Georges André – Il Messaggero Cristiano, dicembre 1981
La parola «disciplina» viene dal greco paideia, a sua volta ricavato da pais
che significa bambino (vedi: pedagogia, pediatria ecc…). In questo
termine, nella Parola di Dio, possiamo discernere tre significati:
1. Allevare, educare, istruire
È in questo senso che l’apostolo Paolo (Atti 22:3) ricorda che è stato «allevato» ai piedi di Gamaliele.
In Tito 2:12 la grazia di Dio ci «ammaestra»; il suo effetto non è un insegnamento intellettuale ma una formazione pratica per la nostra vita: rinunziare all’empietà e alle mondane concupiscenze, per vivere in questo mondo temperatamente, giustamente e piamente. Che educazione!
In 2 Timoteo 2:25 bisogna «correggere» con dolcezza quelli che contraddicono. Non dare loro solo un insegnamento dogmatico, ma tutto ciò che implica un’educazione, una disciplina, perché colui che si è opposto al pensiero divino sia ricondotto a fare la volontà del Signore.
In 2 Timoteo 3:16 le Scritture sono utili, tra l’altro, a «educare» alla giustizia, affinché l’uomo di Dio sia appieno fornito per ogni opera buona.
In Efesini 6:4 ritroviamo lo stesso termine quando i genitori sono esortati ad «allevare» i loro figli in disciplina e in ammonizione del Signore (vale a dire sotto gli avvertimenti del Signore). Disciplina, dunque, non è solo educazione ma anche correzione.
2. Correggere
È quello che il libro dei Proverbi ci presenta a più riprese (3:11, 20:30, 29:15 ecc.). Non solo l’istruzione e la riprensione ma finanche la «verga», un tipo di correzione che infligge dolore e «tristezza» (Ebrei 12:11).
Il Padre deve rimondare il tralcio perché vi sono cose da togliere. All’origine di questa disciplina non c’è la sua ira, ma il suo amore. Ebrei 12 lo evidenzia: il Signore corregge colui ch’Egli ama. Il Padre forma i suoi figli perché sono suoi, non perché lo diventino. E non dimentichiamo che questo vale per tutti: tutti hanno avuto la loro parte (v. 8).
Quale ne sia lo scopo ce lo dice il v. 10: «Per l’util nostro, affinché siamo partecipi della sua santità». Non una santità ancora da ottenere, ma quella che abbiamo in Cristo e che dobbiamo riprodurre nella nostra vita.
I padri che disciplinano i loro figli sono i più rispettati. Se lasciamo fare ai nostri figli tutto ciò che vogliono, perderanno presto la stima e l’amore verso i loro genitori. Il «Padre degli spiriti» vuole ottenere la nostra «sottomissione» (v. 9) che ci porta a dire, come il Signore Gesù, «Si, Padre»; o come dirà nel momento più doloroso della sua vita: «Che la tua volontà sia fatta». È l’insegnamento di Romani 12:2: «Affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà».
Quando un credente è sotto la disciplina del suo Padre due pericoli si affacciano. Disprezzare la disciplina, non farci caso, pensare che presto finirà; oppure fare gli stoici, corazzarci contro ad essa, o i fatalisti, accettandola con una passiva rassegnazione. «Figliuol mio, non fare poca stima della disciplina del Signore». L’altro pericolo è di scoraggiarsi, perdersi d’animo (v. 5). Lo ricorda Proverbi 24:10: «Se ti perdi d’animo nel giorno dell’avversità, la tua forza è poca». Un predicatore diceva che ci si può perdere nella giungla dei perché; e si può anche, come in Isaia 40:27, credere che la nostra via sia «occulta all’Eterno» e che al nostro diritto Dio «non ci badi». No, il Signore non si dimentica di noi.
Che fare in questi casi? Prima di tutto chiedere al Signore che ci liberi da pensieri di scoraggiamento; poi cercare nella sua Parola le promesse che ci ha fatto in vista dei tempi difficili. Infine, considerare le innumerevoli esortazioni della Scrittura in rapporto con la prova. Ad esempio, Daniele 10:19: «O uomo grandemente amato, non temere! La pace sia teco! Sii forte, sii forte. E quand’Egli ebbe parlato meco, io ripresi forza». O ancora Isaia 7:4: «Guarda di startene calmo e tranquillo, non temere e non ti s’avvilisca il cuore». Ricordiamoci le parole del Signore ai suoi che s’affannavano a remare nella tempesta: «State di buon cuore, son io; non temete!» (Marco 6:50). Ebrei 13:5 aggiunge: «Io non ti lascerò e non ti abbandonerà. Talché possiam dire con piena fiducia: Il Signore è il mio aiuto; non temerò». Leggiamo ancora il Salmo 94:19: «Quando sono stato in grandi pensieri dentro di me, le tue consolazioni han rallegrato l’anima mia». Se invece non vogliamo accettare la prova dalla mano del nostro Padre, ne risulta dell’amarezza.
Anche la Parola riconosce che la disciplina per il presente è, o almeno sembra essere, una causa di tristezza; più tardi, però, «rende un pacifico frutto di giustizia a quelli che sono stati per essa esercitati» (Ebrei 12:11). È quello che conta: essere «esercitati», ricercare ciò che il Signore ci vuole dire con quella prova, quel che c’è da togliere, da giudicare in noi, da abbandonare. Ma con la tentazione ci darà anche la via d’uscirne, ci dice Paolo (1 Corinzi 10:13), perché è fedele. Prendiamo però le cose seriamente, e consideriamole nella sua presenza e alla sua luce.
Qual è il nostro atteggiamento nei confronti di questo Padre che affligge, sì, ma col desiderio di vederci portare del frutto? Sappiamo dirgli la nostra riconoscenza per il risultato che ha in vista di ottenere? E se il mistero della prova rimane, possiamo abbandonarci alla sua grazia: «Iddio… è il tuo rifugio; e sotto a te stanno le braccia eterne» (Deut. 33:27).
Il frutto prodotto dalla disciplina rende capaci d’aiutare altri che attraversano la prova: «Perciò, rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia vacillanti» (Ebrei 12:12). Dopo aver fatto l’esperienza della fedeltà e dell’amore del Padre, cerchiamo di venire in aiuto a quelli che potrebbero perdersi di coraggio quando tocca a loro attraversare la sofferenza: «V’esortiamo, fratelli, a confortare gli scoraggiati, a sostenere i deboli» (1 Tess. 5:14, 2 Cor. 1:4).
3. Castigare
Il verbo greco paideuo in certi passi arriva ad avere anche questo significato; ad esempio, in 1 Cor. 11:31-32, «Quando siamo giudicati, siamo corretti dal Signore, affinché non siamo condannati col mondo». In questo caso la disciplina riveste il carattere di castigo perché c’è stato un male, più o meno grave, e non lo si è giudicato; esso è rimasto nella nostra vita. Un tale castigo ci sarebbe stato risparmiato se avessimo riconosciuto l’errore e ne avessimo giudicati i moventi. Ma è ancora l’amore del Signore che castiga, affinché non siamo «condannati».
Il pensiero del giudizio di sé spinge Davide a dire: «Investigami, o Dio, e conosci il mio cuore. Provami e conosci i miei pensieri. E vedi se v’è in me qualche via iniqua, e guidami per la via eterna» (Salmo 139:23-24). All’inizio del Salmo c’è: «Tu mi conosci», alla fine: «Investigami». Accompagnamo lo sguardo divino fino in fondo al nostro cuore! L’esperienza è a volte dolorosa, e faceva dire a Giobbe: «Sarà egli un bene per voi quando vi scruterà a fondo?» (Giobbe 13:9); ma finirà per guidarci «per la via eterna».
In Apocalisse 3:19 il Signore fa un’ultima esortazione a Laodicea, che tanto si è allontanata da Lui: «Tutti quelli che amo, io li riprendo e li castigo; abbi dunque zelo e ravvediti».
Non tutte le prove sono castighi. Le vie disciplinari di Dio prevedono anche la formazione e la correzione, sempre, però, in vista di produrre del bene e di approfondire la vita spirituale nei suoi figliuoli. Alcune prove sono solo «per la gloria di Dio», come nel caso dell’uomo nato cieco (Giov. 9:3) o della morte di Lazzaro (Giov. 11:4). Quante volte una testimonianza efficace è resa alla gloria del Signore proprio da quelli che attraversano grandi sofferenze!
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