Henri Rossier
Le citazioni bibliche di questo commentario fanno riferimento alla versione Giovanni Luzzi
1. Capitolo 1
1.1 Il condottiero
1.2 Il paese e suoi confini
1.3 Qualità morali necessarie per entrare in Canaan
1.4 Quelli che entrano in Canaan
2. Capitolo 2: Rahab
3. Capitolo 3: Il Giordano
4. Capitolo 4
4.1 Le dodici pietre in Ghilgal
4.2 Le dodici pietre in mezzo al Giordano
5. Capitolo 5
5.1 La circoncisione
5.2 Ghilgal
5.3 Il nutrimento di Canaan
5.4 Il capo dell’esercito dell’Eterno
6. Capitolo 6: Gerico
7. Capitolo 7: La città di Ai e l’interdetto
8. Capitolo 8
8.1 Mezzi e processo di restaurazione
8.2 Confronto con il caso del peccato di Ghibea (Giudici 20 e 21)
8.3 Risultati della disciplina
9. Capitolo 9: L’inganno di Gabaon
10. Capitolo 10: La vittoria di Gabaon
11. Capitolo 11
11.1 La vittoria di Hatsor
11.2 Gli Anakiti
12. Capitolo 12: Enumerazione dei re vinti
13. Capitolo 13 (Insieme ai capitoli 15-19)
13.1 Divisione del paese
13.2 La parte di Levi
14. Capitolo 14: La perseveranza di Caleb
15. Capitoli 20 e 21: Le città di rifugio
16. Capitolo 22: L’altare di Ed
17. Capitolo 23: Ultime istruzioni di Giosuè
18. Capitolo 24: La grazia opposta alla legge
1. Capitolo 1
Il libro di Giosuè ci presenta, in figura, il soggetto dell’epistola agli Efesini.
Era giunta al suo termine la traversata del deserto e bisognava che l’assemblea d’Israele passasse il Giordano sotto la direzione d’una nuova guida, e prendesse possesso del «paese della promessa» spodestando i nemici che l’abitavano.
È la stessa cosa di noi. I luoghi celesti sono la nostra Canaan; vi entriamo nella potenza dello Spirito di Dio che ci unisce ad un Cristo morto e risuscitato, e ci fa sedere in Lui nel cielo godendo in anticipo di quella gloria che Egli si è acquistata e nella quale vuole introdurci. Ma, al presente, dobbiamo impegnare il combattimento della fede contro gli spiriti maligni che sono nei luoghi celesti per appropriarci di ogni palmo di terreno che Dio ci ha dato in eredità.
La differenza fra la figura e la realtà sta in questo: Israele aveva terminato il cammino del deserto prima d’entrare in Canaan, mentre per noi il deserto e Canaan sussistono insieme; ma la benedizione è anche più estesa. Se il deserto ci insegna che abbiamo ancora bisogno d’essere «umiliati e provati per conoscere quel che vi è nei nostri cuori», in risposta alle nostre infermità facciamo la preziosa esperienza delle risorse divine in mezzo a questa terra arida e senz’acqua; Dio apre la mano per nutrirci di manna, dissetarci con l’acqua della roccia, e farci gustare le risorse inesauribili della sua grazia, poiché nulla manca al suo popolo: «Il tuo vestito non ti s’è logorato addosso, e il tuo piè non s’è gonfiato durante questi quarant’anni» (Deuteronomio 8:4). Ma noi ci troviamo, allo stesso tempo, nei pascoli erbosi e nelle acque chete d’una ricca contrada di cui gustiamo le primizie; possiamo in pace sederci alla tavola apparecchiata al di là del Giordano, e assaporare le vivande di questa tavola, godendo di un Cristo celeste, seduto nella gloria, alla destra di Dio.
1.1 Il condottiero
Al momento in cui comincia questa nuova tappa della storia d’Israele, Giosuè è chiamato a guidare il popolo. Quest’uomo notevole appare per la prima volta in Esodo 17, al tempo del combattimento contro Amalek, e questa apparizione ci dà la chiave del suo carattere tipico. Mentre Mosè, in questo luogo, figura dell’autorità divina intimamente associata al sacerdozio celeste e alla giustizia di Cristo, sta sul monte durante il combattimento, vi era in basso, nella pianura, un uomo «in cui è lo Spirito» (come dice l’Eterno a Mosè. Numeri 27:18) che dirige la battaglia dell’Eterno. Questo Giosuè è Cristo; ma Cristo in noi, o fra noi quaggiù, nella potenza dello Spirito Santo. Ormai, come Mosè condottiero era stato inseparabile da Israele nel deserto, sarà lo stesso per Giosuè condottiero del popolo in Canaan. È detto di quest’ultimo: un uomo «che esca davanti a loro ed entri davanti a loro, e li faccia uscire e li faccia entrare; affinché la raunanza dell’Eterno non sia come un gregge senza pastore…, poserai la tua mano su lui… affinché tutta la raunanza dei figli d’Israele gli obbedisca» (Numeri 27:17-20).
1.2 Il paese e i suoi confini
Al v. 2 è menzionato il fiume Giordano, barriera che separava il popolo dalla terra promessa. Per entrare in Canaan, bisognava attraversarlo sotto la guida di Giosuè. La loro eredità era un puro dono della grazia di Dio: «Il paese che io do ai figli d’Israele». Apparteneva loro da parte dell’Eterno, ma bisognava che il popolo ne prendesse possesso: «Ogni luogo che la pianta del vostro piede calcherà, io ve lo do» (v. 3).
Anche noi abbiamo spiritualmente tutte queste cose. La pura grazia di Dio ci ha dato il cielo, ma non vi possiamo entrare che passando attraverso la morte e la risurrezione con Cristo e per la potenza del suo Spirito. Infine, noi afferreremo ognuna delle nostre benedizioni, e ne proveremo la realtà celeste, occupandoci di queste cose ed entrandovi in modo diligente e personale. In altre parole, il cristiano per goderle deve appropriarsene per la fede, altrimenti è come un povero re malato, che vive all’estero e che non ha mai viaggiato nel suo regno.
Al v. 5 troviamo un altro punto importante che caratterizza il paese. C’è il nemico; vi sono degli ostacoli; ovunque poseremo il piede sorgerà un avversario. Vediamo qui chiaramente che Canaan non è il cielo come lo troveremo alla morte del corpo, ma il cielo nel quale si trova il nemico, il cielo scena del combattimento attuale del cristiano. Ma, preziosa promessa, «nessuno ti potrà stare a fronte» dice l’Eterno a Giosuè «tutti i giorni della tua vita», vale a dire finché io abbia stabilito il popolo in possesso definitivo del paese. E quale sicurezza per il popolo in questa promessa! Dio dice: Appena incontrerai il nemico sul tuo sentiero, esso sarà sbaragliato.
Vittoria! avrebbe potuto esclamare il popolo; Satana non potrà tener fronte a noi! Povero Israele, lo vedrai presto davanti alla città di Ai: tu non sei che un trastullo per la potenza di Satana, non hai forza per resistergli. Ma la tua potenza è in Cristo: «Nessuno ti potrà stare a fronte» dice l’Eterno a Giosuè, mentre al v. 3 la promessa era fatta al popolo: «Io ve lo do».
Notate un altro punto: al v. 4 Dio dà loro la descrizione esatta dei confini di Canaan. Il paese è molto esteso ma il popolo lo possedererà tutto solo nel millennio. È la stessa cosa per noi. I luoghi celesti sono la nostra conquista attuale, ovunque si posa il nostro piede; però, misureremo noi tutta l’estensione della nostra eredità? Ora «conosciamo in parte» ma il giorno viene in cui ciò che è in parte avrà fine e verrà la perfezione.
I confini del paese erano un grande deserto, un gran monte, un grande fiume, e un grande mare. Ecco quel che c’era oltre quel paese fertile, e là il popolo non poteva né doveva porre piede. È una figura del mondo con tutti i suoi caratteri morali, la sua aridità, la sua potenza, la sua prosperità, la sua agitazione. Quanto alla sua aridità, Israele l’aveva attraversata per sperimentare che non vi era là nessuna risorsa per lui, e che soltanto il pane del cielo poteva nutrirlo attraverso quelle solitudini. Tale è, fratelli, il carattere delle cose che non ci appartengono. Ma nostro è Canaan, il cielo: Canaan con i suoi combattimenti, senza dubbio, ma con le sue vittorie; Canaan con Giosuè, e con «l’Angelo dell’Eterno»; Canaan, con il calmo godimento dei possessi infiniti, che si riassumono e si concentrano attorno e nella persona d’un Cristo risuscitato, seduto nella gloria!
1.3 Qualità morali necessarie per entrare in Canaan
Al v. 6 troviamo l’energia spirituale, che l’apostolo Pietro chiama «la virtù». La fede li conduceva a posare ovunque la pianta del piede, la virtù doveva essere aggiunta alla fede. Ma notate che questa energia non si trova in noi; è in Giosuè per il popolo, è in Cristo per noi.
«Sii forte e fatti animo, perché tu metterai questo popolo in possesso del paese che giurai ai loro padri di dare ad essi». «Beato l’uomo la cui forza è in te…». Questo principio è di grande importanza. Quanti cristiani cercano di scoprire la forza in loro stessi e finiscono per essere o scoraggiati o soddisfatti di loro stessi, il che è anche peggio. La potenza è in Cristo, in Cristo per noi. E perché ci è data? Per ingigantirci ai nostri propri occhi e per gloriarci? Tutt’altro ma per introdurci nel sentiero dell’obbedienza (v. 7). Sono i piccoli fanciulli che imparano ad ubbidire; la nostra forza ci rende deboli, affinché la potenza di Cristo sia esaltata.
Troviamo un bell’esempio di questa verità al cap. 6 del libro dei Giudici. «L’angelo dell’Eterno apparve a Gedeone e gli disse: l’Eterno è teco, o uomo forte e valoroso!». Queste due cose si legano intimamente. «Va’ con cotesta tua forza», gli dice l’Eterno. Ed eccolo immediatamente colpito dal sentimento della sua nullità: il suo migliaio è il più povero di Manasse, ed egli è il più piccolo nella casa di suo padre. Ma l’Eterno gli dice: «Io sarò con te».
L’ubbidienza si regola sempre sulla parola di Dio. Dio dà la forza a Giosuè, perché abbia cura, Egli dice, di mettere in pratica tutta la legge di Mosè. Ma, assieme all’energia spirituale necessaria per ubbidire, occorre di più. Aggiunge al v. 8: «Questo libro della legge non si diparta mai dalla tua bocca, ma meditalo giorno e notte, avendo cura di mettere in pratica tutto ciò che v’è scritto». Occorre dunque, oltre all’energia divina, una cura diligente per appropriarsi dei pensieri di Dio. Egli dice: Meditalo, affinché tu gli obbedisca. È questo il nostro scopo quando studiamo la Parola di Dio? Sovente amiamo leggerla per istruirci, e l’istruzione è buona; altre volte per insegnare agli altri, cosa eccellente al suo posto; ma la leggiamo noi con lo scopo di ubbidirla diligentemente? Se fosse così, come cambierebbe la vita di molti cristiani!
Egli aggiunge: «Meditalo giorno e notte». Vi sono dei cristiani che leggono un capitolo (un versetto forse) ogni mattina, come una specie d’amuleto che deve preservarli durante la giornata; ma questo non è meditare la Parola giorno e notte. E le nostre occupazioni? direte voi. Ma non è attraverso le vostre occupazioni che la Parola vi nutre da parte di Dio, per il godimento dell’anima vostra, e per guidarvi nel sentiero di Cristo? Questo è il solo mezzo per riuscire in tutte le nostre vie e prosperare.
Al v. 9 troviamo un ultimo principio: «Non te l’ho io comandalo? Sii forte e fatti animo». Che potenza ci dà la certezza del pensiero di Dio! Ogni indecisione nel cammino, ogni spavento, ogni timore dinanzi al nemico, svaniscono. Satana non ha nessuna potenza contro di noi.
Questi sono dunque i principii che debbono governare il cuore per godere delle cose celesti e per combattere le battaglie dell’Eterno. È prezioso vederli stabiliti proprio all’inizio di questo libro, prima che Israele avesse fatto un solo passo, in modo da mettergli in mano le armi ben forbite con cui riporterà la vittoria.
1.4 Quelli che entrano in Canaan
Dopo averci presentato il condottiero, il paese e le qualità morali che occorrono per entrarvi, la Parola ci parla (v. 10-18) di coloro che sono chiamati a prenderne possesso. Sono il popolo, e anche i Rubeniti, i Gaditi e la mezza tribù di Manasse. Questi ultimi non rifiutano d’entrarvi, come un tempo la generazione precedente allorché le spie avevano fatto struggere i loro cuori. Essi s’associano ai loro fratelli e sono in prima fila per combattere, ma non per prendere possesso del paese!
Il loro territorio lo vogliono al di qua del Giordano. È una loro scelta: avevano molto bestiame e il paese era adatto per l’allevamento del bestiame (Numeri 32:1). Accade lo stesso d’un gran numero di cristiani, e si potrebbe dire che oggi sono piuttosto le nove tribù e mezzo che hanno eletto domicilio al di qua del Giordano! Ciò che da il carattere alla vita cristiana della maggior parte dei credenti sono le circostanze della vita, i bisogni d’ogni giorno, l’abbondanza o la penuria, i recinti per i loro greggi, o le città per le loro famiglie (Numeri 32:16). Questi credenti non mancano di fede: fanno anzi l’esperienza che il Signore può entrare in grazia in tutte le loro circostanze; e lo fa, Lui che è disceso per portare la benedizione divina sulla terra. Non hanno un cristianesimo mondano, ma terreno.
Israele era una figura del cristianesimo mondano quando rifiutava di salire alla «montagna degli Amorrei». «Non sarebb’egli meglio per noi di tornare in Egitto? E si dissero l’uno all’altro: Nominiamoci un capo, e torniamo in Egitto!» (Numeri 14:3-4); così i loro corpi caddero nel deserto. Le due tribù e mezzo sono la figura di coloro che abbassano il cristianesimo ad una vita di fede per le circostanze terrene che attraversano. «Essi avevano molto bestiame». Mosè, dapprima, ne è indignato, ma in seguito sopporta, vedendo che benché la loro fede fosse debole era nondimeno fede, e quei legami terreni non li separavano dai loro fratelli.
Questa tendenza ad abbassare il cristianesimo fa sfoggio di sé come dottrina, ai giorni nostri. Con molta pretesa di potenza si conosce poco al di là d’un Cristo nel quale ci si confida per la direzione dei particolari grandi o piccoli della vita giornaliera. Si conosce Cristo come Pastore; si può dire: «Il tuo bastone e la tua verga mi consolano»; ma, anche sotto questo carattere, quant’è poco apprezzata l’estensione delle sue risorse! Se Egli ci conduce attraverso questo mondo, non è tuttavia quaggiù che ci fa riposare. I «verdeggianti pascoli» e le «acque chete» non sono né l’erba, né i recinti, né le città del paese di Galaad, bensì i ricchi pascoli del paese della promessa!
È bene confidarsi in Lui per ogni cosa, e ci preservi Dio dal cercare di sminuire questa fiducia dei santi; ma assaporiamo quaggiù la felicità di entrare dove si trova un Cristo glorificato, d’essere attirati fuori del mondo, strappati da questa scena, per essere introdotti, morti e risuscitati con Lui, nella Canaan celeste.
Là non è più il molto bestiame motivo del cammino, non si tratta di assestare la propria vita più o meno fedelmente secondo quel che si possiede; piuttosto, avendo lasciato tutto dietro a sé — se stesso assieme agli affari della vita — in fondo al fiume della morte, si tratta di combattere per prendere possesso di tutti i nostri privilegi in Cristo, di realizzarli per la fede, e di goderne per mezzo della potenza dello Spirito. Notate bene che, volenti o nolenti, tutti debbono attraversare il Giordano perché anche questi nostri fratelli combattono con noi contro l’incredulità, contro la potenza di Satana che spiega la sua efficacia nel mondo; ma la morte e la risurrezione sono per loro un fatto (lo è per tutti), non una realizzazione. Occorre che l’anima la realizzi per prendere possesso del paese.
2. Capitolo 2: Rahab
Nella seconda parte del cap. 1 abbiamo visto due classi di persone chiamate ad attraversare il Giordano per entrare nel paese della promessa, figura dei luoghi celesti: il popolo, e le due tribù e mezzo il cui carattere morale non è all’altezza della loro vocazione, ma che prendono parte al combattimento per assicurare ad Israele il possesso della sua eredità.
Rahab e la sua casa ci presentano una terza classe di persone: i Gentili che per la fede condividono, con l’antico popolo di Dio, il godimento delle promesse. Rahab la meretrice era una pagana; apparteneva per nascita a quella vasta classe di cui parla l’epistola agli Efesini: «Voi, Gentili di nascita (cioè pagani) chiamati i non circoncisi da quelli che si dicono i circoncisi perché tali sono, per mano d’uomo, in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, ed estranei ai patti della promessa, non avendo speranza ed essendo senza Dio nel mondo». Inoltre Rahab era una persona degradata fra i Gentili stessi.
Ma la parola di Dio giunge al suo orecchio: «Noi abbiamo udito», dice alle spie. Era una parola che stabiliva la grazia e la liberazione per gli Israeliti, il giudizio per loro. La fede in questa parola la pone immediatamente, nella sua coscienza, sotto il peso del giudizio: «Non appena l’abbiamo udito, il nostro cuore si è strutto» (v. 11).
Come il suo popolo, essa è piena di paura; ma mentre il popolo aveva perduto ogni coraggio, questo timore in lei era il principio della sapienza, poiché era il timore dell’Eterno. Il timore la fa guardare a Dio e immediatamente essa acquista la certezza («io so», v. 9) che questo Dio è un Dio di grazia per il suo popolo nel quale cercherà rifugio. La fede non è l’immaginazione umana che ama illudersi e vede le cose sotto la luce che le piace. Non è la mente umana che architetta le sue conclusioni su delle possibilità o delle probabilità; dice semplicemente «io so», perché ha udito quel che l’Eterno ha detto.
Rahab guarda a Dio. È sotto la minaccia del giudizio, ma vede che Dio s’interessa del suo popolo. E dice fra sé: affinché Dio mi sia propizio, bisogna ch’io sia con questo popolo. Così, quando le spie si presentano, Rahab, per la fede, le riceve «in pace» (Ebrei 11:31); e mentre «il mondo» le cerca ovunque per sbarazzarsi della testimonianza di Dio, essa le stima e le mette al sicuro, poiché sono per lei il mezzo adoperato da Dio per farla sfuggire al futuro giudizio. Non solo Rahab crede al Dio d’Israele, ma come disse qualcuno, s’identifica coll’Israele di Dio.
La sua fede riceve una risposta immediata. Ella non ha bisogno, per acquistarne la certezza, di vedere Gerico circondata dall’esercito dell’Eterno; non sarebbe fede, che è certezza di cose che si sperano e convinzione di cose che non si vedono.
Notate quanto la risposta è completa e degna di Dio. Ella aveva detto: «Giuratemi… che ci preserverete dalla morte». I messaggeri rispondono: «Siamo pronti a dare la nostra vita per voi». La sua fede trova in altri (come noi in Cristo) il garante per sostituzione che la morte non la colpirà.
Non è tutto. Un cordone di filo scarlatto, simbolo della morte d’un essere senza apparenza e che avrebbe poi detto: «Io sono un verme e non un uomo», le basta come pegno e garanzia. Come il sangue dell’agnello pasquale messo sulla porta della casa allontanava il giudizio dell’angelo distruttore, così il cordone scarlatto sospeso alla finestra d’una casa che «era sulle mura», garantirà la casa e tutti coloro che vi si trovano, quando le mura crolleranno al suono delle trombe dell’Eterno.
Ancora un punto: I garanti della salvaguardia di Rahab sono dei testimoni viventi.
È lo stesso per noi: Cristo è il testimone vivente davanti a Dio dell’efficacia perfetta, in redenzione, del suo sangue versato alla croce per noi. «Non mediante il sangue di becchi e di vitelli, ma mediante il proprio sangue, è entrato una volta per sempre nel santuario, avendo acquistata una redenzione eterna».
Caro lettore, che bella fede è quella di Rahab! Non aspetta, secondo la raccomandazione delle spie, che il popolo sia entrato nel paese (v. 18), per legare il cordone alla finestra; appena son partiti, ella si affretta a metterlo, testimoniando così di aver creduto. La sua fede non tarda, parla ormai ad alta voce; dalla sua finestra proclama Cristo, e l’efficacia della sua opera per salvare la più miserabile delle peccatrici.
Infine, Rahab non è soltanto un esempio di fede, ma anche un esempio delle opere della fede. «Parimente, Rahab, la meretrice, non fu anch’ella gustificata per le opere quando accolse i messi e li mandò via per un altro cammino?» (Giacomo 2:25). È impossibile che vi sia fede senza le opere. Vi sono opere morte, che non sono il prodotto della fede e vi è una fede morta, che non produce opere. Ma le opere di Rahab non possono essere che il frutto della fede. Offrire il proprio figlio in olocausto come fece Abrahamo, agire come Rahab, spezzare un vaso prezioso per versare un profumo di gran prezzo, sono degli atti che il senso umano riprova, e di cui il mondo biasima e punirebbe gli autori; ma ciò che li rende approvati da Dio è che la fede ne è il movente, una fede disposta a sacrificare tutto per Dio e ad abbandonare tutto per il suo popolo.
Così Rahab ha avuto la sua ricompensa: un posto d’onore le è riserbato nel numero di coloro che, fra il popolo terreno di Dio, formano il lignaggio del Messia (Matteo 1:5).
3. Capitolo 3: Il Giordano
I due primi capitoli di cui ci siamo occupati ci conducono al punto centrale della narrazione. Per entrare in Canaan bisognava che Israele passasse il Giordano. Che cos’è dunque il Giordano? Fin qui la liberazione del popolo, dall’Egitto in poi, è caratterizzata da due grandi avvenimenti: la Pasqua e l’attraversamento del Mar Rosso. È bene afferrarne il significato per comprendere quello d’un terzo avvenimento, la traversata del Giordano.
Ognuno di questi tre fatti è un simbolo della croce di Cristo, ma la croce è così ricca e così varia d’aspetti, che occorrono tutte queste figure e anche altre perché possiamo afferrarne la profondità e l’estensione.
Alla Pasqua, troviamo la croce di Cristo che ci mette al riparo dal giudizio di Dio. «Quella notte io passerò per il paese d’Egitto, e percoterò ogni primogenito nel paese d’Egitto, tanto degli uomini quanto degli animali; e farò giustizia di tutti gli dei d’Egitto» (Esodo 12:12). Ora, Israele stesso non potava essere messo al riparo che per mezzo del sangue dell’agnello, posto fra il popolo peccatore e un Dio giudice che era contro di lui. È l’espiazione. Il sangue, per così dire, arresta Dio, lo tiene fuori e ci mette al sicuro al di dentro: «Vedrò il sangue e passerò oltre». Soltanto, non dimentichiamo che è l’amore di Dio che provvede un sacrificio capace di incontrare il suo proprio giudizio. L’amore risparmia così il popolo che, con le sue capacità, non poteva, più degli Egiziani, evitare il Giudice.
La Pasqua ci presenta ancora un’altra verità. Il sangue era quello dell’agnello pasquale interamente arrostito, tipo di Cristo che subì nel modo più completo, esteriormente e nelle profondità del suo essere, il giudizio di Dio per noi e al nostro posto. Mentre erano al riparo per mezzo del sangue, gli Israeliti, e i credenti fra loro sopratutto, trovavano per il loro cuore un alimento: si nutrivano di Lui nella sua morte, con un profondo sentimento dell’amarezza del peccato (le erbe amare), ma d’un peccato completamente espiato.
Al Mar Rosso, troviamo un secondo aspetto della croce di Cristo: la redenzione. «Tu hai condotto con la tua benignità il popolo che hai riscattato». (Esodo 15:13). Se ci libera e ci riscatta, Dio è dunque per noi, invece d’essere contro a noi. Difatti è detto: «L’Eterno combatterà per voi, e voi ve ne starete queti» (Esodo 14:14). La Pasqua fermava un Dio giudice e metteva Israele al sicuro; al Mar Rosso, Dio interviene come Salvatore (15:2) in favore del suo popolo, il quale non ha null’altro da fare che assistere alla liberazione. «State fermi, e mirate la liberazione che l’Eterno compirà oggi per voi» (Esodo 14:13). Alla redenzione, Dio affronta lui i nemici che erano contro a noi, e che noi eravamo impotenti a combattere.
In quale situazione terribile e critica si trovava il popolo di Dio! Il nemico voleva riafferrare la sua preda, inseguiva Israele a spada sguainata, sertandolo contro un mare insuperabile. È lo stesso dei peccatori. La potenza di Satana li spinge verso la morte e la morte è il giudizio di Dio. «È stabilito che gli uomini muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio». Bisogna che l’anima abbia a che fare con quest’ultimo, direttamente, personalmente, ch’essa si trovi posta in contatto immediato con la morte che ne è l’espressione. Nessun mezzo per sfuggire. Il popolo era senz’armi contro il nemico, senza risorse contro la potenza della morte. Ma giunto agli estremi, ecco che Dio interviene. La verga dell’autorità giudiziaria, nella mano di Mosè, è stesa non sopra Israele ma in suo favore, sopra il mare. La morte diventa una via invece d’essere una voragine per il popolo. Essi possono attraversarla a piedi asciutti; che ora solenne quando tutto un popolo passava fra quelle mura liquide innalzate a destra e a sinistra sotto l’azione del «vento orientale»; fra quelle masse che, invece di inghiottirlo, gli facevano da baluardo! L’orrore per sempre; era rimasta la solennità della scena.
Troviamo in questa scena la figura della morte e del giudizio subito da un altro. Il Signore si è presentato al nostro posto. «Tu m’hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare, la corrente mi ha circondato e tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi son passati sopra»; «Le acque m’hanno attorniato fino all’anima» (Giona 2:4,6). Quest’orrore della morte Cristo l’ha sopportato, e lui solo l’ha sentito nelle profondità infinite dell’anima sua santa.
Con l’infinito sguardo scrutasti il cupo abisso,
e sopra l’infinito tuo cuore, in quel momento,
tutto gravò l’eterno nostro mortal tormento.
Il popolo attraversa il mare a piedi asciutti. Il giudizio non trova nulla in loro, perché si è esaurito nella morte, per noi, sulla persona di Cristo alla croce.
Essi passano sani e salvi all’altra riva; in questo troviamo la figura non della morte soltanto, ma anche della risurrezione di Cristo per noi.
È l’insegnamento che ci presenta il Mar Rosso. L’armata dell’avversario è distrutta e trova la sua tomba dove noi abbiamo trovato una via. Ogni terrore è passato; possiamo star ritti in pace sull’altra riva, nella potenza d’una vita di risurrezione che ha traversato la morte. È la fede che introduce in questa benedizione. «Per fede passarono il Mar Rosso come per l’asciutto; il che tentando fare gli Egizi, furono inabissati» (Ebrei 11:29). Mentre la fede l’attraversa, il mondo che cerca da se stesso di incontrare la morte e il giudizio sarà inghiottito.
Dopo aver considerato il significato del Mar Rosso come figura della morte e della risurrezione di Cristo per noi, chiediamoci ora qual è l’estensione della liberazione operatasi in favore del popolo. Questa liberazione è la salvezza, parola semplice ma per i nostri cuori d’un importanza senza pari! Vi sono, nella salvezza, due importanti aspetti. Il primo è la distruzione del nemico, di tutto il suo potere e di tutte le conseguenze di questo potere. La grazia, nella persona di Cristo, per mezzo della morte, vi è entrata invece nostra. È la grazia che porta la salvezza. In tal modo, la potenza di Satana, il mondo, il peccato, la morte, la collera e il giudizio son vinti, annientati per la fede, alla croce di Cristo.
Ma quest’opera benedetta ci dà anche una benedizione positiva: «Tu hai condotto con la tua benignità il popolo che hai riscattato: l’hai guidato con la tua forza verso la tua santa dimora» (Esodo 15: 13) «Vi ho portato sopra ali d’aquila e v’ho menato a me» (Esodo 19:4). «Cristo ha sofferto una volta per i peccati, egli giusto per gl’ingiusti, per condurci a Dio» (1 Pietro 3:18). «Per mezzo di Lui, noi abbiamo, e gli uni e gli altri, accesso al Padre, per un medesimo Spirito» (Efesini 2:18).
Oh, benedizione infinita! Il popolo non solo è scampato, ma è arrivato per una via vivente che l’ha portato fino al termine, nella presenza di Dio stesso, di un Dio che per noi cristiani è il Padre.
«Vedete di quale amore ci è stato largo il Padre, dandoci d’esser chiamati figli di Dio!» (1 Giovanni 3:1). Intoniamo dunque con Israele, ma su una nota più alta, il cantico della liberazione! Non più separazione, non più distanza; lo scopo è raggiunto. Lo scopo è Dio stesso, colui che, per lo Spirito, chiamiamo «Abba! Padre!». E in tutta quest’opera, qual era la parte di attività d’Israele? qual è la nostra? Assolutamente nessuna. La salvezza ci è apportata dalla libera grazia d’un Dio che non esige, che non rivendica i suoi diritti sopra noi, ma che trova la sua soddisfazione ad essere un donatore sovrano.
Ritorniamo ora al Giordano. L’espiazione era fatta alla Pasqua; al Mar Rosso, la redenzione era compiuta, la salvezza acquistata. Ma c’è un’altra cosa: bisogna che il popolo sia in un certo stato per entrare in possesso del paese di Canaan.
Fra il Mar Rosso e il Giordano, Israele aveva attraversato il deserto. Questo viaggio comprende due parti distinte: nella prima, fino a Sinai, era la grazia che conduceva il popolo, la stessa grazia che l’aveva riscattato dall’Egitto e che gli fa fare l’esperienza delle risorse di Cristo, attraverso tutte le sue infermità; nella seconda, dopo il Sinai, Israele si trova sotto il regime della legge. Allora è «provato per conoscere ciò che era nel suo cuore». La prova dimostrò che era carnale, venduto al peccato; che non aveva nessuna potenza, che la sua volontà era inimicizia contro Dio, quando rifiutava d’obbedire alla legge di Dio, e infine si ribellava al momento di occupare il monte degli Amorrei e di entrare in possesso delle promesse. Lo stato morale d’Israele era l’ostacolo assoluto che gli chiudeva le porte di Canaan. E quando giunge al termine della sua esperienza nella carne, ecco il Giordano, un fiume straripante, che si oppone all’avanzare del popolo. Il Mar Rosso gli impediva di uscire dall’Egitto e il Giordano gli impediva di entrare in Canaan. Tentare di passarlo è la fine del popolo; significa essere inghiottiti dai flutti. Troviarno qui una nuova figura della morte. È la fine dell’uomo nella carne, e anche la fine della potenza di Satana. Come potremmo resisterle, noi che non abbiamo nessuna forza? Essa ci separa per sempre dal godimento delle promesse. «Misero me uomo! chi mi trarrà da questo corpo di morte?» Ma la grazia di Dio vi ha provveduto. L’arca condurrà il popolo; essa non solo gli farà conoscere la via por cui dovrà camminare, poiché non erano ancora mai passati per quella via (3:4), ma associa a sé il popolo per attraversare il Giordano. I sacerdoti, rappresentanti del popolo, dovevano prendere in spalla l’arca del patto, e passare davanti ad Israele (v. 6). Era ben l’arca del patto del Signore di tutta la terra che doveva passare davanti a loro (v. 11) attraverso il Giordano, ma non senza loro. L’arca conservava la sua preminenza: «Vi sarà tra voi e l’arca la distanza d’un tratto di circa duemila cubiti» (*) (v. 4); ma gli occhi del popolo fissi su di essa (v. 3) vedevano nello stesso tempo i sacerdoti della tribù di Levi che la portavano. Appena i sacerdoti ebbero tuffati i piedi nelle acque del Giordano, queste furono «tagliate» e il loro corso sospeso. Vi era qui una potenza vittoriosa sulla potenza della morte, e che associava Israele alla sua vittoria.
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(*) Poco più di un chilometro.
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Cari lettori, se così avvenne per Israele, quanto più per noi. Tutto ciò che eravamo nella carne trovò fine alla croce di Cristo. Noi possiamo dire: io sono morto al peccato, morto alla legge; sono crocifisso con Cristo. I miei occhi fissi sull’arca, su Cristo, vedono finire in Lui, in mezzo al fiume della morte, la mia personalità come figlio d’Adamo; ma in Lui pure una potenza vittoriosa, diventata mia, m’introduce nella vita di risurrezione di Cristo, al di là della morte, nel pieno godimento delle cose che questa vita possiede. «Non son più io che vivo, ma è Cristo che vive in me». Senza dubbio la morte stessa non è ancora inabissata. «Ed avvenne che, come i sacerdoti che portavan l’arca del patto dell’Eterno furono usciti di mezzo al Giordano… le acque del Giordano tornarono al loro posto, e strariparon da per tutto come prima» (4:18). Ma quando «questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: La morte è stata sommersa nella vittoria» (1 Corinzi 15:54). Allora la posizione di Cristo al di là di tutto ciò che poteva ritenerci, diverrà anche la nostra per ciò che riguarda i nostri corpi. Ma prima dell’adempimento di queste cose, possiamo già dire: «Ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo» (1 Corinzi 15:57).
Troviamo dunque al Giordano, in modo particolare, la morte a ciò che noi siamo nel nostro antico stato, e il principio d’un nuovo stato, nella potenza della vita con Cristo, col quale siamo risuscitati. Questa morte e questa risurrezione c’introducono attualmente in tutte le benedizioni celesti. Ciò che abbiamo detto or ora ci spiega perché non troviamo qui i nemici, come al Mar rosso. Al Giordano, gli Israeliti non sono inseguiti da Faraone, né dal suo esercito, ma stanno per combattere un nemico che è davanti a loro, e questo combattimento non comincia che dopo la traversata del fiume. Ora entreranno in una serie di esperienze nuove. Quella del deserto di Sinai, era l’esperienza del vecchio uomo, del peccato nella carne; poi viene, in figura, al Giordano, la conoscenza acquistata per la fede che siamo stati trasportati dalla nostra associazione con la natura di Adamo ad una nuova associazione con un Cristo morto e risuscitato; infine, in Canaan, troviamo le esperienze del nuovo uomo, non senza debolezze e senza cadute (se non si vigila), ma con una potenza a nostra disposizione a cui possiamo ricorrere sempre, per essere «forti nella battaglia» oppure per resistere alle astuzie del nemico.
4. Capitolo 4
4.1 Le dodici pietre in Ghilgal
Abbiamo visto nel capitolo precedente che la fede in Cristo ci insegna (dopo un’esperienza sovente lunga quanto i quarant’anni del deserto per Israele) la liberazione dal nostro antico stato e l’introduzione in un nuovo stato in Cristo. L’anima, lavorata da molto tempo, apprende finalmente — è Dio che lo rivela alla fede — che ciò ch’essa cercava inutilmente di raggiungere è un fatto attuale, compiuto in Cristo per la fede.
Stupisce l’estrema semplicità con cui è espressa la scoperta di questo fatto capitale in Romani 7, mentre abbisognò tutto il corso del capitolo per definire le esperienze dell’anima prima della liberazione. Inoltre, l’espressione disperata d’una posizione senza uscita fa posto, senza transizione, a quella della riconoscenza e della gioia: «Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore». Il motivo mi appare molto semplice. Quando l’anima fa questa scoperta, impara che la liberazione ch’essa era incapace di raggiungere l’aveva già operata Dio per mezzo di Cristo e in Lui. Non è più una cosa da compiersi: è un fatto compiuto, che l’anima scopre e di cui si appropria, come preparato da molto tempo per la fede. Allora, nella calma e nella pace che inondano l’anima sua, il credente può dire: Ormai sono morto, perché sono in Cristo: sono morto con Cristo, morto al peccato, alla legge, al mondo; e vivo, non più io, ma Cristo vive in me (Galati 2:19 e 20; Romani 6:10; Colossesi 2:20; Galati 6:14).
È una verità non del dominio dell’intelligenza, e che il ragionamento non spiega, che non è ritenuta dalla memoria. Quante volte ho visto delle anime che cercavano d’impadronirsi, per così dire, dell’affrancamento con tanti sforzi. Che cosa accadeva? Quando, dopo molto travaglio di mente, credevano di essersi resi conto della portata dell’affrancamento, bastava una notte per dissipare ciò che credevano di possedere, come accade alle foglie morte che un soffio spazza via dalla sera al mattino. La realtà dell’affrancamento non si può capire ad un tratto; la troviamo soltanto dopo la nostra esperienza nella carne perché senza questa esperienza l’affrancamento non è conosciuto, come non vi fu passaggio del Giordano per Israele prima del deserto. L’affrancamento non è un’esperienza ma uno stato afferrato per la fede. È sperimentale solo nel senso che io mi vedo in Cristo, invece di afferare, come per la redenzione, un’opera compiuta fuori di me.
Tale è il significato del Giordano per noi. Ma Dio vuole che abbiamo continuamente sotto gli occhi il memoriale di questa vittoria.
Giosuè comanda ai rappresentanti delle dodici tribù di prendere dodici pietre dal mezzo del Giordano, dal luogo dove i sacerdoti si fermarono. Quelle pietre dovevano essere un segno fra i figli d’Israele. Dovevano essere collocate nel luogo dove il popolo passerà la prima notte nella terra di Canaan. Questo luogo fu Ghilgal. Che cosa significavano quelle pietre? Rappresentavano le dodici tribù, il popolo strappato alla morte, per mezzo dell’arca che s’era fermata nel luogo stesso dal quale bisognava essere liberati, e che aveva fermato le acque del Giordano perché Israele passasse il fiume. Ma esse diventavano un monumento all’entrata di Canaan, in Ghilgal, in un luogo dove (come lo vedremo più avanti) il popolo dovrà sempre ritornare; erano un segno destinato ad essere ormai costantemente sotto i loro occhi e sotto gli occhi dei loro figli.
Cari lettori cristiani, come Israele, noi siamo quei trofei della vittoria riportata sulle acque impetuose del fiume. Cristo è entrato nella morte, perché noi vi eravamo. «Uno solo morì per tutti, quindi tutti morirono» (2 Corinzi 5:14), e affinché poi fossimo tratti fuori dalla morte e condotti ad una vita nuova nella sua propria risurrezione: «Quand’eravamo morti nei falli, ci ha vivificati con Cristo… e ci ha risuscitati con Lui» (Efesini 2:5).
Ma abbiamo al di là del Giordano il monumento di quest’opera memorabile, edificato là in permanenza per servire d’alimento alla fede d’Israele, monumento che il popolo ritroverà sempre all’entratta di Canaan. Per noi è Cristo, oggetto della nostra fede, il primogenito d’infra i morti, risuscitato ed entrato nei luoghi celesti, ma un Cristo che ci rappresenta lassù e ci associa a sé, come si è associato a noi nella morte.
Ora, Dio vuole che il Cristo, posto così davanti ai nostri occhi, produca in noi un effetto morale corrispondente; che la nostra coscienza sia impegnata in modo durevole da questa contemplazione. «Queste pietre saranno, per i figli d’Israele, una ricordanza in perpetuo»; anche per noi è così, con un effetto interiore che l’accompagna. Il credente risuscitato con Cristo porta su di sé il carattere indelebile della sua morte. Se tale è il mio posto in Cristo, posso io vivere ancora alle cose che ho abbandonato, che Cristo ha lasciato in fondo al Giordano? «Il suo morire fu un morire al peccato una volta per sempre: ma il suo vivere è un vivere a Dio». Fin qui è a ricordanza. «Così anche voi fate conto d’esser morti al peccato, ma viventi a Dio, in Cristo Gesù» (Romani 6:10,11). Ecco l’effetto morale.
Le dodici pietre in Ghilgal non sono soltanto la nostra morte e la nostra risurrezione con Cristo (il Giordano significava questo), ma sono il memoriale di questa morte e di questa risurrezione, vedute in Cristo risuscitato e entrato nella gloria. Questo monumento ci ricorda ciò che ormai dobbiamo essere. Al Giordano, Dio ci dichiara morti, ed è la parte di tutto il popolo; ogni cristiano è morto e risuscitato con Cristo. Ghilgal ne è la realizzazione morale. Tutti avevano passato il Giordano, però molti di loro erano forse tanto indifferenti da non informarsi del perché di quel monumento di Ghilgal, di quelle pietre che dicevano al popolo: «Fate conto d’esser morti al peccato, ma viventi a Dio, in Cristo Gesù» (Romani 6:11).
4.2 Le dodici pietre in mezzo al Giordano
Se le dodici pietre in Ghilgal parlavano alla coscienza d’Israele, un altro monumento elevato in mezzo al Giordano parlava seriamente al suo cuore. Chi poteva vedere quelle pietre, poiché le acque che staripavano da per tutto le avevano ricoperte? Potevano soltanto essere conosciute dalla fede. Non erano il simbolo d’una vita di risurrezione, che aveva attraversato la morte e ne portava le insegne e il carattere; erano essenzialmente il monumento della morte. Le pietre in Ghilgal sono il monumento dell’introduzione per mezzo di Cristo nei nostri privilegi, privilegi in cui noi entriamo soltanto dopo essere passati per la morte con Lui. Ma quando penso alle pietre nel Giordano, il mio cuore è in comunione con Lui nella morte. Ritorno a sedermi, per così dire, in riva al fiume della morte e dico: Ecco il mio posto; là io ero; là Egli è entrato per me. Egli mi ha liberato dal peccato, dal mio vecchio uomo e l’ha lasciato, con la sua vita, in fondo al Giordano; le acque profonde mi hanno seppellito nella persona di Cristo. Che cosa ti obligava, diletto Salvatore, a prendere quel posto? Tu solo avevi il diritto di non occuparlo mai; tu solo, avendo lasciato la tua vita, avevi il diritto di riprenderla. Ma il tuo amore per me ti ha fatto entrare nella morte. Nessun altro motivo, fuorché la gloria di Dio che avevo disonorato, ha potuto farti discendere là. Non soltanto tu hai fermato vittoriosamente per me le acque del Giordano, impegnando da solo il combattimento, «finché tutto quello che l’Eterno aveva comandato a Giosué… fosse eseguito» (v. 10), e il popolo intero fosse passato; ma quelle stesse acque son passate su di Te. Io vedo in quel monumento quel che la morte è stata per la tua anima santa; vi ritrovo il ricordo dell’amarezza profonda di quel calice che tu hai bevuto! Le dodici pietre «vi sono rimaste fino al dì d’oggi» (v 9). Il monumento resta, la croce resta, testimomanza eterna d’un amore che ho imparato a conoscere là, testimonianza anche del solo posto in cui Dio potesse mettere tutto quel che appartiene al mio vecchio uomo.
In rapporto con queste cose, notate anche ciò che è presentato al v. 18. «E avvenne che, come i sacerdoti che portavano l’arca del patto dell’Eterno furono usciti di mezzo al Giordano e le piante dei loro piedi si furono alzate e posate sull’asciutto, le acque del Giordano tornarono al loro posto e strariparon da per tutto, come prima». La sentenza è eseguita, il vecchio uomo condannato, la condanna passata, la morte vinta; ma la morte resta. Ciò che era prima un ostacolo per entrare, ostacolo annullato dall’arca che ci aprì la strada, diventa, dopo il nostro passaggio, quel che ci separa non solo dal lontano Egitto e dal deserto di Sinai ma da noi stessi. Siamo noi soddisfatti di non aver più nulla a che fare con l’uomo, con noi stessi? Se così non è, allora non vi può essere per noi godimento durevole nel paese di Canaan.
Le due tribù e mezzo (v. 12 e 13) passarono il Giordano coi loro fratelli, equipaggiati per la guerra, per combattere; ma due cose non conoscevano: il valore del paese di Canaan e il valore della morte. Il fiume non li arrestò quando, rientrando, raggiunsero le mogli, i figli e i greggi che li aspettavano a riva. Il paese «al di qua» aveva per loro un’attrazione, mentre il popolo, che godeva in pace Canaan, vedeva con gioia, nel Giordano, la barriera che lo separava da tutto ciò che, ormai, non aveva più alcun valore ai suoi occhi.
«In quel giorno, l’Eterno rese grande Giosuè agli occhi di tutto Israele; ed essi lo temettero, come avevano temuto Mosè tutti i giorni della sua vita» (v. 14). Lo stesso è di Cristo. La gloria del Padre lo elevò grandemente, come Salvatore, ai nostri occhi, in virtù della sua opera perfetta. Il risultato di quest’opera è l’introduzione dei santi con Lui nel godimento attuale e nel possesso futuro della gloria. È il suo titolo di gloria e il suo onore per sempre.
Ma il Signore possederà anche altre corone. Verrà per Lui il giorno, di cui Salomone godette in figura, di cui è detto: «Salomone si assise dunque sul trono dell’Eterno come re, invece di Davide suo padre; prosperò, e tutto Israele gli ubbidì. E tutti i capi, gli uomini prodi, e anche tutti i figli del re Davide si sottomisero al re Salomone. E l’Eterno innalzò sommamente Salomone nel cospetto di tutto Israele, e gli diede un regale splendore quale nessun re, prima di lui, ebbe mai in Israele» (1 Cronache 29:23-25).
Cristo regnerà; il suo popolo Israele gli sarà sottomesso, e anche quelli ch’Egli si degna di chiamare suoi fratelli piegheranno felici le ginocchia dinanzi a Lui, riconoscendo con gioia, nella gloria, alla sua presenza, ch’Egli è il Signore, come lo riconobbero quaggiù durante i giorni del suo rigettamento e della sua assenza.
Troviamo in 2 Cronache 32:23, un’altra gloria futura di Cristo. Sotto il re Ezechia, dopo la liberazione d’Israele, per mezzo del giudizio delle nazioni nella persona dell’Assirio, è detto: «E molti portarono a Gerusalemme delle offerte all’Eterno, e degli oggetti preziosi ad Ezechia, re di Giuda, il quale, da allora, sorse in gran considerazione agli occhi di tutte le nazioni». Le nazioni gli saranno sottomesse.
Infine, è scritto in Filippesi 2:9-11: «Ed è perciò che Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al disopra d’ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto la terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre». Il cielo, la terra e l’inferno si curveranno davanti a Colui che si è abbassato fino alla morte della croce!
5. Capitolo 5
5.1 La circoncisione
Abbiamo trovato al cap. 1 i principi morali richiesti per prendere possesso di Canaan; abbiamo visto al cap. 2 che, quando si tratta dei luoghi celesti, Dio esce dai confini di Israele e che vi si entra sul principio della fede. I cap. 3 e 4 ci hanno presentato il segreto per entrarvi.
Al cap. 5 impariamo un altro segreto, quello della vittoria; infatti, questo capitolo incomincia (v. 1) coi nemici. Tutti i re dei Cananei e degli Amorrei sfilano, per così dire, sotto i nostri occhi, ma la potenza che hanno ricevuto da Satana è già stata abbattuta al Giordano, alla morte, nella persona del loro principe. Malgrado ciò, sono troppo forti per il povero popolo d’Israele, ma Dio lo metterà in grado di riportare la vittoria sui nemici. In che modo? Egli spoglia il suo popolo di tutte le armi e di tutte le risorse che potrebbe trovare in se. La carne non può entrare nel combattimento, Dio la giudica, la mette da parte; ecco quel che significa la circoncisione. La circoncisione è «lo spogliamento del corpo della carne» in Cristo. È un fatto compiuto per ogni credente, come il Giordano è una cosa compiuta per ognuno di noi, che ne realizziamo o no la portata.
L’insegnamento di Colossesi 2:9-15 su questo punto è molto chiaro e di grande bellezza: «In Lui — dice l’apostolo — abita corporalmente tutta la pienezza della Deità». Tutto è in Cristo, nulla gli manca. Ma al v. 10 siamo noi che abbiamo tutto in Lui, e nulla ci manca; non si può dunque cercare qualcosa fuori di Lui per aggiungerla. «In Lui voi siete anche stati circoncisi d’una circoncisione non fatta da mano d’uomo, ma della circoncisione di Cristo, che consiste nello spogliamento del corpo della carne». Non soltanto, dice l’apostolo, non vi è nulla da aggiungere, ma anche non vi è nulla da togliere a quelli che sono in Lui. Il corpo della carne è giudicato e noi ne siamo spogliati; è un atto compiuto, è la circoncisione del Cristo. Al v. 12 troviamo che questa fine del vecchio uomo che ha luogo per noi nella morte di Cristo, diventa personale nel cristiano: «Essendo stati con Lui sepolti nel battesimo, nel quale siete anche stati risuscitati con Lui mediante la fede nella potenza di Dio che ha risuscitato Lui dai morti». Questo passo abbraccia la cosa nella sua estensione, e corrisponde alle due verità rappresentate dal Giordano. È la morte e la risurrezione con Cristo. Ecco dunque stabilite due grandi verità: noi siamo compiuti davanti a Dio in Cristo, e perfettamente liberati da tutto ciò che siamo in noi stessi.
L’epistola ai Filippesi (3:3) stabilisce il contrasto fra la circoncisione fatta con mano e la vera circoncisione, quella del Cristo. «I veri circoncisi siamo noi», dice l’apostolo, «che offriamo il nostro culto per mezzo dello Spirito di Dio». La circoncisione carnale sotto la legge non aveva mai fatto ciò. Bisognava non aver più nulla a che fare con la carne per rendere culto per lo Spirito. Poi aggiunge: «che ci gloriamo in Cristo Gesù». La carne, anche religiosa, non si gloria che in se stessa (*). Infine l’apostolo conclude dicendo: «e non ci confidiamo nella carne». Ecco qual’è la vera circoncisione. È mettere da parte per mezzo del giudizio, nella croce di Cristo, ciò che la Parola chiama «la carne», in modo che ormai non possiamo più avere alcuna fiducia in essa. Verità importante da conoscere! Quando si tratta del combattimento, come per il popolo d’Israele, bisogna che le stigmate della morte della carne siano su di noi. Notate, cari lettori, non si tratta qui di cercare di non aver più nulla a che fare con noi stessi, né di cercare di spogliarci; è uno spogliamento compiuto alla croce; «il peccato nella carne» è condannato e la fede afferra questo fatto che diventa una realtà pratica in quanto la coscienza prova e riceve questo giudizio. Occorreva che il carbone ardente toccasse le labbra d’Isaia; e benché il fuoco giudiziario dell’altare si fosse esaurito sulla vittima, benché non gli rimanesse che la potenza purificatrice, il profeta doveva essere messo in contatto col carbone ardente, simbolo dell’esperienza fatta dalla nostra coscienza del giudizio divino (Isaia 6:6-7).
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(*) Ne trovate la prova in Colossesi 2:21-23. Gli ordinamenti, i comandamenti e gli insegnamenti degli uomini, possono avere un’apparenza di saggezza per quel tanto che v’è in essi di «austerità nel trattare il corpo, ma… servono solo a soddisfare la carne».
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5.2 Ghilgal
«E l’Eterno disse a Giosuè: Oggi vi ho tolto di dosso il vituperio dell’Egitto». Al Mar Rosso erano stati liberati dalla schiavitù di Satana e del peccato; qui, per la prima volta, sono liberati, per mezzo del giudizio, dalla schiavitù della carne. Ma lo Spirito di Dio aggiunge: «E quel luogo fu chiamato Ghilgal, nome che dura fino al dì d’oggi». È qui che trova posto una seconda grande verità. Ho detto che la circoncisione, il giudizio, la messa da parte della carne, è un fatto compiuto in Cristo; ma si presenta inoltre sotto un aspetto essenzialmente pratico. Non può essere considerata puramente come dottrina. Il luogo della circoncisione era Ghilgal. Se questo luogo era il punto di partenza dell’esercito dell’Eterno, prima che avesse riportato vittorie, diventava il luogo del ritrovamento dopo la vittoria (10:15) e il punto di partenza per riportarne delle nuove. Il giudizio della carne rimaneva. Il popolo doveva applicarvisi incessantemente, altrimenti la carne si sarebbe adoperata per riafferrare ciò che aveva perduto, e la prima vittoria non sarebbe seguita da una seconda. Più volte ritroveremo Ghilgal nel corso di questo libro; ci basti per ora ritenere che se la circoncisione significa lo «spogliamento del corpo della carne», Ghilgal è la mortificazione delle «nostre membra che sono sulla terra». Colossesi 3:5-8 ci insegna appunto questo, in contrasto con il cap. 2:11.
Fratelli, ogni vittoria ci apre nuovi orizzonti sul paese della promessa. Senza lotta non c’è mezzo di impossessarsi di nessuna delle nostre benedizioni, ma senza Ghilgal non è possibile la vittoria. Che cosa ci è più prezioso? Canaan coi suoi combattimenti, oppure le nostre membra sulla terra? Preferiamo noi la soddisfazione passeggera delle concupiscenze della carne al penoso compito di ritornare a Ghilgal? In questo caso, l’umiliazione e il castigo verranno ad insegnarci a ritrovare quel sentiero, se non avremo perduto del tutto il segreto della forza nelle amarezze, nelle lacrime, e nella rovina irrimediabile della sconfitta.
5.3 Il nutrimento di Canaan
Le prime condizioni indispensabili per la battaglia sono lo spogliamento della carne per mezzo del giudizio operato alla croce, e la realizzazione di questo giudizio nella pratica. Né l’elmo di Saul, né la corazza, né la sua spada, potevano essere d’alcuna utilità a Davide per combattere contro il Filisteo; bisognava che se li togliesse di dosso (1 Samuele 17:39).
Ma vi è un’altra risorsa. Prima di alzarsi per combattere, Israele deve sedersi alla tavola di Dio. Bisogna essere nutriti per resistere alle fatiche della guerra; è questo il segreto della forza. Nutriti di che? Di Cristo. Egli è la sorgente della forza. Se il popolo manca di nutrimento non camminerà verso la vittoria. Che cosa benedetta entrare nel combattimento con dei cuori nutriti di Cristo! Se si avanza verso il nemico con un cuore vuoto di Lui, possiamo aspettarci d’essere vinti. Nel caso contrario, come vediamo al capitolo seguente, il combattimento non spaventa affatto. Accordi Dio ad ognuno di noi di fare questa esperienza. Non aspettiamo domani; potremmo essere chiamati a combattere questa sera stessa. Nutriamoci di Cristo oggi e domani e ad ogni istante, per essere pronti al primo segnale, ad alzarci per camminare verso la vittoria.
Diletti, il nostro nutrimento è una persona, è Cristo; non sono né delle verità né dei privilegi; è Lui stesso. Egli ci è presentato qui come il nostro alimento, sotto tre aspetti differenti: la Pasqua, la manna, il grano del paese.
Questa Pasqua di Canaan è la stessa festa che il popolo aveva celebrato in Egitto, e tuttavia quanto differiscono l’una dall’altra! Là, era un popolo avente coscienza della sua colpa, frettoloso di fuggire, protetto dal sangue dell’agnello in mezzo alle tenebre e al giudizio; qui è un popolo arrivato allo scopo, entrato in Canaan, liberato dalle ultime tracce dell’obbrobrio d’Egitto, un popolo risuscitato che ha attraversato la morte, ma che torna a sedersi in perfetta pace al punto di partenza, al fondamento stesso di tutte le sue benedizioni, attorno al memoriale d’un Cristo morto sulla croce per noi.
La Pasqua in Canaan corrisponde a ciò che la Cena rappresenta per i cristiani; e, notatelo, è un nutrimento permanente. La nostra Cena non cesserà nella gloria; soltanto, non sarà più il ricordo della morte del Signore celebrato durante la sua assenza; e non avremo neppure bisogno d’un’immagine materiale per rammentarlo; vedremo in mezzo al trono l’Agnello stesso come immolato. Lui, centro visibile della nuova creazione fondata sulla croce, punto d’appoggio e perno delle benedizioni eterne, oggetto che le miriadi di miriadi contemplano e adorano in un culto universale!
Ma vi è un altro cibo, per così dire, della cena celeste. «L’indomani della Pasqua in quel preciso giorno, mangiarono dei prodotti del paese: pani azzimi e grano arrostito» (*) (v. 11). Dio dava loro un cibo che non avevano conosciuto in Egitto: il grano del paese di Canaan, un Cristo celeste, glorioso, ma un Cristo uomo, che aveva attraversato questo mondo contaminato dal peccato in un’umanità senza macchia, come il pane era senza lievito; che in questa stessa umanità, aveva attraversato il fuoco del giudizio, come il grano arrostito; e che era entrato in risurrezione nella gloria, per sedersi come uomo alla destra di Dio.
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(*) La versione Riveduta dice: «mangiarono dei prodotti del paese: pani azzimi e grano arrostito». Il testo originale però è: «mangiarono del vecchio grano del paese, dei pani azzimi e del grano arrostito».
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Ora, quest’uomo è là per noi. Non solo è il nostro avvocato davanti al Padre ma nella sua persona ha introdotto l’uomo nella gloria. Il posto è preparato per l’uomo nel terzo cielo. L’uomo, in Cristo, entra nel completo godimento delle beatitudini celesti. Io considero quest’uomo e dico: Ecco il mio posto! Io sono in Lui, un uomo in Cristo, avente già la sua vita, la vita eterna, la vita dell’uomo risuscitato d’infra i morti; io sono unito a Lui, seduto in Lui nei luoghi celesti, e godo di questa infinita benedizione per mezzo dello Spirito Santo, la potenza stessa che mi ha qui introdotto.
Adorabile Salvatore! Per me tu sei disceso; tu sei stato per me sulla croce; tu sei entrato nella gloria e mi ci hai introdotto nella tua persona, prima di avermi là simile a te, per tutta per l’eternità! Contemplare un tale Cristo, che gioia gloriosa e che potenza! «Noi tutti, contemplando a viso scoperto, come in uno specchio, la gloria dei Signore, siamo trasformati nell’istessa immagine di lui, di gloria in gloria, secondo che opera il Signore, che è Spirito» (2 Corinzi 3:18). Si trova in questo versetto il risultato del fatto che ci si nutre del grano del paese.
L’anima modellata su di Lui, su un Cristo celeste, è capace di riprodurre i caratteri di quell’oggetto benedetto. Tale è la nostra parte; tale fu la parte di Stefano, il martire fedele. Vediamo in lui un uomo ripieno dello Spirito Santo come frutto dell’opera perfetta di Cristo, un credente nel suo carattere normale, in mezzo a circostanze tali da fargli perdere questo carattere, e che nondimeno risponde perfettamente allo scopo per cui Dio lo ha messo quaggiù. Lo Spirito, senza impedimento, lo attacca ad un oggetto nel cielo, non avendo il suo cuore alcun oggetto sulla terra e non essendo lo Spirito obbligato a combattere in lui per portarlo all’altezza d’un Cristo celeste. I caratteri dell’Uomo glorioso nel cielo diventano in lui quelli dell’Uomo perfetto sulla terra: «Signore Gesù, ricevi il mio spirito»; «Signore, non imputar loro questo peccato». Ecco un esempio che ci mostra che cos’è «essere trasformati alla stessa immagine di lui, di gloria in gloria». Non è una cosa mistica o un prodotto vago dell’immaginazione umana; è nella nostra vita giornaliera, nei nostri atti, nelle nostre parole, per mezzo dell’amore, dell’intercessione, della pazienza, della dipendenza, che noi riproduciamo in grazia i caratteri del Cristo glorioso che contempliamo. È così per noi, fratelli, in questi giorni? Sono i nostri cuori tanto nutriti di Lui che gli uomini possano notarlo nella nostra vita? Quelli che ci attorniano possono vedere, come per Stefano o per Mosè, i raggi della gloria di Cristo sopra il nostro viso? Non siamo noi che dobbiamo saperlo, poiché, in questo caso, avremmo già perduto di vista l’oggetto celeste per volgere lo sguardo su noi stessi. Mosè solo, in tutto il campo d’Israele, ignorava che il suo viso risplendesse.
«E la manna cessò l’indomani» (v. 12). Israele non ne mangiò più; la manna era il nutrimento del deserto, un Cristo disceso dal cielo in mezzo alle nostre circostanze, per incoraggiarci nelle difficoltà della strada. All’opposto d’Israele, noi cristiani abbiamo il privilegio d’avere Cristo come nutrimento ad ogni riguardo. Ma la manna non è un nutrimento permanente; è un alimento del viaggio. Senza dubbio, era indispensabile e tanto preziosa che il ricordo restò in permanenza davanti a Dio nel vaso d’oro nell’arca (Esodo 16:33) e rimarrà sempre davanti a noi quando avremo la «manna nascosta» (Apocalisse 2:17); soltanto, come nutrimento, essa è transitoria; il viaggio avrà termine. Ma il grano del paese sarà, come la Pasqua, il nostro nutrimento permanente ed eterno, non per essere noi, come quaggiù, trasformati gradatamente alla sua immagine, ma perché già gli saremo conformi (Filippesi 3:21); «saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è» (1 Giovanni 3:2).
5.4 Il capo dell’esercito dell’Eterno
Il combattimento sta per incominciare, e il generale dell’esercito non è ancora apparso. Egli si presenta all’ultimo momento, ma proprio al momento opportuno «come Giosuè era presso a Gerico». La fede può contare su Lui nel momento del bisogno; i preparativi per combattere sono, come abbiamo visto, Ghilgal e il nutrimento celeste; la potenza, il piano, l’ordine, il momento della battaglia, di tutto ciò e più ancora è responsabile il capo dell’esercito. Chi non è stato a Ghilgal non può comprendere un simile modo di combattere e introduce nella battaglia i suoi propri piani, impegna il combattimento o troppo presto o troppo tardi, si lancia all’assalto e combatte in una falsa direzione; cade, è vinto.
Notate questo rappresentante dell’Eterno, quest’angelo del Signore, di cui l’Antico Testamento ci parla così sovente (è detto di lui in Esodo 23:21: «Il mio nome è in lui»), con quale meravigliosa grazia si presta alle circostanze del suo popolo. Egli si mostra a Israele come liberatore al Mar Rosso, come viaggiatore nel deserto, come Capo d’esercito in Canaan; poi, più tardi, quando il regno è stabilito, abita in pace in mezzo a loro. Ammirabile condiscendenza la sua! E quale sicurezza dà alle nostre anime. Qui lo vediamo «con in mano la spada snudata». È questa spada che percuoterà; Israele non ne ha bisogno di altre.
L’angelo dell’Eterno interviene, nella storia del popolo, tre volte con la spada snudata. La prima volta per preservarlo dai pericoli che lo minacciano quando Balaam, che si trovava in cammino per maledire Israele, incontra questo messaggero che lo ostacola (Numeri 22:23); la seconda volta nel nostro capitolo per combattere con Israele e dargli la vittoria; la terza, ahimè! per giudicare il popolo che aveva peccato nella persona del suo re (1 Cronache 21:16).
Noi pure, diletti fratelli, possiamo aver a che fare con l’angelo dell’Eterno in questi tre modi. Quante volte, senza che neppure ci accorgiamo, egli fa fronte al nemico che tenta di accusarci e di maledirci! Quante volte ci associa in grazia al combattimento contro le potenze delle tenebre che sono nei luoghi celesti! Quante volte, infine, si rivela a noi come a Davide, con la spada snudata, rivolta contro la città di Dio, cioè come colui che è per i suoi un fuoco consumante, che li castiga e li umilia, ma per rimettere poi la spada nel fodero e ristorarli alla fine.
Malgrado tutto anche questo è consolante; ma com’è terribile, come Balaam, vedersi davanti l’angelo con la spada snudata, quando vendeva al diavolo, l’accusatore dei santi, per una ricompensa, il dono ricevuto da Dio!
Un tale sentiero è quello d’un riprovato che non conosce Dio. Sono tanti i veri cristiani, ai nostri giorni di rovina, che s’associano in qualche maniera al cammino di Balaam, ad una ostilità contro il popolo di Dio, rivestita dell’abito del profeta, e che si mette al servizio del mondo per fare l’opera dei nemico!
«Giosuè andò verso di lui, e gli disse: Sei tu dei nostri, o dei nostri nemici?» È impossibile rimanere neutri nel combattimento.
Dovremmo tutti comprenderlo, come Giosuè: «Chi non è contro a noi, è per noi» (Marco 9:40). «E il capo dell’esercito dell’Eterno disse a Giosuè: Levati i calzari dai piedi, perché il luogo dove stai è santo. E Giosuè fece così» (v. 15). Colui che si rivela a Giosuè come capo dell’esercito, rivendica anche il suo carattere di santità. Quando si è chiamati a combattere sotto questo divino condottiero, è impossibile rimanere associati, personalmente o come popolo di Dio, con il male o la contaminazione nel cammino. Il popolo fu vinto davanti alla città di Ai per avere misconosciuto questo principio. Conservare nel nostro cuore un male non giudicato ci espone al giudizio di Dio e ci abbandona senza difesa alcuna nelle mani del nemico; è lo stesso per il male nell’assemblea. Se Dio è santo in redenzione, come lo mostrò a Mosè nel pruno ardente (Esodo 3:5) (e dove mostrò la sua santità in modo più luminoso?), ricordiamoci che Egli non è meno santo nel combattimento, e che non possiamo entrarvi che dopo esserci tolti i calzari dai piedi.
6. Capitolo 6: Gerico
Il popolo è finalmente giunto in presenza dell’ostacolo terribile che gli era stato posto davanti per impedirgli di prendere possesso di Canaan (Numeri 13:28).
Nulla il nemico odia di più che vederci entrare nei nostri privilegi e prendere una posizione celeste. Sa benissimo che gli esseri celesti gli sfuggono e gli rapiscono i suoi beni. Così il suo primo sforzo è di porre ostacolo alla nostra avanzata. Troviamo questo nella storia di ogni credente. Non dico che accada sempre al tempo della conversione, ma capita spesso quando si tratta di entrare nel sentiero del combattimento per realizzare la nostra vocazione celeste. Il primo oggetto che incontriamo è l’ostacolo frapposto da Satana, una fortezza in apparenza inespugnabile. Impossibile entrarvi, impossibile uscirne (v. 1). Tutto ciò è tale da spaventarci e farci tornare indietro; ed è proprio lo scopo dell’avversario, che vi riesce, purtroppo, sovente. Nessuno di noi, dico, può evitare d’incontrare un giorno o l’altro la sua «fortezza di Gerico». Non è necessario enumerare le difficoltà di ogni anima perché sono molto diverse; ma si riassumono tutte in questa parola: l’ostacolo. Se avanzo, che accadrà? Perderò la mia posizione, la mia carriera sarà compromessa, i miei amici m’abbandoneranno, i miei parenti non lo sopporteranno mai; dovrò lasciare tutti quelli che amo, separarmi da cristiani fra cui ho trovato della benedizione. Tale è l’aspetto frequente che le alte mura di Gerico rivestono per l’anima. Quanti cristiani perdono coraggio prima di combattere, e se ne tornano indietro!
Ma l’anima preparata da Dio non indietreggia dinanzi alle difficoltà. Sa di possedere un mezzo per vincerle e se ne serve. Mezzo semplicissimo, mezzo unico, poiché non ve n’è altri: la fede. «Per fede caddero le mura di Gerico, dopo essere state circuite per sette giorni» (Ebrei 11:30). La fede è la semplice fiducia in un altro, nel Signore; ed è anche l’assenza completa di fiducia in se stesso, poiché queste due cose sono inseparabili. La fede basta per far cadere l’ostacolo. Che importa se le mura s’innalzano fino al cielo? Che cosa sono esse per la fede? La fede conta sulla potenza di Dio. È questo il primo grande carattere della fede. «Affinché la vostra fede fosse fondata non sulla sapienza degli uomini, ma sulla potenza di Dio» (1 Corinzi 2:5). La cosa necessaria per il combattimento è una potenza assolutamente divina; essa sola può abbattere l’ostacolo; su essa unicamente la fede riposa.
Vedete ora come questa potenza, quando fa appello alla fede, è gelosa di non lasciar sussistere nulla che possa aver l’apparenza della sapienza umana. La scelta delle armi o dei mezzi di combattimento non è loro data dal capo dell’esercito dell’Eterno che parla con Giosuè. Non hanno nessun piano da fare, non hanno da consultarsi per trovare i mezzi per riportare la vittoria. Dio stesso ha ordinato ogni cosa. Ora, la fede si sottomette all’ordine stabilito da Dio, si serve dei mezzi ch’Egli indica e non ne inventa. Occorrono delle società, dei comitati, dei sinodi, del denaro, si dice. È all’uomo che servono tutte queste cose; ma alla fede non abbisogna niente di tutto ciò. Dio ha dei mezzi propri.
Ma perché non semplifica Egli la via? Perché tutte queste complicazioni? Perché circuire ogni giorno la città, e per sette volte il settimo giorno? Perché questo corteo e l’arca e le trombe? Cari lettori, la fede non domanda perché; non ragiona sui mezzi di Dio ma li accetta e riporta la vittoria invece d’essere battuta dal nemico. Fu lo stesso alla Pasqua, fu lo stesso al mar Rosso. La fede è dunque stupida? No, ma prima si sottomette e in seguito comprende. La fede vi dirà il perché dei sette giorni, dell’arca, del corteo, delle trombe e delle grida d’acclamazione; ma ve lo dirà dopo essersi sottomessa. Se volesse comprendere prima di sottomettersi, sarebbe l’intelligenza e non la fede.
Ma ancora, la fede avanza nella dipendenza da Dio che dice: «Io do in tua mano Gerico, il suo re e i suoi prodi guerrieri». Poi è messa alla prova. Ci vuole della pazienza; il popolo deve camminare così per sei giorni. Bisogna in seguito che la pazienza abbia la sua opera compiuta (vedere Giacomo 1:4): «Il settimo giorno, farete il giro della città sette volte».
Notate poi altri caratteri benedetti di questa fede di gran prezzo. Essa ci associa a Cristo, ci dà parte e comunione con Lui. Dio dispone il suo popolo attorno all’arca nel combattimento. Non è più, come al Giordano, l’arca che precede il popolo, ma qui gli uomini armati precedono l’arca con i sacerdoti; e la retroguardia chiude la marcia. Però quest’associazione con Cristo non ha mai per scopo né per risultato d’esaltare l’uomo o dargli dell’importanza; essa esalta Cristo e lo mette avanti. L’arca stessa formava il corpo d’esercito propriamente detto, il centro indispensabile, la forza di resistenza; e il popolo attorno ad essa lo proclamava altamente. Senza l’arca non vi sarebbe stato né combattimento né vittoria.
La fede rende sempre testimonianza a Cristo. «I sette sacerdoti che portavano le sette trombe squillanti davanti all’arca dell’Eterno sonavano le trombe». Era una testimonianza perfetta resa alla potenza dell’arca in presenza del nemico.
La fede è zelante per esaltare Cristo e rendergli testimonianza, zelante per il servizio che è nello stesso tempo il combattimento. «Giosuè si levò la mattina di buon’ora» (v. 12); si levarono «la mattina allo spuntar dell’alba» (v. 15). Notiamo qui come lo zelo dell’uno provoca e incoraggia lo zelo degli altri. Ritorneremo su ciò. Ad ogni modo vediamo che, pur associandoci a Lui, è Cristo solo che riporta la vittoria.
A che sarebbero servite delle armi o delle macchine da guerra contro la fortezza di Gerico? A nulla. È Dio che fa tutto, vuole che la potenza e la vittoria siano interamente sue, e senza alcuna mescolanza con l’importanza dell’uomo. Generalmente, quando si tratta di dar battaglia, i cristiani ammettono che la potenza sia di Dio, ma vogliono mescolarvi qualche cosa di loro stessi e si ha per risultato che il successo non è la vittoria completa, come a Gerico. Dio rivendicava per sé questo onore; non che rifiutasse di servirsi di strumenti umani, ma bisognava che fosse Lui ad adoperarli, affinché l’uomo non potesse elevarsi ai suoi propri occhi. Considerate il modo d’agire di Dio: sceglie degli strumenti senza forza e senza valore in se stessi, oppure, se hanno qualche valore agli occhi degli uomini, comincia con lo spezzarli, come fece per Saulo da Tarso. Poi dice: Quest’uomo mi è un vaso eletto, ora può essermi utile!
Come abbiamo notato più su, il modo di procedere dei cristiani nel combattimento è troppo sovente l’opposto di quello di Dio. Essi mettono avanti i loro mezzi e le loro risorse. Dicono: Abbiarno trovato un metodo eccellente, siamo bene organizzati. Se consideriamo l’opera umana vi troveremo sempre questa deplorevole mescolanza.
Se Israele avesse detto: «Benissimo, sia pure la potenza di Dio; ma consultiamoci per trovare i mezzi per rovesciare le mura di Gerico», che cosa avrebbero visto il settimo giorno? Non una sola pietra delle mura sarebbe caduta!
Ma qui, la potenza del nemico crolla; il popolo vota allo sterminio la citta maledetta. Di più, la sua fede, la sua attività in testimonianza e la sua vittoria mettono in libertà altre anime. Tale sarà sempre il risultato quando saremo impegnati nel combattimento dell’Eterno. Rahab, ancora prigioniera, è liberata e introdotta fra il popolo di Dio, e può da allora in poi godere gli stessi privilegi dei vincitori.
Notate ancora un particolare. La fede non fa alcun compromesso col mondo, non ne riceve e non ne prende niente. Dio proibisce al popolo di toccare le cose di Gerico; è l’interdetto. L’Eterno, sì, può rivendicare queste cose per glorificarsi per mezzo di esse; gli appartengono, ma non appartengono ai figli d’Israele, che non possono toccarli fuorché per metterli «nel tesoro dell’Eterno».
Tale è, cari lettori, il combattimento della fede. Voglia Dio che ripassiamo queste cose nei nostri cuori, affinché siamo vincitori nella lotta contro il nemico!
7. Capitolo 7: La città di Ai e l’interdetto
Abbiamo considerato il brillante quadro d’una vittoria divina riportata su Satana per la fede. Dopo una tale conquista, Israele camminerà, senza dubbio, di vittoria in vittoria. Invece, no. Il cap. 7 si apre registrando una sconfitta! Una piccola città, un ostacolo insignificante paragonato a Gerico, e «poche persone» bastano per mettere in fuga tremila uomini d’Israele e fare struggere come acqua il cuore del popolo.
Vi sono dei segreti della sconfitta, come vi sono dei segreti della vittoria. E innanzi tutto, il primo pericolo per il credente sta nella vittoria stessa. Dopo averla riportata, in una vera dipendenza da Dio, l’anima, in presenza dei risultati, se ne attribuisce volentieri una parte, e da quel momento il prossimo combattimento è già perduto in anticipo. Ecco qui il caso di Giosuè: «Giosuè mandò degli uomini da Gerico ad Ai» (v. 2). Ripete quel che aveva fatto al cap. 2:1 riguardo al paese e a Gerico. Allora era la via di Dio; ora, invece, lo stesso atto diventa la via dell’uomo e della carne. Le spie erano tornate dalla ricognizione a Gerico dicendo: «L’Eterno ha dato in nostra mano tutto il paese». Perché allora mandare nuovi emissari? In una certa misura andava perdendosi la dipendenza da Dio e aumentava la fiducia nei mezzi dell’uomo. Giosuè li manda «da Gerico» che non è il vero punto di partenza; dimentica Ghilgal dove si imparava che cosa vale la carne; non sapeva ancora che Ghilgal è il luogo dove bisogna tornare? Giosuè trovò nella vittoria un’occasione per aver fiducia nella carne. Egli che era stato fin qui la figura di Cristo che agisce nel credente per metterlo in possesso dei suoi privilegi, discende al livello d’un uomo del popolo.
Giosuè come tipo sparisce per fare posto a Giosuè uomo. Non è forse sovente lo stesso di noi? Nella sua misura, ogni credente è un’immagine di Cristo, una lettera destinata a farlo conoscere. Appena dimentichiamo Ghilgal, questa immagine sparisce per far posto al vecchio uomo che abbiamo trascurato di giudicare. E il popolo? Ahimè! segue l’esempio del suo capo. Gli uomini mandati da Giosuè tornarono a lui e gli dissero: «Non occorre che salga tutto il popolo, ma salgano due o tremila uomini e sconfiggeranno Ai; non stancare tutto il popolo, mandandolo là, perché quelli sono in pochi». (v. 3). Essi hanno la fiducia più completa in se stessi. Sconfiggeranno Ai. Che cos’è questo per noi, per i nostri guerrieri? Non abbiamo forse mostrato a Gerico chi siamo? Pericolosa fiducia! Ma non vi è soltanto mancanza di dipendenza da Dio e fiducia in sé, frutto d’una carne non giudicata; vi è altro ancora: degli oggetti del bottino, nascosti a tutti, sono seppelliti nella terra, in fondo ad una tenda. Vi è dell’interdetto.
Dio aveva maledetto la città di Gerico; tutto ciò che le apparteneva era sotto maledizione; nessuno osava ritenerne qualcosa, per tema di divenire interdetto egli stesso e di rendere interdetto il campo d’Israele (cap. 6:18). Un solo uomo aveva disubbidito. Quest’uomo, ascoltando la concupiscenza, aveva trafugato delle cose maledette. Chi di noi, cari lettori, non ha questa tendenza nel suo cuore? Ma quest’uomo aveva seguito l’inclinazione naturale; aveva incominciato dove noi tutti cominciamo, dove il primo uomo incominciò. «Ho veduto» (v. 21), «e la donna vide» è detto in Genesi 3:6. Egli aveva degli occhi che sapevano discernere fra il bottino le belle cose. I suoi occhi erano la via di accesso al cuore; ma nessuna sentinella per vegliare, nessun «chi va là» che risuonasse in caso d’attacco. Per mezzo degli occhi, l’interdetto s’impadronisce del cuore e eccita la concupiscenza: «Ho bramato quelle cose». La concupiscenza avendo concepito genera il peccato: «Le ho prese». Il bel mantello del paese di Babilonia che poteva adornare l’orgoglio della vita, l’argento e l’oro che potevano soddisfare tutte le concupiscenze, divengono la preda di Acan; anzi, queste cose han fatto di lui la loro preda! Catena fatale e satanica che allaccia il mondo al cuore naturale dell’uomo, per fare di lui la preda del principe del mondo!
Notate ora come il peccato d’un sol uomo agisce su tutto Israele (v. 1). «Ma i figli d’Israele commisero un misfatto circa l’interdetto… e l’ira dell’Eterno s’accese contro i figli d’Israele». Il popolo avrebbe potuto dire: «Questo ci riguarda? Come avremmo noi potuto conoscere una cosa nascosta? E, se non la conoscevamo, come ne saremmo responsabili?» A tutto ciò, rispondiamo che Dio ha sempre dinanzi agli occhi l’unità del suo popolo. Ne considera gl’individui come membra d’un tutto, e solidali gli uni agli altri. La sofferenza, il peccato dell’uno, è la sofferenza e il peccato di tutti. Se così è d’Israele, a più forte ragione lo è di noi, la Chiesa di Cristo, un corpo unito per mezzo dello Spirito Santo al Capo che è nel cielo. Ma poi, se le anime loro si fossero trovate in un buono stato, Dio avrebbe manifestato fra loro il male nascosto. La potenza dello Spirito Santo non contristato nell’assemblea, mette in luce tutto ciò che disonora Cristo fra i suoi. Se non fu così per Israele, è perché vi era qualche cosa da giudicare nel popolo e nel suo condottiero. Il male nascosto d’Acan è il mezzo per fare risaltare il male nascosto del cuore del popolo. Quando l’assemblea è in buono stato, benché sempre solidale col peccato d’un solo, è avvertita dallo Spirito Santo e si trova in grado di togliere il male che è in essa e, secondo il caso, di togliere il malvagio (*). Fu cosi al principio della Chiesa, nel caso di Anania e di Saffira; la potenza dello Spirito di Dio scoprì subito e giudicò il male. Ma qui, in Israele, i cuori dovevano essere condotti, per mezzo del giudizio di loro stessi, a portare il peccato d’un solo come fosse il peccato di tutti dinanzi a Dio. È lo stesso di noi in questo tempo di rovina. Il peccato nella Chiesa ci ha toccati? Siamo noi solidali, nella nostra mente, di tutta la corruzione introdotta? Ovvero, vedendo queste rovine, abbiamo noi abbastanza fiducia in noi stessi per pensare che faremo meglio degli altri e che la rovina della Chiesa non è colpa nostra? Se i nostri cuori non sono abituati a prendere questa posizione davanti a Dio, non siamo che dei settari. Ma, ben più, una sconfitta completa verrà a ricondurre i nostri cuori all’umiltà che s’addice a quelli che avrebbero dovuto stare a Ghilgal. Vedete come Dio giudica diversamente dai nostri miserevoli cuori. Egli dice: «Israele ha peccato; essi hanno trasgredito il patto ch’io avevo loro comandato d’osservare; han persino preso dell’interdetto, l’han perfino rubato, han perfino mentito, e l’han messo fra i loro bagagli» (v. 11).
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(*) Vedere Deuteronomio 13:5; 19:19; 21:18-21; 24:7; 1 Corinzi 5:13. Bisogna notare che i casi in cui un uomo è qualificato malvagio non sono tutti specificati nella Parola. Non menziona l’omicida, etc. Il giudizio è lasciato alla spiritualita dell’assemblea.
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Vediamo il castigo del popolo ai vers. 5 e 6; tremila uomini d’Israele se ne fuggono dinanzi a quelli di Ai, e per trentasei d’infra loro che cadono il cuore del popolo si strugge e diviene come acqua. Essi sono annientati; ogni forza, ogni energia viene meno; la paura s’impadronisce dell’anima loro perché il loro coraggio era stato carnale. Questo popolo, così fiero della sua vittoria, è caduto al livello degli Amorrei, il cui «cuore si strusse» udendo parlare del passaggio del Giordano (cap. 5:1). Triste esperienza quella, ma esperienza necessaria. Voi avete dimenticato Ghilgal; Satana finirà per insegnarvi, attraverso le lacrime della sconfitta, la dose di forza che i vostri cuori naturali contengono e quale fiducia potete avere nella carne. Se foste stati con Dio, sareste stati preservati da una sconfitta! È ciò che c’insegna, in modo notevole, l’esperienza dell’apostolo Paolo. Era stato vittoriosamento rapito fino al terzo cielo, nel paradiso, e là aveva udito delle parole ineffabili che non è lecito all’uomo d’esprimere. Ma, ridisceso sulla terra, gli fu data una scheggia nella carne, un angelo di Satana per schiaffeggiarlo. La carne era in lui; si sarebbe innalzata. Dio la previene e impedisce al suo servitore diletto di inorgoglirsi. Il pericolo era grande. Se avesse ascoltato la carne, a quante cose lusinghiere sul suo conto avrebbe potuto pensare in seguito a questa meravigliosa visione, cose che avrebbero compromesso non solo la sua pace, ma il suo apostolato e la sua corsa stessa. Ma Dio ha cura del suo servitore e gli dà il correttivo necessario affinché il corso delle sue vittorie non sia interrotto. Paolo impara dalla «scheggia» che la carne, anche la migliore, non vale nulla. Questa scheggia è la Ghilgal di Paolo. Dio gli dice: Che cosa importa la tua infermità? Resta a Ghilgal; è quello che ti abbisogna; così la potenza sarà mia, interamente, e riporterà la vittoria; e quanto a te, la mia grazia ti basta. Posizione di sofferenza e d’umiliazione per Paolo, ma posizione di benedizione meravigliosa! Egli era con Dio, in comunione col Signore; l’infermità è il mezzo di mantenerlo a Ghilgal, per evitare che vi sia ricondotto per mezzo d’una sconfitta.
E Giosuè, l’uomo di Dio? Ahimè! straccia le sue vesti e si getta col viso a terra davanti all’arca dell’Eterno (v. 6). Dov’era dunque, nel combattimento contro Ai, quest’arca dinanzi alla quale eran cadute le mura di Gerico? Il cuore pio di Giosuè ne riconosce il valore; ma non sa che fare; ignora l’interdetto e s’esprime in rimpianti, non di ciò ch’egli ha fatto, né di ciò che il popolo ha fatto, ma di ciò che Dio stesso ha fatto, quando fece loro passare il Giordano! «Oh! ci fossimo pur contentati di rimanere di là dal Giordano!» egli dice. Come queste parole mostrano bene che cos’è il cuore dell’uomo! Quel luogo benedetto è il solo luogo che Giosuè avrebbe voluto fuggire.
Il tono della sua richiesta rivela della debolezza. Ciò che occupa i suoi pensieri è innanzi tutto Israele, il nome d’Israele; poi sono i Cananei, il mondo. «Israele ha voltato le spalle ai suoi nemici»; «i Cananei e tutti gli abitanti del paese lo verranno a sapere», «faranno sparire il nostro nome dalla terra». Poi, proprio alla fine: «Che farai per il tuo gran nome?» (v. 8, 9). Quanto è differente l’esempio che ci offre la storia di Mosè in Esodo 32:11-13! Questo fedele servitore era stato sulla montagna di Dio, e questo fa sì che Dio gli riveli il male che è avvenuto nel campo d’Israele; il peccato del popolo non rimane nascosto agli occhi di Mosè; lo conosce prima di scendere dal monte. Pensa forse alla vergogna d’Israele? No; si occupa del nome dell’Eterno, di ciò che s’addice a questo nome. Riconosce i diritti della santità di Dio offesa. Quanto ai Gentili, non si preoccupa che di questo: Dio sarà egli glorificato di fronte agli Egiziani, per mezzo della sconfitta del suo popolo? Quanto ad Israele, egli fa appello alla grazia di Dio, alla sola cosa che glorifichi il nome dell’Eterno in presenza d’Israele colpevole. Mosè intercede per il popolo poiché non ha bisogno, come Giosuè, di ritrovare per se stesso la comunione perduta; ed è così ascoltato. Giosuè, invece, è proprio nella posizione in cui non dovrebbe essere. «Levati», gli dice l’Eterno, «perché ti sei tu così prostrato con le faccia a terra?» (v. 10). Umiliarsi della propria impotenza non bastava. Era tempo d’agire. Troviamo il contrario in Giudici 20, dove Israele avrebbe dovuto umiliarsi prima, poi agire. Miserabile carne! Che disordine introduce nelle cose di Dio! Sempre fuori della corrente dei Suoi pensieri, se pur non è in aperta ostilità con Lui! Possiamo noi ripetere con l’apostolo: «Noi non ci confidiamo nella carne». Giosuè doveva agire; bisognava che il malvagio fosse tolto di mezzo a loro.
I figli d’Israele avevano bentosto dimenticato la presenza dell’Eterno che solo poteva illuminarli scoprendo il peccato in mezzo a loro; Giosuè stesso era stato preso in qualche misura in quel laccio di Satana e avvolto nell’indebolimento del popolo. Se avesse realizzato personalmente la posizione presa al cap. 5, quando «si levava i calzari dai piedi», avrebbe compreso che bisognava che il popolo fosse santo, affinché il Dio santo potesse camminare con lui. Ma Giosuè si getta col viso a terra, fa quasi un rimprovero a Dio per la sua grazia: «Perché hai tu fatto passare il Giordano a questo popolo?», e dimentica di parlare della sua santità. Non era, almeno per il momento, nella corrente dei pensieri di Dio. Dio glielo fa sentire. Nessuno dei suoi pensieri era al suo posto. Quando l’interdetto entra nella testimonianza di Dio, la cosa da fare è di santificarsi e togliere il male. Non si tratta qui di potenza, ma di santità e d’ubbidienza. Dio dice a Giosuè: «Lèvati, santifica il popolo». Santificarsi è separarsi da ogni male per Dio. È impossibile che Dio cammini con noi senza la santità.
Cari lettori, è una delle verità più importanti per il tempo attuale. Ciò che deve caratterizzarci ora è, come per Filadelfia, la comunione col «Santo ed il Verace». Notate che non parlo qui che d’un caso ordinario di esclusione dalla Tavola del Signore e non d’un caso di disciplica complicata dall’incapacità dell’Assemblea per giudicare il male. Ma, direte voi, trascurate l’umiliazione? No; la vera umiliazione in un caso di esclusione accompagna l’azione. Occorreva che sia il popolo sia ognuno individualmente fosse passato in rassegna dall’occhio scrutatore di Dio stesso (v. 14-15); la loro coscienza sarebbe stata così risvegliata, l’io giudicato, e ognuno avrebbe preso posto in presenza del giudizio. Fu lo stesso al tempo dell’esclusione del «malvagio» di Corinto. «La tristezza secondo Dio» aveva operato nei Corinzi «un ravvedimento che mena a salvezza, e del quale non c’è mai da pentirsi». L’umiliazione era stata prodotta dalla tristezza, ma questa stessa tristezza aveva prodotto l’attività e lo zelo per purificare dal male l’assemblea di Dio, in modo che la vera umiliazione e l’azione avevano camminato di pari passo. «Infatti, questo essere stati contristati secondo Dio, vedete quanta premura ha prodotto in voi! Anzi, quanta giustificazione, quanto sdegno, quanto timore, quanta bramosia, quanto zelo, qual punizione!» (2 Corinzi I: 10-11 ).
Ritorniamo alla santità. Al cap. 5 Giosuè ci presenta la santità individuale, al cap. 7 si tratta di santità collettiva. Bisogna che il popolo tolga l’interdetto entrato in seno all’assemblea, affinché Israele non sia contaminato e non abbia esso stesso il carattere d’interdetto. È raro trovare fra i cari figli di Dio l’intelligenza di questi due aspetti della santità pratica. Sovente i cristiani cercano la prima, una santità individuale, ma stimano la seconda di nessuna importanza.
Ho presentato sovente un esempio per mostrare che la santità individuale non è mai completamente compresa, se non si realizza la santità collettiva. Supponiamo che mio figlio abbia un carattere irreprensibile, che tutti parlino di lui e delle sue virtù, che in città sia stimato; e tutti mi dicano: Che buon figlio avete! Ora, questo figlio, che non ha il vizio d’ubriacarsi, va ogni giorno a passare la serata all’osteria, in compagnia degli ubriaconi invece di rimanere a casa e sedersi alla tavola famigliare. Posso chiamarlo un buon figlio?
In 2 Corinzi 6:16 fino a 7:1, troviamo un’intima unione fra questi due aspetti della santità. Dio comincia con la santità collettiva. «Noi siamo il tempio del Dio vivente» (v. 16). Il tempio di Dio è santo, è detto in 1 Corinzi 3:17; è la santità di posizione. Che v’è di comune fra esso e gli idoli? «Perciò uscite di mezzo a loro e separatevene» (v. 17); è la santità pratica collettiva. Poi aggiunge (cap. 7:1): «Poichè dunque abbiam queste promesse, diletti, purifichiamoci d’ogni contaminazione di carne e di spirito, compiendo la nostra santificazione nel timore di Dio». È questa la santità individuale, inseparabile dalla santità collettiva e dalle promesse che le sono fatte.
Ma la santità collettiva non è compresa dai figli di Dio che vorrebbero attraversare il mondo non preoccupandosi degli altri credenti. La solidarietà del popolo di Dio è loro sconosciuta. Si ode sovente dire: Io non mi curo degli altri; mi trovo solo col mio Dio; prendo la cena del Signore per conto mio. Ma non è così che Dio ci considera! Dio ci vede tutti assieme come formanti un solo corpo, unito dallo Spirito Santo al suo Figlio glorificato. Il peccato, la sofferenza d’un membro, è il peccato, la sofferenza del corpo. Un’osservazione incidentale su questa parola che si ode così sovente dire da cristiani: Io prendo la cena dei Signore per conto mio. Che cosa risponde la Scrittura? «Noi che siam molti, siamo un corpo unico, perché partecipiamo tutti a quell’unico pane» (1 Corinti 10:17). Chi sono i «molti» coi quali professano d’essere un solo corpo? Per scusare la loro alleanza col mondo alla tavola del Signore, prendono la cena come da soli; e non sanno che professano d’essere un solo corpo coi micidiali del nostro Salvatore, poiché è il mondo che l’ha crocifisso!
Dio dice: Santificatevi per domani (v. 13). Non è al momento dell’azione che bisogna santificarsi, ma siamo chiamati a farlo prima. Da dove viene così sovente la nostra incapacità di giudicare il male, d’agire per Dio? Dal non esserci santificati il giorno prima. Da dove viene che al culto i cuori sono, così sovente, freddi, e le labbra mute per la lode? Dal non aver ubbidito alla Parola: «Santificatovi per domani». È lo stesso in 1 Corinzi 5. L’apotolo aveva la potenza, ma non l’avevano i Corinzi. Essi dovevano semplicemente ubbidire, togliendo il vecchio lievito per essere una nuova pasta; dovevano togliere il malvagio di mezzo a loro. Acan aveva partecipato a ciò che era sotto la maledizione divina; doveva essere reciso, e lo fu nella valle d’Acor.
Ma, cosa meravigliosa, leggiamo in Osea 2:15 queste parole consolanti, riguardo a Israele: «Gli darò… la valle d’Acor come porta di speranza». Accade sempre così. La benedizione ci è data sulla soglia stessa del giudizio. È in questo luogo che l’anima, al tempo della conversione, trova la porta di speranza; è là che essa incontra Cristo. In seguito, nella disciplina, il credente vi trova il luogo di speranza e di gioia. Sarà là, in quella valle, dove il giudizio di Dio è stato pronunciato contro di lui, che il popolo d’Israele troverà la benedizione di Dio; fu là che Giosuè trovò il rilevamento dell’anima, per camminare con Dio e condurre il popolo alla vittoria.
8. Capitolo 8
8.1 Mezzi e processo di restaurazione
Il malvagio era stato tolto di mezzo all’assemblea d’Israele, ma nel fare scoprire il male che stava in mezzo a loro, Dio aveva anche fatto loro scoprire la fiducia che avevano in se stessi. Sovente si presenta un caso simile quando un’assemblea è soddisfatta del suo stato. Si vanta della sua spiritualità, dei doni, del numero crescente!… Israele fece lo stesso; il popolo confidava non già in Dio ma nella sua vittoria e tale fiducia lo condusse alla sconfitta. Israele dovette essere giudicato, poi dovette purificarsi dal male. Ma il giudizio sopra se stesso e la santificazione pratica non costituiscono ancora il ristoramento dell’anima. Bisogna che la comunione con Dio, interrotta dal peccato, sia ristabilita.
Qui desidero fare un’osservazione che credo importante. Nel cap. 6 Dio manifesta la sua potenza sul nemico per mezzo d’Israele. Questa stessa potenza si manifesta anche per mezzo d’Israele. Questa stessa potenza si manifesta anche nella vita del cristiano. È possible che questi goda di quella forza divina, delle vittorie che ottiene, e forse non conosca ancora di fatto né Dio, né se stesso. Giosué avrebbe dovuto conoscerlo, lui che aveva personalmente incontrato l’angelo del Signore. Il capo dell’armata del Signore gli si era rivelato colla spada nuda in mano, come pronto per il combattimento, e come essendo il Santo. Poi, in compagnia d’Israele, Giosué aveva visto quella potenza all’opera a Gerico. Ma, nonostante tutto ciò, fu necessario che la sua coscienza entrasse in rapporto colla santità di Dio; egli non aveva ancora l’idea di ciò che quella santità esigeva dal popolo nel suo cammino. L’ira del Signore (7:1) deve rivelarsi a Israele e al suo conduttore, affinché imparino che la santità di Dio non può tollerare l’interdetto. Conoscere Dio in potenza lascia ancora molte cose da imparare prima di possedere la vera e piena conoscenza di Dio.
D’altra parte, potrebbe sembrare che, quando si è passati da Ghilgal, si debba averne finito con se stesso. In realtà si è finito con se stesso solo quando si rimane a Ghilgal. Come il popolo si conosceva poco dopo la vittoria di Gerico! Dopo che Dio aveva fatto tanto per provar loro che tutto era da Lui in quella vittoria, quale presunzione, quale dimenticanza andare senza Dio incontro al nemico!
La conseguenza fu che retrocedettero e che incontrarono ogni sorta di pene e di intralci quando ripresero l’offensiva. Bisogna che il popolo rifaccia un cammino seminato di ostacoli e di complicazioni, un cammino che metta in luce ai loro propri occhi la loro debolezza, che era già stata manifestata ai loro nemici dalla loro sconfitta. Bisogna che ritornino indietro per ricominciare l’esperienza di se stessi; ma quell’esperienza l’avranno, per la grazia, con Cristo, e non più con Satana.
Notate nel cap. 8 come tutto si complica, quando non si è seguito il semplice cammino della fede. L’anima umiliata si ritrova con Dio, e Dio può camminare con lei; ma le conseguenze di un cammino secondo la carne si fanno sentire. Dio se ne servirà per la benedizione finale; ma, ripeto, il cammino non ha più la semplicità del cammino primitivo della fede; cammino semplicissimo, quando il credente segue l’ordine di Dio in un’umile dipendenza dalla sua Parola. La vittoria è sua. Così fu a Gerico. Davanti ad Ai, ora, la stessa potenza che aveva fatto cadere le mura della città maledetta, è ancora là per Israele, non ha cambiato; ma l’esercito deve fare delle manovre; si divide in due corpi: cinquemila uomini si mettono in agguato, il rimanente del popolo attira i difensori di Ai fuori della loro fortezza.
Nel cap. 7 le spie avevano detto nel loro rapporto: «Salgano un due o tremila uomini… perché quelli sono pochi». Ed ora bisognava che trentamila uomini forti e valenti salissero contro Ai. Che umiliazione! Come ciò abbassava Israele ai suoi propri occhi. Bisognava salirvi di notte; gli uni dovevano nascondersi, gli altri fingere di fuggire davanti al nemico. Come potevano vantarsi?
Ma, mi direte: Voi ci avete mostrato che a Gerico non era questione di mezzi umani, ed ecco ora ogni sorta di stratagemmi per vincere il nemico. Io rispondo: Se vi basta impiegare dei mezzi che mettono in luce la vostra incapacità, che imprimono sull’uomo il marchio della sua totale debolezza, che l’umiliano in modo che non abbia più altra risorsa che fuggire davanti il nemico, sta bene. Ma quand’anche lo voleste non potreste. In realtà, caro lettore, neanche ad Ai Dio non adopera dei mezzi umani; la differenza è che le disposizioni per Gerico erano state date da Dio perché Israele conoscesse la Sua potenza, mentre ad Ai erano state ordinate al popolo affinché imparasse a conoscere la propria debolezza.
Ma, ripeto, nell’un caso e nell’altro la potenza di Dio non è cambiata. È essa che ad Ai dà la vittoria a Israele; Giosuè era là colla lancia in mano. All’ordine del Signore, «Giosuè stese verso la città la lancia che aveva in mano» (v. 18). «E Giosuè non ritirò la mano che aveva stesa colla lancia, finché non ebbe sterminato tutti gli abitanti d’Ai» (v. 26). La mano di Giosuè era rimasta stesa durante tutto il combattimento!
Si ode sovente ripetere: Che importano le divisioni? Non abbiamo tutti lo stesso scopo? Non combattiamo noi tutti per il Signore, sebbene sotto bandiere differenti? Ma non è questo che il nostro capitolo c’insegna. No; una grande verità domina: il popolo è un solo; uno nella sua vittoria, uno nel suo peccato, uno nella sua disfatta, uno nel giudizio del suo male, uno nel suo ristoramento. I poveri figli di Dio sono dispersi e divisi, ed essi si accontentano di dire: Che importa? Fratelli, per quale scopo Cristo è morto? Non è forse «per raccogliere in uno i figli di Dio dispersi»? (Giovanni 11:52). È forse Dio che li disperde dopo averli riuniti? No, ma è il lupo che disperde le pecore (Giovanni 10:12)
La diversità non è la divisione; essa si mostra nell’unità. L’agguato prende Ai e vi mette il fuoco. I venticinquemila uomini fuggono davanti al nemico, poi ritornano avvertiti dal fumo della città. Al momento in cui combattono, l’agguato esce dalla città per unirsi alla battaglia; poi tutti insieme si volgono verso Ai e la colpiscono a fil di spada (v. 24). Vi è dunque diversità di servizio e di azione, ma è un’azione comune. Il corpo è uno; le diverse parti sono legate insieme e ciò che le lega è Giosuè colla sua lancia. Se non si tiene conto di quest’unità si è sopraffatti nella battaglia.
1 Corinzi 12 ci mostra la diversità collegata coll’unità nella Chiesa. «Or vi è diversità di doni; ma v’è un medesimo Spirito. E vi è diversità di ministeri; ma non v’è che un medesimo Signore. E vi è varietà d’operazioni, ma non v’è che un medesimo Dio, il quale opera tutte le cose in tutti» (1 Corinzi 12:4-6). «Poiché, siccome il corpo è uno, ed ha molte membra» (diversità nell’unità), «e tutte le membra del corpo, benché siano molte, formano un unico corpo» (l’unità nella diversità), «così ancora è di Cristo». Noi siamo uniti in un sol corpo — Cristo — e tuttavia ogni figlio di Dio ha la sua funzione e il suo compito, che nessuno può adempiere per lui. A ciascuno è affidato un servizio differente; io non posso fare il vostro, né voi il mio.
Ora Israele ha ritrovato la comunione con Dio. In tutta questa scena la presenza di Giosuè caratterizza l’attività del popolo. Se si tratta d’entrare in guerra, «Giosuè si leva con tutto il popolo» (v. 3). Se si tratta dei preparativi per il combattimento, «Giosuè rimase quella notte in mezzo al popolo» (v. 9). Se si tratta di mettersi in marcia, «Giosuè comminò quella notte in mezzo alla valle» (v. 13). Se occorre attirare il nemico, «Giosuè e tutto Israele facendo vista d’essere battuti da quelli si misero in fuga verso il deserto» (v. 15). Se bisogna sconfiggerlo, «Giosuè non ritirò la sua mano… finché non ebbe sterminato tutti gli abitanti d’Ai» (v. 26).
8.2 Confronto con il caso del peccato di Ghibea (Giudici 20 e 21)
La disfatta di Ai ebbe per effetto d’insegnare agli Israeliti a meglio conoscere sia i loro propri cuori sia il carattere di Dio che li conduceva. Prima di considerare i risultati pratici di questa lezione che Dio diede al suo popolo per disciplinarlo, desidero fare un confronto fra i cap. 7 e 8 di Giosuè e i cap. 20 e 21 dei Giudici. È un fatto conosciuto che la fine del libro dei Giudici, dal cap. 17, non segue l’ordine cronologico (cap. 20:28), ma ci offre un quadro di ciò che accadde prima che Dio suscitasse dei Giudici, un quadro della storia d’Israele immediatamente dopo la morte di Giosuè. La decadenza era stata rapida e completa; l’idolatria e la corruzione morale regnavano ovunque. Al principio e alla fine di quel capitolo troviamo questa espressione: «Ognuno faceva quel che gli pareva meglio» (17:6; 21:25). Non più dipendenza da Dio e dalla sua Parola; la misura del bene e del male era la coscienza dell’uomo. Ciascuno viveva secondo la sua coscienza; e questa era la regola del suo cammino.
Questo quadro differisce forse molto da quello della cristianità? Che cosa accadde dopo la morte degli apostoli? Il decadimento è stato meno rapido e meno completo? Senza parlare dei principi corrotti del papismo, la cristianità protestante colta non mette avanti la Parola, ma piuttosto la coscienza, come regola di condotta; non predica la sottomissione alla Parola di Dio; è la libertà di coscienza il suo motto d’ordine! E quale può essere il risultato quando si prende solo la propria coscienza per guida? La confusione più assoluta. Ognuno non tarda a condursi secondo il suo proprio giudizio.
Un peccato orribile avrà luogo a Ghibea. Non è più l’interdetto, il peccato nascosto, come in Giosuè; è un peccato commesso in faccia a Dio e agli uomini. Il miserabile Levita pubblica egli stesso la sua onta, la fa sapere a ciascuna delle tribù d’Israele (Giudici 19:29). Che cosa farà il popolo? Come per il peccato di Acan, Dio si servirà del peccato di Ghibea per mettere a nudo lo stato morale d’Israele, per umiliarlo e risvegliarlo alla coscienza di ciò che è dovuto a Dio. Solo che qui lo stato morale delle tribù è molto più basso e più grave che davanti ad Ai. Essi sono indignati, ma lo sono del torto che è stato loro fatto; il pensiero del torto fatto a Dio è assente dalla loro mente. Essi parlano della «scelleratezza e della villania commessa in Israele»; ma non una parola dell’onta fatta al nome del Signore. Ciò come prova il decadimento! Ma come è differente la parola di Fineas alle due tribù e mezza: «Che cos’è questa infedeltà che avete commesso contro il Dio d’Israele?» (Giosuè 22:16)!
A questo primo sintomo di decadimento se ne aggiunge un altro; essi avevano abbandonato ciò che potremmo chiamare il primo amore. Il Signore non era più davanti agli occhi loro, l’affezione per Lui era diminuita, e di conseguenza anche per ciò che era nato da Lui. Essi dimenticano che Beniamino è loro fratello. «Chi di noi salirà il primo a combattere contro i figli di Beniamino?» (Giudici 20:18). Questi ultimi dal canto loro «non vollero dare ascolto alla voce dei loro fratelli, i figli d’Israele» (v. 13).
Un terzo sintomo è il dimenticare l’unità del popolo. Notate che le undici tribù formavano in apparenza un’unità magnifica; essa era quasi bella come quando Israele si purificò d’Acan e fu ristorato davanti ad Ai. Eppure non era più l’unità di Dio! Il popolo aveva un bel radunarsi «come un sol uomo» (v. 1), oppure levarsi «come un sol uomo» (v. 8), oppure unirsi contro Ghibea «come fossero un sol uomo» (v. 11); Beniamino mancava all’unità d’Israele, e Dio non ne riconosce che una. Diletti, questi anelli del decadimento si collegano uno all’altro: dimenticare la presenza di Dio, abbandonare il primo amore, sprezzare l’unità, malgrado le più belle apparenze.
Beniamino era colpevole, infinitamente colpevole. Si vede in lui, fin dal principio, il partito preso di non giudicare il male. Avvertito tanto quanto le altre tribù di un crimine orrendo, avendo conoscenza che le altre tribù si disponevano a giudicare il male, avvertito infine, sebbene con uno spirito carnale, che doveva purificarsene, esso si rifiuta ad ogni dovere. La tribù di Beniamino nega l’unità d’Israele stabilendo un principio d’indipendenza; e, lungi dal purificarsi dal crimine di Ghibea, si associa con l’inutile e miserabile sembianza di fare differenza fra le altre città e Ghibea nel computo degli uomini di guerra (v. 15). Beniamino doveva certamente essere giudicato, ma lo stato del popolo tutto intiero era così cattivo che rendeva il giudizio stesso secondo Dio impossibile, e che gli conveniva passare esso stesso per il vaglio, prima di potersi purificare dal crimine di Ghibea. Che avrebbe dovuto fare Israele, se avesse avuto un senso retto delle cose? Umiliarsi dapprima in presenza del Signore, consultare il Signore, e poi agire. Invece, che cosa fanno? Si consultano a vicenda, povera risorsa quando si dimentica la presenza di Dio; prendono delle disposizioni, decidono, molto scritturalmente, di togliere il male di mezzo ad Israele, ma dimenticano completamente che essi stessi sono colpiti dal male, poiché Beniamino fa parte di loro stessi.
Dopo aver prese tutte le loro disposizioni e annoverato la loro gente da guerra, «si mossero, salirono a Bethel e consultarono Dio» (v. 18). Questo è lo spirito di declino; è ciò che si trova dappertutto nella cristianità, e sovente anche presso a cari figli di Dio. Noi ci proponiamo qualche cosa che ci pare buono, poi, al momento dell’esecuzione dei nostri piani, e sovente dopo aver tutto disposto, domandiamo a Dio di benedirci.
Il risultato di quell’oblio completo dei principi divini fu che nella prima giornata ventiduemila uomini d’Israele caddero. Allora i figli d’Israele risalirono verso il Signore piangendo; qui è il dolore, e non più l’indignazione carnale che riempie i cuori. Essi chiamano Beniamino loro fratello. L’amore perduto, lo spirito di solidarietà si risvegliano. Poi si dispongono di nuovo in battaglia, e perdono ancora diciottomila uomini. Perché questa seconda sconfitta? Dio, nella sua bontà, voleva produrre un risultato completo. Il dolore non era tutto, né la proclamazione dei legami che li univano; era necessario un giudizio completo di se stesso, il pentimento davanti a Dio; bisognava risalire il cammino del declino fino a ritrovare la presenza del Signore e la sua comunione perduta. Allora è detto: «Allora tutti i figli d’Israele e tutto il popolo salirono a Bethel, e piansero, e rimasero quivi davanti all’Eterno, e digiunarono quel dì fino alla sera; e offrirono olocausti e sacrifizi di azione di grazie davanti all’Eterno» (v. 26).
A partire da questo momento vediamo prodursi una scena che offre una grande analogia con quella di Ai. Bisogna che Israele si metta in agguato (v. 29), che fugga davanti a Beniamino (v. 32), che trenta uomini ancora, dopo tutte le perdite, siano feriti a morte, e che il fuoco sia messo alla città per servire di segnale. È solo ora che Israele, essendo interamente giudicato e rientrato in comunione con Dio, può compiere il penoso dovere di giudicare il profano Beniamino; ma allora, quanti pianti e lacrime dopo la vittoria! (21:2) Come è differente questa scena da quella di Gerico, dove, avendo il popolo gettato un grido di gioia, le mura caddero davanti a loro (Giosuè 6:20). È che qui si tratta dei loro fratelli, della tribù quasi distrutta per mezzo del giudizio. Dopo ciò, nella sua grazia, e in mezzo a molte difficoltà prodotte dalla premura carnale nelle decisioni prese a priori da Israele, Dio permette di racimolare Beniamino.
Ma vi è un partito nell’assemblea d’Israele che è trattato più severamente dal popolo ristorato che non Beniamino stesso. Jabes di Galaad non era venuta al campo, alla radunanza d’Israele (Giudici 21:8). Era un’indifferenza altamente proclamata, una neutralità che non teneva alcun conto del male, molto peggiore ancora che la collera carnale colla quale Beniamino s’era rivoltato, sprezzando la decisione dell’assemblea, e che gli aveva fatto prendere le armi contro i suoi fratelli; ciò facendo, quei di Jabes si erano associati al male. La città dovette essere distrutta al modo dell’interdetto!
8.3 Risultati della disciplina
Ritorniamo a Giosuè e al popolo. Israele aveva imparato, nell’umiliazione, che non poteva avere alcuna fiducia in se stesso. Questa esperienza reca immediatamente i suoi frutti. Ora la Parola deve guidare; il popolo, per evitare delle nuove cadute, non ha che da attenersi a quella guida perfetta. I versetti 27-35 ci mostrano Giosuè ed il popolo obbedienti ai comandamenti del Signore e a ciò che era scritto nel libro della legge. L’umiliazione ha per effetto di ricordare al cuore dei figli d’Israele e del loro condottiero le prescrizioni del cap. 27 del Deuteronomio. Anche il supplizio del re di Ai mostra che la condotta di Giosuè è basata sulla Parola: «Ma al tramonto del sole Giosuè ordinò che il cadavere fosse calato dall’albero» (confr. Deuteronomio 21:22-23). Per l’uomo, questo particolare sarebbe di poca importanza, ma un cuore nutrito dalla Parola non poteva dimenticarlo. Se Giosuè avesse trascurato quest’osservanza sarebbe caduto nello stesso sbaglio che aveva attirato il castigo sopra il popolo; non avrebbe tenuto calcolo della santità del Signore. «Il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero… perché l’appiccato è maledetto da Dio» (Deuteronomio 21:23). E ancora in Numeri 35:34: «Non contaminerete dunque il paese, che andate ad abitare in mezzo al quale io dimorerò; poiché io sono l’Eterno che dimoro in mezzo ai figli d’Israele». Il Dio santo non poteva dimorare con ciò che contamina; Giosuè ha dovuto imparare quella lezione davanti a Gerico, fra le lacrime della valle di Acor, e allora, al giorno della vittoria, ha potuto realizzarla con una coscienza esercitata alla scuola di Dio.
I giudizio del re di Ai ci presenta ancora un’altra lezione. Non è senza motivo che in Deuteronomio 21:18-23, vediamo riuniti i due fatti contenuti nei capitoli 7 e 8 di Giosuè: il malvagio messo fuori e il nemico giudicato. In pratica deve essere così. Bisogna che la chiesa tolga il male di mezzo a sé prima di poter combattere e ridurre al silenzio il male del di fuori. Se il male è tollerato nella chiesa, non si troverà mai decisione né fermezza per trattare il nemico senza transigenza, come nemico, per metterlo subito al solo posto che Dio gli assegna, siccome è detto: «L’appiccato è maledetto da Dio».
Infine, si è colpiti da un’altra coincidenza nei versetti che studiamo. La forca del re di Ai era il luogo del giudizio e delle maledizione del nemico d’Israele. Ma ecco che il popolo è costretto a stare, egli stesso, su quella montagna di Ebal, sulla quale la maledizione di Dio è stata pronunciata. Questa era la conclusione terribile della legge, alla quale Israele non poteva sfuggire; ma è stata ridotta al nulla per mezzo della croce di Cristo (*) (vedi Deuteronomio 11:29). La maledizione pronunciata sull’Ebal era quella sull’uomo responsabile; Cristo l’ha portata sulla croce per riscattarcene. Sulla forca del re di Ai, Israele poteva vedere, in tipo, il nemico per eccellenza, cioè Satana, disfatto e annientato, ed è ciò che noi abbiamo alla croce di Cristo; ma noi possiamo vedervi pure tutta la maledizione che pesava sopra noi in Ebal — quella pronunziata dalla legge — passata per sempre nella realtà del giudizio di Colui che ha preso quel posto per noi. In Galati 3:10-13, troviamo la stessa benedetta relazione fra Ebal e la croce. È scritto: (Deuteronomio 27:26) «Maledetto chiunque non persevera in tutte le cose scritte nel libro della legge per metterle in pratica». Quelle parole concludevano la maledizione di Ebal, ma l’apostolo aggiunge: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo divenuto maledizione, per noi (poiché sta scritto: Maledetto chiunque è appeso al legno)».
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(*) Notiamo che l’altare, ordinato per quella circostanza, fu stabilito sulla montagna di Ebal, non su quella di Gherizim. L’altare sull’Ebal faceva, per così dire, contrappeso in grazia alla maledizione che era stata pronunciata sopra quel monte.
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Ancora un altro risultato della disciplina. Israele, umiliato, è in grado di rendere culto: «Allora Giosuè edificò un altare all’Eterno, al Dio d’Israele, sul monte Ebal…, e i figli d’Israele offriron su di esso degli olocausti all’Eterno, e fecero dei sacrifici di azioni di grazie». Lo stesso è per noi; senza il giudizio di noi stessi, non c’è comunione; senza comunione non c’è culto. L’altare in Ebal era la provvigione di grazia per la maledizione che la legge pronunziava sopra i trasgressori. All’altare, noi troviamo la propiziazione, base di ogni vero culto, ma qui abbiamo l’altare in presenza di un popolo minacciato di maledizione, se non obbedisce. Il nostro culto ha la croce per punto di partenza e per centro, la croce che ha messo fine alla nostra maledizione e irradia sopra noi la piena luce della grazia divina.
Ma quella grazia non indebolisce la responsabilità dei cari figli di Dio. Si prende possesso del paese sotto certe condizioni. Un duplicato della legge di Mosè doveva essere scritto sopra grandi pietre rizzate e intonacate di calce (Deuteronomio 27:2-3; Giosuè 8:32). Questa stessa legge fu letta ad alta voce davanti a tutta la radunanza d’Israele. Non dimentichiamo che Gesù Cristo è, per noi, Salvatore e Signore. Colui che ci ha fatto grazia, è Colui che ha pure acquistato ogni diritto sopra di noi. La conoscenza della sua grazia riempie le nostre bocche di lodi; il sentimento della nostra responsabilità ci spinge a proseguire nella santità e nella verità, a combattere il buon combattimento e a prendere possesso del paese della promessa!
9. Capitolo 9: L’inganno di Gabaon
Man mano che avanziamo nello studio di questi capitoli, impariamo a conoscere il nemico sotto vari aspetti. Satana sa fare la guerra; sa disporre le batterie, attaccare di fronte, schiacciare; ma sa anche servirsi di espedienti, ingannare con raggiri e attirare nel laccio. Gerico, quell’ostacolo formidabile, è caduto davanti alla fede; ma Satana non si scoraggia: egli si rivolge alla concupiscenza, e l’interdetto entra così nel campo d’Israele; occupa le anime della loro vittoria, e la fiducia in se stessi s’impossessa del loro cuore. Israele dimentica l’armatura completa di Dio, e va a gettarsi da sé nel laccio del nemico. Ma quella vittoria di Satana diviene la scuola divina per i giusti. Essi mettono da parte la fiducia in loro stessi, comprendono ciò che esige la santità di Dio, cercano la loro salvaguardia nella Parola, e arrivano infine al sentimento della loro responsabilità che, a quanto pare, avevano poco conosciuta prima.
Al cap. 9 troviamo «le insidie del diavolo», ed è contro queste che la Parola ci premunisce espressamente. Per poter rimanere fermi bisogna vestire «tutta l’armatura di Dio» e fortificarsi «nel Signore e nella forza della sua potenza». L’epistola agli Efesini, come i primi capitoli di Giosuè, ci presentano la potenza di Dio sotto diversi aspetti.
Al cap. 1:19, la sua potenza verso noi corrisponde a ciò che troviamo, in tipo, nel passaggio del Giordano. Al cap. 3:16-20, la sua potenza con noi corrisponde alla tavola divina di Giosuè 5. Infine, al cap. 6:10, troviamo la sua potenza in noi in tutte le parti dell’armatura, corrispondenti al conflitto colla potenza del male, quale ci è presentata nei capitoli seguenti di Giosuè. Abbiamo già veduto di chi Dio si serve per glorificarsi in tale combattimento: sono degli esseri così deboli che non possono fare a meno che dipendere da Lui. Ho detto sovente che Dio prende due sorta di strumenti per compiere l’opera sua: prima di tutto degli strumenti senza valore proprio; Dio ha scelto le cose pazze, deboli e vili di questo mondo, e quelle che sono sprezzate e quelle che non sono (1 Corinzi 1:27-28). Ma prende anche degli strumenti di gran valore agli occhi degli uomini e ai loro propri occhi. Saulo da Tarso era un uomo considerato, istruito, religioso, energico, coscienzioso; in apparenza, non gli mancava nulla, perché Dio potesse utilizzarlo. Ebbene! Egli lo prende e lo getta sulla strada di Damasco, spezza quel vaso e, quando è così rotto, Dio dice: Ora è un vaso adatto per l’opera mia.
La coscienza della nostra nullità come strumenti ci tiene in una dipendenza continua dalla mano che ci adopera; ed è questo il cammino della potenza. Fu così davanti a Gerico; ma il popolo aveva ancora da imparare che senza la dipendenza si diviene preda di Satana. Nel terminare la descrizione delle varie parti dell’armatura, l’apostolo aggiunge (Efesini 6:18): «Orando in ogni tempo, per lo Spirito, con ogni sorta di preghiere e di supplicazioni, ed a questo vegliando con ogni perseveranza». La preghiera è l’espressione della dipendenza; la preghiera continua e perseverante esprime una dipendenza abituale. Ora, lo sbaglio capitale degli Israeliti, al cap. 9, è che non consultarono l’Eterno. Abbiamo veduto alla fine del capitolo precedente, quale importanza la Parola avesse presa ai loro occhi; ma ecco che essi dimenticano di parlare a Dio per entrare in comunione con Lui riguardo ai suoi pensieri. Notate come Satana riesce a far loro perdere il sentimento della loro dipendenza. Li intimidisce con uno spettacolo spaventevole: l’inimicizia del mondo, tutta una confederazione di re radunati per la guerra (v. 1-2). Comincia a dirigere il loro sguardo su quella potenza formidabile, pronta a schiacciarli; poi, senza transizione, per così dire, offre loro la sua risorsa; gli abitanti di Gabaon vengono al campo di Ghilgal. Israele non era preparato, non aveva l’armatura di Dio. Coloro che conducevano il popolo non si resero conto di ciò che i più semplici intravvidero per un momento (v. 6 e 7) (*). Sovente così accade; l’umiltà, accoppiata all’occhio semplice, possiede la vera intelligenza delle cose di Dio. «Fate patto con noi», dissero i Gabaoniti. Che buona occasione per Israele! Avete il nemico dinanzi a voi, suggerisce Satana; ecco qui un mezzo eccellente per disfarvene. Quella gente veniva colle migliori intenzioni; cercava l’alleanza col popolo di Dio, riconoscendone la superiorità morale e spirituale. «Noi siamo tuoi servi», dicono a Giosuè (v. 8), e agendo così con senno, lo disposero favorevolmente. Quindi essi proclamano la potenza del Dio di Israele, e ciò che aveva fatto in Egitto e nel deserto. Non una parola, però, di ciò che aveva fatto in Canaan; Satana si tradirebbe se venisse a parlarci dei luoghi celesti e dei loro combattimenti.
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(*) Confrontare v. 7 («la gente d’Israele») e v. 15 («i capi d’Israele»).
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Come vedete, i Gabaoniti hanno un carattere fermo e delle convinzioni religiose. Sì, ma sono dei Cananei mascherati, è il mondo sotto il manto della religione e della pietà. Israele era stato guardato fino allora dal cercare l’aiuto umano; ma come resistere a coloro che professano di avere gli stessi scopi e le stesse aspirazioni? Non è l’alleanza una cosa legittima? Noi riconosciamo il Signore come voi; noi, vostri servitori, potremo darvi, al bisogno, il nostro concorso. Ah! Come si immaginavano poco, in quel momento, i figli d’Israele, che quei Gabaoniti erano quegli stessi Cananei che avevano l’ordine di sterminare dal paese della promessa! Essi cadono nel laccio del nemico; avevano trascurato di consultare il Signore; prendono, in segno di comunione, delle loro provvigioni (v. 14). L’alleanza è conclusa; il mondo è introdotto in mezzo ai figli d’Israele. Che diabolico artificio! Satana finge di offrire al popolo di Dio un mezzo per vincere il nemico, cioè il mondo, e quel mezzo è d’introdurre il mondo nel campo! Egli sapeva bene che una volta aperta la porta a quell’elemento, ogni altra impresa gli diveniva facile.
Queste cose non ci ricordano forse la storia della Chiesa? Le anime dei cristiani erano già, al tempo degli apostoli, sedotte dal bel sembiante di una religione terrena e mondana, che cercava di penetrare e far perdere di vista la posizione, gli interessi e lo scopo celeste del cristianesimo; e induceva i cuori a fare alleanza con un mondo che aveva crocifisso Cristo. Satana ha guadagnato la partita; ha eretto il suo trono in mezzo alla Chiesa, talché l’apostolo è costretto a riconoscere alla fine: «… dove tu abiti, cioè là dove abita Satana» (Apocalisse 2:13). Da quel momento, ahimè! il combattimento non è più solamente coi nemici di fuori; si tratta di resistere alla potenza del male dentro alla Chiesa stessa.
Ma la grazia di Dio è con Israele; e se questo capitolo ci mostra l’entrata del male nell’assemblea, non se ne vede lo sviluppo. Il popolo di Dio ha dovuto fare la triste esperienza che i Gabaoniti dovevano rimanere in mezzo a loro come una testimonianza perpetua del loro fallo. Dopo aver mormorato contro ai capi, i figli d’Israele sono condotti ad un apprezzamento più giusto del loro dovere. Non restava loro che una cosa da fare: sopportare i Gabaoniti, ma mantenendoli nella posizione di maledizione. «Siete maledetti», disse loro Giosuè (v. 23). Israele non poteva considerali che come una razza maledetta. Il giudizio del re di Ai era pronunziato su loro, ma non eseguito, ed essi ne erano preservati a causa del nome del Signore. Israele non poteva toccarli; doveva portare la sua umiliazione, ma evitando ogni comunione con quelli su cui pesava la maledizione divina.
Lo stesso è per noi nella Chiesa; dobbiamo subire le conseguenze della nostra infedeltà, l’umiliazione per il male che è entrato nella casa di Dio; ma se siamo fedeli, anche portando quelle conseguenze sapremo distinguere ciò che è di Dio da ciò che porta solamente il suo nome. È la Parola che ci dà di distinguere la mescolanza, e la fede lascia il mondo religioso sotto la maledizione, sebbene chiamata a usare grazia verso lui.
In 2 Samuele 21 troviamo la fine della storia dei Gabaoniti. Vediamo chiaramente che non era lo scopo di Dio di toglierli dalla posizione che avevano usurpata nell’assemblea d’Israele. Più tardi, Saul animato d’uno zelo carnale ma estraneo ai pensieri di Dio, li sterminerà. Passano gli anni, ed ecco che una piaga cade su Israele. Davide cerca la faccia del Signore e s’informa della causa di quella calamità. «Questo», gli fu risposto, «avviene a motivo di Saul, e della sua casa sanguinaria; poiché egli fece perire i Gabaoniti». La carne che ha introdotto il male, è anche pronta a sbarazzarsene. Ma la via di Dio è diversa; bisogna che i suoi figli sentano il male; ed è così che si manifesta la loro comunione con Lui nel giorno malvagio. In Ezechiele 9:4, il Signore ordina all’angelo di segnare in fronte gli uomini che gemono e sospirano a causa di tutte le abominazioni che si commettono dentro Gerusalemme. Coloro che sentivano il male furono espressamente messi al riparo dal distruttore.
Cari lettori, è lo stesso per noi in questi giorni della fine. Non si tratta di prendere la spada e sterminare il male, ma di gemere, sospirare e confessare. «Il male è mio». Noi non possiamo purificare il campo, ma dobbiamo, umiliandoci, purificare noi stessi dai vasi a disonore. Questo è ciò che un cristiano mondano non comprende mai; la presenza del mondo nel mezzo della Chiesa professante non l’umilia, anzi egli la difende; pensa che sia impossibile distinguere i Gabaoniti dai figli d’Israele; è ben lontano dal pronunciarli maledetti, e dal non riconoscere in loro alcuna parte alla gloriosa libertà dei figli di Dio e dichiararli estranei al suo popolo (Deuteronomio 29:11)! Sarebbe piuttosto tentato di farsi loro servo e tagliar la legna per la casa del loro Dio!
I sette figli di Saul furono appiccati e divennero, essi stessi, maledizione per causa dell’atto sanguiuario con cui il loro padre pretendeva di purificare l’assemblea d’Israele, sterminando i Gabaoniti. Quanti casi simili offre la Chiesa! Lo sterminio degli eretici, veri o supposti, non era altro che il crimine di Saul. Esso sarà giudicato su coloro che l’hanno commesso.
Che Dio ci dia di dipendere continuamente da Lui, per poter resistere alle insidie del diavolo. Questo capitolo non ci presenta che alcune delle sue malizie; ma se abbiamo l’occhio aperto ci accorgeremo che tutti i suoi artifizi sono diretti a farci perdere di vista le cose celesti e ad abbassare il nostro cristianesimo fino al livello del cristianesimo professato dal mondo.
10. Capitolo 10: La vittoria di Gabaon
Prima di entrare in questo nuovo soggetto, desidero fare qualche osservazione. Quanto più scorro questi primi capitoli di Giosuè, tanto più sono sorpreso nel vedere la parte che Satana prende. Egli sa combinare le circostanze per ottenere il suo scopo; per esse guida gli uomini senza che se ne accorgano; suggerisce loro delle soluzioni che credono di aver prese di loro proprio arbitrio, e troppo sovente, ahimè!, accade che dei figli di Dio commettano la follia di ascoltarlo. In mezzo a tutta quella formidabile attività, egli si nasconde e nessun sintomo esteriore lascia supporre la sua presenza; talchè il mondo è condotto a negarne perfino l’esistenza.
Che ha da fare Satana, essi dicono, colle ambizioni, le dispute, le guerre fra due popoli? Poi, dopo tutto, chi ha ragione nella lotta? Da che parte è il diritto? Chi è l’aggressore? Da che parte lo spirito di conquista? Pesiamo i fatti, siamo imparziali, decidiamo… Dopo aver udite le parti, pesata ogni cosa, mi decido per i Cananei contro Israele, per Satana contro Dio! E ciò perché il nemico è riuscito, per mezzo delle circostanze, a nascondermi Dio. La Parola fa esattamente il contrario; essa mi rivela Dio, me lo fa conoscere nella sua pienezza, in Cristo il quale porta nella sua persona la bontà, la verità, la luce, la giustizia e la santità perfetta. Satana è subito scoperto; i suoi disegni, le sue astuzie sono poste alla luce del giorno. L’anima, conoscendo Dio, non ha più difficoltà a giudicare il bene e il male che è nel mondo; la luce manifesta ogni cosa.
Un’altra osservazione è questa. Satana ha due grandi mezzi per corrompere i figli di Dio. Il primo è l’interdetto, cioè il mondo introdotto nel cuore; ma se quel male è giudicato e il cuore umiliato, non si ritiene battuto. Il suo secondo mezzo è l’alleanza con Gabaon, il mondo introdotto nel cammino. In tutta la nostra vita cristiana, dobbiamo guardarci dagli agguati; spesso si presenta questa domanda: basta il Signore al mio cuore, oppure cercherò io le cose che il mondo mi offre? V’è per noi il mezzo di rimanere cristiani e niente altro che cristiani, nel nostro cammino, e di essere completamente separati dal mondo religioso, di non dargli la mano e di non entrare in alcuna associazione con esso?
Con questi due lacci Satana è riuscito a trascinare i riscattati e vi riesce ancora oggi. La Chiesa ha cominciato coll’interdetto; la storia di Anania e Saffira è quella della sua prima caduta; in seguito essa è entrara in alleanza col mondo, per non dire che i principi di quell’alleanza si mostravano già al tempo degli apostoli. L’apostolo Paolo li denuncia nella sua prima epistola ai Corinzi. Molti avrebbero desiderato attirare i sapienti per far trionfare il Cristianesimo; le loro motivazioni erano come quelle del mondo, erano carnali. Tali sono i principi di Gabaon in mezzo all’assemblea d’Israele.
Israele ha riconosciuto il suo errore nell’affare dei Gabaoniti, l’ha confessato, ne subisce l’umiliazione in permanenza; e, da ciò come abbiamo visto, è approvato da Dio. Ma Satana non ha esaurito i suoi sforzi. Una nuova confederazione di re si organizza, e questa volta diretta non contro Israele, ma contro Gabaon. I Gabaoniti mandano a dire a Giosué: «Non negare ai tuoi servitori il tuo aiuto» (v. 6). Israele salirà? In qualunque modo, è circondato da pericoli. Non salire e lasciare sterminare i Gabaoniti sarebbe stato un eccellente modo per liberarsi dalle conseguenze del proprio errore; ma che ne sarebbe stato della sua umiliazione? Dove sarebbe la dirittura verso Dio e verso gli uomini? Salire, era accettare definitivamente l’alleanza col mondo! È opera di Satana di presentare l’alleanza col mondo! È opera di Satana di presentare simili dilemmi. Quante volte lo ha fatto verso l’Uomo che è stato perfetto in ogni cosa! Ma noi, come uscire da tali difficoltà? Con la semplice dipendenza da Dio realizzata alla scuola di Ghilgal. La lezione del tranello di Gabaon è imparata. Satana è smascherato.
Tuttavia, l’abbiamo già osservato nei precedenti capitoli, il solo fatto di essere a Ghilgal non preserva Israele. Al cap. 9 i Gabaoniti avevano trovato Giosuè e gli uomini d’Israele a Ghilgal, quando erano venuti per tendere loro il laccio di cui vediamo qui le conseguenze. Ciò che manca sovente, è l’applicazione pratica della croce di Cristo a tutti i dettagli della nostra vita. «Mortificate dunque le vostre membra che sono sulla terra». Bisogna, non solo tenersi a Ghilgal, ma salirne (v. 6 e 7) e poi ritornarvi (v. 15). La circoncisione, cioè la «morte» della nostra carne, e Ghilgal sono due cose inseparabili. La prima non basta per garantirci dalle cadute; Ghilgal senza la circoncisione non serve che a fare dei monaci, giacché l’uomo naturale può compiacersi e glorificarsi (Col. 2:20,23).
Ma il giudizio di se stesso produce la dipendenza, che si manifesta in felici comunicazioni con Dio che l’anima non aveva mai prima conosciute. Il Signore parla a Giosuè (v. 8); Giosuè parla col Signore (v. 12) e il Signore gli risponde (v. 14). L’incoraggiamento, la potenza e la vittoria sono i frutti benedetti di quella dipendenza che tiene l’anima nostra in un’abituale relazione con Lui. Ah! ora il Signore non è più costretto a prendere partito contro loro, come ad Ai; poteva combattere per loro (v. 11, 14). Li vediamo infatti riportare la più clamorosa vittoria che la Parola ricordi. «E mai, né prima, né poi, v’è stato un giorno simile a quello» (v. 14), un giorno in cui il sole splendette per quasi ventiquattro ore, affinché Israele avesse il tempo di raccogliere, fino all’ultimo, i frutti della vittoria. Il Dio della terra e del cielo, dichiara qui che Israele è l’oggetto del suo speciale favore; quel popolo, battuto davanti ad Ai, ingannato da Gabaon, e la cui condotta avrebbe potuto stancare la pazienza di Dio, è un popolo giudicato, umiliato e col cuore rotto, che Dio non sprezza. E quel Dio esaudisce la voce di un uomo.
Cari lettori, noi siamo tutti in quella stessa condizione. Per quanto deboli possiamo sempre rivolgerci a Lui per lo Spirito di Cristo e salire fino alle più alte richieste. Niente era troppo elevato per Giosuè; egli conosceva il cuore del Signore, e sapeva quale posto vi occupava il suo popolo; egli poteva chiedergli di mettere i cieli, il sole e la luna al servizio dei suoi diletti!
Da quel giorno Israele camminò di vittoria in vittoria (v. 19); bisogna sconfiggere i nemici fino all’ultimo. I cinque re sono presi e impiccati alle forche; l’esperienza fatta prima aiuta Giosuè a discernere il suo cammino, perché è stata fatta con Dio. Giosuè conosce ciò che si addice alla santità di Dio (v. 26-27). Ripieno di coraggio per la parola di Dio (v. 8) incoraggia, egli stesso, il popolo (v. 25). Makkeda, Libna, Lakis, Ghezer, Eglon, Hebron, Debir, sono le loro tappe vittoriose; così prendono possesso della loro eredità e poi «Giosuè, con tutto Israele, tornò al campo di Ghilgal» (v. 15).
11. Capitolo 11
11.1 La vittoria di Hatsor
Giunti alla descrizione del combattimento finale, che apre tutta la Palestina a Israele, ricordiamo che il possesso di Canaan è il grande soggetto del libro di Giosuè, e che il paese della promessa corrisponde in figura a ciò che sono per noi «i luoghi celesti». Ma fra le cose che questi contengono, vi abbiamo un possedimento speciale: Cristo. Noi siamo «benedetti di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo». Dio vuole che ci appropriamo delle ricchezze di Colui nel quale siamo, e che i nostri cuori entrino in quelle cose in modo che divengano nostre. Non dico di entrarvi solo con l’intelletto, che può, fino a un certo punto, afferrarle ma non in un modo durevole. Tutto ciò che non è stato afferrato per la fede sfugge dalle nostre mani come acqua. Occorre che le nostre affezioni siano veramente in quelle cose perché divengano la nostra proprietà; e, prima di tutto, l’oggetto che deve riempire i nostri cuori è Cristo, poiché senza Lui le cose celesti, per se stesse, non li riempirebbero. Ecco perché è detto: «Cercate le cose di sopra, dove Cristo è seduto alla destra di Dio».
Questo è il grande soggetto del libro di Giosuè. Ma ce n’è un altro. Quando Dio pone le cose celesti davanti alle nostre anime, Satana cerca, con tutti i mezzi, di impedircene il godimento. Di qui il combattimento, aperto o nascosto, che abbiamo da sostenere, e il cui esito è fatalmente una disfatta, se Satana riesce a farci volgere lo sguardo verso il mondo, alle cose della terra, oppure su noi stessi. Fra il capitolo 1 e l’11 del libro di Giosuè, voi trovate tutti questi tipi di attrazione. Ma quando il cuore è puro e diritto davanti a Lui, Dio si serve delle esperienze per insegnarci a diffidare sempre più di noi stessi, a confidare in Lui, e condurci a prendere finalmente quella posizione elevata dalla terra, quella di un cristiano che cammina umilmente in questo mondo, poiché ha il suo cuore e le sue affezioni nel cielo.
In questo cap. 11 vediamo una nuova confederazione unirsi a quella del cap. 9 (quella del cap. 10 era stata distrutta), per costituire un’armata formidabile, «un popolo innumerevole, come la rena che è sul lido del mare» (v. 4); Satana cerca ora di schiacciare Israele sotto il numero. È l’inimicizia aperta del mondo contro il popolo di Dio. Non si tratta più di stratagemmi, ma di una lotta in aperta campagna, e questo è ciò che incontreremo sempre quando, in uno spirito di umiltà e di ubbidienza, abbiamo smascherato le insidie di Satana; egli solleverà il mondo contro di noi.
Gli uomini si uniscono in alleanza per far la guerra a Dio quando la loro inimicizia contro a Dio è giunta al colmo. Di solito si uniscono collo scopo di migliorare il mondo, dando luogo alle società politiche, filantropiche, religiose, che vogliono civilizzare, istruire, moralizzare i loro simili. Quanto poco gli uomini, e perfino i cristiani, si rendono conto che tutta quell’attività, in apparenza lodevole, è un’opposizione nascosta a Dio, alla sua Parola e ai suoi disegni di grazia! Dio non cerca di migliorare l’uomo; non può smentire la sua Parola che lo dichiara perduto e senza risorse. Ora, se questa verità fondamentale non è accettata, l’uomo non ha bisogno di salvezza, né di redenzione per il sangue di Cristo! Le migliori alleanze degli uomini non sono, insomma, che una guerra mascherata dell’uomo naturale contro Dio.
Nel nostro capitolo troviamo la guerra aperta contro di Lui, contro i suoi santi. I tempi della fine manifesteranno quest’inimicizia dell’uomo pervenuta alla sua maturità allorché il residuo fedele d’Israele sarà preso di mira dal mondo sollevato da Satana contro la testimonianza di Dio. Così è qui; la confederazione ha un capo: un gran centro di radunamento, la gran città di Hatsor, che era «la capitale di tutti quei regni»; un esercito innumerevole, una gran quantità di cavalli e carri. Il mondo intero, con tutte le sue forze, ha fatto lega contro Israele.
Queste cose si ripetono per noi oggi. È detto che «tutto quello che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede» (1 Giovanni 5: 4). È anche detto ai giovani: «Voi siete forti, e la parola di Dio dimora in voi, e avete vinto il maligno» (1 Giovanni 2: 14), vale a dire il principe di questo mondo. Notiamo, in questi due passi, che le armi della nostra guerra sono la fede e la Parola. Era per la Parola che quei «giovani», come Cristo nel deserto, avevano vinto Satana. Qui la stessa verità riappare. Dalla fine del cap. 8, la Parola aveva preso il suo posto nei cuori e nei pensieri di Giosuè e del popolo. Al cap. 10, essa conserva quel posto (v. 27, 40); al cap. 11, è divenuta l’abitudine della loro condotta in ogni cosa. «Giosuè li trattò come gli aveva detto l’Eterno» (v. 9). Egli li distrusse interamente, come Mosè, servitore del Signore aveva ordinato (v. 12). Leggiamo ancora: «Come l’Eterno aveva comandato a Mosè, suo servo, così Mosè ordinò a Giosuè, e così fece Giosuè; il quale non trascurò alcuno degli ordini che l’Eterno aveva dato a Mosè» (v. 15), cioè che «li distruggesse come l’Eterno aveva comandato a Mosè» (v. 20).
Inoltre, è da notare che Giosuè non si accontenta di obbedire a un comandamento speciale, come si vede al v. 9, e come fece tante volte prima, e neppure di lasciare ad altri la cura di compiere tutto ciò che Mosè aveva comandato (8:35); quell’uomo di Dio, pervenuto al termine della sua cariera, non aveva omesso alcuna cosa di tutto ciò che il Signore aveva comandato a Mosè. La Parola, tutta intera, quale gli era allora stata comunicata, era oggetto della sua scrupolosa attenzione e dirigeva il suo cammino. Quale potenza ciò conferisce! Al cap. 8, la Parola formava il cuore e i pensieri di Giosuè; qui, quella spada dello Spirito arma il suo braccio. Satana non può nulla contro ad essa.
A questa scuola della parola di Dio si impara a giudicare tutte le risorse della potenza umana. Il fedele riconosce in esse degli oggetti di giudizio; non sa che farne. Secondo la parola di Dio, egli «tagliò i garetti ai loro cavalli, e dette fuoco ai loro carri» (v. 9). Poi «dette Hatsor alle fiamme» (v. 11, 13). La capitale del mondo non può divenire un centro per Israele. La cosa rimane sempre vera, si tratti di Hatsor, di Roma o di Babilonia; e se Babilonia non è ancora bruciata col fuoco, sia tale per il nostro spirito. Tutti i princìpi di questo mondo, ciò che lo governa, che costituisce il suo centro di attrazione, dev’essere per noi una cosa giudicata, alla quale non abbiamo alcuna parte, come Israele non ne aveva ad Hatsor. Le altre città restano e Israele ne preda il bottino, affermando così, in accordo colla parola di Dio, il suo diritto di prendere possesso pienamente di Canaan. Ma la vittoria fu grande e completa; «senza lasciare anima viva» (v. 14). La spada aveva esercitato il giudizio di distruzione, come il Signore aveva comandato. In senso spirituale, la fedeltà per il credente consiste nel mettere l’uomo naturale sotto la spada del giudizio. Esso non deve sussistere nella terra della promessa.
Ah, se questo fosse durato, sarebbe stato bello e degno di Dio. Ma vedremo che non è durato.
11.2 Gli Anakiti
Satana è vinto, la sua ultima armata distrutta, le sue città prese; che rimane ancora? Israele trova sul suo cammino i motivi di spavento che l’avevano fatto cadere in principio, cioè gli Anakiti che avevano fatto struggere i loro cuori e gli avevano impedito di salire arditamente per possedere il paese. Le spie dicevano allora, per diffamare il paese di Canaan: «Noi vi abbiamo visto i giganti, figli di Anak, della razza dei giganti; appetto ai quali ci pareva d’essere locuste» (Numeri 13:33). Ma quale impressione potevano produrre i figli di Anak sullo spirito di colui che va avanti colla parola di Dio? La vittoria è sua. «Giosuè si mise in marcia e sterminò gli Anakiti» ed anche le loro città, «città grandi e fortificate fino al cielo» (Deut. 9: 1), «Giosuè li votò allo sterminio, con le loro città» (v. 21).
Giosuè contava sulla promessa di Dio: «L’Eterno è quegli che marcerà alla tua testa, come un fuoco divorante; ei li distruggerà e li abbatterà davanti a te» (Deuteronomio 9:3). Come i nostri timori e i nostri spaventi di una volta ci sembrano puerili e meschini quando camminiamo con Dio! Che cos’è un uomo di «sei cubiti e un palmo» e con una corazza di 5000 sicli di rame, davanti al Dio sovrano, creatore dei cieli e della terra, dominatore di tutta la terra? Davanti a Lui tutte le cose sono abbassate, ed Egli abbasserà tutte le cose davanti ai suoi. «E il Dio della pace triterà tosto Satana sotto i vostri piedi» (Rom. 16: 20).
12. Capitolo 12: Enumerazione dei re vinti
Con questo capitolo entriamo nella seconda parte del libro. La prima, cap. 1 a 11, ci ha intrattenuti sulle vittorie di Giosuè (tipo di Cristo nella potenza dello Spirito in mezzo ai suoi), che hanno procurato a Israele il possesso delle cose promesse. Nel corso delle sue vittorie, l’esercito del Signore (e Giosuè stesso, considerato non più come tipo ma come uomo, soggetto all’infermità) ha fatto molte esperienze della sua debolezza, e quelle esperienze non possono mancare neanche a noi da quando entriamo in scena come strumenti della potenza divina.
Ma il punto capitale del libro di Giosuè è la grazia che ha dato la vittoria a Israele per stabilirlo in Canaan, non la responsabilità del popolo. Quest’ultima parte della storia di Israele incomincia col libro dei Giudici; difatti, quale contrasto fra quei due libri! Quale freschezza e forza in quello di Giosuè, ove la potenza dello Spirito di Cristo agisce liberamente in esseri deboli, ma ripieni di quella potenza, e quale decadenza repentina e completa nei Giudici, ove sorge una generazione che non aveva conosciuto Giosuè, e che era sotto la responsabilità di conservare ciò che Dio le aveva affidato! La storia della Chiesa ci offre gli stessi fenomeni. Leggete la prima epistola ai Tessalonicesi, poi passate alle lettere alle sette chiese dell’Apocalisse, e avete la differenza fra l’opera perfetta stabilita da Dio al principio, opera di potenza che spande dappertutto il profumo della sua origine, e l’opera affidata all’uomo e divenuta, come tale, l’oggetto del giudizio di Dio.
Il cap. 11 finisce con queste parole: «E il paese ebbe requie dalla guerra». Dopo la vittoria, la pace; è sempre così. Dio non ci dà solo la vittoria, ma ci fa godere dei suoi frutti. Se abbiamo camminato fedelmente, sotto la condotta dello Spirito, nel cammino del combattimento, troviamo alla fine il pacifico godimento dei nostri beni celesti, ricompensa spirituale alla fedeltà, che ci presentano, in tipo, i capitoli di cui stiamo per occuparci. Ciò che si realizzava per l’intiero popolo (vedete pure cap. 21:44), si realizza pure per il credente individualmente. Dopo la vittoria di Caleb (cap. 14:15) è detto: «Ed il paese ebbe requie dalla guerra».
E voi, diletti, siete scoraggiati nella lotta che dovote sostenere? Sareste tentati di deporre le armi? Direste voi: È troppo per me? Non avete compreso che la lotta ha lo scopo di condurvi a quel giorno benedetto quando Dio dirà: «Ed il paese ebbe requie dalla guerra»?
La seconda parte del libro (capitoli 12-24) tratta della spartizione del paese. Dopo la vittoria, il possesso. Ma in qual modo entrerà il popolo nel godimento della sua eredità? Là ancora, noi lo vedremo a distanza dalla grazia che dà il godimento di quei doni; vedremo apparire la debolezza del popolo, quella stessa che aveva mostrata nel combattimento.
Il cap. 12 è il riepilogo delle vittorie d’Israele. Trentatré re, di cui due al di là del Giordano, sono caduti davanti al capo dell’esercito del Signore. Dio tiene conto delle vittorie che il suo popolo ha riportate. Tutto ciò che la grazia ha prodotto in noi, tutto ciò che si è conquistato, Dio l’attribuisce alla fede.
Altra verità: Egli enumera le nostre vittorie solo quando il combattimento è finito. Finché non sia ottenuto il fine che si è proposto, il credente non deve occuparsi del suo progresso. L’apostolo dice: «Dimenticando le cose che stanno dietro». In corsa non c’è il tempo di fermarsi. Ogni sguardo indietro, mentre aveva da compiere uno sforzo in avanti, era per l’apostolo non solo un tempo perduto ma una cosa positivamente cattiva, in quanto inquina i pensieri, le affezioni e i moventi del cuore e impedisce al credente di protendersi verso le cose «che stanno dinanzi» (Filippesi 3:13-14).
Quando il traguardo sarà raggiunto, allora potremo enumerare le nostre vittorie, e Dio non ce ne lascerà il compito; Egli stesso le conterà. Ora corriamo per raggiungere Cristo e combattiamo per riportare il premio. La fine del combattimento è vicina; altri già ci hanno preceduto. Possiamo noi dire come Paolo: «Io ho combattuto il buon combattimento, ho finita la corsa, ho serbata la fede»!
13. Capitolo 13 (Insieme ai capitoli 15-19)
13.1 Divisione del paese
Farò menzione di questo capitolo insieme ai capitoli 15-19, riservando il 14 come soggetto d’una meditazione speciale.
Tutti i nemici sono vinti, ma non tutti sono sterminati. Ve ne saranno sempre fino alla venuta del Signore. «L’ultimo nemico che sarà distrutto sarà la morte» (1 Corinzi 15:26). Ma per Israele si trattava di impadronirsi dei loro possedimenti. Finché i nemici sono in possesso di qualche bene che appartiene al popolo di Dio, questo non ne può avere un completo godimento; e per di più, il nemico, restando in mezzo ad esso, gli sarà continuamente un’occasione di caduta.
Se il nemico non è annientato, non tarderà a rialzare il capo, e a sedurre il popolo. Tale fu il laccio per gli Israeliti stabiliti in pace nella loro terra. È detto delle tribù di Ruben, Gad e mezza Manasse: «Ma i figli d’Israele non cacciarono i Ghesuriti e i Maacatiti; e Ghesur e Maacath abitano in mezzo a Israele fino al dì d’oggi» (13: 13). Di Giuda è detto: «Quanto ai Gebusei che abitavano in Gerusalemme, i figli di Giuda non li poterono cacciare; e i Gebusei hanno abitato coi figli di Giuda in Gerusalemme fino al dì d’oggi» (15:63). E d’Efraim: «Or essi non cacciarono i Cananei che abitavano Ghezer; e i Cananei hanno dimorato in mezzo a Efraim fino al dì d’oggi, ma sono stati soggetti a servitù» (16:10). Infine di Manasse: «Or i figli di Manasse non poterono impadronirsi di quelle città; i Cananei erano decisi a restare in quel paese» (17:12). Confrontate anche con Giudici 1:17-36. C’è forse stata una certa misura di fedeltà nel rendere quei Cananei inoffensivi, ma non una sola tribù fu all’altezza della sua vocazione. Che ne risultò? Tutti i principi mondani che Israele aveva combattuti non tardarono, sotto tale influenza, a penetrare in Israele. Vediamo nei libri dei profeti che le concupiscenze, la fiducia nelle loro proprie forze e la ricerca di alleanze colle nazioni faceva parte della vita del popolo. Ma oltre a ciò, l’idolatria dei Cananei li pervertì come una cancrena, e finirono col prostituirsi a tutti gli dèi dei Gentili.
La corruzione, la menzogna, l’ingiustizia, lo sprezzo di Dio, la violenza, la ribellione aperta, tutte le cose, insomma, che costituivano «l’iniquità degli Amorrei», e per le quali il giudizio di Dio li aveva colpiti, divennero triste prerogativa del popolo di Dio. Infine, Israele stesso, cosa orribile, prende il loro posto e diviene, esso stesso, quell’armata che Satana conduce all’assalto contro il Signore quando rigettano e crocifiggono il Cristo, il Figlio di Dio!
Dio userà con loro molta pazienza; manderà loro caldi appelli, dei giudizi parziali seguiti da liberazioni momentanee, poi nuovi appelli. «Che più si sarebbe potuto fare alla mia vigna di quello che io ho fatto per essa?» (Isaia 5:4). Ma infine il giudizio definitivo cade su loro; essi sono trasportati di là da Babilonia e sono dispersi fra le nazioni. Ma ecco, una cosa meravigliosa si presenta. Se l’uomo responsabile è arrivato alla fine della sua storia, che termina col giudizio, Dio non è giunto al termine delle sue risorse. «I doni e la vocazione di Dio sono senza pentimento». Per poterli benedire, Dio li condurrà a se in una condizione del tutto nuova; li farà partecipare al beneficio della nuova nascita, secondo che è scritto: «Io torrò dalla vostra carne il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne». Egli agirà sulle loro coscienze per ricondurli, e scriverà le sue leggi nei loro cuori; darà loro la conoscenza del perdono dei peccati e della relazione benedetta con se stesso. Allora, tutte le benedizioni perdute saranno ritrovate in una proporzione mille volte più grande. Questo è ciò di cui Osea 14 ci offre il quadro commovente, dove si vede Israele che, dopo essersi rivolto al Signore per chiedergli le benedizioni del nuovo patto, esclama: «Perdona tutta l’iniquità, ed accetta questo bene, e noi t’offriremo l’offerta di lode delle nostre labbra» (Osea 14:2; versione letterale). Il residuo d’Israele rigetterà ogni alleanza col mondo, ogni fiducia nella forza dell’uomo, ogni falso dio, e nel suo isolamento imparerà a conoscere la miseiicordia di Dio da cui dipende tutta la sua benedizione. «L’Assiria non ci salverà, noi non monteremo più su cavalli, e non diremo più: Dio nostro, all’opera delle nostre mani; poiché presso di te l’orfano trova misericordia» (Osea 14:3).
Notate ancora, in questo capitolo, la cura minuziosa che lo Spirito di Dio prende nel definire il luogo ed i limiti per ciascuna tribù, affinché ognuna ne prenda conoscenza, e si rende esattamente conto della sua parte di eredità. Lo stesso avviene per l’individuo ora. Dio ha dato a ciascuno di noi un posto ben definito e una funzione nel corpo di Cristo. Ogni membro di Cristo deve averne coscienza e agire in conseguenza, affinché l’energia di vita, che scende dal Capo nelle membra, trovi in queste degli strumenti ben disposti per la sua opera, e che vi contribuiscano tutti insieme sotto un comune impulso: «Il capo, Cristo, dal quale il corpo ben collegato e ben connesso mediante l’aiuto fornito da tutte le giunture, trae il proprio sviluppo nella misura del vigore d’ogni singola parte, per edificar se stesso nell’amore» (Efesini 4:16).
13.2 La parte di Levi
Notate infine la parte della tribù di Levi (13:14,33). Secondo l’ordine del Signore, né Aaronne (Numeri 18:20), né i sacerdoti, né la tribù di Levi (Deuteronomio 10:9), potevano avere una eredità in Israele. La loro eredità era: da una parte, «l’Eterno, Dio d’Israele», dall’altra, i sacrifici del Signore fatti col fuoco. Lo stesso è per noi, suo popolo celeste. Noi non abbiamo alcuna parte quaggiù, ma il nostro privilegio è di restare davanti a Dio e servirlo; e ancora di più, possedere Lui stesso, e avere comunione con Lui, nei luoghi celesti. Ma la parte che abbiamo nel Figlio è anche i «sacrificii offerti mediante il fuoco all’Eterno», vale a dire Cristo, secondo tutta la perfezione della sua opera e della sua persona davanti a Dio; Cristo, uomo perfetto, focaccia di fior di farina, unta d’olio e coperta d’incenso; Cristo vittima, olocausto, sacrificio per il peccato, tutto ciò in cui Dio trova le sue delizie in eterno. Noi abbiamo comunione col Padre e col suo Figlio, Gesù Cristo!
Cristo stesso, nostro modello, il levita puro, il Servo perfetto, fece le stesse esperienze benedette durante la sua vita quaggiù. Se i suoi occhi si portano sulla terra, Egli dice: «L’Eterno è la parte della mia eredità e il mio calice»; se nel cielo, aggiunge: «La sorte è caduta per me in luoghi dilettevoli; una bella eredità mi è pur toccata!» (Salmo 16:5-6).
Infine, diletti, ciò che è la nostra parte attuale è pure la nostra in futuro; per i sacerdoti della tribù di Levi quella benedizione si realizzerà anche quando Israele godrà in pace della gloria millenniale sotto il regno del Messia.
Parlando di quel tempo benedetto, Ezechiele dice: «E avranno una eredità: Io sarò la loro eredità; e voi non darete loro alcun possesso in Israele: Io sono il loro possesso» (Ezechiele 44:28) e continua mostrando che le offerte del Signore saranno la loro porzione in quei tempi gloriosi.
Aprite ora l’Apocalisse al cap. 4 e 5. Quella scena celeste non ci dice le stesse cose? La comunione perfetta con Dio e con l’Agnello sarà la parte della nostra eredità per i secoli dei secoli.
14. Capitolo 14: La perseveranza di Caleb
Desidero fermarmi un poco su questo capitolo a causa della sua importanza pratica. Caleb è il tipo della perseveranza della fede. Il capitolo 13 dei Numeri fa, per la prima volta, menzione del suo nome (v. 6) quando Mosè manda da Paran un uomo di ciascuna tribù per conoscere il Paese. Fra quei dodici uomini si trovavano Caleb, figlio di Gefunne, e Hoscea, figlio di Nun, a cui Mosè pose nome Giosuè (v. 8 e 16).
Da quel momento troviamo il nome di Caleb così intimamente legato a quello di Giosuè (vedi Numeri 14:30-38; 26:65; 34:17-19; Deuteronomio 1:36-38; Giosuè 14:13), che si potrebbe dire che ne sia inseparabile. Essi esplorano insieme il paese, camminano insieme nel deserto, entrano insieme in Canaan. Senza dubbio sono uniti per il loro carattere di uomini di fede; ma trovo una ragione in più per quell’associazione che la Parola ci segnala: Giosuè è un tipo di Cristo, di Gesù, Salvatore, il quale fa entrare il popolo nel riposo del paese della promessa, e Caleb cammina in sua compagnia. Il gran nome di Giosuè adombra, per così dire, quello di Caleb, e gli imprime il suo carattere. Questi due uomini hanno uno stesso pensiero, una stessa fede, una stessa fiducia, uno stesso coraggio, uno stesso punto di partenza, uno stesso cammino, una stessa perseveranza, uno stesso scopo. È lo stesso di noi, caro lettore? Siamo noi talmente associati a Cristo, da non poter essere pronunciato il nostro nome senza il suo, e sì che la nostra esistenza stessa tragga il suo valore dal fatto che siamo divenuti, per grazia, compagni di Gesù Cristo?
Al capitolo 13 dei Numeri, i dodici uomini mandati da Mosè vennero fino a Hebron; poi passarono fino al torrente di Escol, donde riportarono i campioni dei magnifici prodotti della terra di Canaan, per mostrare la eccellenza di quel paese. Ma non è, come si potrebbe pensare, Escol che ha accattivato gli occhi e il cuore di Caleb; la sua fede gli ha fatto trovare qualche cosa di migliore: Hebron, dove egli ha messo il piede; e gli è dato (Giosuè 14:9)! Da quel momento, egli porta sul cuore quel nome per ben quarantacinque anni, fino al giorno in cui, comparendo davanti a Giosuè, chiederà quella montagna della quale il Signore ha parlato, quell’Hebron, per sua possessione in perpetuo.
Quel luogo non cessa d’avere un grande valore per la fede; per gli occhi della carne non poteva, invero, ispirare che tristezza. Inoltre, i formidabili Anakiti vi abitavano, quei giganti il cui nome aveva fatto struggere il cuore del popolo; ma potente per l’anima di Caleb era il pensiero che quel luogo era la sepoltura dei padri. E quel luogo, che racchiudeva tanti cari ricordi, divenne la ricompensa di quell’uomo di Dio. Fu là che Abramo, il padre del popolo, scelse la sua residenza (Genesi 13:2), quando Lot ebbe preferito le città della pianura; dove edificò un altare e dove ricevette la promessa da Dio (Genesi 18:1); ma Hebron è, prima di tutto, un luogo di morte. Lo fu prima per Abramo. Fu là che Sara morì (Genesi 23:2); là che essa e Abramo furono sepolti (Genesi 25:10), poi Isacco (Genesi 35:27-29), poi Giacobbe ed i patriarchi.
Sì, Hebron è davvero il luogo dei sepolcri e della morte; è la fine dell’uomo. Che cosa v’è di attraente? Nulla, se si tratta dell’uomo naturale; tutto, se si tratta della fede. È un luogo speciale dove il credente trova la fine di se stesso; è la croce di Cristo.
Infatti è là che Giuseppe si mise in viaggio per andare alla ricerca dei suoi fratelli (Genesi 37:14). Più tardi (Giosuè 21) Hebron diventò una città di rifugio e proprietà dei Leviti. Poi un punto di partenza, la sovranità di Davide (2 Samuele 2:1-4). È in virtù della sua morte che Gesù è stato da Dio risuscitato e coronato di gloria, e che il diadema regale brillerà sul suo capo. È infine in Hebron che tutte le tribù d’Israele riconobbero Davide per loro re e vennero a fargli atto di sottomissione (2 Samuele 5:1).
Quel luogo non è meraviglioso? Quale serie di benedizioni! Hebron, luogo della morte e città di rifugio, è fatto il punto di partenza delle benedizioni di Israele, delle promesse, della sovranità e della gloria regale, e centro di radunamento, quando la gloria è venuta; esso è inoltre l’oggetto permanente del cuore e delle affezioni del povero pellegrino che vi ha trovato il suo punto di partenza, e che vi trova il suo punto d’arrivo e il suo luogo di perpetuo riposo! Ah! come quel luogo, che era in apparenza il meno attraente, era divenuto prezioso per Caleb! Egli lo vuole per sua eredità perpetua. E la nostra parte eterna sarà di approfondire il significato di quel luogo unico al mondo. La fede di Caleb poteva, fin dal principio, trovarvi ciò che la fede dì Abramo vi aveva trovato: la fine dell’io, l’annientamento di se stesso, le cose vecchie e passate; ed ecco un uomo che si mette in cammino non contando su se stesso e non potendo dipendere che da Dio. E cammina fino a che ha raggiunto il suo scopo: il pieno godimento delle promesse, nel luogo dove l’uomo ha trovato la sua fine!
Abbiamo considerato due punti che caratterizzano Caleb. Il primo è che il suo nome è inseparabile da quello di Giosuè, il secondo è che un oggetto speciale ha attirato le sue affezionì e il suo cuore tanto che ne ha conservato il ricordo lungo tutto il pellegrinaggio nel deserto. Ora, permettetemi di aggiungere che le nostre affezioni sono sempre in esercizio quando hanno per oggetto Cristo morente sulla croce e che dà se stesso per noi, mentre un Cristo glorificato ci comunica l’energia per raggiungerlo (Filippesi 2 e 3).
Ma vi è un terzo punto che caratterizza quell’uomo di fede. Caleb realizza la sua speranza. Egli entra prìma come esploratore nel paese di Canaan; ma è là, e non nel deserto, che la sua carriera comincia. Quando entra nel deserto, i suoi occhi sono pieni della realtà e della bellezza delle cose che ha vedute e che divengono, per quarantacinque anni, l’oggetto della sua speranza. Lo stesso è per il Salmista: «O Dio, tu sei il Dio mio, io ti cerco dall’alba; l’anima mia è assetata di te, la mia carne ti brama in una terra arida, che langue, senz’acqua. Così t’ho mirato nel santuario per vedere la tua forza e la tua gloria» (Salmo 63:1-2). Ecco un uomo che cammina secondo l’esempio di Caleb. Egli ha veduto Dio nel santuario; è là che prende il suo punto di partenza; e di là scende sulla terra, pieno della realtà delle cose divine che sosterranno il suo cuore lungo tutto il pellegrinaggio.
Un quarto punto si lega a questo. Il deserto non ha solamente perduto le sue attrattive, ma appare in tutta la sua aridità e il suo orrore, quando l’anima è nutrita del «midollo» e del «grasso» del santuario. Così tutto il valore apparente delle cose visibili sparisce; esse non sono altro, per l’anima, che il vuoto, l’aridità, il nulla.
Ritorniamo ora alla perseveranza che è il carattere dominante di Caleb. Quel carattere non esisterebbe senza il quarto punto che abbiamo considerato: l’attaccamento a Cristo, la conoscenza del valore infinito dell’opera sua, una speranza realizzata, nessun legame quaggiù; ecco ciò che ci permette di perseverare fino alla fine nel cammino della fede. E questa perseveranza si lega, nella vita di Caleb, a tre posizioni che sono inseparabili l’una dall’altra.
Quando si tratta di prendere conoscenza del buon paese che Dio vuole dare al suo popolo, è detto di Caleb che perseverò a seguire il Signore (Numeri 14:24; Deuteronomio 1:36; Giosuè 14:8-9). Ma gli tocca camminare ancora quarant’anni nel deserto, e lo fa corraggiosamente; persevera perché conserva nel suo cuore la memoria delle ricchezze e dei tesori di Canaan. Le difficoltà del deserto non sono nulla per lui; trova il sole, la sabbia, la fatica e la sete, e non ne tiene conto. Non gli accade di cercare qualche cosa intorno a sè. La sua perseveranza è alimentata dalla speranza; e la speranza del credente non è solamente Canaan in senso generale (cioè il cielo), ma è Cristo stesso.
Vi fu un uomo molto rinomato di cui Dio non poté dire ciò: Salomone. Egli mancò dove Caleb aveva perseverato. Il deserto era diventato qualche cosa per quel gran re; giunse il momento in cui Salomone voltò le spalle a Dio avendo amato qualche cosa del deserto. È detto di lui (1 Re 11:6): «Egli non seguì pienamente l’Eterno». Il mondo ebbe molte attrattive per lui, e per quanto piccole fossero al principio, non tardarono ad invadere il suo cuore, e il regno fu perduto. Caleb, invece, guadagnò l’eredità per la sua perseveranza nel seguire il Signore.
Ma Caleb perseverò ancora in una terza occasione: nella presa di possesso di Canaan. Egli passa ancora cinque anni a combattere, poi si serve delle sue stesse armi per impadronirsi della sua porzione speciale, della montagna di cui il Signore gli aveva parlato. Egli entra in pieno possesso della sua eredità, nonostante la potenza formidabile del nemico, e il terrore che inspiravano i figli di Anak. Ma per Caleb, come per noi, erano un nemico già vinto; colui che ha la potenza della morte non può più farci paura. Caleb entra nel pieno possesso della sua eredità; la sua perseveranza è coronata di successo. Egli è il solo in Israele che sembra abbia cacciati «tutti i suoi nemici». Quale lezione per noi! Ricordiamoci che la presa di possesso di Caleb per noi è un fatto attuale, e non solamente un godimento futuro. Abbiamo noi perseverato nel combattimento per godere attualmente dei nostri privilegi? Che Dio ci dia di perseverare, come Caleb, in queste tre cose: la speranza, il cammino e il combattimento!
Alla fine del nostro capitolo, troviamo ancora due caratteri che accompagnano sempre la perseveranza. Caleb dice al versetto 11: «Sono oggi ancora robusto com’ero il giorno che Mosè mi mandò; le mie forze sono le stesse d’allora, tanto per combattere quanto per andare e per venire». Nonostante i suoi ottantacinque anni, e la fatica del deserto, Caleb non aveva perduto un atomo di forza. Come si spiega questo? Perché non aveva nessuna fiducia in se stesso. La lezione di Ebron era rimasta impressa nel suo cuore. Al v. 12, dice: «Forse l’Eterno sarà meco». Voi direte: diffidava dunque del Signore. No, ma diffidava di se stesso. Notiamo la connessione di queste due cose: la realizzazione della forza è proporzionale alla sfiducia in se stesso. È così che si cammina di forza in forza. Isaia 40:28-31 ci presenta la stessa verità in modo ammirevole. «I giovani s’affaticano e si stancano; i giovani scelti vacillano e cadono». Ecco dove vanno a finire le migliori forze dell’uomo. Ma il Dio d’eternità, il Signore, non si stanca e non si affatica. In Lui è la nostra fiducia, ed è Lui che «dà la forza allo stanco ed accresce il vigore a chi è senza forze». Egli comunica la sua forza ai deboli; la manifesta nell’infermità. Poi aggiunge: «Ma quelli che sperano nell’Eterno acquistano nuove forze, s’alzano a volo come aquile; corrono e non si stancano, camminano e non s’affaticano». Fu così di Caleb. Egli camminava colla coscienza che la sua forza era in Dio. Possa essere lo stesso per noi: pensare alle cose celesti, correre nell’arena del combattimento, e camminare pazientemente senza stancarci in quel cammino che finisce nella gloria!
Debbo parlare ancora di un altro carattere accessorio della perseveranza. Essa produce la perseveranza negli altri. Caleb fu particolarmente benedetto nel cerchio della sua famiglia, che si trovò impegnata con lui nello stesso cammino della fede. Al cap. 15:16 (vedi anche Giudici 1:12-13) è detto: «E Caleb disse: A chi batterà Kiriath-Sefer, e la prenderà, io darò in moglie Acsa mia figlia. Allora Othniel, figlio di Kenaz, fratello di Caleb, la prese; e Caleb gli diede in moglie Acsa sua figlia». Il nipote seguì degnamente le orme dello zio. Egli combattè avendo davanti agli occhi suoi un oggetto che ha del valore, e che desidera possedere. La sua speranza si unisce a quella della figlia di Caleb. Quanto a noi, vogliamo possedere Cristo ad ogni costo? Al cap. 3 dei Giudici, Othniel diviene il primo giudice d’Israele. Dopo essere stato vincitore nel combattimento per se stesso, è eletto per liberare gli altri, e persevera nel suo nuovo carattere fino alla fine.
Acsa, figlia di Caleb, è un nuovo esempio di perseveranza. Caleb l’aveva data ad Othniel; ella incita suo marito a chiedere di più; vuole un campo e, per di più, delle sorgenti d’acqua. Le abbisogna «la benedizione» su ciò che possiede. Per averla, ella scende dal suo asino e fa la richiesta; persevera nella preghiera e nella supplicazione; e riceve così le sorgenti che desidera, tipo delle benedizioni spirituali. Questo anche, caro lettore, è un insegnamento giornaliero. Quando abbiamo in mano la Parola, domandiamo le sorgenti per inaffiarla. Quella Parola vivente è sovente per molti cristiani come una «terra arida», nella quale la loro anima non trova alcun nutrimento. Se tale è il nostro caso, avete voi preso, come Acsa, il posto di supplicante per domandare a Dio il soccorso spirituale che può farla fruttificare per la vostra anima? Non ve la darà Egli come Caleb diede a sua figlia le sorgenti?
Prima di lasciare il soggetto della perseveranza, vorrei ancora toccare due punti importanti. È detto di Caleb che «aveva pienamente seguito l’Eterno, il Dio d’Israele». Egli aveva perseverato a seguire Cristo, conosciuto da lui come l’Eterno dell’Antico Testamento. Che cosa significa dunque seguire Cristo? Sovente ci se ne fa un’idea molto inesatta. È camminare dietro una Persona che noi riconosciamo come la guida; e ancora, avere non solo la fiducia in Lui, ma un’umile dipendenza da Lui. Altro punto: Seguendo qualcuno, tengo gli occhi fissi su lui per imitarlo. Imitare il Signore è cercare di riprodurlo e di rassomigliargli. In qualunque posizione Dio mi ponga, il suo scopo è che io riproduca Cristo in quella posizione, cioè Lui nelle sue relazioni, nel suo servizio, nella sua testimonianza e nelle sue sofferenze. Questo è ciò che fece Caleb; egli seguì completamente il Signore, Dio suo.
Ma si domanderà: A che cosa si applica la perseveranza? Il Nuovo Testamento risponde largamente a questa domanda. Citerò alcuni passi:
Atti 1:14: «Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera»; questa perseveranza era collettiva; non si limitavano a piegare le ginocchia davanti al Signore, ognuno per sé, e per il proprio bisogno, ma erano unanimi nel pregare per le cose che abbisognavano, in comune.
Atti 2:42. Troviamo anche qui la perseveranza collettiva, ma che si applica a quattro cose: prima, «l’insegnamento degli apostoli, la comunione fraterna»; i primi cristiani non si limitavano a seguire la dottrina degli apostoli, ma imitavano l’esempio che gli inviati del Signore davano in tutta la loro vita. Quindi, «nel rompere il pane e nelle preghiere». La commemorazione di Cristo e le relazioni dell’anima con Dio si esprimevano nella dipendenza da Lui.
1 Tim. 5:5. La perserveranza è individuale: «In supplicazioni e preghiere». Perché la vedova deve perseverarvi «notte e giorno»? Perché, sola e senza risorse, ha bisogno di rivolgersi a Dio; ed è così che impara la dipendenza.
1 Tim. 4:16. Qui, leggendo con attenzione ciò che precede, la perseveranza è in tutte le cose che riguardano la pietà.
2 Tim. 3:10. Timoteo stesso aveva pienamente seguito l’apostolo in tutte le cose che avevano caratterizzato la sua vita. L’apostolo, quanto a lui, aveva perseverato sino alla fine nel combattimento, nella corsa e nella fede.
Vediamo da questi pochi esempi che la perseveranza si applica a tutti i dettagli della vita cristiana. Possiamo noi conoscerla meglio e fare sì che alla fine della nostra carriera, come Caleb, riceviamo da Dio stesso quelle parole di approvazione. Egli «aveva pienamente seguito l’Eterno, il Dio d’Israele»!
15. Capitoli 20 e 21: Le città di rifugio
In rapporto con questi due capitoli, desidero che leggiate Ebrei 6:18-20, passo che fa allusione evidente alle città di rifugio, quali noi le troviamo in Esodo 21:13; Numeri 35; Deuteronomio 19 e Giosuè 20 e 21.
I tipi dell’Antico Testamento ci presentano sovente, nella loro applicazione al cristiano, dei contrasti più che dei paralleli. Così è, come vedremo, delle città di rifugio. Sarebbe un parallelo ben povero e imperfetto se le si volessero considerare come figura della croce di Cristo. L’applicazione più immediata di quel tipo è piuttosto storica e profetica. L’uccisore involontario è una figura d’Israele, uccisore di Cristo per ignoranza. È in quel senso che il Signore, Gesù disse sulla croce: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Essi non hanno conosciuto il giorno della loro visitazione. Lo stesso fu di Paolo: «Misericordia mi è stata fatta, perché io lo feci ignorantemente, nella mia incredulità».
Ma in un altro senso i Giudei, i capi e il popolo, erano uccisori volontari, rigettando deliberatamente, e con conoscenza di causa, Dio e il suo Cristo. «Costui è l’erede; venite, uccidiamolo e facciam nostra la sua eredità» (Matteo 21:38); «Non vogliamo che costui regni su noi» (Luca 19:14). È detto che l’uccisore volontario doveva essere messo a morte. Quel giudizio ha avuto un compimento parziale nella distruzione di Gerusalemme: il re irritato, «si adirò, e mandò le sue truppe a sterminare quegli omicidi e ad ardere la loro città» (Matteo 22:7). Ma il castigo dell’uccisore volontario, ingiustamente rifugiato nelle città di rifugio (vedi Deuteronomio 19:11-12) deve, in realtà, ancora venire. I Giudei, dopo il rigettamento del Messia, sono stati custoditi, per mezzo delle cure provvidenziali di Dio, lontani dalla loro eredità, e, per così dire, sotto gli occhi dei servitori di Dio i quali, come i Leviti d’allora, non avendo alcuna eredità sulla terra e comprendendo la loro posizione, servono loro di rifugio e li riconoscono come sotto la custodia di Dio. Ma gli uccisori volontari saranno tratti di là e dati in mano al vindice del sangue. Legati all’anticristo, essi diverrano oggetti del giudizio divino.
Quanto agli uccisori involontari, essi potranno entrare nella loro eredità al tempo del mutamento di sacerdozio (Giosuè 20:6; Numeri 35:28), vale a dire, allorché il sacerdozio di Cristo secondo il tipo di Aaronne avrà dato luogo al sacerdozio eterno, secondo l’ordine di Melchisedec. Questo significato delle città di rifugio, di cui non parlo che di passaggio, sarebbe interessante seguirlo nei suoi dettagli. Ma ritorno al contrasto che quel tipo presenta quando lo si paragona colla posizione cristiana in Ebrei 6.
L’Israelita, uccisore involontario, tipo del popolo nel suo stato attuale, fuggiva in una città di rifugio, con l’incerta speranza di evitare il vendicatore del sangue, e di potere un giorno rientrare nella sua eredità. Egli era tenuto lontano dalla sua eredità fino alla morte del sommo sacerdote, tipo, come abbiamo detto, del sacerdozio di Cristo secondo l’ordine di Aaronne. Ma anche nelle città di rifugio la sua sicurezza e la sua reintegrazione erano ancora sottoposte a ogni sorta di circostanze che rendevano la sua posizione molto precaria. Essa dipendeva:
1) dal vendicatore del sangue. Se l’omicida si allontanava un istante dalla città di rifugio, il vendicatore, in agguato, aveva diritto di ucciderlo (Numeri 35:26-28);
2) dagli anziani della città (Giosuè 20:4);
3) dal giudizio dell’assemblea (v. 6; Numeri 35:12,24-25);
4) dal sommo sacerdote (v. 6), potendo l’omicida morire prima di lui.
È da notare quanto poche fossero le risorse che la legge presentava ai meno colpevoli in Israele.
Vediamo ora le risorse della grazia in Ebrei 6:18-20. Il cristiano che usciva dal giudaesimo sfuggiva anche al giudizio che era pronto a cadere sul popolo, ma non con una speranza incerta; egli fuggiva per afferrare la speranza propostagli.
Quella speranza noi l’afferriamo, l’abbiamo, essa è l’eredità attuale delle nostre anime. Non è incerta né vaga; è, per così dire, personificata in un Cristo celeste (il grande soggetto dell’epistola agli Ebrei); un Cristo in contrasto con tutto ciò che la terra poteva offrire di meglio; un Cristo uomo nella gloria, che è il compimento di tutti i consigli e di tutte le promesse di Dio.
Quel Cristo-speranza è un’ancora sicura e ferma dell’anima; la nostra speranza è solidamente attaccata alla rocca immutabile. Niente d’incerto; colui che l’ha afferrata non può più essere trascinato da dottrine diverse. Ma quella speranza fa di più; essa ci introduce attualmente nella presenza di Dio nel santuario, dentro la cortina dove troviamo Gesù che vi è entrato come precursore per noi. Già noi vi entriamo in pace, aspettando di ricevere l’eredità assicurata, che fra poco possederemo.
Per entrarvi, non abbiamo bisogno, come il povero omicida involontario, che il sacerdozio aaronnico di Cristo abbia preso fine, poiché siamo legati in modo immutabile a Colui che è «divenuto sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchisedec» e che lo è in virtù dell’opera che ci ha acquistata una salvezza eterna.
16. Capitolo 22: L’altare di Ed
Ritroviamo qui le due tribù e mezzo, di cui abbiamo parlato alla fine del primo capitolo. Esse avevano preso le armi, insieme ai loro fratelli, per combattere i nemici del Signore nel paese della promessa; ora ricevono da Giosuè il permesso di ritornare alla loro eredità dall’altra parte del Giordano. Esse erano state fedeli agli ordini di Mosè e di Giosuè, avevano osservato il comandamento del Signore, e non avevano abbandonato i loro fratelli. L’obbedienza a comandamenti positivi e l’amore fraterno le avevano caratterizzate tutto il tempo in cui erano state separate dalla terra di loro possesso. In apparenza non ci sarebbe stato nulla da rimproverare loro, ma come vedemmo al cap. 1, il loro cuore (non dico i loro pensieri) non era alle cose celesti. Il loro punto di partenza era il bestiame; era perciò naturale cercare dei pascoli per nutrirlo. Immediatamente, al principio della loro storia, un primo pericolo nasce dalla loro posizione equivoca. Mosè lo segnala loro in Numeri 32; il rifiuto di stabilirsi al di là del Giordano poteva influenzare il rimanente del popolo, e fargli perdere coraggio, in modo da attirare l’ira del Signore su Israele, come prima alla montagna degli Amorrei. Per la grazia essi furono preservati dal laccio, ma il laccio esisteva ancora. C’era però un pericolo più reale: i loro principi agivano sui loro parenti più prossimi, meno al sicuro delle altre tribù. Iair, figlio di Manasse, e Nobah, chiamano i loro villaggi e le loro città con il loro nome, principio mondano, che si può far risalire all’inizio del mondo di Caino (Numeri 32:41-42, cf. Genesi 4:17). Il pericolo di far cadere, con il loro cammino, degli uomini di fede, oppure di abbassarli al loro livello, invece che elevarli al livello celeste, e un’influenza mondana sulle loro proprie famiglie, caratterizza la loro posizione.
L’esortazione di Giosuè (22:5) ci mostra anche chiaramente il pericolo di un cristianesimo senza potenza. La vera energia della loro condotta come credenti mancava. L’obbedienza a comandamenti conosciuti e l’amore fraterno non bastano per mantenerci saldi. Il cammino, l’obbedienza, lo zelo e il servizio devono procedere dall’amore; si è, senza la sua azione, come un cerchio che il primo colpo di bacchetta di un bambino fa muovere, ma che subito si ferma e cade se l’impulso non si ripete.
Ma non è tutto. Quando il cristiano, invece di vivere di fede, accetta in qualche misura i principi del mondo per la sua condotta, la sua posizione diviene molto complicata; eppure non v’è nulla di più semplice che il cammino della fede! Confrontate Abramo con Lot. La vita del primo fu semplice e lineare; quella del secondo fu piena di inestricabili complicazioni. E Giacobbe? Che serie d’avventure senza uscita in un’esistenza tormentata, mentre suo padre viveva semplicemente con Dio! Lo stesso fu per le due tribù e mezza che si videro costrette a farsi dei recinti per il gregge, a stabilire le loro famiglie in città murate, ad abbandonare mogli e figli per passare parecchi anni lontani da loro, senza poter rendere testimonianza delle meraviglie che il Signore stava facendo in favore del suo popolo. Finalmente ricevono l’autorizzazione a rientrare nelle loro case. Ma ora si accorgono di una nuova difficoltà. Il Giordano li separa dalle altre tribù; essi temono che il legame che li unisce ai loro fratelli non sia abbastanza forte per non essere sciolto dal fiume che li separa. La loro posizione li espone a una divisione, e vedono con preoccupazione che potrebbe venire il momento in cui i loro fratelli li tratterebbero da stranieri. Quel pericolo li costringe, per così dire, a stabilire una testimonianza con la quale proclamare altamente che servono il Signore, come prima avevano fatto (1:16-18) quando la loro posizione equivoca li obbligava. Essi elevano ora un altare molto grande presso il Giordano, sul limite del loro territorio. Questa testimonianza è da loro stabilità secondo la loro propria sapienza. Vorrei chiamarla una «professione di fede», cosa, in se stessa, perfettamente corretta, come anche lo era l’altare di Ed, di cui per il momento non v’era nulla da dire, ma che dava loro l’apparenza di stabilire un altro centro di radunamento.
Quell’altare, destinato, secondo il loro pensiero, a unire le parti separate d’Israele, poteva essere eretto in opposizione a quello di Sciloh. La loro professione di fede poteva divenire un nuovo centro, e sostituire così il solo vero centro d’unità, oggi per noi Cristo, disonorandolo. Quell’atto, compiuto con le migliori intenzioni, era un atto umano. Il loro mezzo escogitato per mantenere l’unità, dà l’apparenza di negarla. Così si espongono ad essere mal compresi, a sollevare le altre tribù contro loro, e rischiano di essere sterminati.
Caro lettore, la cristianità, fin dal principio, non ha agito altrimenti; essa è andata molto più lontano delle due tribù e mezza. Ha formato un gran numero di confessioni di fede, più o meno corrette, che non sono Cristo; e così, invece di realizzare l’unità, non fece altro che introdurre l’incredulità più aperta in seno alla professione cristiana.
Ma quell’altare di Ed, frutto della mondanità, potrebbe diventare più pericoloso ancora, e nascondere, nella sua impostazione, dei principi d’indipendenza, che si potrebbero temere. I fìgli d’Israele prendono ciò molto a cuore. L’indipendenza è sul punto d’introdursi, l’unità è in pericolo, e Fineas, esempio dello zelo per Cristo, è scelto per andare insieme ai capi del popolo a prendere conoscenza di ciò che avviene al di là dal Giordano, e parlare alle due tribù e mezza.
Egli presenta loro tre casi, intimamente legati, nei quali tutto Israele è responsabile.
Il primo (v. 20), dopo la traversata del Giordano, è il peccato di Acan. Egli concupì le cose del mondo, si impossessò di ciò che Dio aveva maledetto, e l’introdusse nel mezzo dell’assemblea d’Israele, non tenendo alcun conto della santità di Dio, e attirando così il giudizio del Signore su tutto il popolo. Il peccato di Acan è la concupiscenza del mondo che introduce l’interdetto nell’assemblea. L’iniquità di Peor (v. 17) è una cosa ben peggiore, sebbene in materia spirituale i cristiani la comprendano e la odino così poco. È l’alleanza adultera col mondo religioso, che allora era idolatra, e l’introduzione di quella religione del mondo in mezzo alla congregazione d’Israele, non tenendo di nuovo in alcun conto la santità di Dio.
Caro lettore, non ha la Chiesa fatto lo stesso? Non sono forse Acan e Peor i due principi attuali della sua esistenza? Ma la malizia satanica di Peor è più terribile ancora dell’interdetto di Acan. Quando Balaam, dopo aver tentato di separare l’Eterno dal popolo, vide che non poteva riuscirvi, fece un altro tentativo: cercò, e vi riuscì, di allontanare il popolo e separarlo dal Signore. Quando si trattò delle affezioni di Dio per il suo popolo, Balaam dovette proclamare che il Signore non aveva visto iniquità in Israele; ma quando si trattò della fedeltà di quest’ultimo, Satana riuscì a separarlo da Dio, e in tal modo la collera del Signore s’accese contro tutta la radunanza d’Israele.
Il secondo tranello a cui i credenti sono esposti è dunque di pensare che il culto di Dio possa allearsi con la religione del mondo. Fu in quell’occasione che si manifestò in primo luogo lo zelo di Fineas; egli prese a cuore il disonore fatto al Signore e purificò l’assemblea da quella contaminazione.
Ora, riguardo all’altare di Ed, quel medesimo zelo lo spinge a mettersi sulla breccia. I sensi «esercitati a discernere il bene e il male», gli fanno scoprire il pericolo. Egli sente che quel terzo principio, l’indipendenza, sarebbe la rovina della testimonianza e che lo stabilire un nuovo altare altro non è che il peccato di ribellione contro il Signore e contro la radunanza d’Israele (v. 19). Il santo zelo di Fineas scongiura il pericolo, che rimane tuttavia; ma essendo le intenzioni del cuore rette, non vi furono conseguenze.
Nella cristianità, il correttivo non è stato così felice. Il male ha fatto progressi. Cosa vediamo oggi? L’indipendenza, principio stesso del peccato e tendenza naturale dei nostri cuori, è pubblicata altamente come una qualità e come un dovere. Essa, dimenticando che vi è un solo altare, una sola tavola, ne stabilisce sempre delle nuove; essa, come dice Fineas, «si ribella contro all’Eterno», e sprezza, nel suo accecamento, non solo l’unità del popolo di Dio, ma l’unico centro di unità (per noi il Signore Gesù).
Che Dio ci guardi, caro lettore, da questi tre principi che attirano il giudizio di Dio sulla sua casa: la mondanità, l’alleanza col mondo religioso, e l’indipendenza, il più sottile e il più pericoloso di tutti, perché, come principio di peccato, è alla base di tutto il resto.
Ricordiamo dei caratteri di Cristo espressi nella lettera a Filadelfia. Egli è «il Santo e il Verace», e quella assemblea è lodata per il mantenimento di quel santo nome e per la dipendenza dalla Parola. Non conserviamo, né individualmente, né collettivamente, nei nostri cuori, nei nostri pensieri, nella nostra condotta, nessuna cosa che non sia in rapporto con quei caratteri di Cristo. Viviamo nella santità e nella dipendenza, senza le quali non v’è comunione con Lui.
17. Capitolo 23: Ultime istruzioni di Giosuè
Israele è ora in possesso della sua eredità; Giosuè, molto avanzato in età, è pronto ad essere chiamato. Quando i sostegni esteriori dell’ordine divino nell’assemblea vengono a mancare, e coloro che erano i primi nel combattimento non sono più, tutto sembra mancare. Ma in realtà, se vi è la fede, niente manca. «L’Eterno, il vostro Dio, era quegli che combatteva per voi» (v. 3 e 10). I conduttori possono andarsene, la fine della loro carriera è una cosa preziosa da considerare; ma Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e in eterno. Sì, nulla manca se vi è la fede; e dove essa non c’è, tutto cade, come è successo a Israele e alla Chiesa.
Si trattava ormai, perché il popolo si mantenesse all’altezza dei suoi privilegi, che quella potenza dello Spirito, che nella persona di Giosuè li aveva condotti alla vittoria, si realizzasse nelle loro anime e nella loro vita intera. «Sii forte e fatti animo» aveva detto Dio a Giosuè (1:6), «perché tu metterai questo popolo in possesso del paese che giurai ai loro padri di dare ad essi». Ecco la potenza per la vittoria. Ed ora Giosuè dice al popolo: «Applicatevi risolutamente»(v. 6).
Come deve quella forza spirituale manifestarsi nel popolo? Nell’obbedienza alla Parola scritta, per osservare — questo è inseparabile dalla pratica — e per fare tutto ciò che è scritto nel libro della legge di Mosè. Per obbedire in tal modo il popolo aveva non soltanto la potenza dello Spirito di Dio con sé, ma aveva anche sotto gli occhi un uomo, Giosuè, al quale le stesse cose erano state ingiunte (1:7) e che le aveva seguite sino alla fine del cammino; come Paolo, poteva dire: «Ho serbata la fede». Ma noi, cari lettori, abbiamo il vero Giosuè, il modello perfetto, il Capo e il Compitore della fede!
Notate ancora questo: come Paolo, Giosuè ha la piena coscienza dei cambiamenti che stanno preparandosi; un nuovo ordine di cose sta per essere introdotto dopo la sua morte. Quei due uomini sapevano che doveva aver luogo un declino; ma come un filo conduttore attraverso le rovine, e come guida infallibile, essi raccomandano la Parola. «Vi raccomando a Dio e alla parola della sua grazia» (Atti 20:32).
Questa Parola ha la potenza di edificarci e di darci un’eredità; ma, prima di tutto, di santificarci. È per averla dimenticata che Israele è caduto al livello delle nazioni idolatre e delle loro abbominazioni. Vedete, al v. 7, come la china è insensibile e sdrucciolevole; prima si prende posto fra le nazioni e si dimentica la separazione dal mondo, poi si menzionano i loro dèi; i principi che regolano il mondo divengono famigliari; troviamo naturale che altri li riconoscano; infine li serviamo e ci inchiniamo davanti ad essi. Così diventiamo dei poveri schiavi del mondo e del suo principe!
Ma oltre all’obbedienza alla Parola, Giosuè indica loro altri mezzi per conservare le loro benedizioni. Uno è l’attaccamento all’Eterno (v. 8); bisogna che il cuore e le affezioni siano attaccate alla persona di Cristo. Pensate voi sovente a quel versetto del Salmo 63: «La mia anima s’attacca a te per seguirti; la tua destra mi sostiene»? Si sente qui un cuore che si è dato interamente, e che può dirlo al Signore, giacché questi non sono sentimenti che si espongono davanti ai mondo. È un’anima innamorata della bellezza del suo oggetto, e che si dà ad esso completamente. Allora, essa scopre in Lui una forza che la solleva al disopra di tutte le difficoltà e la preserva da tutti i pericoli: «La tua destra mi sostiene». Lo stesso avviene nel nostro capitolo. Ai v. 9 e 10, il popolo ha fatto l’esperienza della forza del Signore attaccandosi a Lui. Oh! possiamo noi, nei nostri giorni inquieti, trovare un maggiore attaccamento intimo dell’anima a Cristo, lo stato di un cuore che non cerca e non vuole che Lui, che non mette in evidenza davanti al mondo i suoi sentimenti e la sua consacrazione al Signore e che dice: «Io sono ricco, e mi sono arricchito»; ma un cuore che dice a Cristo, in modo che Lui solo può udirlo: «Ti amo, perché Tu m’hai amato per primo».
Il terzo mezzo è la vigilanza. «Vegliate dunque attentamente su voi stessi, per amare l’Eterno, il vostro Dio» (v. 11). Dobbiamo vegliare sui nostri cuori, per non tollerarvi l’entrata, sovente molto subdola, di concupiscenze che indeboliscono le affezioni per il Signore, e finiscono con l’introdurvi degli oggetti indegni di essere posti a confronto con Lui. «Fuggi gli appetiti giovanili»; «siate sobri, vegliate».
18. Capitolo 24: La grazia opposta alla legge
In questo capitolo, Dio, per bocca del suo servitore, riassume tutte le sue vie di grazia verso Israele, dalla vocazione d’Abrahamo fino al pieno possesso di Canaan. Se il popolo fosse stato savio, sensibile a quella misericordia instancabile, non fidandosi di se stesso, avrebbe detto al Signore: Che la tua grazia, la tua grazia sola, continui a guardarci e a condurci. Ma la sua follia lo fa confidare in se stesso e dice: «Noi serviremo l’Eterno».
Il fatto che Dio termini questa storia colla manifestazione della sua grazia, ha anche importanza per noi. Introdotti nei luoghi celesti per goderne, Dio ci sostiene colla sua grazia e rafferma i nostri cuori. Ma per ben comprenderla bisogna che il nostro stato ci sia chiaramente rivelato. Così avvenne per Israele: quando fu arrivato in Canaan, considerando le vie di Dio venne la prima volta a conoscenza dell’idolatria dei loro padri (v. 2) e del loro allontanamento da Dio. Lo stesso è per noi. La rovina del primo uomo ci appare nella sua realtà solo quando siamo completamente liberati. Troppo pochi cristiani comprendono questa verità, perché pochi godono delle benedizioni di Canaan, della loro posizione gloriosa in Cristo. Il figlio prodigo sapeva già molte cose quando era in cammino per ritornare da suo padre; il suo peccato, il suo stato miserabile non gli era sconosciuto; ma quando fu introdotto nella casa del padre, egli intese per la prima volta quelle parole: «Questo mio figlio era morto, ed è tornato a vita; era perduto, ed è stato ritrovato». Così, è dopo essere introdotti nelle benedizioni spirituali che l’epistola agli Efesini ci dice che eravamo «morti nei nostri falli e nei nostri peccati».
Tutta la prima parte di questo capitolo ci parla delle vie di Dio in grazia verso il suo popolo terreno. In Abramo (v. 3) troviamo l’elezione, la chiamata; la fede e le promesse si concentrano in Isacco. In Giacobbe ed Esaù (v. 4) c’è la libera scelta della grazia. In Egitto (v. 5), Israele impara a conoscere il perdono. Al Mar Rosso (v. 6), la liberazione. È la grazia ancora che lo sostiene nel deserto (v. 8), gli fa passare il Giordano (v. 11), e l’introduce in Canaan (v. 13).
La presenza dei nemici non fa che mettere in piena luce la potente grazia di Dio in favore del suo popolo. L’Egiziano che lo teneva schiavo è giudicato; quando vuole riprenderlo è distrutto al Mar Rosso; l’Amorreo che abitava presso il Giordano e si opponeva al loro passaggio è vinto. Balac, il nemico astuto che per mezzo di Balaam avrebbe voluto che Dio distogliesse la sua faccia dal suo popolo, è reso confuso e costretto a udire delle benedizioni dalla bocca chiamata per maledire. Infine, tutte le nazioni fuggono davanti a Israele, come cacciate dai calabroni, senza che il popolo abbia bisogno della sua spada e del suo arco.
Una grazia così meravigliosa doveva impegnare la nazione a seguire il Signore. E noi? Non abbiamo forse ricevuto una grazia più grande ancora? Dio «fece conoscere a Mosè le sue vie, e ai figli d’Israele le sue opere». (Salmo 103:7). Ha forse rivelato loro i suoi consigli? No, quello era riservato a noi. Dio ci ha dato la conoscenza dei suoi disegni più segreti, disegni eterni a riguardo di Cristo; ci ha fatti suoi confidenti! Che grazia!
Ma Israele non ha perduto la fiducia in se stesso. «Noi lo serviremo», rispondono; eppure la loro storia era là per istruirli. «Togliete via gli dèi ai quali i vostri padri servirono di là dal del fiume, e in Egitto» (v. 14); quegli dei erano dunque ancora in mezzo a loro. Poi, quanto a Canaan, aggiunge: «Quando abbandonerete l’Eterno e servirete dèi stranieri…». Essi non li tolsero mai! L’idolatria riempie tutta la loro storia. La loro rovina sarà completa. La loro sola risorsa era la grazia; ma non l’hanno voluta, e una grande pietra, immagine della legge, resta rizzata, in testimonianza e in giudizio contro a loro, fino a che Israele divenga nuovamente un oggetto di grazia.
Dio, infatti, non si ferma al giudizio; tutta la storia della responsabilità prenderà fine, ma una cosa rimarrà eternamente: la GRAZIA. La grazia che ci ha preconosciuti, predestinati, chiamati, giustificati e glorificati!
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