Henri Rossier
Le citazioni bibliche di questo commentario fanno riferimento alla versione Giovanni Luzzi
Capitolo 1. Santità delle vie di Dio verso Israele e verso le nazioni
Versetto 1. Introduzione
Versetti da 2 a 11. Dio non è indifferente di fronte all’iniquità del suo popolo e lo castigherà per mezzo dei Caldei
Versetti 12 e 13. Il profeta giustifica il carattere di Dio e le sue vie verso Israele
Versetti da 13 a 17. Dio è indifferente di fronte all’iniquità del nemico?
Capitolo 2. Risposta dell’Eterno alla domanda posta al capitolo 1 vers. 13-17
Versetti da 1 a 5. Il giudizio raggiungerà certamente l’oppressore, ma il giusto deve vivere di fede
1. Citazione in Romani 1: 16-17
2. Citazione in Galati 3: 11
3. Citazione in Ebrei 10: 36-39
Versetti da 6 a 20. Il «Canto dei guai» preludio della gloria futura
1. Prima strofa
2. Seconda strofa
3. Terza strofa
4. Quarta strofa
5. Quinta strofa
Capitolo 3. La preghiera di Habacuc
Versetto 2. Prima parte
Versetti da 2 a 15. Seconda parte
1. Prima suddivisione – versetti da 3 a 6
2. Seconda suddivisione – versetti da 7 a 15
Versetto 16. Terza parte
Versetti da 17 a 19. Quarta parte
Conclusione
Capitolo 1. Santità delle vie di Dio verso Israele e verso le nazioni
Versetto 1. Introduzione
«Oracolo che il profeta Habacuc ebbe per visione» (v. 1).
Tutto nella Scrittura è per il nostro insegnamento, sia che essa parli, sia che taccia, Essa non dice nulla sulla persona di Habacuc e la data della sua profezia. Le ricerche minuziose dei critici sono giunte alle conclusioni più contraddittorie riguardo al tempo in cui il profeta scrisse. Quando i dati della Parola sono abbastanza chiari per permetterci di collocare la profezia nel tempo in cui è stata pronunciata, ne riceviamo luce ed edificazione; ma quando Dio non parla, le ricerche degli studiosi, per quanto interessanti siano, hanno per il credente un valore molto limitato.
Da certe notizie, sarebbe comunque abbastanza probabile che Habacuc abbia profetizzato sotto il regno di Giosia. Due fatti potrebbero confermarci questo pensiero. In primo luogo, che l’idolatria d’Israele non è menzionata da Habacuc; secondariamente, che sono i Caldei e non gli Assiri, come sotto Manasse, ad essere additati come il nemico del popolo.
Comunque sia, la portata morale di questo libro risalta più fortemente proprio per il fatto che lo Spirito di Dio omette le circostanze in cui esso è stato composto. In effetti, Habacuc non si occupa a fondo degli avvenimenti profetici, ma descrive il carattere di Dio nelle sue vie riguardo allo stato morale del popolo e delle nazioni, e ci fa conoscere, poi, il risultato prodotto da questa rivelazione sul cuore del profeta il quale diventa come un «campione» dello stato morale del Residuo di Israele al tempo della fine. Tutto questo è di grande interesse e di alta portata per noi. Sgombrato il campo delle circostanze storiche, ci troviamo di colpo di fronte a dei principi che reggono tanto gli uomini di oggi quanto quelli di ieri. In presenza di questi principi, le vie perfette di Dio nel suo governo e la santità del suo carattere sono giustificati e, contemplando queste cose, i fedeli non possono fare a meno di adorare la perfezione divina.
Lo stato morale in mezzo al quale visse Habacuc è il seguente: in Israele tutta una serie di vizi, senza che sia menzionata l’idolatria come in Sofonia; presso il suo nemico, il popolo Caldeo, una idolatria grossolana, dominata dall’esaltazione dell’uomo; nel profeta, uno spirito indignato ed un cuore afflitto, ma rischiarato dall’insegnamento divino. Egli impara a vivere della sua fede attendendo la gloria futura, ma prorompe in lodi prima ancora di aver ricevuto le cose promesse.
L’abbiamo detto, l’analogia fra i giorni di Habacuc ed i nostri è sorprendente e per questo la sua profezia acquista per noi un’immensa importanza. Questa osservazione è confermata dal fatto che nel Nuovo Testamento le citazioni tratte dal libro di questo profeta appoggiano ed illustrano tutta la dottrina dell’apostolo Paolo sulla giustizia di Dio, la fede, la vita, la risurrezione di Cristo, la sua venuta, la collera di Dio rivelata dal cielo, ed infine la gloria. Solo il mistero della Chiesa manca, perché è nascosto nell’Antico Testamento.
Così si conferma l’armonia costante fra le diverse parti della Parola di Dio. Esse formano un tutto, un insieme, e su questo non ci stanchiamo di insistere. Lo studio costante di quest’armonia preserverà i cristiani dal prestar fede ai critici che avversano la Parola senza comprenderla, agli uomini privi di senno che credono di poter interpretare la Scrittura con la loro intelligenza, e ai quali Dio stesso dichiara: «Io distruggerò la saggezza dei savi e annullerò l’intelligenza degli intelligenti».
Versetti da 2 a 11. Dio non è indifferente di fronte all’iniquità del suo popolo e lo castigherà per mezzo dei Caldei
«Fino a quando, o Eterno, griderò, senza che tu mi dia ascolto? Io grido a te: “Violenza!” e tu non salvi! Perché mi fai veder l’iniquità e tolleri lo spettacolo della perversità? E perché mi stanno dinanzi la rapina e la violenza? Vi son liti, e sorge la discordia. Perciò la legge è senza forza e il diritto non fa strada, perché l’empio aggira il giusto, e il diritto n’esce pervertito» (v. 2-4)
Notiamo, fin da questi primi versetti, un carattere speciale di Habacuc che lo distingue dagli altri profeti minori. Michea ci fa assistere ad un colloquio con domande e risposte fra l’Eterno, il suo profeta e diversi altri interlocutori, colloquio che termina come una arringa di difesa. In Nahum l’Eterno solo si rivolge, uno alla volta, ai diversi personaggi che sono in causa. Qui, assistiamo ad un colloquio prettamente intimo fra il profeta ed il suo Dio; Habacuc parla all’Eterno ed egli risponde. Vi è analogia, da questo punto di vista, con Geremia, ma tutto il dramma si svolge nel cuore e nella coscienza del profeta; e nessun incidente personale lo interrompe, come nel corso della profezia di Geremia. L’angoscia lo opprime davanti a ciò che accade, ma le circostanze stesse non sembrano riguardarlo personalmente. Esse fanno sorgere in lui delle domande così angosciose che egli sente il bisogno di abbandonarsi sull’Eterno per essere liberato dal turbamento profondo che esse provocano in lui. Habacuc è un uomo di fede, e la sua prima espressione «fino a quando?» lo prova; ma la sua fede ha bisogno di essere sostenuta ed illuminata. Essa si accompagna con la debolezza, ma trova una risposta misericordiosa perché Dio riprende l’incredulità ma non la debolezza della natura umana. La nostra debolezza incontra la simpatia di Colui che in ogni cosa è stato tentato come noi, però senza peccare (Ebrei 4: 15), mentre per noi il peccato è sempre più o meno presente. L’apostolo stesso poteva prendere piacere nelle proprie debolezze e glorificarsene (2 Corinzi 12: 9-10), poiché il Signore si serviva di esse per compiere la sua potenza nel suo apostolo diletto.
L’espressione «fino a quando?» è, come spesso vediamo nei Profeti e nei Salmi, il grido della fede. Questa fede esprime la certezza che Dio risponderà a tempo e luogo, ma, nell’attesa, essa accetta la tribolazione come una prova necessaria. Questo sarà il grido del residuo di Israele afflitto, mentre attraverserà la grande tribolazione degli ultimi tempi, con la certezza che essa sarà l’ultimo atto dei giudizi di Dio che prepara l’avvento glorioso del Messia, in un regno di libertà, di giustizia e di pace.
Qui tuttavia è un po’ diverso. Il profeta è un testimone, separato dal popolo, ma non soffre personalmente della violenza come sarà per il residuo, ma vi assiste e la constata. L’idolatria di Israele non è in causa qui, ma si tratta piuttosto di ciò che ha caratterizzato, fin dall’inizio della sua storia, l’uomo corrotto dal peccato (Genesi 6:11), la violenza, col suo seguito di iniquità, oppressione, devastazione, discordia e contestazione fra il popolo (versetti 2-3). Ai nostri giorni, come al tempo del profeta, ogni cuore occupato degli interessi del Signore è in grado di constatare queste cose. Esse stanno dinanzi a noi come ad Habacuc. E ciò che fa aumentare l’angoscia è che esse si manifestano, oggi come allora, in mezzo a coloro che hanno ancora la pretesa di essere il popolo di Dio, in un tempo in cui l’Eterno l’ha già abbandonato.
Se la nostra anima, come quella del profeta, non ha ancora appreso perché Dio lascia sussistere tutto questo male senza mettervi fine, noi grideremo: «Perché mi fai vedere l’iniquità e tolleri lo spettacolo della perversità?» Parlando così dimentichiamo due cose, constatate dal profeta Nahum (1: 3-7): «L’Eterno è lento all’ira» e «l’Eterno è buono». Noi esclamiamo: «Io grido a te: Violenza! e tu non salvi». Vorremmo veder Dio intervenire, in presenza di uno stato morale che sappiamo essergli in abominazione. In fondo vi è sempre un certo egoismo in questo desiderio, benché sia l’espressione del nostro amore per i fedeli che attraversano questi tempi disastrosi.
«Tu non salvi»! Non si tratta qui di una salvezza spirituale, ma d’una liberazione temporale. L’anima angosciata vorrebbe veder la pace ristabilita e i violenti giudicati. La violenza è sotto i nostri occhi, e Dio non risponde! Non è mancanza di fede, ma è il grido d’angoscia d’un’anima poco salda, mentre si trova davanti ad un problema, fino a quel momento insolubile. Perché Dio permette il male? Com’è possibile che egli dimentichi i suoi, indifesi in mezzo a tutta la malvagità dell’uomo? Il profeta sta per ricevere la risposta, ma diversa da quella che avrebbe immaginato. Bisognerà passare per un tempo di apprendimento doloroso, ma ricco di benedizioni per la sua anima, prima di comprendere ciò che Dio vuol produrre nel cuore dei suoi che attraversano quei giorni di prova.
«La legge è senza forza»: la legge, data un tempo da Dio stesso, era destinata ad infrangere la volontà dell’uomo. «Il diritto», che l’uomo avrebbe dovuto imparare e praticare sotto l’egida della legge, «non fa strada», non viene mai alla luce. Al contrario, «l’empia aggira il giusto». Notate questo termine «il giusto». Lo ritroveremo al cap. 2. Il profeta è consapevole della propria integrità, come più tardi il residuo d’Israele quando attraverserà i giudizi della fine, ma non ha ancora ricevuto la risposta e non vede la vittoria del bene sul male. Indirizza a Dio i suoi «perché», e non se li sarebbe neppure posti, se non avesse avuto fiducia nella risposta di Dio. Come mai «il diritto non fa strada» e se un giudizio è fatto esso è il contrario di ciò che un’anima pia e integra potrebbe attendersi? «Il diritto ne esce pervertito» ed il fedele, ovunque si volga, incontra ingiustizia e iniquità.
L’Eterno risponderà a questa domanda, ma, nell’attesa, il giusto constata ciò che Dio ha constatato da ogni tempo, dal momento in cui il peccato è apparso, cioè che al di fuori di coloro che sono giustificati dalla fede, nel mondo non v’è «alcun giusto». Se si tratta del carattere nazionale d’Israele, la Parola ci insegna che sotto il regno di Roboamo vi erano ancora «in Giuda delle cose buone» (2 Cronache 12:12), come sotto il regno di Ezechia; ma non fu più così sotto i regni successivi. Sotto quello di Giosia apprendiamo dal profeta Sofonia ciò che Dio pensava della «nazione spudorata», della «città ribelle, contaminata, città d’oppressione», dei suoi principi, dei suoi giudici, dei profeti, dei sacerdoti (Sofonia 2: 1; 3: 1-4). Qui è lo stesso: lo stato morale d’Israele, alla fine della sua storia, non era migliore di quello dell’uomo all’inizio della sua storia. Questo stato non era mai cambiato, in effetti. I critici che sostengono che la descrizione data qui si debba riferire allo stato del popolo sotto un regno malvagio, come quello di Manasse, si sbagliano dunque.
Se c’erano i re, capi responsabili d’Israele, Dio faceva dipendere la benedizione del popolo dalla loro condotta. Per questo si vede, sotto certi regni dei re di Giuda, il male frenato, la giustizia ristabilita, la pietà verso Dio riconosciuta, il servizio del tempio restaurato, senza che il cuore della nazione fosse cambiato. D’altra parte, il governo di un re malvagio aggravava ancor più questo doloroso stato morale introducendo o favorendo un’idolatria sfrontata alla quale il cuore pervertito del popolo si dava immediatamente.
Il passo di cui parlavamo prima si può dunque riferire a qualunque regno, ma probabilmente si riferisce a quello di Giosia, non essendo qui neppure menzionata l’idolatria di Israele (*).
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(*) Vedere ancora per lo stato del popolo: Michea7: 2-3; Geremia 5: 15-29; 7: 5-6; 20: 8.
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«Vedete fra le nazioni, guardate, meravigliatevi e siate stupefatti! Poiché io sto per fare ai vostri giorni un’opera, che voi non credereste se ve la raccontassero» (v. 5).
Troviamo qui la risposta alla domanda del profeta, risposta che però non si indirizza a lui, ma ai malvagi di cui egli si è lamentato.
Questi malvagi sono invitati a «vedere fra le nazioni» e a considerare con stupore come l’Eterno retribuirà i loro misfatti. In questo momento l’Assiro non è ancora distrutto, ma l’Eterno sta per suscitare i Caldei. A questa potenza Egli asservirà molti popoli, ma prima di tutto il popolo di Dio. Questo avrebbe potuto credere che, liberato dal giogo dell’Assiro, non avrebbe più avuto a che fare con l’oppressore; invece stava per cadere sotto il giogo Caldeo, ben più pesante e crudele. E c’era un giudizio ancora più terribile: l’Eterno stava per togliere il potere ad Israele e conferirlo, per la prima volta, a Babilonia, la «testa d’oro» della monarchia dei Gentili!
Tale era la sorte che attendeva questo popolo malvagio, ma era allo stesso tempo la risposta al grido del profeta: «Io grido a te: Violenza! e tu non salvi». L’Eterno risponde mostrando al suo servitore che se Egli non salva il giusto dalla violenza dei malvagi, è perché il castigo sta per cadere su di loro. Israele soccomberà, lui e il suo paese, sotto i colpi di Babilonia; poi sarà ridotto in schiavitù.
Ma lo Spirito Santo dà a questa profezia una portata molto più estesa, come vediamo al capitolo 13 degli Atti. Arrivato con Barnaba ad Antiochia di Pisidia, Paolo fa un discorso nella sinagoga, ed il contenuto, se vi poniamo ben attenzione, ha per testo questa parola del nostro profeta. Là dove non c’era «salvezza» e dove il profeta diceva «Tu non salvi», Dio aveva suscitato a Israele come Salvatore un Gesù morto e risorto. La parola di questa salvezza era inviata a quegli stessi che avevano rigettato Cristo. Tutti udivano questa parola, e quelli fra di loro che temevano Dio erano chiamati a riceverla (Atti 13: 23-26).
Il popolo non aveva conosciuto Gesù, né la voce dei profeti che l’annunziavano; anzi, aveva condannato il suo Messia, compiendo così ciò che Habacuc aveva detto di loro: «Il diritto n’esce pervertito» (1: 4). Allora l’apostolo applica loro la parola «dei profeti», e particolarmente del nostro profeta: «Vedete, o sprezzatori, e meravigliatevi, e dileguatevi, perché io fo un’opera ai dì vostri, un’opera che voi non credereste, se qualcuno ve la narrasse» (Atti 13: 41). Essi non dovevano più «guardare fra le nazioni», perché da molto tempo i Caldei erano stati rimpiazzati da altre potenze, fra le quali, da ultima, Roma. Dai giorni di Habacuc, il giogo delle nazioni aveva pesato sul popolo; al tempo della predicazione di Paolo, Israele era asservito alla quarta monarchia dei Gentili, quella di Roma. Così l’apostolo non dice, come il nostro profeta, «Io sto per fare ai vostri giorni un’opera…» ma: «Io fo»; l’opera Dio la faceva già, e quest’opera non era il giudizio. La grande salvezza era annunziata prima ai Giudei; ma se essi la disprezzavano, se erano degli «sprezzatori», l’apostolo si volgeva verso le nazioni. Saranno allora queste ultime che guarderanno ai Giudei e vedranno il giudizio di questo popolo per aver rifiutato la grazia in Gesù. E ciò che avvenne in quella stessa città di Antiochia in cui i Giudei, avendo rigettato la salvezza di Dio in Cristo, giudicarono se stessi «indegni della vita eterna». Gli apostoli, «scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio» (Atti 13: 46-51).
Così, secondo Paolo, l’Evangelo era la risposta al lamento del profeta: «Tu non salvi». Era la salvezza per un popolo che aveva meritato il giudizio; ma, se ora disprezzava la grazia, gli era riservato un giudizio molto più terribile della cattività di Babilonia e del giogo romano, e cioè la distruzione di Gerusalemme e la dispersione definitiva dei Giudei fra le nazioni.
Abbiamo qui un esempio dell’uso che Dio fa della sua Parola e ne troveremo altri nel corso di questo studio. Dio trae da questo fondo inesauribile delle verità nascoste agli occhi degli uomini e le mette in luce, verità che proclamano la grazia quando il mondo non poteva attendere altro che il giudizio. Ma che cosa dovrà essere questo giudizio se l’uomo rigetta deliberatamente la grazia!
Qui è importante notare, come sempre del resto quando si tratta di interpretare tutta la profezia, che il giudizio imminente per mano dei Caldei prefigura un giudizio futuro di cui esso è come il preludio, e che la liberazione temporale di Israele è diventata, nell’insegnamento dell’apostolo Paolo, l’immagine della salvezza eterna.
«Perché, ecco, io sto per suscitare i Caldei, questa nazione aspra e impetuosa, che percorre la terra quant’è larga, per impadronirsi di dimore che non son sue. È terribile, formidabile; il suo diritto e la sua grandezza emanano da lui stesso» (v. 6-7).
L’Eterno ha cura di far comprendere al suo profeta che se suscita i Caldei non è perché ha scoperto in loro delle buone qualità morali. Al contrario, è una nazione crudele, e come potrebbe Dio approvarla? Essi sono impetuosi, attaccano per primi, percorrono la terra quant’è larga, invadono il mondo e prendono possesso di dimore che non sono loro. Questa sete di impadronirsi di territori altrui non la vediamo anche oggi? Ma i Caldei sono la verga di Dio, il suo castigo è su Israele così come sulle nazioni. «Vedete fra le nazioni» aveva detto l’Eterno; questo torrente dilagante avanza attraverso il mondo, questa onda dei giudizi di Dio deve raggiungere Israele, e, prima di inghiottirlo, formidabile e terribile, spazzerà tutto al suo passaggio. Vi è di che riempire il cuore di terrore.
«Il suo diritto e la sua grandezza emanano da lui stesso». La sua propria volontà costituisce ciò che il Caldeo chiama il suo diritto; e lo stesso è per la sua dignità. Egli non tiene conto di quella degli altri, ma pensa di avere, lui, una dignità che lo eleva al di sopra degli altri. Il suo orgoglio e ciò che gli piace sono la sua guida. Non abbiamo noi, sotto gli occhi, simili esempi? Il credente potrebbe anche desiderare che quest’orgoglio fosse abbattuto, ma Dio gli dice: Non vedi che questi giudizi provengono da me e che, pur cominciando dalle nazioni che ti circondano, sono destinati a te?
Viene in seguito la descrizione impressionante della potenza caldea: «I suoi cavalli sono più veloci dei leopardi, più agili dei lupi sulla sera; i suoi cavalieri procedono con fierezza; i suoi cavalieri vengono di lontano, volan come l’aquila che piomba sulla preda. Tutta quella gente viene per darsi alla violenza, le lor facce bramose sono tese in avanti, e ammassan prigionieri senza numero come la rena. Si fan beffe dei re, e i principi son per essi oggetti di scherno; si ridono di tutte le fortezze; ammontano un po’ di terra, e le prendono» (v. 8-10).
Geremia usa delle immagini simili e sovente le medesime espressioni (vedere cap. 4: 13, cap. 5: 6, ecc.).
L’Assiro ed il Caldeo hanno delle caratteristiche comuni, ma nel primo troviamo, sembra, una organizzazione minore per l’invasione e la strage; la rapidità dei Caldei, la loro agilità, è come quella di una banda di lupi affamati, che avanzano a passo serrato, senza rumore; i loro occhi accesi brillano nelle tenebre; sono certi di raggiungere la loro preda. Al momento giusto ecco l’impeto dei cavalieri che vengono da lontano, rapidi come l’aquila; l’attacco è furibondo come ci è già descritto nel profeta Nahum (cap. 2 vers. 3-4, cap. 3 vers. 1-3).
«Tutta quella gente viene per darsi alla violenza». Il profeta, costernato per lo stato del popolo, gridava all’Eterno: «Violenza!». Dio gli mostra che questa violenza di Israele troverà la sua giusta retribuzione nella violenza dei Babilonesi. «Ammassano prigionieri senza numero come la rena». Non abbiamo assistito ai nostri giorni a spettacoli simili? La storia si ripete, dicono gli uomini per consolarsi. Senza dubbio, ma perché i caratteri dell’uomo peccatore, che si ripetono sempre, sfidano la santità di Dio.
«Allora egli cambierà pensiero, e passerà oltre (*); si rendono colpevoli; questa lor forza è il loro dio» (v. 11).
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(*) Traduzione letterale.
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Arriva il momento in cui il capo della nazione caldea, colui che e considerato dall’Eterno come responsabile della missione giudiziaria che Dio gli ha affidato, cambierà pensiero. Invece di considerarsi come uno strumento, egli andrà oltre la sua missione e si renderà colpevole. Ha peccato mille volte per la sua crudeltà, l’orgoglio e l’idolatria, ma ad un dato momento le sue proprie forze prendono per lui il posto di Dio. La potenza che l’Eterno ha messo nelle sue mani è diventata il suo dio. Ha il culto della forza, della sua forza. Si confida in essa, ad essa rende omaggio. Quel capo dell’antico Impero Caldeo non resta un caso isolato. Nella storia degli ultimi tempi, il successore diretto di Babilonia, la Bestia romana «guarita dalla ferita mortale», non avrà altra religione che quella.
Nella storia finale dell’umanità, non si tratterà tanto dell’idolatria grossolana, quanto piuttosto dell’adorazione dell’uomo che sarà l’idolo del mondo. Gli idolatri hanno sempre adorato, nei suoi attributi di potenza, d’amore, di giustizia, un Dio sconosciuto, al quale la loro immaginazione dava forma umana o animale; l’idolatria futura adorerà l’uomo nell’idolo. Questa tendenza si mostrò presto nella storia degli imperi (Daniele cap. 3; cap. 6 vers. 7-11) e raggiunse, nel passato, il suo punto culminante nella deificazione degli imperatori romani. Ma l’uomo deificato non può neppure lui fare a meno di un dio. L’Anticristo che si farà adorare come Dio sarà a sua volta l’adoratore delle forze che Satana gli avrà asservito (Daniele 11: 38).
Versetti 12 e 13. Il profeta giustifica il carattere di Dio e le sue vie verso Israele
«Non sei tu ab antico, o Eterno, il mio Dio, il mio Santo? Noi non morremo! O Eterno, tu l’hai posto, questo popolo, per esercitare i tuoi giudizi, tu, o Rocca, l’hai stabilito per infligger i tuoi castighi. Tu, che hai gli occhi troppo puri per sopportar la vista del male, e che non puoi tollerare lo spettacolo dell’iniquità» (v. 12-13).
Benché la parola di Dio annunzi dei giudizi, il cuore del profeta è pieno di riconoscenza verso l’Eterno. Essa lo rassicura sulla sua appartenenza a Dio, il suo Santo, un Dio che paria con lui, uomo debole, infermo e ignorante, così poco famigliare, benché profeta, con i Suoi pensieri segreti. Questo Dio è «ab antico» e di conseguenza è il Dio delle promesse fatte ad Israele. Egli prende Habacuc, che rappresenta il suo popolo, sotto la sua protezione; ed è a Lui che il profeta appartiene. Quale privilegio quando l’anima può parlare a Dio con tale intimità! E quanto più grande lo e per noi che conosciamo un Dio pienamente rivelato in Cristo, e che possiamo dire: mio Padre, mio Signore, mio Salvatore!
«Noi non morremo!». Come non essere certi, quando si conosce personalmente un tale Dio, che la vita eterna ci appartiene? Habacuc, non avendo ancora la rivelazione completa della «parola della vita», non può andare lontano come noi, ma sa che il popolo di Dio «non morrà affatto», che il castigo divino che lo attende non terminerà col suo annientamento. Egli ha ricevuto la risposta al suo primo «perché» e comprende ciò che, per lui, era un mistero. Se il Caldeo è «posto» e «stabilito», lo è in vista del giudizio e del castigo, conseguenza della violenza e dell’iniquità del popolo. Egli è stato suscitato per questo, ma questo prova che la Rocca dei secoli non ha abbandonato il suo popolo per sempre. Quando un padre castiga suo figlio non è per ucciderlo ma per formarlo in base al proprio carattere. Dio agisce nello stesso modo verso noi, affinché abbiamo parte alla sua santità. Che pensiero confortante! È impossibile che Egli consenta a vedere il male senza occuparsene; deve rigettarlo; i suoi occhi sono troppo puri per vederlo. «Perché mi fai vedere l’iniquità e tolleri lo spettacolo della perversità?», aveva detto il profeta al v. 3. Egli ha ora appreso che se Dio gli ha «fatto vedere l’iniquità» (e come avrebbe potuto imparare a giudicarla se non l’avesse vista?) non può ammetterla alla sua presenza perché i suoi occhi si adattano solo a ciò che è perfettamente puro e non possono posarsi che sul bene perfetto. Il profeta impara anche, in risposta alla sua domanda «Perché tolleri lo spettacolo dell’iniquità?» (v. 3), che Dio «non può tollerare lo spettacolo dell’iniquità» (v. 13). Quale accecamento si era dunque prodotto, nel profeta, tanto da renderlo incapace, davanti al governo di Dio, a comprendere questo enigma! Per capirlo bisogna conoscere Dio.
Contemplare il male non mi fa mai conoscere il carattere di Dio; contemplare Dio ci istruisce sul vero carattere del male!
Versetti da 13 a 17. Dio è indifferente di fronte all’iniquità del nemico?
Quel che il profeta aveva imparato aveva risvegliato una calda simpatia per il suo popolo. Al principio egli era solo occupato dello spaventevole stato nel quale questo era sprofondato; ora comprende l’interesse che Dio ha per Israele, e nello stesso tempo è stato istruito sui principi del governo di Dio riguardo al suo popolo.
Ma, godendo della comunione col suo Dio, come abbiamo visto al v. 12, egli ardisce porre un’altra domanda, un secondo «perché»:
«Perché guardi i perfidi, e taci quando il malvagio divora l’uomo che è più giusto di lui?» (v. 13).
Se tu non puoi contemplare l’oppressione, dice Habacuc, tuttavia tu contempli senza commuoverti colui che agisce perfidamente; ecco che, lungi dall’intervenire, sembri essere indifferente al male che colpisce il tuo popolo il quale, per colpevole che sia, è più giusto dei suoi nemici. In effetti, vi erano in Israele, in mezzo a molto male, certe «cose buone» che non v’erano nelle nazioni vicine. V’erano cose, come quelle sotto il regno di Giosia, di cui Habacuc era un esempio vivente. Da questo punto di vista, Israele era più giusto dei suoi avversari. Il profeta desidera sciogliere anche questo enigma. Se Dio riconosce qualche bene in coloro che erano oppressi dai malvagi, perché favorisce il malvagio nelle sue imprese?
Tuttavia, prima di ricevere la risposta divina, il profeta comprende una cosa: «Tu rendi anche gli uomini come i pesci del mare e come i rettili, che non hanno signore» (v. 14). Se Dio ha affidato un’azione di governo agli uomini, egli ha il diritto di privarli di questo, come ne priva i pesci del mare e le bestie innumerevoli che abitano la terra per darle in preda a colui nelle mani del quale egli pone il potere. Stava per essere così delle nazioni conquistate da Babilonia; e la stessa sorte doveva attendere Israele, organizzato un tempo sotto il governo di Dio ma che, avendo abbandonato l’Eterno, stava per essere lasciato senza re, senza principe e senza risorsa contro il nemico (Isaia 63: 19; Osea 3: 4).
«Il Caldeo li trae tutti su con l’amo, li piglia nella sua rete, li raccoglie nel suo giacchio; perciò si rallegra ed esulta. Per questo fa sacrifici alla sua rete, e offre profumi al suo giacchio; perché per essi la sua parte è grassa, e il suo cibo è succulento» (v. 15-16).
Il Profeta continua a comprendere solo una parte di ciò che sta per capitare. Egli è in comunione col pensiero di Dio espresso al versetto 11: «Questa lor forza è il loro Dio». Vede che l’avversario s’è servito della potenza che gli è stata affidata per fare della sua rete e del suo giacchio un idolo, e che invoca gli strumenti delle sue vittorie. Possiamo domandarci se, sotto un’altra forma, le cose sono diverse oggi. Ma se è cosi, «dev’egli per questo seguitar a vuotar la sua rete, e massacrar del continuo le nazioni senza pietà?». Dio sopporterà questo uso profano e idolatra della forza, e l’oppressione delle nazioni durerà per sempre?
Le due grandi domande poste dal profeta sono dunque quelle del governo di Dio verso il suo popolo e del suo governo verso il mondo. Nel Nuovo Testamento, la prima e la seconda epistola di Pietro rispondono.
Queste domande del profeta denotano molta intimità con Dio, e nello stesso tempo costituiscono una confessione di ignoranza e un gran desiderio di essere ammaestrato da Lui. Habacuc ne ha già la sensazione, ma ben presto realizzerà pienamente che per conoscere le vie di Dio è sufficiente conoscere Lui in persona. Senza questa conoscenza della sua persona, quello che succede nel mondo resterà sempre per noi allo stato di enigma indecifrabile.
Capitolo 2. Risposta dell’Eterno alla domanda posta al capitolo 1 vers. 13-17
Versetti da 1 a 5. Il giudizio raggiungerà certamente l’oppressore, ma il giusto deve vivere di fede
«Io starò alla mia vedetta, mi porterò sopra una torre, e starò attento a quello che l’Eterno mi dirà, e a quello che dovrò rispondere circa la rimostranza che ho fatto» (v. 1).
Ora il profeta si pone in osservazione sulla torre (*), profeticamente nel punto in cui il nemico assedierà il suo popolo. Invece di stare lontano, egli realizza in ispirito il giudizio che presto apparirà, ma non si mette là con l’intenzione di opporre una resistenza all’avversario, perché sa che la parola dell’Eterno dovrà avverarsi sicuramente. Mettendosi in osservazione ha due scopi: vedere ciò che l’Eterno gli dirà nell’imminenza dell’attacco nemico ed essere pronto a replicare.
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(*) La torre: Matsor. È sempre un luogo dove si resista a un assedio.
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In vista di questo prossimo avvenimento, Habacuc si aspetta una nuova rivelazione del pensiero di Dio. Non ha ancora imparato tutto quello che deve sapere. Se sa che Dio non può sopportare l’iniquità d’Israele e lo giudicherà per mezzo dei Caldei (1: 6); se sa, d’altra parte, che Dio non può sopportare l’iniquità dei Caldei, non sa ancora ciò che Dio conta di fare a loro riguardo. Ma, soprattutto, come potrà, giudicando gli uni e gli altri, liberare i giusti che si sono confidati in lui? Si aspetta dunque di dover replicare, come era già avvenuto a Mosè quando l’Eterno contestava con lui riguardo a Israele che aveva fatto il vitello d’oro (Esodo 32: 7-14; 33: 12-16). Ma la sua idea di «replicare» sta per incontrare una risposta così assoluta da impedirgli di presentare osservazioni, come avrebbe voluto. Il secondo desiderio del suo cuore stando «sulla torre» non potrà dunque realizzarsi, perché non incontra un Dio che contesta con lui. Allora, invece di parlare dirà: «Io ho udito», e renderà grazie al Dio della sua salvezza (cap. 3)!
«E l’Eterno mi rispose e disse: Scrivi la visione, incidila su tavole, affinché colui che la legge possa correre» (la versione italiana dice: «Perché si possa leggere speditamente») (v. 2).
Dio vuole che la visione desiderata dal profeta sia scritta, incisa in modo che duri e possa essere conservata e letta (Isaia 30: 8), poiché si tratta di cose prossime e future, d’una portata immensa. In effetti, Habacuc non riceve solamente, come al cap. 1, un’istruzione riguardo al soggetto delle vie del governo di Dio verso il suo popolo, ma, imparando a conoscere il giudizio finale delle nazioni e le sciagure che cadranno su di esse, trova che tutte queste cose hanno per scopo la gloria di Dio, la gloria del regno eterno di Cristo. Impara infine quale deve essere l’atteggiamento dei giusti attendendo quel regno, e qual è l’opera immensa della redenzione a loro riguardo. Bisogna che questa visione possa essere non soltanto letta e compresa distintamente, ma anche comunicata rapidamente ad altri, perché il tempo è vicino. È questo, pensiamo, il significato dell’espressione «affinché colui che la legge possa correre». Colpito dall’importanza della risposta divina, egli si sentirà costretto ad andare a diffonderla nel mondo. Non ci troviamo piu di fronte, come in Daniele, ad un libro sigillato sino al tempo della fine (Daniele 12: 4), ma ad una comunicazione chiara e distinta dei pensieri di Dio, destinata ad essere sparsa rapidamente dappertutto. Questa visione, avendo un carattere evangelico, non doveva certamente essere suggellata. La visione di Daniele, un tempo suggellata, ora non lo è più (Apocalisse 22: 10); quella di Habacuc non lo è mai stata.
«Poiché è una visione per un tempo già fissato; essa parla della fine, e non mentirà» (v.3). (Anche qui, l’espressione usata nella versione italiana «s’affretta verso la fine» non rende esattamente il pensiero; confrontare anche con la versione Diodati).
Questa visione annuncia, senza dubbio, la prossima rovina della potenza caldea che stava per entrare in scena. Il tempo della sua azione è fissato in anticipo, ma la visione annuncia, senza dubbio, la prossima rovina della potenza caldea che stava per entrare in scena. Il tempo della sua azione è fissato in anticipo, ma la visione va molto più in là; essa parla della fine, della gloria del regno e allora questi ultimi avvenimenti, benché siano ancora lontani, sono assolutamente certi, poiché la visione è data da Dio che non può mentire. È anche per questo che Dio si è curato di farla incidere su tavole, come un tempo incise sulle tavole di pietra la legge il cui contenuto non fu mai sigillato.
«Se tarda, aspettala; poiché per certo verrà; non tarderà» (v. 3).
Lo Spirito di Dio fa notare che la visione, quando parla della fine, può tardare ancora. Il suo compimento storico (*), oggi vecchio di ventisei secoli, era allora per un tempo prefissato; quanto alla fine di cui parla la visione, essa tarda e il credente la attende ancora oggi, contando sulla promessa di Dio. Essa per certo verrà e il segno che la annuncerà non sarà un segno ingannatore. Quel segno, lo sappiamo, è l’apparizione del Signore, in giudizio. Così noi vediamo l’apostolo Paolo applicare questo passo, in Ebrei 10: 37, all’apparizione di Cristo al tempo della fine, quando dice: «Ancora un brevissimo tempo, e colui che ha da venire verrà e non tarderà», mentre Habacuc lo applica al giudizio del Caldeo in un tempo fissato. Notate di nuovo il modo con cui lo Spirito di Dio interpreta egli stesso la sua Parola, come abbiamo già visto al cap. 1 e come vedremo ancora nel seguito di questo studio. Noi che siamo giunti alla «fine dei secoli», iniziata alla croce di Cristo, abbiamo ricevuto un’interpretazione molto piu estesa della profezia di quanto non l’avesse il profeta, e benché non abbiamo ancora raggiunto i tempi profetici, siamo tuttavia al tempo della fine. La venuta del Figlio di Dio segnerà un termine per noi e darà corso ai tempi profetici: l’apparizione del Figliuol dell’uomo metterà fine ai tempi profetici e introdurrà sulla terra il regno glorioso di Cristo (v.4). È sempre Lui lo scopo, il termine, l’ultima parola della profezia. Questo passo è importante anche perché ci mostra che se la profezia ha un adempimento storico e parziale, mai questo adempimento ne costituisce l’ultima parola. L’avvenimento storico trova il suo pieno e definitivo significato al tempo della fine, e la sua interpretazione non può essere realmente conosciuta se non si ha lo sguardo volto alla persona di Cristo e alle glorie che seguiranno le sue sofferenze.
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(*) Moltissime profezie riguardano avveninerti storici, ormai già realizzatisi, e avvenimenti futuri che noi ancora aspettiamo.
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Confrontato con Ebrei 10: 37 questo passo distrugge dunque la pretesa di tutta una scuola che insegna doversi dare alla profezia un’interpretazione puramente storica. Esso dimostra anche che le Scritture formano un tutto da cui non si può isolare una parte separata, poiché ogni parte appartiene a questo insieme e lo Spirito di Dio la interpreta differentemente, a seconda che si tratti di avvenimenti prossimi o dei tempi della fine. Ne abbiamo già visto un esempio al cap. 1 vers. 5 interpretato dall’apostolo in Atti 13. Solo lo Spirito di Dio ci può dare l’interpretazione di ciò che ci ha rivelato. Mai lo spirito dell’uomo avrebbe potuto immaginare la portata della rivelazione che ci occupa, se lo Spirito di Dio non fosse egli stesso il commentatore. La visione tarda ancora e noi ne vedremo la ragione; ma verrà sicuramente e il nostro atteggiamento è di aspettativa. Il Signore viene. In Ebrei 10: 37 non si tratta della sua venuta per rapire i riscattati, ma della sua apparizione che noi anche aspettiamo, perché è in quel momento che il regno glorioso di Cristo sulla terra, soggetto di tutta la profezia dell’Antico Testamento, sarà inaugurato e i fedeli riceveranno le loro corone.
«Ecco, l’anima sua è gonfia, non è retta in lui; ma il giusto vivrà per la sua fede» (v.4).
La promessa di cui abbiamo parlato prima è una verità interamente estranea agli orgogliosi che mancano di rettitudine; qui è fatta allusione senza dubbio ai Caldei, ma è applicabile a tutte le anime che si trovano nelle stesse condizioni. L’orgoglio dell’uomo è incapace di comprendere i pensieri di Dio; essi sono rivelati solo agli uomini di fede; solo la fede rende presenti le cose che si sperano e convince su cose che non si vedono; così lo Spirito di Dio aggiunge: «Ma il giusto vivrà per la sua fede» (v. 4).
Questo passo capitale è un po’ l’essenza di tutto il libro di Habacuc. Esso si rivolge a quelli che si trovano nelle stesse condizioni del profeta, poiché la profezia può essere compresa solo dai giusti; e il mondo la ignora. Essa risulta chiara solo se si vive «per la propria fede», e solo i giustificati sono capaci di vivere così. La liberazione verrà sicuramente; il regno glorioso di Cristo si leverà come il sole quando l’ostacolo che Satana oppone, esaltando l’orgoglio dell’uomo contro Dio, sarà stato abbattuto. La fede, in osservazione sulla torre, vede questo ostacolo distrutto e attende il Signore di gloria. Fino a quel momento, il giusto non è né abbattuto né senza risorse. La sua fede lo sostiene ed è di essa che la sua vita si nutre. Tale è la portata di questa parola, in questo passo.
Nel Nuovo Testamento lo Spirito di Dio va ancora oltre e l’insegnamento dell’apostolo Paolo è impregnato di questo passaggio. Paolo lo cita tre volte e dandogli ogni volta una nuova interpretazione. In Romani 1: 17 egli insiste sulla giustizia, in Galati 3: 11 sulla fede, in Ebrei 10: 38 sulla vita. Questi tre vocaboli sono in rapporto con l’insegnamento contenuto in ciascuna delle epistole che abbiamo citato. Consideriamo un po’ da vicino questi tre passi.
1. Citazione in Romani 1: 16-17
«Poiché io non mi vergogno dell’Evangelo; perché esso è potenza di Dio per la salvezza d’ogni credente, del Giudeo prima e poi del Greco; perché in esso la giustizia di Dio è rivelata da fede a fede, secondo che è scritto: Ma il giusto vivrà per fede».
L’apostolo comincia collo stabilire al versetto 16 di questa epistola il carattere dell’Evangelo: è Dio stesso, che interviene in potenza in favore dell’uomo che si riconosce perduto. Nell’Evangelo, Dio non domanda più nulla all’uomo e non esige che questi si dia da fare per trovare un mezzo per mettersi in regola con lui. È Dio che agisce; è la sua potenza che è in azione in favore dell’uomo, non per aiutarlo a salvarsi ma per salvarlo, poiché questa potenza è in salvezza. La fede è il mezzo per appropriarsi di questa salvezza, che concerne tanto il Giudeo quanto il Greco. La legge, data al Giudeo, è dunque messa da parte come mezzo di salvezza, ed è sostituita dalla fede. La legge non oltrepassava i limiti giudei, ma la fede li supera infinitamente, poiché l’Evangelo è la potenza di Dio per la salvezza di ogni credente, cioè di chiunque crede. L’Evangelo è (v. 17) questa potenza per la salvezza, perché la giustizia di Dio (il grande soggetto dell’epistola ai Romani) è rivelata; la giustizia di Dio, cosa nuova, perfetta e assoluta, che forma il più completo contrasto con la giustizia dell’uomo. Non v’è altro che la fede per acquisire questa giustizia che, dal momento in cui la fede l’ha ricevuta, diventa per così dire sua proprietà. Il credente è ormai giusto d’una giustizia divina, non d’una giustizia umana sul principio delle sue opere, poiché l’uomo è giusto solo per mezzo della fede. Ora, se è per la fede, è per pura grazia, poiché l’uomo crede e riceve la rivelazione della giustizia solo per grazia.
Questo passo di Romani 1 non parla ancora dell’opera di Cristo come del solo mezzo per il quale questa giustizia può appartenerci, verità capitale sviluppata nel seguito dell’epistola; esso stabilisce soltanto il grande fatto che una giustizia completamente nuova e assoluta, quella di Dio stesso, è rivelata ora e diventa la parte della fede. Allora l’apostolo cita Habacuc: «Il giusto vivrà per fede» (o sul principio della fede), per provare la rivelazione di una giustizia nuova, appartenente all’uomo in virtù di un nuovo principio, la vita della fede.
2. Citazione in Galati 3: 11
«Or che nessuno sia giustificato per la legge dinanzi a Dio, è manifesto perché il giusto vivrà per la fede. Ma la legge non si basa sulla fede, anzi essa dice: Chi avrà messe in pratica queste cose, vivrà per via di esse».
Il soggetto della legge, che è toccato solo collateralmente al cap. 1 di Romani per essere poi messo in piena luce al cap. 7, è sviluppato in tutta la sua ampiezza nell’epistola ai Galati. Il versetto 10 del cap. 3 ha dimostrato che tutti quelli che sono sul principio della legge sono sotto maledizione, secondo la verità emessa in Deuteronomio 27: 26 (*). In seguito, l’apostolo cita Habacuc: È evidente, dice, che per la legge nessuno è giustificato davanti a Dio, perché il giusto vivrà per fede (o sul principio della fede). È dunque la fede che è messa in evidenza in questo passo, e su di essa Paolo insiste, senza separarla né dalla giustizia né dalla vita, ma opponendola alla legge che non poteva procurare né l’una né l’altra. Egli prova in seguito che la legge non è sul principio della fede, poiché la legge indica le opere come mezzo per ottenere e la giustizia e la vita (Levitico 18: 5; Romani 10: 5). Egli termina dimostrando che la liberazione dalla legge è stata operata da Cristo: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo divenuto maledizione per noi (poiché sta scritto: maledetto chiunque è appeso al legno)» (Gal. 3: 13).
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(*) Non c’era per Israele, popolo sotto la legge, che Ebal, e era privato di Gherizim.
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3. Citazione in Ebrei 10: 36-39
«Poiché voi avete bisogno di costanza, affinché, avendo fatta la volontà di Dio, otteniate quel che v’è promesso. Perché: Ancora un brevissimo tempo e colui che ha da venire verrà e non tarderà; ma il mio giusto vivrà per fede; e se si trae indietro, l’anima mia non lo gradisce. Ma noi non siamo di quelli che si traggono indietro a loro perdizione, ma di quelli che hanno fede per salvar l’anima».
L’apostolo Paolo cita qui per intero il passo del nostro profeta. L’espressione colui che ha da venire verrà e non tarderà», attribuita da Habacuc alla visione caldea per un tempo determinato, è attribuita dall’apostolo alla visione della fine, cioè alla venuta di Cristo in gloria, non ad un avvenimento, ma ad una persona, a Colui che viene e non tarderà. In seguito leggiamo la citazione «ma il mio giusto vivrà per fede». Questo significa che, per il giusto, si tratta di vivere di fede fino alla venuta di Cristo. Questa vita di fede appartiene esclusivamente al giusto. Essa è il grande soggetto del cap. 11 di questa epistola in cui noi vediamo la vita di fede descritta sotto tutti i suoi diversi caratteri, che si tratti, come per Abele, di avvicinarsi a Dio con un sacrificio ed essere per mezzo di esso dichiarato giusto, o come per Enoc, di camminare con Dio o, come Noè, di aver pazienza predicando questa giustizia per i lunghi anni di attesa in cui l’arca era in costruzione, o infine, come per i patriarchi, di vivere come pellegrini e forestieri, attendendo una patria migliore. Dappertutto l’apostolo mostra che la vita del giusto è una vita di fede che termina nella gloria.
In questi tre passi, la giustizia, la vita e la fede sono dunque inseparabili, ma ogni passo insiste su uno di quei tre principi, senza trascurare gli altri che non possono essere disgiunti.
Questo stesso cap. 10 degli Ebrei completa la citazione di Habacuc in modo notevole. Il profeta aveva detto: «Ecco, l’anima sua è gonfia, non è retta in lui; ma il giusto vivrà per la sua fede». Paolo traspone la frase e la presenta così: «Ma il mio giusto vivrà per fede; e se si trae indietro, l’anima mia non lo gradisce». Questa seconda parte della frase, così tradotta nella versione dei Settanta, corrisponde alle parole: «l’anima sua è gonfia, non è retta in lui». Paolo mette qui in contrasto «colui che si trae indietro» e colui «che vive per fede»; il primo perisce, è perduto: l’altro conserva la sua vita. Habacuc rappresenta il primo come gonfio d’orgoglio e applica questo carattere al nemico caldeo. L’apostolo, usando la versione dei Settanta, lo applica a quegli Ebrei che erano dei professanti del cristianesimo e correvano il pericolo di ritirarsi. Egli traspone le due frasi per non far supporre che si tratti, come nel profeta, delle nazioni orgogliose, e per mettere in chiaro che si vuol riferire a quegli Ebrei che, avendo conosciuto, professato e praticato il cristianesimo, hanno mancato di dirittura, e sono tornati alla religione delle opere a causa del loro orgoglio giudaico. Abbiamo qui uno dei numerosi esempi dell’uso che lo Spirito di Dio sa fare di una traduzione incompleta, non inesatta, perché il testo ebreo lascia di proposito in una certa indeterminatezza il termine «la sua anima», pur applicandolo evidentemente al Caldeo. L’anima di colui che si ritira per ritornare alla legge non è mai retta ed è sempre l’orgoglio che lo separa dal Cristo e dalla grazia; così Dio «non lo gradisce», mentre prende piacere nel giusto che vive umilmente davanti a Lui per la fede.
Quale valore acquistano per noi tutte queste citazioni per mezzo delle diverse applicazioni che lo Spirito Santo dà loro! «Il giusto vivrà per fede», tale è dunque il centro del libro di Habacuc. Già la fede del profeta si era mostrata al cap. 1 vers. 12, nelle sue relazioni con Dio. Ma non era tutto; bisognava vivere questa fede fino alla fine, anche di fronte al pericolo e allo spavento rappresentati dal sopraggiungere dei nemici Caldei.
«E poi il vino è perfido; l’uomo arrogante non può starsene tranquillo; egli allarga le sue brame come il soggiorno dei morti; è come la morte e non si può saziare, ma raduna presso di sé tutte le nazioni, raccoglie intorno a sé tutti i popoli» (v. 5).
Quest’uomo, il Caldeo, si inebria della sua propria importanza e delle sue ambiziose cupidigie. Non può accontentarsi dei successi ottenuti, e non è mai sazio (Proverbi 30: 16; Isaia 5: 14). Egli si considera al centro di tutto, delle nazioni e dei popoli. Allora come oggi, è questo il pensiero, il desiderio, la politica dei capi delle nazioni. L’egoismo ambizioso di questi uomini può abbellirsi parlando di «grandezza della nazione», ma in fondo si tratta dell’orgoglio che sacrifica tutto alla propria grandezza individuale. Dio aveva dato la potenza a Babilonia, in seguito all’infedeltà del suo popolo, ma non poteva ammettere che l’uomo esercitasse questa potenza al di fuori di Lui e per soddisfare il proprio cuore ambizioso occupato di se stesso invece di sottomettersi a Dio.
Dio lo giudicherà, ma prima di tutto vedremo la maledizione cadere su lui dalla bocca di tutti quelli che ha oppresso. Essi riveleranno i motivi che lo spingevano ad agire, condanneranno le sue tendenze, malediranno la sua iniquità e il suo orgoglio.
Questo versetto 5 serve da introduzione al Canto che segue.
Versetti da 6 a 20. Il «Canto dei guai» preludio della gloria futura
Il «Canto dei Guai» è un poemetto vero e proprio, composto da cinque strofe. Tutte le strofe hanno tre versetti e, salvo la quinta, cominciano con la parola «guai». Il terzo versetto delle quattro prime strofe comincia colla parola «poiché» e dà l’impressione dei cori antichi, poiché trae la conclusione dal «guaio» annunziato nei primi due versetti (confr. Esodo 15: 20-21).
«Tutti questi (che il Caldeo ha oppresso) non faranno contro di lui proverbi, sarcasmi, enigmi?» (v. 6).
Siamo avvertiti qui che quello che sta per seguire non ha la semplice portata di una esecrazione pronunciata dagli oppressi contro al loro oppressore. Questo canto proferito contro al Caldeo ci conduce alla fine dei tempi. Il monarca in questione non è nominato neppure una volta, poiché i caratteri che ha manifestato non sono soltanto suoi. È un proverbio, una allegoria sarcastica che bisogna capire, un enigma che è necessario decifrare, e che ci trasporta fino allo stabilimento del regno glorioso di Cristo.
I «Guai» ricordano in certi punti quelli che sono pronunciati in Isaia 5 e in Michea 2: 1-2; quelli erano rivolti al popolo d’Israele, questi alle nazioni e al loro capo.
Questo Canto su Babilonia e il suo re è la risposta finale dell’Eterno al secondo «perché» del profeta che riguardava l’oppressore del suo popolo (1: 13). Dio aveva cominciato a dire al suo servitore diletto, che vegliava sulla torre per sentire la sua parola, che la prima condizione richiesta per il giusto era la fede. Questa non poteva sperare la repressione immediata del male; bisognava vivere di pazienza, e non contare su una prossima realizzazione delle cose che si speravano. Ma, di fatto, la fede vede già questa realizzazione.
1. Prima strofa
«Guai a colui che accumula ciò che non è suo! Fino a quando? Guai a colui che si carica di pegni! I tuoi creditori non si leveranno essi ad un tratto? I tuoi tormentatori non si desteranno essi? E tu diventerai loro preda. Poiché tu hai saccheggiato molte nazioni, tutto il resto dei popoli ti saccheggerà, a motivo del sangue umano sparso, della violenza fatta ai paesi, alle città e a tutti i loro abitanti» (v. 6-8).
Il primo «guai» è pronunciato su colui che accumula i beni degli altri, che non gli appartengono. Si carica di pegni, che esige per concedere i suoi prestiti ad usura. Le stesse cose si erano viste in Israele (Amos 2: 6-8). Il termine «pegni» nella lingua originale è lo stesso usato per indicare il «fango spesso». Questo gioco di parole ci indica che queste odiose depredazioni del Caldeo non potevano avere altro risultato che la sua vergogna. Sono cose abominevoli agli occhi di Dio. Quante retribuzioni di questo genere potrebbero evitare i capi delle nazioni, per se stessi e per i popoli che dirigono, se si rendessero conto dell’iniquità dei loro atti!
Il «fino a quando?» messo in bocca agli oppressi che cantano, mi sembra che corrisponda a quello del profeta riguardo a Israele (1: 2). Per mezzo della fede, Habacuc ha imparato ad aver pazienza e sa che la visione non mentirà, e che le nazioni che saranno risparmiate dovranno attendere la realizzazione di questa speranza. All’improvviso, quell’uomo che si impadronisce dei beni degli altri per arricchirsi sarà attaccato da quelli che aveva spogliato. Come un ladro assalito dai cani, sarà morsicato dalle nazioni e a sua volta diverrà loro preda (v. 7). Il versetto 8 è la conclusione e la conferma di ciò che precede. Quell’uomo aveva saccheggiato; il residuo dei popoli che sarà risparmiato per assistere all’apparizione del Cristo (poiché non dimentichiamo che la caduta di Babilonia non è che una allegoria dei tempi della fine), a sua volta deprederà l’usurpatore. Questa vendetta avrà per causa non solo il sangue degli uomini versato da questa nazione crudele, ma «la violenza fatta ai paesi, alle città e a tutti i loro abitanti».
Di fronte all’iniquità del suo popolo, il profeta aveva gridato: «Violenza!» e «fino a quando?». Dio gli aveva risposto che questa violenza sarebbe stata punita dalla violenza del Caldeo. Ma ora è venuto il momento in cui anche la violenza del Caldeo contro Israele sarà punita dalle nazioni. In questo modo, nel governo di Dio le retribuzioni si succedono le une alle altre. Il paese, la città e quelli che vi abitano sono, senza dubbio, la Palestina, Gerusalemme e i suoi abitanti; non sembra necessario fornire le prove. Dio non perde mai di vista il suo popolo. Se l’iniquità commessa dal nemico contro le nazioni, se i saccheggi e i delitti di cui si è reso colpevole trovano una giusta retribuzione, quanto più la troverà quando la sua violenza si abbatte su Israele che Dio ha momentaneamente abbandonato, ma col quale riallaccerà le sue relazioni quando saranno passati i giudizi. Dio non dimentica mai quelli che gli appartengono e, se è costretto a disciplinarli, guai a quelli che vi ricercano il loro profitto.
2. Seconda strofa
«Guai a colui che è avido d’illecito guadagno per la sua casa, per porre il suo nido in alto e mettersi al sicuro dalla mano della sventura! Tu hai divisato l’onta della tua casa, sterminando molti popoli; e hai peccato contro te stesso. Poiché la pietra grida dalla parete, e la trave le risponde dall’armatura di legname» (v. 9-11) .
Il nemico è accusato di fare un guadagno iniquo per costruirsi una casa stabile che non abbia da temere l’avversario (vedere Geremia 22: 13). In questo modo vorrebbe scongiurare ogni guaio, ma è proprio allora che i guai lo raggiungono. Benché i particolari possano essere applicati ai Caldei, questi rimproveri sono rivolti, per filo e per segno, a tutti i potenti. Una pesante e terribile responsabilità pesa su di loro, e questo carattere della maggior parte dei capi di stato si riproduce senza interruzione nella storia. Violare i territori altrui e impadronirsene per ingrandirsi, poi fondare la grandezza della propria casa su ciò che si è estorto agli altri; stabilire la potenza della propria famiglia, non è forse la storia, passata e presente, di tutti i capi mondiali? Lo stesso orgoglio spingeva Edom a farsi «il nido fra le stelle» (Abdia vers. 4).
Tutti questi disegni, così laboriosamente concepiti, non hanno avuto altra conclusione, in fin dei conti, che coprire di vergogna le case che i principi tenevano ad elevare così in alto. Ogni pietra, ogni trave di questo edificio costruito sulla frode dall’ambizione e dall’orgoglio sarà una testimonianza vivente contro l’oppressore. D’altra parte, mai l’uomo di fede sogna di ingrandire la propria casa; la sua felicità e la sua gloria consistono nell’accumulare, come Davide, i materiali per la casa di Dio. È ciò che fecero anche Salomone, Joas e Giosia (1 Re 5: 18; 2 Re 12: 12; 22: 6) per ingrandire e consolidare il tempio dell’Eterno.
3. Terza strofa
«Guai a colui che edifica la città col sangue, e fonda una città sull’iniquità! Ecco, questo non procede egli dall’Eterno che i popoli s’affatichino per il fuoco, e le nazioni si stanchino per nulla? Poiché la terra sarà ripiena della conoscenza della gloria dell’Eterno, come le acque coprono il fondo del mare» (v. 12-14).
Il primo «guai» era rivolto alla nazione, il secondo alla «casa»; il terzo si indirizza a una capitale. E non è Gerusalemme (come al v. 8) ma un’altra grande città. Nella sua applicazione al Caldeo è Babilonia, fondata sulla strage delle nazioni e il sangue degli uomini. Così era anche per Ninive (Nahum 3: 1). Ma tutto questo lavoro dei popoli sfocerà nel fuoco del giudizio di Dio, e i loro sforzi avranno per risultato la rovina. Nulla sussisterà; si sono stancati per nulla.
È solenne pensare che tutta la gloria, le ricchezze, la rinomanza di cui hanno fatto sfoggio le grandi capitali dei regni, dovranno scomparire ed essere inghiottite dal nulla. Ma la fede vede e comprende questo «enigma» e il motivo di tutti questi capovolgimenti. Il regno eterno di Cristo non può essere stabilito che dopo il giudizio del male; per fondarlo, bisogna che l’iniquità scompaia e che tutto ciò che si innalza contro il Dominatore della terra sia abbassato e umiliato. Il cammino dell’Eterno non può essere appianato che col livellamento di ogni «monte», di ogni «colle» (Isaia 40: 3-5); allora la gloria dell’Eterno riempirà il mondo intero e sarà conosciuta da tutti. Il male sarà inghiottito nelle profondità del mare. Da sempre il Signore aveva annunziato l’avverarsi di queste cose, nonostante i giudizi che era costretto a pronunciare (Numeri 14: 21; Isaia 11: 9). Troviamo qui, in un solo versetto, il quadro del glorioso regno millenario di Cristo, descritto in modo tanto dettagliato dal profeta Isaia. Saranno i tempi «della restaurazione di tutte le cose; tempi dei quali Iddio parlò per bocca dei suoi santi profeti» (Atti 3: 21)
4. Quarta strofa
«Guai a colui che dà da bere al prossimo, a te che gli versi il tuo veleno e l’ubriachi, per guardare la sua nudità! Tu sarai saziato d’onta anziché di gloria; bevi anche tu e scopri la tua incirconcisione! La coppa della destra dell’Eterno farà il giro fino a te, e l’ignominia coprirà la tua gloria. Poiché la violenza fatta al Libano e la devastazione che spaventava le bestie, ricadranno su te, a motivo del sangue umano sparso, della violenza fatta ai paesi, alle città e a tutti i loro abitanti» (v. 15-17).
Questa strofa descrive la corruzione, tipica di questa orgogliosa nazione caldea, (*) che s’accompagna alla violenza dalla caduta dell’uomo, questi vizi sono sempre andati aumentando fra gli uomini riuniti in società (Gen. 6: 11-13). La gloria dell’Eterno coprirà la terra, ma la violenza dell’uomo non sarà dimenticata; ricadrà su lui e lo coprirà. La violenza (notate la ripetizione di questo termine) risponderà alla violenza, come già abbiamo visto al cap. 1, e il cuore aggiunge, a guisa di ritornello, ciò che prova l’Eterno quando il suo paese, la sua città e i suoi abitanti sono in balia della violenza del nemico (vedere v. 8).
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(*) Nell’edizione francese originale è aggiunto:
Come! parlare della gloria dei Caldei quando il coro ha appena celebrato la gloria dell’Eterno? «Tu sarai saziato d’onta anziché di gloria». «L’ignominia coprirà la tua gloria» esclama con un amarezza ironica, e nella sua collera vendicatrice.
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Questo canto sul re di Babilonia, Isaia lo mette non sulla bocca delle nazioni ma di Israele che esulta, vedendo l’orgoglio del re di Babilonia scendere nel soggiorno dei morti con lo scettro infranto! I cedri del Libano si rallegrano e dicono: «Da che sei atterrato il boscaiolo non sale più contro di noi». «Il tuo fasto e il suon dei tuoi saltéri sono stati fatti scendere nel soggiorno dei morti; sotto di te sta un letto di vermi e i vermi son la tua coperta» (Isaia 14: 8-11).
5. Quinta strofa
«A che giova l’immagine scolpita perché l’artefice la scolpisca? A che giova l’immagine fusa che insegna la menzogna, perché l’artefice si confidi nel suo lavoro, fabbricando idoli muti? Guai a chi dice al legno: Svegliati, e alla pietra muta: Levati! Può essa ammaestrare? Ecco, è ricoperta d’oro e d’argento, ma non v’è in lei spirito alcuno. Ma l’Eterno è nel suo tempio santo; tutta la terra faccia silenzio in presenza sua!» (v. 18-20).
Come abbiamo anticipato, la quinta strofa differisce dalle altre per la sua struttura. Mi sembra di vederne il motivo nel fatto che qui Dio entra direttamente in causa. Non è più contro le nazioni, e’nemmeno contro il popolo di Dio che s’è elevato l’incommensurabile orgoglio del re di Babilonia, ma contro l’Eterno stesso. Egli ha messo contro il vero Dio le sue immagini bugiarde di legno, d’oro e d’argento. Questa è la causa principale della sua definitiva distruzione. Notate che nel corso di tutta questa «allegoria» lo Spirito ha cura di non nominare il re di Babilonia. È un «enigma» che, come abbiamo detto, va molto al di là del castigo storico dei Caldei e arriva fino al regno glorioso di Cristo.
L’Apocalisse ci insegna che un’altra Babilonia, ultimo sviluppo di una cristianità idolatra, comparirà sulla scena negli ultimi giorni. La sua coppa d’oro sarà riempita di abominazioni (gli idoli), e l’Impero Romano, l’ultima incarnazione delle monarchie universali, avrà le stesse pretese idolatre del capo del primo Impero Babilonese con la sua statua d’oro (Apoc. 17: 4; 13: 1415; Daniele 3: 1). Questa idolatria è stigmatizzata da tutti i profeti (Isaia 44: 9-20; Ger. 2: 27; 3: 9, ecc.).
È importante notare che sono le nazioni che pronunciano qui i guai sui fabbricanti di idoli e proclamano la vanità delle religioni pagane. È un canto della fine dei tempi, di quando esse stesse avranno abbandonato il paganesimo d’un tempo per volgersi verso il vero Dio e riconoscere il suo impero. La Babilonia della fine è sottintesa in questa allegoria, ed ecco perché il canto termina riconoscendo l’Eterno come Colui che i popoli adorano. Non è solo, come al v. 14, la conoscenza della sua gloria che ricopre interamente la terra rinnovata, ma la conoscenza di Lui stesso.
Egli sarà nella sua santa dimora, nel suo tempio a Gerusalemme; l’espressione la sua dimora non è il cielo ma la sua casa sulla terra (Michea 1: 2; Salmo 11: 4). Allora, la gloria di Dio che aveva lasciato il tempio (Ezechiele 11:22) vi sarà tornata (Ezechiele 43: 4). Ormai è Lui che domina; tutta la terra faccia silenzio alla sua presenza. Chi oserà alzare la voce davanti alla Sua maestà?
Com’è bella la fine di questo canto dei popoli sottomessi ormai alla Sua potenza! Il cuore angosciato del profeta deve essersi rassicurato con questa visione dell’avvenire. Egli vide in essa il valore della fede che ha saputo aspettare con pazienza il risultato delle vie di Dio: l’orgoglio dell’uomo abbassato, le nazioni liberate e sottomesse, il popolo di Israele restaurato e l’Eterno glorificato che fa di Gerusalemme e del suo tempio il centro della sua gloria! Il profeta stesso si è dimenticato di «rispondere» come aveva promesso di fare (cap. 2: 1). Ma cosa può dire, ora che Dio, invece di contestare con lui, ha fatto passare dinanzi ai suoi occhi la sua giustizia nel giudizio del male, la sua grazia verso il suo popolo e, infine, la sua gloria che ricopre tutta la terra in quel regno di giustizia e di pace davanti al quale il mondo intero non potrà che fare silenzio?
Capitolo 3. La preghiera di Habacuc
«Preghiera del profeta Habacuc. Sopra Scighionoth» (v. 1) (*).
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(*) Il termine «Scighionoth», plurale di «Shiggaion», «grande grido» (Salmo 7) sembra indicare, secondo qualche critico, un’insieme di grida e di lodi che compongono quella che è chiamata qui una preghiera. Questa teoria ci sembra accettabile date le divisioni naturali che incontriamo nella preghiera di Habacuc.
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La conclusione di tutto quello che il profeta ha udito dalla bocca dell’Eterno si riassume in una preghiera che è supplica, ringraziamento e lode, prodotti da una fede che è pienamente certa che l’Eterno manterrà le sue promesse. Questa preghiera è composta da quattro parti:
Versetto 2. Prima parte
«O Eterno, io ho udito il tuo messaggio e son preso da timore; o Eterno. dà vita all’opera tua nel corso degli anni! Nel corso degli anni falla conoscere? Nell’ira ricordati d’aver pietà!» (v. 2).
All’inizio del libro Habacuc si lamentava che Dio non dava ascolto al suo grido. Ma l’Eterno, nei suoi insegnamenti, gli ha mostrato che ha ascoltato, che dà sempre ascolto. Gli ha spiegato, con una comprensione paterna, quanto siano giusti i giudizi che fa cadere sul suo popolo e sui nemici del suo popolo; ma gli ha anche insegnato che il giusto non e senza risorsa per attraversare i giudizi, perché vivrà per la sua fede. Gli ha infine dichiarato ch’Egli sarà glorificato e personalmente esaltato in un tempo futuro, e che il mondo intero sarà ripieno della conoscenza della sua gloria.
Ora il profeta può dire: «Ho udito il tuo messaggio». Non «tu hai dato ascolto», perché la sua prima rimostranza era frutto della debolezza della sua fede; ma «ho udito», ho la conoscenza dei tuoi pensieri; li ho afferrati per fede!
Di fronte all’annuncio dei tuoi giudizi, dice il profeta, ho avuto paura. Giudizi terribili che producono nei cuori un salutare terrore. Ma ora ho da domandarti una cosa che desidero tanto: Dà vita all’opera tua in grazia verso il tuo popolo! Nel corso degli anni, prima del tempo della fine di cui hai parlato (2: 3), opera in grazia fra noi!
La liberazione dall’Egitto costituiva il principio degli anni (*), in cui l’Eterno aveva manifestato la sua opera in favore del suo popolo, e il profeta desidera che Dio le dia vita, la ravvivi ora, prima di introdurre, alla fine degli anni, la liberazione milleniale. Egli sa che questo è il tempo dell’ira; ragione di più per fare appello alla misericordia divina, poiché, proprio quando i suoi giudizi si scatenano sul mondo noi siamo chiamati a contare sull’opera della grazia. La preghiera profetica di Habacuc sarà esaudita quando Israele sarà vivificato, quando si formerà un residuo credente di cui il profeta stesso è figura e tipo.
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(*) Gli Israeliti furono liberati dall’Egitto e partirono alla volta del paese di Canaan il giorno successivo alla celebrazione della Pasqua; e l’Eterno aveva detto a Mosè: «Questo mese sarà per voi il primo dei mesi: sarà per voi il primo dei mesi dell’anno» (Esodo 12: 2).
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Versetti da 2 a 15. Seconda parte
La seconda parte della preghiera comprende i versetti da 3 a 15. Essa descrive le liberazioni d’un tempo e l’intervento futuro dell’Eterno in favore del suo popolo.
1. Prima suddivisione – versetti da 3 a 6
Questa prima suddivisione descrive l’uscita dall’Egitto. «Iddio viene da Teman, e il santo viene dal monte di Paran. La sua gloria copre i cieli, e la terra è piena della sua lode. Il suo splendore è pari alla luce; dei raggi partono dalla sua mano; ivi si nasconde la sua potenza. Davanti a lui cammina la peste, la febbre ardente segue i suoi passi» (v. 3-5).
Questi versetti ci mostrano l’Eterno che esce dall’Oriente, da Teman e dal monte di Paran che domina il deserto omonimo; esce, cioè, dal territorio di Edom per venire in soccorso al suo popolo e liberarlo dalla schiavitù dell’Egitto, annientando le nazioni che l’opprimono o si oppongono a lui (*).
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(*) In Deuteronomio 33: 2, l’Eterno viene dal Sinai, da Seir e dal monte di Paran per liberare il suo popolo e dargli la legge. In Giudici 5: 4, il cantico di Debora celebra, come quello di Habacuc, l’intervento dell’Eterno per annientare i nemici del suo popolo. Il salmo 18: 7-19 è analogo, ma ha in vista soprattutto i nemici della nazione. Il Salmo 68 assimila la liberazione dall’Egitto a quella del popolo alla fine dei tempi. Il Salmo 77 trae, dalla liberazione dall’Egitto, la sicurezza che l’Eterno libererà il suo popolo dalla grande tribolazione della fine. Così, anche qui le liberazioni passate sono garanzia dell’intervento dell’Eterno nelle tribolazioni future.
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«Egli si ferma e scuote la terra; guarda e fa tremare le nazioni; i monti eterni si frantumano, i colli antichi s’abbassano; le sue vie son quelle d’un tempo» (v. 6). Le nazioni che cercarono di opporsi a Israele furono disperse; la potenza antica dell’Egitto fu rapidamente distrutta. Le colline eterne, le autorità stabilite da Dio stesso e che, quindi, avrebbero dovuto avere una durata illimitata, si abbassarono, un tempo, davanti a Colui che veniva dal suo monte santo per liberare il suo popolo.
Il profeta aggiunge: «Le sue vie sono quelle d’un tempo». Che sicurezza questo pensiero dà alla fede! Ciò ch’Egli ha fatto in passato lo farà nell’avvenire; non c’è in Lui variazione né cambiamento alcuno. Che si tratti di castighi o di liberazioni, le sue vie di santità e d’amore si ripetono e si svolgono, sempre le stesse, fino a raggiungere la cima delle colline eterne (Gen. 49: 26).
2. Seconda suddivisione – versetti da 7 a 15
In questa parte c’è la similitudine tra la liberazione profetica futura e quella antica dall’Egitto, che ne era pallida immagine. «Io vedo nell’afflizione le tende di Etiopia; i padiglioni del paese di Madian tremano» (v. 7). Il profeta contempla avvenimenti non ancora verificatisi ma che, nella visione, egli considera già avvenuti: Le contrade di Cus a occidente e a Nord, e quelle d’Arabia a Oriente e a Sud, tremeranno davanti all’Eterno. La liberazione passata, quando Israele uscì d’Egitto, non è nulla in confronto a questa liberazione futura!
«O Eterno, t’adiri tu contro i fiumi? È egli contro i fiumi che s’accende l’ira tua, o contro il mare che va il tuo sdegno, che tu avanzi sui tuoi cavalli, sui tuoi carri di vittoria?» (v. 8). S’Egli abolisce i confini delle nazioni e colpisce l’insieme confuso dei popoli, il suo scopo non è soltanto il giudizio. Bisognerà che i castighi abbiano il loro corso fino alla fine, che i colpi predetti dalla Parola di Dio s’abbattano sui popoli, che le autorità al governo siano prese da spavento, che tutto il mondo levi grida d’angoscia, elevando inutilmente mani supplichevoli in mezzo al diluvio che gli cadrà addosso (v. 10). Nulla potrà arrestare il combattimento ingaggiato dall’Eterno contro i malvagi fino alla loro totale disfatta. E avverrà come ai giorni di Giosuè, in cui il sole e la luna si fermarono nella loro dimora fino a che la nazione non si fosse vendicata dei suoi nemici (v. 11; Giosuè 10: 12). La collera divina non risparmierà nemmeno «il paese», cioè Israele. Questo popolo incredulo e apostata riceverà la sua parte di castigo, come le altre nazioni.
Ma la salvezza di Israele sarà il risultato di tutta questa esplosione di calamità. «Tu esci per salvare il tuo popolo, per liberare il tuo unto; tu abbatti la sommità della casa dell’empio, e la demolisci da capo a fondo» (v. 13). Non è meraviglioso? Questo piccolo popolo, rappresentato per di più da un residuo in apparenza insignificante, è a tal punto l’oggetto delle cure di Dio che, per salvarlo, Egli sconvolgerà il mondo intero. Perché Israele è il suo unto. Dio l’ha suggellato col suo Spirito; l’ha comprato a gran prezzo e vuole averlo compagno della sua storia, vicino a lui, al centro del governo, dove la giustizia eterna regnerà. Se il vero Israele è poca cosa a occhio umano, sarà il «tesoro riposto» di Cristo nel giorno della sua potenza.
Qui non si parla certo della Chiesa, sposa dell’Agnello, le cui benedizioni sono molto al di sopra di quelle di Israele, come il cielo è al di sopra della terra. L’Antico Testamento ci parla della «sposa giudea» perché Cristo, l’Eterno, suo Messia e suo Re, si interessa di lei, la contempla con compiacimento, e porterà a compimento per lei tutte le sue antiche promesse delle quali non s’è mai pentito. Se per un tempo ha dovuto ripudiarla come una moglie infedele, la riceverà di nuovo, in un prossimo futuro, dopo averla purificata col fuoco del giudizio, attraverso questa tribolazione che fa tremare di paura il cuore del profeta. Ritroviamo il pensiero espresso al v. 13 nel meraviglioso passo di Isaia, dove si vede l’Eterno venire da Edom, e marciare nella grandezza della sua forza. È stato solo a calcare nello strettoio per schiacciare i popoli nel suo furore, «poiché», dice, «il giorno della vendetta, che era nel mio cuore, e il mio anno di redenzione sono giunti» (Isaia 63: 1-6).
Allora sarà abbattuta «la sommità della casa dell’empio», allusione al Caldeo che aveva edificato la sua casa sull’iniquità (2: 9), ma anche all’«empio» della fine la cui casa sarà distrutta fino alle fondamenta.
Al v. 14 c’è il conflitto finale. Le nazioni vengono «come un uragano» per distruggere quel povero residuo afflitto e senza forza, per «divorarlo». Ma quando Cristo apparirà sarà ridotta al nulla la formidabile potenza delle nazioni sollevate da Satana contro a Lui e al suo popolo.
Il cap. 19 di Apocalisse ci presenta il quadro sublime di questa scena di guerra, facendola vedere però, a differenza dell’Antico Testamento, sotto l’aspetto celeste.
Versetto 16. Terza parte
«Ho udito, e le mie viscere fremono, le mie labbra tremano a quella voce; un tarlo m’entra nelle ossa, e io tremo qui dove sto, a dover aspettare in silenzio il dì della distretta, quando il nemico salirà contro il popolo per assalirlo» (v. 16).
È come il riassunto di quel che precede. Come al v. 2, Habacuc aveva udito e s’era spaventato alla prospettiva dell’ira di Dio, ma aveva interceduto per il popolo. Adesso, tutta la scena della fine è passata davanti ai suoi occhi; si è ricordato dei castighi eseguiti anticamente sul paese d’Egitto e su tutti i nemici di Israele, allorché Dio voleva redimere il suo popolo. Il suo sguardo profetico s’è poi posato sui castighi della fine e ha compreso che avevano in vista la salvezza del popolo di Dio. Ma questo non gli impedisce di tremare, di sentirsi un tarlo nelle ossa, come Daniele davanti alla grande visione, quando il suo viso «mutò colore fino a rimanere sfigurato» (Dan. 10: 8); era una preparazione necessaria per ricevere le comunicazioni profetiche e per entrare nei pensieri di Dio. Così l’angelo rassicura Daniele: «O uomo grandemente amato, non temere! La pace sia teco! Sii forte, sii forte» (v. 19). È lo stesso in questa breve scena; Habacuc trema e passa per un completo giudizio di se stesso, aspettando in silenzio il dì della distretta.
Versetti da 17 a 19. Quarta parte
«Poiché il fico non fiorirà, non ci sarà più frutto nelle vigne; il prodotto dell’ulivo fallirà, i campi non daran più cibo, i greggi verranno a mancare negli ovili, e non ci saranno più buoi nelle stalle; ma io mi rallegrerò nell’Eterno, esulterò nell’Iddio della mia salvezza. L’Eterno, il Signore, è la mia forza; egli renderà i miei piedi come quelli delle cerve, e mi farà camminare sui miei alti luoghi» (v. 17-19).
Ecco la magnifica espressione della fede del profeta, fede che è andata crescendo dall’inizio delle sue conversazioni con l’Eterno. Se al v. 16 egli aspettava una benedizione futura, questa poteva anche tardare; e la sua fede rispondeva alla parola: «Se tarda, aspettala» (2: 3). Egli dunque l’aspettava con la certezza che sarebbe stata preceduta dalla distretta, ma che nella tempesta scatenata ci sarebbe per lui un rifugio assicurato, un piccolo santuario, dove potrebbe trovare il riposo della presenza di Dio. Ora questa speranza gli basta. Il riposo verrà quando la distretta sarà passata; e lui lo sa. Ma che fare oggi? Oggi è un tempo di angoscia, che corrisponde alla situazione attuale del popolo giudeo. Il fico, la vite, l’ulivo, simboli di quel popolo, sono senza frutto per Dio. Grano, pecore, buoi, tutto manca; non si può nemmeno fare un sacrificio che metta Israele in relazione con Dio.
Non dovrebbero, oggi, le anime nostre, sentire questa fame e questa distretta spirituale? Debolezza estrema della testimonianza cristiana; professione senza vita e senza rapporto con Dio… «Ma io», aggiunge il profeta. Questo giusto che vive per la sua fede ha afferrato la salvezza promessa come un bene presente. Ma non è nella salvezza che si rallegra; egli ha una gioia ben più grande; egli possiede l’Eterno, l’Iddio della sua salvezza. Questo Dio che non gli nasconde nulla, che lo tratta da amico, che gli rivela i suoi pensieri più segreti, sulla cui misericordia egli può contare quando tutto viene a mancare, l’Iddio le cui benedizioni sono eterne.
È così che Dio «nella notte concede canti di gioia» (Giobbe 35: 10). Habacuc è in piena comunione col suo Signore; ha compreso, fin dal principio, che l’Eterno «ha gli occhi troppo puri per sopportare la vista del male»; ed ora si rallegra in Lui, gusta le perfezioni della sua persona e comprende il suo amore.
Ma l’Eterno è anche la sua forza, quando lui, il profeta, non ha forza alcuna. «Beati quelli che hanno in Te la loro forza» (Salmo 84: 5). Grazie a Lui, in tempi d’estrema debolezza, in tempi in cui nessuna delle cose promesse è già ottenuta, i nostri piedi sono resi come quelli delle cerve; possiamo salire sui nostri «alti luoghi» e percorrerli con passo leggero, rapido, libero. I luoghi celesti sono nostri, sono un dominio che ci è stato assegnato. Cos’è la distretta per chi possiede il Signore, la sua forza e la sua gioia, e gode di tutte le benedizioni spirituali nei luoghi celesti?
Il libro si conclude con queste parole: «Al capo dei musici. Per strumenti a corda». È straordinario che in tempi così calamitosi Habacuc ritrovi il culto come nei bei giorni di Davide e di Salomone. Egli rimette il suo canto al capo dei musici perché sia cantato con cetre e violini, realizzando così, anticipatamente, la lode futura d’Israele nel tempio restaurato.
Anche noi, con la certezza che nulla valgono le cose della terra, siamo spinti verso il Signore, e quando gustiamo le ricchezze insondabili di Cristo ci mettiamo ai suoi piedi e lo adoriamo. Il culto e l’adorazione dei figliuoli di Dio possono essere realizzati anche in mezzo alle rovine della cristianità.
Conclusione
Habacuc occupa un posto a parte fra i profeti, sebbene Geremia, pur abbracciando un orizzonte più vasto, gli rassomigli nelle esperienze personali. Prima si ribella contro la violenza che regna nel suo popolo, e grida «Fino a quando?». Ma quando l’Eterno gli annunzia il castigo che Israele subirà per mano dei Caldei, il suo cuore è afflitto profondamente per il suo popolo. Allora, come Mosè, fa da intercessore prendendo in mano la causa di Israele davanti all’Eterno. Dio gli risponde che castigherà anche le nazioni di cui prima si è servito contro Israele; ma Habacuc impara una lezione personale, valevole in ogni tempo e in ogni circostanza: «Il giusto vivrà per la sua fede»! Il principio della fede è il solo sul quale ci si possa appoggiare anche in tempi calamitosi.
Da allora la sua fede investiga il perché dei castighi divini, considera le liberazioni passate, realizza le liberazioni future, attraversa le miserie presenti con un gioia pura che si attacca alla persona del Salvatore, e con il godimento delle benedizioni celesti ed eterne. Arricchito di tali benedizioni, l’uomo di fede ha trovato accesso al «santuario», e vi entra per rendere culto al suo Dio.
Il cammino della fede è meraviglioso perché ci eleva al di sopra di tutti gli ostacoli, al di sopra delle nostre stesse esperienze, e fissa i nostri sguardi sulle cose che non si vedono, poiché le cose che si vedono son solo per un tempo, quelle che non si vedono sono eterne!
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