima sua” (Isaia 53:11).

“Quando Cristo, la vita vostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con lui manifestati in gloria” (Colossesi 3:4). Paolo provava questa potenza, ma non tutti i cristiani la conoscono. Se uno è veramente un credente, non può non conoscere il sacrificio di Cristo che lo ha riscattato, ma potrebbe non vivere con la prospettiva di essere con Lui nella gloria.

“Sia questo dunque il sentimento di quanti siamo maturi; se in qualche cosa voi pensate altrimenti, Dio vi rivelerà anche quella. Soltanto, dal punto a cui siamo arrivati, continuiamo a camminare per la stessa via.” (v. 15-16).

Qualcuno di noi potrebbe essere ai primi passi della fede, mentre altri potrebbero essere più avanti. Chi si trova in quest’ultima condizione, deve mostrare molta grazia verso il proprio fratello, perché Cristo ha “afferrato” anche lui e gli ha perdonato i peccati; forse più tardi realizzerà di essere morto con Cristo, e che non solo i suoi peccati sono perdonati ma, per fede, il vecchio uomo è giudicato, e quell’ “io” che turbava la sua anima è annullato.

Se siamo maturi dobbiamo avere tutti questo sentimento, perché siamo tutti uniti al “secondo Adamo”. E se alcuni non sono  ancora arrivati a questo punto, dobbiamo ugualmente camminare insieme nello stesso sentiero, poiché le cose che non sanno ancora Dio le rivelerà anche a loro.

Siate miei imitatori, fratelli, e guardate quelli che camminano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti camminano da nemici della croce di Cristo (ve l’ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), la fine dei quali è la perdizione; il loro dio è il ventre e la loro gloria è in ciò che torna a loro vergogna; gente che ha l’animo alle cose della terra.” (v. 17-19)

“Siate miei imitatori, fratelli…”, dice Paolo, presentandosi davanti ai santi come loro modello.

Noi credenti dobbiamo ricordarci sempre che “l’amicizia del mondo è inimicizia verso Dio” (Giacomo 4:4). “Tutto ciò che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo” (1 Giovanni 2:16). I figli appartengono al Padre. Appena convertito mi stupivo di trovare tanti avvertimenti relativi al mondo nella Parola di Dio, ma ben presto mi sono reso conto che il mondo esercita un’attrazione anche sui figli di Dio, se non vigilano sui loro pensieri e sulle loro azioni.

Paolo piangeva pensando ai nemici della croce di Cristo. La croce ha giudicato il mondo ed è la sola cosa che il mondo Gli ha riservato; per questo il cristiano ha chiuso col mondo. “Il mondo non mi vedrà più” (Giovanni 14:19), aveva detto Gesù. Lo Spirito Santo non è venuto per essere visto: “… lo Spirito della verità, che il mondo che il mondo non può ricevere perché il mondo non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché dimora con voi, e sarà in voi” (Giovanni 14:17).

Il bene e il male si sono incontrati alla croce. E’ là che fu regolata la questione del bene e del male; ed ora per ognuno di noi tutta la questione può riassumersi con una semplice domanda: stiamo dalla parte del mondo che ha rifiutato Cristo, o dalla parte di Cristo che è stato rifiutato dal mondo? Niente può essere paragonato alla croce:

  • ha manifestato la giustizia di Dio contro il peccato e la giustizia di Dio nel perdonare i peccati;
  • è stata la fine del mondo che è sotto giudizio, e l’inizio del “mondo” della vita;
  • è l’opera che ha tolto il peccato, e allo stesso tempo la prova più eclatante del peccato e della malvagità del cuore dell’uomo.

Più pensiamo alla croce, più comprendiamo che è il punto centrale di ogni cosa.

Se qualcuno si associa al mondo, è un nemico della croce di Cristo. In quanto cristiani dobbiamo fare attenzione che tutta la bella apparenza di cui il mondo si riveste non getti un velo sul nostro cuore impedendoci di discernere il male. Se cerco la gloria del mondo che ha crocifisso Cristo, mi glorifico di ciò che è a mia vergogna. Il cristiano si sente a suo agio nella casa di suo Padre e non nell’arido deserto che deve attraversare per giungervi.

“Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove aspettiamo anche il Salvatore, Gesù Cristo, il Signore, che trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, mediante il potere che egli ha di sottomettere a sé ogni cosa.” (v. 20-21)

Paolo qui mette in contrasto coloro che hanno “l’animo alle cose della terra” con coloro la cui “cittadinanza è nei cieli”. La fine dei primi è la perdizione; essi sono nemici di Cristo e della fede. Qui non si tratta di essere più o meno nella luce, ma di avere i pensieri, le aspirazioni, le prospettive unicamente rivolti alle cose della terra e non a Cristo nella gloria.

“Il Salvatore, Gesù Cristo, il Signore… trasformerà il corpo della nostra umiliazione”; non “il nostro corpo vile”, in senso morale. Ora ho il corpo di Adamo, soggetto ad ammalare e destinato a morire, ma allora avrò il corpo simile a quello di Cristo risorto. Egli verrà come Salvatore e compirà la sua opera trasformando il nostro corpo in conformità del suo corpo glorioso (v. 20, 21). Il prezzo della redenzione è stato pagato, ma la liberazione finale non è ancora avvenuta. “Or Colui che ci ha formati per questo è Dio” (2 Corinzi 5:5), ma la cosa in sé, non l’abbiamo ancora; per averla aspettiamo la venuta di Cristo.

Se i nostri cuori realizzassero realmente che Dio ci renderà simili a Cristo e ci introdurrà nel luogo dov’Egli è, come suoi fratelli; se realizzassimo nella vita pratica il fatto che ci introdurrà nella sua presenza con Cristo, i nostri pensieri sul mondo forse sarebbero diversi; allora saremmo “maturi” e ci protenderemmo e correremmo verso la mèta.

Anche se incontriamo la morte sulla nostra strada, dobbiamo essere sempre fiduciosi. Non è detto che tutti moriremo (1 Corinzi 15:51); ciò che desideriamo non è di essere spogliati, ma di essere rivestiti, “affinché ciò che è mortale sia assorbito dalla vita” (2 Corinzi 5:4). Ma se la morte sopravviene, non deve far vacillare la nostra fede, poiché “partire dal corpo” vuol dire “abitare con il Signore” (2 Corinzi 5:8).

In questo passo della seconda lettera ai Corinzi, Paolo parla prima della speranza, cioè di ciò che “desideriamo”, e poi considera le due cose che sono la parte dell’incredulo: la morte e il giudizio; infatti “è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio” (Ebrei 9:27). Quanto alla morte, essa è un guadagno per il credente, perché per lui, partire dal corpo, significa abitare con il Signore.

Il giudizio è una cosa terribile e solenne; pensiamo dunque ai poveri peccatori che non sono convertiti e “cerchiamo di convincere gli uomini” (2 Corinzi 5:11) annunciando loro il Vangelo di Cristo!

Se per gli increduli il pensiero di un tribunale dove verranno giudicati da Dio dovrebbe essere motivo di spavento, per i credenti il “tribunale di Dio” (chiamato “tribunale di Cristo” in 2 Corinzi 5:10) ha una potenza santificante: “Tutti compariremo davanti al tribunale di Dio… quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio” (Romani 14:10-12).

Il momento della redenzione finale verrà, e il Signore compirà per il corpo ciò che ora è vero per l’anima: ci renderà simili a Sé nella casa del Padre.

Capitolo 4

“Perciò, fratelli miei cari e desideratissimi, allegrezza e corona mia, state in questa maniera saldi nel Signore, o diletti! Esorto Evodia ed esorto Sintìche a essere concordi nel Signore. Sì, prego pure te, mio fedele collaboratore, vieni in aiuto a queste donne, che hanno lottato per il vangelo insieme a me, a Clemente e agli altri miei collaboratori i cui nomi sono nel libro della vita.” (v. 1-3)

È bello vedere come Paolo passa dai pensieri più elevati sulla rivelazione di Dio alle circostanze più ordinarie della vita del cristiano. Infatti si occupa di due sorelle nella fede che non vivevano in buona armonia. Accade lo stesso anche oggi: la grazia ci eleva al terzo cielo, ma scende fino alle cose più piccole; si è occupata anche di un povero schiavo fuggito dalla presenza del suo padrone (Filemone), con una delicatezza che è stata ammirata in tutte le epoche.

Quale è stata la consolazione data da Cristo sulla croce? Egli non poteva dire al ladrone che sarebbe stato in paradiso senza dirgli che anche Lui ci sarebbe andato: “Oggi tu sarai con me in paradiso”. Così Paolo, parlando delle donne che lavoravano con lui, dice: “i cui nomi sono nel libro della vita” (4:2-3). C’erano degli affetti divini, e noi credenti siamo posti nell’ambito delle affezioni divine.

A Filippi dunque c’era una divergenza di pensiero fra due sorelle pie, e Paolo prevede che questo fatto, forse considerato da alcuni di scarsa importanza, avrebbe potuto essere causa di sofferenza e di debolezza nell’assemblea. Tuttavia, lui che sapeva separare “ciò che è prezioso da ciò che è vile” (Geremia 15:19), sottolinea la pietà di quelle sorelle che avevano combattuto con lui per il Vangelo, sopportando opposizione, insulti e persecuzioni. Tuttavia, era la loro stessa pietà a causare maggior dolore all’apostolo, perché la loro disputa aveva a che fare con gli interessi del Signore. Per questo non si accontenta di supplicarle di avere uno stesso pensiero, ma prega Epafrodito di aiutarle.

Fra i figli di Dio è probabile che non ci siano “molti sapienti secondo la carne, né molti potenti, né molti nobili” (1 Corinzi 1:26); ma potremmo forse dimenticare che i nomi di loro tutti sono “scritti nel libro della vita”?

Quando facciamo delle visite a dei fratelli o a delle sorelle, è il desiderio della presenza di Cristo che ci deve animare. Non devono essere i nostri pensieri, ma i suoi a manifestarsi.

“Rallegratevi sempre nel Signore. Ripeto: rallegratevi.” (v. 4)

Qual era il Paolo adatto a parlare in questa maniera da parte di Dio? Quello che era stato al terzo cielo? No, quello che era prigioniero a Roma! Si trattava di rallegrarsi sempre, come dice anche il salmista: “Io benedirò il SIGNORE in ogni tempo” (34:1).

Se ho il Signore con me, se riempie il mio cuore, c’è più “cielo” nella prigione con Lui che fuori dalla prigione senza di Lui. Non sono i pascoli verdeggianti e le acque calme a rallegrare l’anima, benché siano sicuramente delle cose belle; la sua gioia è data dal fatto che il SIGNORE era il suo pastore. Se nel cammino dobbiamo incontrare la morte, non c’è da temere alcun male, perché Lui è con noi; se ci sono dei temibili avversari, una tavola è imbandita sotto i loro occhi. Come risultato, “la mia coppa trabocca”! Il Signore conduce la sua pecora attraverso tutte le difficoltà e le prove, e la porta a dire: “Certo, beni e bontà m’accompagneranno tutti i giorni della mia vita; e io abiterò nella casa del SIGNORE per lunghi giorni” (Salmo 23).

Per colui che confida in Dio, più grande è la tribolazione più sperimenta che tutto coopera al suo bene. È come se Paolo dicesse: Conosco il Signore sia come uomo libero, sia come prigioniero; Egli mi basta quando sono nel bisogno come mi è bastato quand’ero nell’abbondanza. Può quindi dire: “Rallegratevi sempre nel Signore”.

Cosa si poteva fare a un tale uomo? Se lo si uccideva, non si faceva altro che mandarlo in cielo; se lo si lasciava in vita, si prodigava per condurre gli uomini a quel Signore contro cui i nemici si accanivano.

Può sembrare strano, ma a volte è più difficile rallegrarsi nel Signore quando tutto ci va bene rispetto a quando siamo nella sofferenza, in quanto la sofferenza ci spinge verso di Lui. Il pericolo è maggiore quando non abbiamo prove.

Rallegrarci nel Signore ci libera completamente dal dominio che hanno su di noi le cose presenti. Finché Dio non ci toglie i nostri appoggi, non ci rendiamo conto fino a che punto anche i più spirituali fra noi si basano su questi appoggi, sulle cose che ci attorniano. Ma se ci rallegriamo sempre nel Signore, questa gioia non potremo mai perderla.

“La vostra mansuetudine sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino.” (v. 5)

Come possono gli altri credere che la nostra cittadinanza è nei cieli se mettiamo tutto il nostro impegno a perseguire le cose della terra? Lo crederanno solo se si renderanno conto che il nostro cuore non corre dietro agli interessi materiali.

“Il Signore è vicino”: presto metterà in ordine ogni cosa. Il nostro cuore e i nostri affetti saranno custoditi se ci comportiamo con dolcezza, mansuetudine, senza rivendicare accanitamente i nostri diritti; così il mondo si accorgerà che i nostri pensieri e il nostro spirito non sono rivolti alla terra.

“Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti.” (v. 6)

Queste parole sono state spesso di grande consolazione anche nelle più terribili prove: “Non angustiatevi di nulla” non vuol dire che si deve essere indifferenti o fatalisti; ma se vogliamo portare i nostri pesi da soli, non facciamo che opprimere e torturare il nostro cuore. Spesso i problemi s’impadroniscono talmente del nostro spirito che, quando cerchiamo di scaricarcene, essi ci ricadono addosso e ci tormentano. Ma queste parole “Non angustiatevi di nulla”, sono un comandamento che ci è di grande benedizione.

Dio non dice che dobbiamo aspettare a pregare finché abbiamo capito se ciò che desideriamo corrisponde o no alla sua volontà, ma è scritto: “Fate conoscere le vostre richieste a Dio”. Qui si mostra la meravigliosa grazia di Dio. Abbiamo un peso sul cuore? Andiamo a Lui con la nostra richiesta. Dio non dice che ci concederà ciò che domandiamo; quando Paolo pregò tre volte che il Signore lo liberasse dalla “spina nella carne”, ricevette questa risposta: “La mia grazia ti basta” (2 Corinzi 12:8, 9); ma la pace di Dio custodirà i nostri cuori e i nostri pensieri.

Dio è forse turbato dalle cose che turbano noi? Queste fanno forse vacillare il suo trono? Sappiamo che Dio pensa a noi, ma sappiamo anche che Egli non è turbato e la pace che è in Lui conserverà la nostra.

Tutto è certo e sicuro. Dio sa perfettamente ciò che farà. Io depongo il mio peso ai piedi di un trono che non vacilla mai, con la perfetta certezza che Dio si occupa di me: “Accostiamoci dunque al trono della grazia, per ottenere misericordia e trovar grazia, ed essere soccorsi al momento opportuno” (Ebrei 4:16); allora, posso ringraziare prima ancora di aver ottenuto la risposta. Dio sia benedetto per questo!

Dio è forse un Dio lontano e non un Dio vicino? (Atti 17:27). È infinitamente prezioso per noi considerare che, se da un lato Dio ci eleva al cielo, Egli discende anche fino a noi e si occupa di tutto ciò che ci riguarda. Egli non vuole che vediamo le cose in anticipo, altrimenti i nostri cuori non sarebbero esercitati. Finché i nostri sentimenti sono occupati delle cose celesti, possiamo contare su di Lui per le cose di questa terra. Paolo parla di “combattimenti di fuori, timori di dentro. Ma Dio che consola gli afflitti, ci consolò…” (2 Corinzi 7:5, 6). Valeva la pena essere così afflitti per ricevere tale consolazione.

 “E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù. “ (v. 7)

Il risultato delle nostre richieste a Dio non sarà necessariamente un esaudimento “completo”, che potrebbe non essere né per il nostro bene né alla gloria Sua, ma il nostro cuore sarà liberato da ogni inquietudine e mantenuto in una pace profonda, “la pace di Dio, che supera ogni intelligenza”. Non dobbiamo quindi essere spensierati o noncuranti; ma dobbiamo rimettere nelle mani di Dio ogni nostro problema invece di essere assillati dalle preoccupazioni dell’oggi e dalla paura del domani. È per mezzo di Gesù Cristo che possiamo avvicinarci a Dio, ed è ancora per mezzo di Lui che Dio può benedirci.

“Quindi, fratelli, tutte le cose vere, tutte le cose onorevoli, tutte le cose giuste, tutte le cose pure, tutte le cose amabili, tutte le cose di buona fama, quelle in cui è qualche virtù e qualche lode, siano oggetto dei vostri pensieri.” (v. 8)

Quando saremo liberati da ansie e da eccessive preoccupazioni, i nostri pensieri saranno non solo mantenuti nella pace, ma disponibili ad occuparsi di ogni cosa che piace a Dio e lo glorifica. Il mondo che attraversiamo è contraddistinto da violenza e corruzione, e noi credenti siamo chiamati a respingere il male; e facciamo anche attenzione a non occuparci troppo del male affinché i nostri “pensieri”, sebbene indirettamente, non ne rimangano contaminati. È bene che odiamo il male e stiamo in guardia, ma dobbiamo anche amare e ricercare il bene.

Se saremo governati dallo Spirito di Dio, i nostri pensieri saranno occupati di tutte le cose eccellenti che si sono viste, nella perfezione, nel Signore Gesù, e ne godranno. Egli non era forse veritiero, onorevole, giusto, puro, amabile, di buona fama, virtuoso, degno di ogni lode sotto tutti gli aspetti? ”Vedendo le folle, ne ebbe compassione” (Matteo 9:36; 14:14), e quando vide una vedova che andava a seppellire il suo unico figlio, “ebbe pietà di lei” (Luca 7:13). Alla tomba di Lazzaro, “fremette nello spirito, si turbò” (Giovanni 11:33); è un’espressione molto forte. Si trattava di un turbamento interiore, perché gli pesava enormemente vedere sotto la potenza della morte coloro che lo attorniavano. In qualsiasi luogo si trovasse non era mai insensibile, ma era sempre pieno di grazia. Anche quando è costretto a dire: “Fino a quando sarò con voi e vi sopporterò?”, aggiunge subito: “Porta qui tuo figlio” (Luca 9:41).

Il Signore era sensibile in modo perfetto, mentre noi non riusciremo mai ad esserlo come Lui. Egli era sempre pronto a rispondere in grazia ad ogni richiesta; alla croce ha saputo bene quali parole rivolgere al malfattore. Se anche noi saremo sensibili alle sofferenze degli altri, manifesteremo che Cristo vive in noi.

“Le cose che avete imparate, ricevute, udite da me e viste in me, fatele; e il Dio della pace sarà con voi.” (v. 9)

Dopo aver esortato riguardo alle cose a cui dovremmo “pensare”, Paolo passa alle cose che dovremmo “fare”. Nella nostra vita anche noi dovremmo “fare” come l’apostolo, che diceva: “Dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la meta…” (3:13-14). Procedendo così, non solo gusteremo la pace di Dio, in questo mondo in cui regna la confusione, ma avremo il Dio della pace; e la pace proveniente da Lui guarderà i nostri cuori da ogni apprensione, e la Sua presenza ci sosterrà in ogni debolezza.

“Ho avuto una grande gioia nel Signore, perché finalmente avete rinnovato le vostre cure per me; ci pensavate sì, ma vi mancava l’opportunità. Non lo dico perché mi trovi nel bisogno, poiché io ho imparato ad accontentarmi dello stato in cui mi trovo. So vivere nella povertà e anche nell’abbondanza; in tutto e per tutto ho imparato a essere saziato e ad aver fame; a essere nell’abbondanza e nell’indigenza. Io posso ogni cosa in colui che mi fortifica. Tuttavia avete fatto bene a prender parte alla mia afflizione.” (v. 10-14)

Paolo dunque aveva rimesso a Dio ogni sua preoccupazione, e ora poteva rallegrarsi perché Dio aveva messo il suo amore nel cuore dei santi di Filippi e aveva dato loro l’occasione per prendersi cura di lui aiutandolo nelle sue condizioni di bisogno.

Paolo era anch’egli, come ogni uomo, “sottoposto alle nostre stesse passioni” (Giacomo 5:17). Benché a Troas si fosse aperta una grande porta per la predicazione del Vangelo, non si fermò in quella città; non era “tranquillo nel suo spirito” perché non aveva trovato Tito, e anche in Macedonia non aveva trovato “nessun sollievo” (2 Corinzi 2:12, 13; 7:5).

Di questa lettera, nella quale leggiamo delle indicazioni ispirate riguardo a come dobbiamo condurci nell’assemblea, dice che non gli dispiaceva di averla scritta, se pure ne aveva “provato rincrescimento” (2 Corinzi 7:8, 9). Tuttavia, per scriverla era stato ispirato nonostante lo turbasse l’idea che tutti i Corinzi fossero contro di lui. In un certo senso ci consola vedere che, benché fosse un apostolo, anche lui era così simile a noi. Qui, però, Paolo si mostra superiore a tutte le circostanze che attraversava.

Si sente dire che in Cristo noi tutti “possiamo ogni cosa”, ma non è una verità assoluta. Non è detto che anche noi possiamo sempre realizzare questa verità come la realizzava Paolo in quel momento. Questo, lui l’aveva imparato e poteva parlarne come di una condizione reale, non era una  dichiarazione astratta. “Ho imparato a essere saziato e ad aver fame”. Se siamo sazi, ci guardi il Signore dall’indifferenza e dalla nostra propria soddisfazione; se abbiamo fame, ci guardi da un sentimento di ribellione.

Paolo dunque aveva trovato Cristo perfettamente sufficiente a tutte le sue circostanze, per cui non era dominato da alcuna di esse; era stato battuto con la verga, aveva ricevuto dai Giudei quaranta colpi meno uno, era stato lapidato, aveva attraversato ogni tipo di pericolo, ma aveva trovato Cristo sempre pronto a venire in suo aiuto.

Non dobbiamo pensare: in quel tempo Paolo era un cristiano in età matura; alla fine della vita si può anche parlare così! Se Paolo non avesse trovato Cristo sufficiente ad ogni cosa in tutto il corso della sua vita, non avrebbe potuto parlare così negli ultimi anni. La fede conta su Cristo dall’inizio alla fine della vita cristiana. Davide poteva concludere il suo Salmo 23 dicendo: “Certo, beni e bontà m’accompagneranno tutti i giorni della mia vita, e io abiterò nella casa del SIGNORE per lunghi giorni” (v. 6). Nell’abbondanza o nella penuria, troverò sempre che Lui è perfettamente sufficiente; ma per essere in grado di fare quest’esperienza alla fine della “corsa”, bisogna averla fatta lungo tutto il cammino.

Non dobbiamo nemmeno dire: Paolo era un apostolo, un uomo straordinario, un uomo di cultura ben al di sopra dei problemi che tormentano me. Nient’affatto; Paolo, al momento in cui scriveva, aveva una “spina nella carne”, e questo fatto gli faceva realizzare la sua debolezza, nella quale la potenza di Dio poteva agire. Quando Paolo supplicò il Signore di guarirlo, il Signore gli rispose: “La mia grazia ti basta” (2 Corinzi 12:8-9). La spina sembrava un ostacolo, ma invece, quando Paolo predicava, si poteva vedere in azione la potenza di Cristo e non la sua personale.

Dio lo aveva rapito fino al terzo cielo e questo privilegio straordinario poteva esporlo ad elevarsi oltre misura; ecco il motivo di quella spina nella carne. La potenza divina non può essere presente dove c’è la potenza umana. Ė una gran cosa sentire tutta la nostra incapacità; ma se non la realizziamo, Dio ci aiuterà a farlo forse anche facendoci passare per delle circostanze dolorose. Ma un uomo già umile non ha bisogno di essere  reso umile!

Se ci siamo allontanati dal Signore e la nostra coscienza non ci riprende, ci troviamo in un cattivo stato, ma se ci riprende e ci umiliamo, Dio può dire: Ti ho condotto dove dovevi arrivare; non c’è più inganno, posso venirti in aiuto.

Giobbe aveva detto: “L’orecchio che mi udiva mi diceva beato; l’occhio che mi vedeva mi rendeva testimonianza, perché salvavo il misero che gridava aiuto e l’orfano che non aveva chi lo soccorresse” (29:11-12). Egli ragionava così: Faccio questo, faccio quello. Ma dopo la grande prova Giobbe ha potuto esclamare: “Ora l’occhio mio ti ha visto. Perciò mi ravvedo, mi pento sulla polvere e sulla cenere” (42:5-6). Così va bene – ha pensato Dio – ora posso benedirti; e lo benedisse!

“Anche voi sapete, Filippesi, che quando cominciai a predicare il vangelo, dopo aver lasciato la Macedonia, nessuna chiesa mi fece parte di nulla per quanto concerne il dare e l’avere, se non voi soli, perché anche a Tessalonica mi avete mandato, una prima e poi una seconda volta, ciò che mi occorreva. Non lo dico perché io ricerchi i doni; ricerco piuttosto il frutto che abbondi a vostro conto. Ora ho ricevuto ogni cosa e sono nell’abbondanza. Sono ricolmo di beni, avendo ricevuto da Epafròdito quello che mi avete mandato e che è un profumo di odore soave, un sacrificio accetto e gradito a Dio.” (v. 15-18)

I Filippesi dunque avevano “fatto bene” (v. 14) a inviare un dono a Paolo per supplire ai suoi bisogni. L’amore non dimentica, ma dà valore alle opere del servizio e le registra. Così Paolo serba un prezioso ricordo di ciò che avevano fatto per aiutarlo. Dio gradisce il servizio reso ai fratelli e sorelle nella fede, e si compiace anche di ciò che si fa verso quelli del mondo. L’amore che li aveva spinti a fargli quel dono, Dio lo riceveva come un frutto di cui essi abbondavano; era un’offerta da parte loro, “un sacrificio accetto e gradito da Dio”.

“Il mio Dio provvederà a ogni vostro bisogno, secondo la sua gloriosa ricchezza, in Cristo Gesù. Al Dio e Padre nostro sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen.” (v. 19-20) 

Notiamo l’intimità dell’espressione “il mio Dio”. Ė come se Paolo dicesse: Lo conosco, posso rispondere per Lui; ho attraversato ogni difficoltà e posso garantire che non mi ha mai deluso; so come agisce, anche nelle piccole cose della vita giornaliera.

Ė importante aver fiducia in Dio, in ogni istante della giornata; non pensiamo mai di poter agire da soli e metterci al riparo dalla potenza del male, ma confidiamo solamente in Dio. In che misura Dio provvederà ai nostri bisogni? “Secondo la sua gloriosa ricchezza, in Cristo Gesù”! Occorre che Egli glorifichi se stesso, anche quando un passero cade a terra; infatti per Dio non c’è niente di troppo grande né di troppo piccolo. Egli pensa a coloro nei quali il suo amore può essere glorificato.

Come faceva Paolo a parlare così? Egli conosceva bene Colui che definisce “il mio Dio”. Non è che non fosse stato nel bisogno, ma in esso aveva incontrato Dio. Le circostanze possono apparire difficili, ma abbiamo sempre sperimentato che, se Dio ci ha condotti attraverso il deserto dove non c’era acqua, ha poi fatto sgorgare l’acqua dalla roccia. Dio mette sempre la fede alla prova, ma dà poi sempre una risposta: “Il tuo vestito non ti si è logorato addosso, e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni” (Deuteronomio 8:4). Prezioso risultato!

“Il mio Dio provvederà a ogni vostro bisogno”. Paolo contava sulla benedizione di Dio anche per gli altri. Che consolazione! Che pace abbiamo quando, invece di camminare “per visione” (2 Corinzi 5:7), attraversiamo questo mondo nel sentimento di ciò che Dio è per noi, e possiamo contare su di Lui anche per gli altri! Talvolta ci sentiamo incapaci di spingere delle anime nel cammino della fede, ma non dovremmo temere; contiamo per esse sulla grazia di Dio. La fede è sempre vittoriosa.

“Salutate ognuno dei santi in Cristo Gesù. I fratelli che sono con me vi salutano. Tutti i santi vi salutano e specialmente quelli della casa di Cesare. La grazia del Signore Gesù Cristo sia con lo spirito vostro.” (v. 21-23)

I saluti finali ci offrono un bel quadro della comunione cristiana nella Chiesa dei primi tempi, e mostrano tutta la stima di Paolo per quei credenti. Notiamo che Paolo non si limita a scrivere che salutava “ognuno dei santi in Cristo Gesù”, ma aggiunge: “Tutti i santi vi salutano”. E termina dicendo: “La grazia del Signore Gesù Cristo sia con lo spirito vostro.” Anche noi abbiamo bisogno della misericordia e della grazia di Dio e del nostro Signore Gesù Cristo, sia per il nostro corpo che per il nostro spirito. Ci accordi il Signore di contare sempre su Lui; allora potremo veramente dire: “Io posso ogni cosa in colui che mi fortifica”.

“Al Dio e Padre nostro sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen.”

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