La lettera di Paolo ai Galati

Georges André – Il Messaggero Cristiano (2003-2004)

Generalità

L’apostolo Paolo aveva evangelizzato la Galazia nel corso del suo secondo viaggio, fatto in compagnia di Sila e del giovane Timoteo, come leggiamo in Atti 15:40; 16:1-3: «Paolo… scelse Sila e partì, raccomandato dai fratelli alla grazia del Signore… Giunse anche a Derba e a Listra; e là c’era un discepolo, di nome Timoteo… Paolo volle che egli partisse con lui». «Voi non mi faceste torto alcuno — scriverà ai Galati — anzi sapete bene che fu a motivo di una malattia che vi evangelizzai la prima volta» (4:13-14).

Il suo terzo viaggio lo aveva portato a percorrere nuovamente quella regione: «Dopo essersi fermato qui qualche tempo, partì, percorrendo la regione della Galazia… fortificando tutti i discepoli» (Atti 18:23).

Da allora erano giunte notizie inquietanti: alcuni venuti dalla Giudea avevano insegnato ai fratelli di Antiochia che se non si facevano circoncidere «secondo il rito di Mosè», non potevano essere salvati (Atti 15:1); eppure questi insegnamenti erano chiaramente stati disapprovati alla conferenza di Gerusalemme che si era conclusa con questo messaggio da far pervenire ai credenti non Giudei: «È parso bene allo Spirito Santo e a noi di non imporvi altro peso all’infuori di queste cose che sono necessarie: di astenervi dalle carni sacrificate agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati, e dalla fornicazione» (Atti 15:28).

Ma quei credenti Giudei ancora legati al vecchio sistema giudaico si erano infiltrati in Galazia e avevano portato i loro insegnamenti dannosi che pretendevano di aggiungere la circoncisione e l’ubbidienza alle prescrizioni della legge di Mosè alla salvezza che Dio aveva offerto loro per grazia, per mezzo della fede in Cristo. Infatti leggiamo che nella conferenza di Gerusalemme «alcuni della setta dei farisei, che erano diventati credenti, si alzarono dicendo: Bisogna circonciderli e comandar loro di osservare la legge di Mosè» (Atti 15:5).

Guidato dallo Spirito di Dio e con grande emozione, Paolo scrive una lettera ai Galati, in «grossi caratteri (*)» e di sua propria mano (6:11), per cercare di distoglierli da quell’insegnamento pericoloso e far loro comprendere con maggiore chiarezza che la giustificazione si ottiene per fede: «Quanto a noi, è in spirito, per fede, che aspettiamo la speranza della giustizia» (5:5).

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(*) Alcuni traducono: «una lunga lettera».
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Tutta la lettera è impregnata di quest’emozione. I primi otto capitoli della lettera ai Romani, invece, scritti un po’ più tardi, riprendono, in modo più organico e sereno, gli stessi pensieri approfondendoli maggiormente; in questo modo ha dato a loro e a tutte le successive generazioni di credenti, per mezzo dello Spirito, il fondamento della fede in Cristo e della giustificazione per chiunque crede.

Si potrebbe dire che nella lettera ai Galati Paolo si oppone, in quella ai Romani espone. In nessuna di queste due lettere presenta per esteso le verità relative alla Chiesa, corpo di Cristo: ne fa cenno in Romani 12 («Come in un solo corpo abbiamo molte membra e tutte le membra non hanno una medesima funzione, così noi, che siamo molti, siamo un solo corpo in Cristo») e in 1 Corinzi 12 («Poiché, come il corpo è uno e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, benché siano molte, formano un solo corpo, così è anche di Cristo»). Ma sarà l’argomento principale della lettera ai Colossesi e soprattutto di quella agli Efesini.

Poiché la Lettera ai Galati non è organica e strutturata, come quella ai Romani, è difficile fare una suddivisione schematica precisa dei soggetti trattati. Tuttavia si può osservare che:

  • i capitoli 1 e 2 presentano le circostanze di Paolo e le basi dell’autorità del suo apostolato
  • i capitoli 3 e 4 la dottrina essenziale argomento della lettera
  • i capitoli 5 e 6 gli insegnamenti pratici che ne derivano.

A. L’apostolato di Paolo

1. Capitolo 1

1.1 Introduzione

«Paolo, apostolo non da parte di uomini né per mezzo di un uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti, e tutti i fratelli che sono con me, alle chiese della Galazia; grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati, per sottrarci al presente secolo malvagio, secondo la volontà del nostro Dio e Padre, al quale sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen.» (v. 1-5)

Paolo si presenta senza preamboli con tutta l’autorità che il Signore gli ha conferita. Altrove si definirà schiavo (o servo), oppure prigioniero. Qui è «apostolo (cioè mandato)… per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre» e ciò «non da parte di uomini né per mezzo di un uomo». I suoi rivali, facendo fatica a demolire il messaggio del Vangelo che egli predicava, cercavano di denigrarlo mettendo in dubbio la sua chiamata e svalutando il suo servizio. Così Paolo, nei primi due capitoli, mette in rilievo il fondamento del suo apostolato, ricevuto direttamente dal Signore.

È vero che Saulo non aveva visto il Signore Gesù durante la Sua vita sulla terra; ma il Signore stesso, «risuscitato dai morti» (v. 1), si era direttamente rivelato a lui. Né quelli che erano vissuti col Signore, né altri, lo avevano costituito apostolo o istruito nelle verità del Vangelo. Tutto il suo ministero lega le anime a un Cristo elevato in gloria e non come essendo ancora sulla terra: «Se anche abbiamo conosciuto Cristo da un punto di vista umano, ora però non lo conosciamo più così» (2 Corinzi 5:16).

Egli predica il «Vangelo della gloria di Cristo» (2 Corinzi 4:4); «Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terrà» (Colossesi 3:1-2); «Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove aspettiamo anche il Salvatore, Gesù Cristo, il Signore» (Filippesi 3:20).

Per scrivere la lettera Paolo associa a sé «tutti i fratelli» che sono con lui (v. 2), cioè i suoi collaboratori, compagni d’opera e di combattimento. Egli non può indirizzare alcuna lode «alle chiese della Galazia», né rendere grazie a Dio per loro (come fa in altre lettere), né definirle «chiese di Dio» come in 1 Corinzi 1:2 e 2 Corinzi 1:1. Ma anche se i saluti sono un po’ freddi, Paolo invoca comunque per loro la grazia e la pace «da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo» (v. 3). Si può notare che il Padre e il Figlio sono uniti per tre volte in quest’introduzione, per mettere in rilievo la divinità del Signore Gesù, mentre la sua umanità è segnalata solo al v. 19, dove è parlato di «Giacomo, il fratello del Signore», allevato con lui nell’umile famiglia di Nazaret. La Parola ha cura di mantenere sempre chiaro davanti a noi il fatto che Egli è allo stesso tempo vero Dio e vero uomo.

Il dono di Cristo (v. 4) ha un duplice scopo: egli si è dato «per i nostri peccati»; ma anche «per sottrarci al presente secolo malvagio» : Giacomo l’aveva detto in occasione dell’incontro di Gerusalemme: «Dio all’inizio ha voluto scegliersi tra gli stranieri un popolo consacrato al suo nome» (Atti 15:14). La chiesa di Dio (ekklesia = chiamata fuori da…) è sottratta a questo secolo, è messa da parte per Dio.

Lo scopo del Vangelo non è quello di cambiare il mondo ma di salvare delle anime, una ad una. Per mezzo dell’opera della Parola e dello Spirito di Dio, quelli che credono hanno una vita nuova, e formano insieme la famiglia di Dio, il popolo di Dio, la chiesa di Dio sulla terra, come il Signore Gesù stesso spiegò a Nicodemo: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di Dio. Nicodemo gli disse: Come può un uomo nascere quando è già vecchio? Può egli entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e nascere? Gesù rispose: In verità, in verità ti dico che se uno non è nato d’acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio».

1.2 Un altro Vangelo

«Mi meraviglio che così presto voi passiate, da colui che vi ha chiamati mediante la grazia di Cristo, a un altro Vangelo. Ché poi non c’è un altro Vangelo (oppure: a un Vangelo diverso, che poi non è un altro Vangelo (*)); però ci sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo. Ma anche se noi o un angelo dal cielo vi annunziasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunziato, sia anatema. Come abbiamo già detto, lo ripeto di nuovo anche adesso: se qualcuno vi annunzia un Vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema. Vado forse cercando il favore degli uomini, o quello di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Se cercassi di piacere agli uomini, non sarei servo di Cristo.» (v. 6-10)

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(*) Infatti «heteros», il termine greco tradotto qui con la parola «altro», ha un significato diverso dal termine «allos», che è tradotto anch’esso con «altro». «Heteros» significa di un’essenza diversa, ed è usato ad esempio in Giovanni 19:18: «Lo crocifissero, assieme a due altri (heteros)». Invece il Signore usa il termine «allos» quando dice: «Pregherò il Padre, ed Egli vi darà un altro (allos) consolatore». Infatti lo Spirito Santo è di natura divina come il Figlio, proviene da lui e prenderà il suo posto sulla terra. Ma i malfattori crocifissi erano di tutt’altra natura di quella del Signore Gesù! Anche in 2 Corinzi 6:14: «Un giogo che non è per voi» è un altro (heteros) giogo, vale a dire di carattere differente, che non è per nulla adatto. Romani 7:23: «Ma vedo un’altra (heteros) legge nelle mie membra», cioè una legge in aperta opposizione a quella dello Spirito di vita (8:1-2). E ancora in 1 Corinzi 15:39, dove è scritto che «altra è la carne degli uomini, altra la carne delle bestie», è usato il termine «allos»; mentre al v. 40 altro è heteros, differente.
 Per il significato, vedere la nota seguente (**).

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Paolo dà corso al suo stupore e alla sua preoccupazione. Com’è possibile passare «così presto» dalla chiamata della grazia di Dio in Cristo a un Vangelo diverso?

Queste parole «così presto» sono piene di significato. Talvolta ci si stupisce di vedere dei giovani che hanno professato di amare il Signore e di volerlo seguire e servire, lasciarsi distogliere in poco tempo per abbracciare altre dottrine in apparenza più attraenti, più sociali, più adatte al momento, ma che nulla hanno a che vedere col puro Evangelo. Possiamo solo concludere: «Un nemico ha fatto questo» (Matteo 13:28).

No, dice Paolo, quest’altro Vangelo non è poi «un altro» (**). Ma le persone che turbavano i Galati annunciavano davvero un messaggio tanto diverso dal Vangelo di Paolo? Essi volevano soltanto aggiungervi qualcosa, si potrebbe pensare. No. I loro insegnamenti andavano contro il vero Vangelo. Tali persone, dice Paolo, «vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo» (v. 7). Egli invoca su loro un duplice anatema (v. 8 e 9). Se Dio ha dovuto dare il suo Figlio per salvarci, sopporterà forse che si consideri insufficiente l’opera della croce e che sia necessario aggiungervi qualcosa?

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(**) Paolo non vuol dire «un altro», perché non ci sono due buone notizie; però il puro e perfetto Vangelo della grazia di Cristo può essere pervertito (Henri Rossier).
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Ci rallegriamo che attualmente il vero Evangelo è annunciato diffusamente da molti credenti che sono gli strumenti nelle mani di Dio e che Egli forma a suo gradimento. Essi non usano sempre gli stessi metodi né le stesse parole poiché non si può parlare a bambini o a popolazioni culturalmente arretrate come si parla con adulti istruiti. Ma ciò che è annunciato è fondamentalmente lo stesso Vangelo della grazia presentato all’inizio dagli apostoli del Signore.

Però quante persone, forse anche ben intenzionate, hanno aggiunto pensieri propri al Vangelo di Cristo! Non si rifiuta Cristo e nemmeno il suo sacrificio, ma si pensa di dover completare la sua opera con delle opere umane, con l’osservanza di riti, o accettando delle tradizioni da affiancare alla Verità della Parola di Dio. Addirittura, purtroppo, si fanno delle aggiunte alla Parola, con la pretesa di aver ricevuto una rivelazione da un angelo o da qualcosa di simile, come è il caso di alcune sette che oggi raccolgono adepti in tutto il mondo; o ancora, si pongono delle condizioni supplementari per essere sicuri della salvezza e per ricevere lo Spirito Santo. Ma Dio dice: «Io dichiaro a chiunque ode le parole della profezia di questo libro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio aggiungerà ai suoi mali i flagelli descritti in questo libro» (Apocalisse 22:18).

Facciamo attenzione! Per comprendere chiaramente se ciò che ci è presentato oltrepassa il quadro evangelico proveniente dalla Bibbia, bisogna prima conoscerla! Si impara grazie agli insegnamenti ricevuti, ma bisogna che ognuno di noi acquisisca una convinzione personale fondata direttamente sulla Parola: «Persevera nelle cose che hai imparate e di cui hai acquistato la certezza, sapendo da chi le hai imparate, e che fin da bambino hai avuto conoscenza delle sacre Scritture, le quali possono darti la sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede in Cristo Gesù. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2 Timoteo 3:14-17).

Il v. 10 di questo primo capitolo può far pensare che qualcuno insinuasse che Paolo, opponendosi alla circoncisione, volesse compiacere agli uomini evitando loro quanto vi era di umiliante e di doloroso in questo rito. Compierlo è meritorio, dicevano i calunniatori dell’apostolo. Ma lui affermava: «Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla» (Galati 5:2).

1.3 Conversione, chiamata e formazione di Paolo

«Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunziato non è opera d’uomo; perché io stesso non l’ho ricevuto né l’ho imparato da un uomo, ma l’ho ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo. Infatti voi avete udito quale sia stata la mia condotta nel passato, quand’ero nel giudaismo; come perseguitavo a oltranza la chiesa di Dio, e la devastavo; e mi distinguevo nel giudaismo più di molti coetanei tra i miei connazionali, perché ero estremamente zelante nelle tradizioni dei miei padri. Ma Dio che m’aveva prescelto fin dal seno di mia madre e mi ha chiamato mediante la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché io lo annunziassi fra gli stranieri. Allora io non mi consigliai con nessun uomo, né salii a Gerusalemme da quelli che erano stati apostoli prima di me, ma me ne andai subito in Arabia; quindi ritornai a Damasco. Poi, dopo tre anni, salii a Gerusalemme per visitare Cefa e stetti con lui quindici giorni; e non vidi nessun altro degli apostoli; ma solo Giacomo, il fratello del Signore. Ora, riguardo a ciò che vi scrivo, ecco, vi dichiaro, davanti a Dio, che non mento. Poi andai nelle regioni della Siria e della Cilicia; ma ero sconosciuto personalmente alle chiese di Giudea, che sono in Cristo; esse sentivano soltanto dire: “Colui che una volta ci perseguitava, ora predica la fede, che nel passato cercava di distruggere”. E per causa mia glorificavano Dio.» (v. 11-24)

Quando il re Agrippa propone a Paolo di difendersi davanti all’importante uditorio che Festo aveva riunito, l’apostolo non si lancia in ragionamenti e teorie, ma ricorda come Dio aveva agito nei suoi confronti, per fermarlo nella strada della perdizione (egli si definisce il «primo dei peccatori» perché ha perseguitato la Chiesa di Dio), per trasformare la sua vita e fare di lui un servitore di Gesù Cristo (Atti 26). Paolo aveva fatto lo stesso con i Giudei quando il tribuno gli aveva permesso di rivolgersi a loro dalla gradinata della fortezza (Atti 22). Il modo migliore per comprovare il suo apostolato era ricordare ai Galati la maniera in cui Dio aveva operato verso di lui.

Il Vangelo Paolo non l’aveva ricevuto né imparato da un uomo (v. 11-12); ma, fatto singolare, gli era stato comunicato per rivelazione di Gesù Cristo: «Dio si compiacque di rivelare in me il Figlio suo» (v. 12, 16). Egli si definisce anche «servitore» del corpo di Cristo che è la Chiesa, secondo l’incarico che Dio gli aveva dato «di annunziare nella sua totalità la parola di Dio» (Colossesi 1:25). Fu così portata a termine la rivelazione che Dio ha voluto darci, e che è il Nuovo Testamento nella sua totalità. È tramite questa stessa Parola che il Signore si rivela a un’anima sia per mezzo di un contatto diretto, sia per il ministero di coloro che ha qualificato per questo scopo: «Fortificati nella grazia che è in Cristo Gesù, e le cose che hai udite da me in presenza di molti testimoni, affidale a uomini fedeli, che siano capaci di insegnarle anche ad altri» (2 Timoteo 2:1-2). Agostino, Lutero, e tanti altri sono stati toccati direttamente da un passo della Parola di Dio, potenza di vita che ha raggiunto la loro coscienza; ma non si trattava di nuove rivelazioni. Paolo invece ha ricevuto rivelazioni nuove e ce le ha trasmesse.

Paolo ricorda la sua condotta precedente (v. 13-14), e l’intervento divino in suo favore: la sua conversione sulla strada di Damasco, i tre giorni di digiuno nella cecità, le parole incoraggianti di Anania, la comunione dei fratelli di Damasco, la solitudine in Arabia, l’arrivo a Gerusalemme, l’aiuto di Barnaba per condurlo agli apostoli, i quindici giorni trascorsi con Cefa (cioè Pietro); e soprattutto la visione nel tempio dove, dopo la confessione di ciò che aveva fatto, la chiamata fu confermata: «Io dissi: Signore, essi sanno che io incarceravo e flagellavo nelle sinagoghe quelli che credevano in te; quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch’io ero presente e approvavo, e custodivo i vestiti di coloro che lo uccidevano. Ma egli mi disse: Va’ perché io ti manderò lontano, tra i popoli» (Atti 22:19-21). Parla ancora del suo ministero in Siria, in Cilicia, ad Antiochia; infine del mandato definitivo quando ad Antiochia lo Spirito disse ai profeti e ai dottori che digiunavano: «Mettetemi da parte Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati» (Atti 13:2).

In questo primo capitolo, Paolo rileva i fatti che bastavano a sottolineare come soltanto l’intervento divino lo aveva rivestito dell’autorità di apostolo, dopo averlo prescelto, fin dal seno di sua madre. Il Signore lo aveva incontrato a Damasco; a Gerusalemme andò tre anni dopo.

Quando le chiese della Giudea, che non lo conoscevano personalmente, sentivano parlare della sua conversione, non glorificavano l’uomo, ma «per causa mia glorificavano Dio» (v. 22-24).

2. Capitolo 2

2.1 A Gerusalemme

«Poi, trascorsi quattordici anni, salii di nuovo a Gerusalemme con Barnaba, prendendo con me anche Tito. Vi salii in seguito a una rivelazione, ed esposi loro il Vangelo che annunzio tra i pagani, ma lo esposi privatamente a quelli che sono i più stimati, per il timore di correre o di aver corso invano. Ma neppure Tito, che era con me, ed era greco, fu costretto a farsi circoncidere. Anzi, proprio a causa di intrusi, falsi fratelli, infiltratisi di nascosto tra di noi per spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, con l’intenzione di renderci schiavi, noi non abbiamo ceduto alle imposizioni di costoro neppure per un momento, affinché la verità del Vangelo rimanesse salda tra di voi. Ma quelli che godono di particolare stima (quello che possono essere stati, a me non importa; Dio non ha riguardi personali), quelli, dico, che godono di maggiore stima non m’imposero nulla; anzi, quando videro che a me era stato affidato il Vangelo per gli incirconcisi, come a Pietro per i circoncisi (perché colui che aveva operato in Pietro per farlo apostolo dei circoncisi aveva anche operato in me per farmi apostolo degli stranieri), riconoscendo la grazia che mi era stata accordata, Giacomo, Cefa e Giovanni, che sono reputati colonne, diedero a me e a Barnaba la mano in segno di comunione perché andassimo noi agli stranieri, ed essi ai circoncisi; soltanto ci raccomandarono di ricordarci dei poveri, come ho sempre cercato di fare» (v. 1 a 10).

Sono trascorsi quattordici anni. Paolo è già passato due volte a Gerusalemme come rileviamo dal libro degli Atti dove è scritto: «Quando fu giunto a Gerusalemme, tentava di unirsi ai discepoli» (*); e poi: «I discepoli decisero allora di inviare una sovvenzione… ai fratelli che abitavano in Giudea. E così fecero, inviandola agli anziani, per mezzo di Barnaba e Saulo… Barnaba e Saulo, compiuta la loro missione, tornarono da Gerusalemme» (Atti 9:26; 11:30; 12:25); ora, vi sale per così dire, in via ufficiale.

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(*) Sembra che Atti 9:26-30 corrisponde a Galati 1:18-19 (Nota di BibbiaWeb).
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Questo contatto con la prima assemblea cristiana e con gli stessi apostoli è stato sufficiente per fare di lui un apostolo? No, egli dice: «Colui che aveva operato in Pietro per farlo apostolo dei circoncisi, aveva anche operato in me per farmi apostolo degli stranieri… riconoscendo la grazia che mi era stata accordata, Giacomo, Cefa e Giovanni, che sono reputati colonne, diedero a me e a Barnaba la mano in segno di comunione» (v. 8-9). Dunque è Dio che ha operato in Paolo per fare di lui un apostolo; coloro che erano considerati colonne, dei quali due erano stati scelti dal Signore stesso, non fanno altro che riconoscere la grazia che gli è stata accordata. Ma non sono loro a costituirlo apostolo.

In Atti 15:2 è detto che dai fratelli di Antiochia «fu deciso che Paolo, Barnaba… salissero a Gerusalemme dagli apostoli». Al v. 2 di questo cap. 2, Paolo vi sale «in seguito a una rivelazione»: Non vi è contraddizione fra i due testi. Il Signore può senz’altro guidare i fratelli in relazione alla condotta da tenere e incoraggiare al tempo stesso il suo servitore dandogli la convinzione interiore di aver intrapreso la strada che Egli desidera.

Dei credenti semplici, dispersi dalla persecuzione che seguì alla lapidazione di Stefano, erano giunti ad Antiochia ed annunciavano ai Greci il Signore Gesù; e molti avevano creduto al Signore. Barnaba, allora, è mandato dall’assemblea di Gerusalemme; giunge ad Antiochia, esorta e insegna. Poi si aggiunge Paolo, ed «essi parteciparono per un anno intero alle riunioni della chiesa, e istruirono un gran numero di persone»: Fu così che Antiochia divenne la prima grande chiesa delle nazioni (Atti 11:19-26).

Dopo il primo viaggio di Paolo e il suo ritorno ad Antiochia, «alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli, dicendo: Se voi non siete circoncisi secondo il rito di Mosè, non potete essere salvati» (Atti 15:1). Paolo e Barnaba insorgono contro un tale errore che aggiungeva la legge e l’osservanza dei comandamenti all’opera di Cristo sulla croce. E poiché non si era giunti ad alcun accordo, ma piuttosto a una grande disputa, i due servitori salgono a Gerusalemme «dagli apostoli e anziani per trattare la questione»: Durante il viaggio e al momento del loro arrivo a Gerusalemme, essi non sollevano il problema, ma raccontano «la conversione degli stranieri suscitando grande gioia in tutti i fratelli». Ma a Gerusalemme, alcuni della setta dei Farisei, che pure avevano creduto al Signore, si alzano affermando che bisognava circoncidere gli stranieri e imporre loro di osservare la legge di Mosè (Atti 15:5).

Il Signore non aveva permesso che questa questione fosse risolta ad Antiochia in maniera indipendente. Bisognava che gli apostoli e gli anziani si riunissero a Gerusalemme per esaminare il problema; così si sarebbe preservata l’unità della Chiesa (v. 6).

Arrivando a Gerusalemme, Paolo non espone a tutti il Vangelo che predicava ai pagani; ma, in questo caso, soltanto a coloro che erano i più stimati (Galati 2:2). Egli evita così delle inutili contestazioni. E quando gli apostoli e gli anziani si riuniscono, Paolo e Barnaba raccontano di nuovo «quali segni e prodigi Dio aveva fatti per mezzo di loro tra i pagani» (Atti 15:12). Essi lasciano che siano Pietro e Giacomo ad esporre la dottrina e rispondere agli oppositori.

Per Paolo, l’importante era di non cedere ai falsi fratelli che si erano introdotti furtivamente, egli dice, «per spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, con l’intenzione di renderci schiavi»: Non era con loro che voleva e doveva discutere su ciò che concerneva la sua predicazione; egli non doveva sottomettersi a loro per giungere alla pace. L’essenziale era che «la verità del Vangelo rimanesse salda» tra di loro (v. 5).

«Se in qualche cosa voi pensate altrimenti», scrive ai Filippesi, se si ha un punto di vista diverso da quello di altri fratelli, bisogna aspettare che Dio riveli il suo pensiero (Filippesi 3:15), continuando a camminare «per la stessa via». Ma quando si ledono le verità fondamentali del Vangelo o quelle che riguardano la Persona di Cristo, bisogna esporre chiaramente i principi essenziali della Parola e non certo sottomettersi, come vediamo nei v. 2 e 5 di questo capitolo e anche in 2 Giovanni 9 e 10: «Chi va oltre e non rimane nella dottrina di Cristo, non ha Dio. Chi rimane nella dottrina, ha il Padre e il Figlio. Se qualcuno viene a voi e non reca questa dottrina, non ricevetelo in casa e non salutatelo».

Paolo aveva preso con sé Tito, un Greco (v. 3), forse per mettere alla prova i fratelli di Gerusalemme che avevano ben compreso la grazia. Lo costringeranno a farsi circoncidere? Fortunatamente ciò non accadde, nonostante il desiderio degli oppositori.

Paolo e Barnaba ricevono la mano in segno di comunione da parte di Giacomo, Cefa e Giovanni per occuparsi degli stranieri; i tre apostoli si sarebbero occupati dei circoncisi. Non avrebbero certo predicato un Vangelo diverso ma un solo Vangelo, anche se il campo di lavoro di Paolo e Barnaba sarebbe stato diverso da quello degli apostoli di Gerusalemme.

Paolo ha fatto anche una grande raccolta di denaro fra i credenti delle nazioni, e aveva esortato pure i Galati a parteciparvi: «Quanto poi alla colletta per i santi, come ho ordinato alle chiese di Galazia…» (1 Corinzi 16:1). Così facendo aveva tenuto fede all’impegno che si era preso di ricordarsi dei poveri, secondo l’esortazione ricevuta (v. 10).

2.2 Ad Antiocha

«Ma quando Cefa venne ad Antiocha, gli resistei in faccia perché era da condannare. Infatti, prima che fossero venuti alcuni da parte di Giacomo, egli mangiava con persone non giudaiche; ma quando quelli furono arrivati, cominciò a ritirarsi e a separarsi per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei si misero a simulare con lui; a tal punto che perfino Barnaba fu trascinato dalla loro ipocrisia. Ma quando vidi che non camminavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: “Se tu che sei giudeo, vivi alla maniera degli stranieri e non dei Giudei, come mai costringi gli stranieri a vivere come i Giudei?” Noi Giudei di nascita, non stranieri peccatori, sappiamo che l’uomo non è giustificato per le opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Cristo Gesù, e abbiamo anche noi creduto in Cristo Gesù per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; perché dalle opere della legge nessuno sarà giustificato. Ma se nel cercare di essere giustificati in Cristo, siamo anche noi trovati peccatori, vuol dire che Cristo è un servitore del peccato? No di certo! Infatti se riedifico quello che ho demolito, mi dimostro trasgressore.» (v. 11-18).

A Ioppe, nella casa di Simone, il conciatore, Pietro ebbe la visione della grande tovaglia che «veniva calata a terra» nella quale c’era ogni genere di quadrupedi, di rettili e di uccelli, puri e impuri (Atti 10). Egli non ne voleva mangiare perché non aveva mai toccato niente d’impuro (Levitico 11); ma per tre volte gli venne ripetuto: «Le cose che Dio ha purificate, non farle tu impure» (Atti 10:15). Il Signore gli insegnava così che «nessun uomo dev’essere ritenuto impuro o contaminato» (Atti 10:28). Allora, senza esitare, egli si era diretto a casa di Cornelio, centurione romano, aveva annunciato il Vangelo in casa sua, ai suoi amici, e aveva mangiato con loro. Al suo ritorno a Gerusalemme, i credenti circoncisi lo disapprovavano dicendo: «Tu sei entrato in casa di uomini non circoncisi, e hai mangiato con loro!». Ma Pietro espose loro i fatti e quelli di Gerusalemme conclusero così: «Dio dunque ha concesso il ravvedimento anche agli stranieri affinché abbiano la vita» (Atti 11:18). Pietro ricorda quest’esperienza in occasione dell’incontro di Gerusalemme (Atti 15:7). Egli era quindi in pieno accordo con il pensiero di Dio quando, come leggiamo nel nostro capitolo, «mangiava con persone non giudaiche» (Galati 2:12).

Tuttavia, quando arrivarono «alcuni da parte di Giacomo» egli si ritirò e si separò dai fratelli non Ebrei per timore dei circoncisi. Il suo esempio fu seguito da Barnaba e da altri discepoli giudei. Si era comportato così per paura. Notiamo incidentalmente che in Romani 14 Paolo esorta i credenti che avevano compreso di essere liberi dall’osservanza delle prescrizioni della legge di Mosè a non «disprezzare» i loro fratelli che le osservano, i quali, a loro volta, non dovevano «giudicare» i fratelli che non le osservano. Ciononostante, per amore, talvolta si dovrà rinunciare a questa «libertà» per non essere un’occasione di caduta per i propri fratelli. In questo caso Cefa non agiva per amore, ma per timore.

L’atteggiamento di Pietro e dei suoi fratelli era grave: «non camminavano rettamente secondo la -verità del Vangelo». La loro ipocrisia rivelava una distinzione fra credenti giudei e credenti delle nazioni, e portava alla divisione. I fratelli delle nazioni che volevano seguirli sarebbero stati «costretti» a vivere come i Giudei (v. 14).

Paolo non biasima Pietro a sua insaputa; egli ritiene necessario resistergli in faccia (v. 11), perché un esempio che veniva da così in alto avrebbe avuto delle conseguenze importanti per tutta la Chiesa. Paolo ricorda che i Giudei non sono giustificati «per le opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Cristo Gesù», allo stesso modo delle nazioni. Pietro stesso lo aveva ribadito a Gerusalemme: «Noi crediamo che siamo salvati mediante la grazia del Signore Gesù allo stesso modo di loro» (Atti 15:11). Rinunciando alla libertà di comunione con quelli delle altre nazioni, che gli era data dalla giustificazione sul principio della fede, Pietro riedificava le barriere che egli stesso aveva demolite (v. 18). Col suo comportamento si costituiva «trasgressore».

Noi crediamo di «essere giustificati in Cristo» dice Paolo (v. 17); se ciò non è sufficiente e noi siamo ancora «trovati peccatori», Cristo sarebbe dunque servitore del peccato! L’opera di Cristo sarebbe dunque insufficiente? Bisogna aggiungervi le opere delle legge? Era il pensiero dei giudaizzanti e Cefa con la sua condotta favoriva quell’idea. I credenti giudei non erano sottomessi alla legge più di quanto non lo fossero i credenti delle nazioni, come si legge chiaramente in Efesini 2:14-16: «Lui, infatti, è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo terreno la causa dell’inimicizia, la legge fatta di comandamenti in forma di precetti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace; e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia.»

2.3 L’essenza del Vangelo

«Quanto a me, per mezzo della legge, sono morto alla legge affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato sé stesso per me. Io non annullo la grazia di Dio; perché se la giustizia si ottenesse per mezzo della legge, Cristo sarebbe dunque morto inutilmente.» (v. 19-21)

Il colloquio con Pietro sembra terminare al v. 18. Paolo coglie l’occasione per illustrare la sostanza della sua predicazione.

«Per mezzo della legge, sono morto» (v. 19). Il concetto sarà poi sviluppato in Romani 7:7-11: «Venuto il comandamento, il peccato prese vita e io morii». La legge, tutta la legge, porta alla morte perché nessuno può osservarla integralmente. Paolo ne dà l’esempio in Romani 7:7: «Non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non concupire». Che cos’è la concupiscenza? È desiderare ardentemente ciò che Dio non ha dato, ciò che la legge proibisce. La legge dice: «Non rubare». Rubare è peccato. Ma se desidero rubare un oggetto, trattenendomi comunque dal farlo, ho già commesso un peccato perché ho desiderato ciò che non mi appartiene.

Così «il comandamento che avrebbe dovuto darmi vita, risultò che mi condannava a morte» (Romani 7:10). Se io osservassi sempre tutti i dieci comandamenti, avrei la vita; ma nessuno li può osservare, soprattutto il decimo: «Non concupire». Perciò il comandamento risulta che mi condanna a morte.

Ma Paolo aggiunge: «Sono morto alla legge» (v. 19). La legge non può condannare un morto. Se in un incidente d’auto restano uccise delle persone e anche il colpevole muore, egli non potrà essere condannato perché è morto; lo sarebbe se fosse rimasto in vita.

In Romani 7:1-6 l’apostolo Paolo svilupperà questo pensiero, sottolineando che i credenti sono «stati messi a morte quanto alla legge mediante il corpo di Cristo, per appartenere a un altro, cioè a colui che è risuscitato dai morti» (Romani 7:4). Questo è il significato del nostro testo, «… affinché io viva per Dio» (v. 19).

Com’è possibile che io sia «morto alla legge»? Non sono stato io a subire la morte, è Cristo che è morto al mio posto, ma io sono associato alla sua morte: «Siamo dunque stati sepolti con lui mediante il battesimo nella sua morte… siamo stati totalmente uniti a lui in una morte simile alla sua… il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con lui… Il suo morire fu un morire al peccato, una volta per sempre… Così anche voi fate conto di essere morti al peccato» (Romani 6:4-11). In una parola: «Sono stato crocifisso con Cristo» (Galati 2:20).

Questa morte conduce alla vita: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me!». Ecco la nostra posizione di veri cristiani: una vita nuova, la vita di Cristo in noi, che siamo identificati con lui nella sua risurrezione (Romani 6:5; Colossesi 1:27; 3:1). Ciò comporta la morte di noi stessi («non sono più io che vivo»), l’accettazione della croce: «Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Matteo 16:24).

Questa posizione cristiana si manifesta nella vita di tutti i giorni. La mia esistenza «ora nella carne» (cioè nel mio corpo), la vivo ogni giorno non più sotto la legge, ma «nella fede nel Figlio di Dio». Non si tratta solo della fede iniziale che giustifica, ma di quella fede vissuta e realizzata nella pratica, di un legame vivente col Signore, con la fiducia nel suo amore («… il quale mi ha amato e ha dato sé stesso per me»). Non una vita nel timore, come sotto la legge, ma nella riconoscenza e nel godimento di un amore che si impara a conoscere sempre meglio. Imporre ai credenti l’osservanza della legge equivaleva a dire che Cristo era «morto inutilmente» (v. 21).

B. La dottrina della legge

3. Capitolo 3

3.1 L’esperienza personale dei Galati

«O Galati insensati, chi vi ha ammaliati, voi, davanti ai cui occhi Gesù Cristo è stato rappresentato crocifisso? Questo soltanto desidero sapere da voi: avete ricevuto lo Spirito per mezzo delle opere della legge o mediante la predicazione della fede? Siete così insensati? Dopo aver cominciato con lo Spirito, volete ora raggiungere la perfezione con la carne? Avete sofferto tante cose invano? Se pure è proprio invano. Colui dunque che vi somministra lo Spirito e opera miracoli tra di voi, lo fa per mezzo delle opere della legge o con la predicazione della fede?» (v. 1-5)

I Galati sono «insensati… ammaliati», dice Paolo. Davanti ai loro occhi Gesù Cristo era stato rappresentato crocifisso (confr. 1 Corinzi 2:2). Il valore della sua opera, l’amore che essa dimostrava, erano stati messi in evidenza. Essi avevano accettato il Signore come Salvatore e ricevuto lo Spirito «mediante la predicazione della fede». Potevano essere ora così insensati da voler aggiungere alla fede in Cristo le opere della legge, per essere salvati? (v. 2).

«La predicazione (o l’udire) della fede» ci ricorda Romani 10:17: «Così la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo». Difatti, «ascoltare (o udire)» vuol dire essere raggiunti da un messaggio, in questo caso il messaggio del Vangelo che la fede riceve. Notiamo che in questo capitolo Paolo utilizza la parola «fede» per ben quattordici volte. I Galati che avevano cominciato con lo Spirito potevano forse raggiungere la perfezione con la carne? (v. 3). In contrasto l’apostolo scrive ai Filippesi: «Ho questa fiducia; che colui che ha cominciato in voi un’opera buona, la condurrà a compimento» (1:6).

Purtroppo l’esempio dei Galati è stato molto seguito. Paolo non vuole mettere in dubbio che i Galati, avendo creduto, avessero ricevuto lo Spirito; essi avevano sofferto per il Signore (v. 4). Dio aveva dato loro il suo Spirito, avendo operato potentemente in mezzo a loro. L’aveva fatto «per mezzo delle opere della legge o con la predicazione della fede?» (v. 5). Chi, dunque li aveva «ammaliati»? Era certamente un’opera del nemico e non di Dio.

3.2 «Sul principio della fede»

«Così anche Abraamo credette a Dio e ciò gli fu messo in conto come giustizia. Riconoscete dunque che quanti hanno fede sono figli d’Abraamo. La Scrittura, prevedendo che Dio avrebbe giustificato gli stranieri per fede, preannunziò ad Abraamo questa buona notizia: “In te saranno benedette tutte le nazioni”. In tal modo, coloro che hanno la fede sono benedetti con il credente Abraamo.» (v. 6-9)

In una notte stellata, Abraamo era uscito dalla sua tenda e aveva udito la voce divina: «Guarda il cielo e conta le stelle se le puoi contare… Tale sarà la tua discendenza». Come faceva il patriarca a ritenere possibile che la sua discendenza sarebbe stata numerosa come le stelle del cielo, conscio com’era del fatto che lui e sua moglie erano troppo vecchi per avere ancora un bambino? Soltanto per fede: «Egli credette al Signore, che gli contò questo come giustizia» (Genesi 15:5-6).

Senza dubbio Abraamo aveva risposto alla chiamata di Dio quando aveva lasciato il suo paese e la sua parentela. Era vissuto in Canaan, era risalito dall’Egitto, aveva costruito degli altari, ma non era «giustificato» per questo. Il momento decisivo è arrivato quando, confrontato con la promessa divina della vita, egli non tenne conto «che il suo corpo era svigorito… davanti alla promessa di Dio non vacillò per incredulità, ma fu fortificato nella sua fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli ha promesso, è anche in grado di compierlo» (Romani 4:19-21). In questo capitolo della lettera ai Romani, in particolare nei v. 4 e 5, Paolo illustra in che modo il patriarca fu giustificato: «Ora a chi opera, il salario non è messo in conto come grazia, ma come debito; mentre a chi non opera, ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede è messa in conto come giustizia».

Soltanto coloro che hanno fede sono, in senso spirituale, «figli d’Abraamo». I Giudei dichiaravano al Signore Gesù: «Noi siamo discendenti d’Abraamo» (Giovanni 8:33); ma se fossero stati veramente suoi «figli», avrebbero fatto le opere del loro Padre e avrebbero ricevuto per fede Gesù come il Cristo.

Abraamo è stato giustificato sul principio delle fede. Lo stesso si può dire degli stranieri (i non Ebrei, i pagani, v. 8), come Dio aveva annunciato in anticipo al patriarca: «In te saranno benedette tutte le nazioni». Notiamo che fu Dio stesso a fare questa promessa; nel nostro testo essa è attribuita alla «Scrittura»; e ciò conferma che la Scrittura è veramente Parola di Dio.

Perciò coloro che hanno la fede nel Signore sono benedetti con il credente Abraamo (v. 9). La benedizione promessa al padre dei credenti non viene sui suoi discendenti carnali (i Giudei e gli osservanti della legge), ma su coloro che, come lui, sono giustificati sul principio della fede. È vero che la fede di Abraamo si fondava sulla promessa relativa alla sua discendenza, mentre la fede cristiana riposa sulla Persona e sull’opera di Cristo; ma l’importante nello sviluppo della lettera ai Galati è la fede in sé, «il principio della fede».

3.3 «Sul principio delle opere»

«Infatti tutti quelli che si basano sulle opere della legge sono sotto maledizione; perché è scritto: “Maledetto chiunque non si attiene a tutte le cose scritte nel libro della legge per metterle in pratica”. E che nessuno mediante la legge sia giustificato davanti a Dio è evidente, perché il giusto vivrà per fede. Ma la legge non si basa sulla fede; anzi essa dice: “Chi avrà messo in pratica queste cose, vivrà per mezzo di esse”» (v. 10-12)

Che contrasto coi versetti precedenti! Sul principio delle opere non troviamo che maledizione. Per avere la vita ci si sarebbe dovuti attenere «a tutte le cose scritte nel libro della legge per metterle in pratica» (v. 10). Ma nessuno ha potuto farlo; perciò, «nessuno mediante la legge» è giustificato davanti a Dio (v. 11). Come leggiamo anche in Giacomo 2:10: «Chiunque infatti osserva tutta la legge, ma la trasgredisce in un punto solo, si rende colpevole su tutti i punti».

Ognuno deve riconoscere la propria incapacità, la colpa per la trasgressione e la maledizione che ne deriva. Il Signore aveva detto per mezzo del profeta Abacuc (2:4): «Il giusto per la sua fede vivrà». Paolo lo sottolinea ai Romani: «Il giusto per fede vivrà» (1:17). E la lettera agli Ebrei ne esprime tutto il valore nel cammino, ripetendo: «Il mio giusto vivrà per fede» (10:38). La legge richiede di compiere delle opere (v. 12) e maledice i trasgressori; la fede accoglie con riconoscenza la grazia immeritata che Gesù Cristo stesso è venuto a portarci insieme alla verità.

3.4 Cristo ci ha riscattati

«Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo divenuto maledizione per noi (poiché sta scritto: Maledetto chiunque è appeso al legno), affinché la benedizione di Abraamo venisse sugli stranieri in Cristo Gesù, e ricevessimo, per mezzo della fede, lo Spirito promesso.» (v. 13-14)

Come sfuggire alla maledizione della legge, che si sia Giudei o no? Forse rimediando agli atti contrari alla legge, agli errori, alle trasgressioni con delle opere meritorie? Questo è l’insegnamento di molte false religioni, che trovava già nel passato, e trova tutt’ora, accoglienza in una parte del cristianesimo. Ciò è impossibile, precisa Paolo in Romani 2 e 3, poiché «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (3:23). Ma, meraviglia della grazia di Dio, «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo divenuto maledizione per noi» (Galati 3:13). Come leggiamo in 2 Corinzi 5:21: «Colui che non ha conosciuto peccato, egli (Dio) lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui».

Il castigo che ci dà la pace è stato sul Signore: Dio «ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti» (Isaia 53:5-6). Egli ha portato i nostri peccati nel suo corpo sul legno, e la giustizia di Dio è stata pienamente manifestata: Dio è stato giusto verso il suo Figlio e ha giustificato «colui che ha fede in Gesù» (Romani 3:26). Così la benedizione di Abraamo viene «sugli stranieri in Cristo Gesù», e noi riceviamo «per mezzo della fede, lo Spirito promesso» (Galati 3:12).

3.5 La promessa e l’eredità

«Fratelli, io parlo secondo le usanze degli uomini: quando un testamento è stato validamente concluso, pur essendo soltanto un atto umano, nessuno lo annulla o vi aggiunge qualcosa. Le promesse furono fatte ad Abraamo e alla sua progenie. Non dice: “E alle progenie”; come se si trattasse di molte; ma, come parlando di una sola, dice: “E alla tua progenie”; che è Cristo. Ecco quello che voglio dire: un testamento che Dio ha stabilito anteriormente, non può essere annullato, in modo da render vana la promessa, dalla legge sopraggiunta quattrocentanni più tardi. Perché se l’eredità viene dalla legge, essa non viene più dalla promessa, Dio, invece, concesse questa grazia ad Abraamo, mediante la promessa.» (v. 15-18)

Dio aveva fatto ad Abraamo delle promesse (v. 16). Esse andavano al di là della sua persona; erano fatte «alla tua progenie, che è Cristo». In una promessa l’obbligo riguarda una sola parte, quella di chi promette. Per trarne vantaggio non è necessario impegnarsi ad appropriarsene, a fornire qualcosa in compenso; è sufficiente accettare ciò che viene offerto.

La legge, sopraggiunta molto tempo dopo, non annullava la promessa (v. 17); essa si compirà in Cristo. Essa traccia come un grande arco che parte dall’epoca di Abraamo per raggiungere quella di Cristo e del suo sacrificio, di cui il sacrificio di Isacco, anche se poi non è avvenuto, era una pallida figura. La legge non invalidava la promessa, ma aveva un altro scopo, come vedremo nel seguito del testo.

Paolo usa ancora un altro termine per sottolineare la gratuità del dono di Dio: «L’eredità». Un’eredità non si acquista né si merita. Per beneficiarne, basta essere figli e accettarla. Anche l’eredità non si basa sul principio della legge; essa è un dono che corrisponde alla promessa fatta ad Abraamo (v. 18).

3.6 Perché dunque la legge?

«Perché dunque la legge? Essa fu aggiunta a causa delle trasgressioni, finché venisse la progenie alla quale era stata fatta la promessa; e fu promulgata per mezzo di angeli, per mano di un mediatore. Ora, un mediatore non è mediatore di uno solo; Dio invece è uno solo. La legge è dunque contraria alle promesse di Dio? No di certo; perché se fosse stata data una legge capace di produrre la vita, allora sì, la giustizia sarebbe venuta dalla legge; ma la Scrittura ha rinchiuso ogni cosa sotto peccato, affinché i beni promessi sulla base della fede in Gesù Cristo fossero dati ai credenti. Ma prima che venisse la fede eravamo tenuti rinchiusi sotto la custodia della legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la legge è stata come un precettore per condurci a Cristo, affinché noi fossimo giustificati per fede.» (Cap. 3, v. 19-24)

Se né la promessa, né l’eredità richiedevano delle opere meritorie per essere concesse, perché Dio ha aggiunto la legge? Perché non concedere subito il dono della promessa e dell’eredità?

Bisognava che il peccato dell’uomo fosse messo in evidenza in seguito alle «trasgressioni» (v. 19). Trasgredire un divieto significa oltrepassare il limite fissato. La legge è stata «aggiunta» (non «data», com’è invece per i beni promessi del v. 22) con lo scopo di mettere in luce il peccato. Essa doveva durare finché fosse venuta «la progenie alla quale era stata fatta la promessa».

È un nuovo arco di tempo che parte da Mosè e finisce alla «progenie» che è Cristo. «Fino alla legge, il peccato era nel mondo, ma il peccato non è imputato quando non c’è legge». Da Adamo fino a Mosè non c’era «trasgressione» in quanto non c’era divieto. Eppure la morte regnava, perché tutti peccavano, anche se i loro peccati non erano messi in evidenza come lo furono dopo la venuta della legge (Romani 5:12-14).

La legge era stata «promulgata per mezzo di angeli». Mosè fu il «mediatore» (v. 19) fra Dio e il popolo. Tutti e due s’impegnavano, Dio e Israele: «Tutto il popolo rispose concordemente e disse: Noi faremo tutto quello che il Signore ha detto» (Esodo 19:8). Nella promessa, invece, Dio è solo (v. 20); la benedizione dipende solo da lui.

Se la legge fosse stata in grado di produrre la vita, la giustizia si baserebbe sul principio della legge (v. 21). Ma «la Scrittura ha rinchiuso ogni cosa sotto peccato, affinché i beni promessi, sulla base della fede in Gesù Cristo, fossero dati ai credenti» (v. 22). Romani 11:32 riprenderà la stessa espressione: «Dio infatti ha rinchiuso tutti (Giudei e nazioni) nella disubbidienza per far misericordia a tutti».

Prima del periodo della fede, i Giudei erano custoditi sotto la legge, in attesa che la fede fosse rivelata (v. 23). Questo non significa che i santi dell’Antico Testamento non fossero salvati; lo erano per la loro fede, secondo la rivelazione che possedevano. Dio ha usato «tolleranza (o pazienza) verso i peccati commessi in passato» (Romani 3:25) perché aveva in vista l’opera di Cristo. Ma il periodo della piena rivelazione della grazia che si ottiene per fede non era ancora giunto: «La legge è stata come un precettore per condurci a Cristo». Come un educatore, la legge metteva in luce le disubbidienze e il castigo che ne era la conseguenza; l’uomo doveva così essere preparato a ricevere il perdono che Dio avrebbe accordato in grazia, e la giustificazione «per fede» (v. 24).

È quello che fanno i genitori cristiani: non passano sopra gli errori dei loro bambini ma sanno riprenderli e, se occorre, correggerli. I bambini imparano ad essere coscienti dei propri errori e a chiedere perdono. Così i genitori diventano per loro dei «precettori» che li conducono a Cristo. Essi preparano i loro figli a riconoscere la loro colpevolezza verso Dio, a pentirsene, e a trovare il perdono credendo al Signore Gesù.

3.7 «La fede è venuta… siete tutti figli di Dio»

«Ma ora che la fede è venuta, non siamo più sotto precettore; perché siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù. Infatti voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù. Se siete di Cristo siete dunque discendenza d’Abraamo, eredi secondo la promessa.» (v. 25-29)

Ora, nel periodo della fede e della grazia, non siamo più sotto precettore. Si è stabilita una nuova relazione: «Siete tutti figli di Dio… Vi siete rivestiti di Cristo… Voi tutti siete uno in Cristo Gesù… Se siete di Cristo siete dunque discendenza d’Abraamo, eredi secondo [la] promessa» (v. 26-29).

Non c’è più differenza di etnia: né Giudeo né Greco; né di condizione sociale: né schiavo né libero; né di sesso: né maschio né femmina (v. 28). In Cristo Gesù voi tutti siete uno. È la famiglia di Dio, l’unità spirituale di tutti coloro che sono figli di Dio per la fede (Giovanni 1:12), di tutti coloro che sono «di Cristo».

Non si tratta di dover diventare figli. Chi crede lo è, in Cristo, per mezzo della sua opera alla croce, a causa della grazia immeritata di Dio, della sua giustizia verso il suo proprio Figlio. È mediante la fede che noi riceviamo questo dono meraviglioso di Dio.

«Siete dunque discendenza d’Abraamo» (v. 29); (da non confondere con la discendenza del v. 19, che è Cristo); siete della stirpe della fede, siete spiritualmente discendenti d’Abraamo, «eredi secondo [la] promessa».

4. Capitolo 4

4.1 Servo e figlio — L’adozione

«Io dico: finché l’erede è minorenne, non differisce in nulla dal servo, benché sia padrone di tutto; ma è sotto tutori e amministratori fino al tempo prestabilito dal padre. Così anche noi, quando eravamo bambini, eravamo tenuti in schiavitù dagli elementi del mondo; ma quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge, affinché noi ricevessimo l’adozione. E, perché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, che grida: “Abbà, Padre”: Così tu non sei più servo, ma figlio; e se sei figlio, sei anche erede per grazia di Dio.» (v. 1-7)

Al capitolo 3 v. 5, Paolo aveva fatto l’esempio del testamento per confermare la validità della promessa. In questo versetto egli utilizza un altro esempio giuridico: quello dell’erede minorenne (si suppone che il padre sia deceduto). Egli è «padrone di tutto», cioè proprietario, ma di fatto «non differisce in nulla dal servo», poiché non può ancora disporre dell’eredità che il padre gli ha lasciato; non può goderne perché è minorenne. Tutto è in mano ai tutori «fino al tempo prestabilito dal padre».

Così erano i Giudei al tempo della legge; non liberi, ma «tenuti in schiavitù dagli elementi del mondo» (v. 3). Che cos’erano questi «elementi del mondo»? Erano gli insegnamenti relativi a cose esteriori: il tabernacolo era un «santuario terreno» (Ebrei 9:1); la legge era solo «un’ombra dei beni futuri» (Ebrei 10:1); tutto ciò che aveva a che fare col culto giudaico e i riti relativi poteva essere visto, toccato; erano cose materiali. Poi si aggiungevano altri elementi del mondo di cui è parlato in Colossesi 2:20-21, i «precetti quali: Non toccare, non assaggiare, non maneggiare (tutte cose destinate a scomparire con l’uso) secondo i comandamenti e le dottrine degli uomini…».

Molti cristiani, benché salvati per mezzo della fede in Gesù Cristo, si trovano in uno stato simile. Essi cercano di osservare delle disposizioni, dei comandamenti, dei riti, per conquistarsi il favore di Dio; si attaccano a cerimonie, a oggetti esteriori. Non sono liberi dal legalismo e cercano di piacere a Dio per mezzo dei propri sforzi, compiendo dei doveri. Le «cose che si vedono» conservano ancora per loro una grande importanza. Ma le benedizioni cristiane appartengono alla sfera dell’invisibile, sono oggetto di fede: «Abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; poiché le cose che si vedono sono per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne» (2 Corinzi 4:18). Pietro dice, a proposito di Cristo: «Benché non l’abbiate visto, voi lo amate» (1 Pietro 1:8). Anche le nazioni (vale a dire i non Ebrei) erano tenute in «schiavitù», ma non dalla legge di Mosè bensì da «quelli che per natura non sono dèi» (v. 8), cioè dagl’idoli.

Tutto è cambiato «quando giunse la pienezza del tempo» (v. 4; Luca 2:6). La promessa doveva compiersi; il tempo della legge terminare. Allora «Dio mandò suo Figlio» (v. 4). Egli non ha agito tramite angeli, come quando ha promulgato la legge (Atti 7:53), ma è venuto Egli stesso nella persona del Figlio, vero Dio e vero uomo, «nato da donna, nato sotto [la] legge». Sicuramente, «grande è il mistero della pietà: Colui che è stato manifestato in carne…» (1 Timoteo 3:16). Egli è «nato sotto [la] legge» e l’ha compiuta perfettamente. Solo Lui poteva riscattare coloro che erano sotto la legge, pagare i loro debiti, liberarli dalla potenza del nemico che li teneva in schiavitù. Ma non si è limitato a salvarli, liberarli, riscattarli; ha fatto di loro dei figli ed essi hanno ricevuto «l’adozione»; ora sono adulti.

E allora, «perché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori». Paolo dice «noi» per designare in modo particolare i Giudei; e dice «voi» indirizzandosi ai Galati provenienti soprattutto dalle nazioni. Poi si rivolge a ogni credente individualmente nelle parole che formano la parte centrale di questa lettera: «Tu non sei più servo, ma figlio».

Nei nostri cuori lo Spirito grida: «Abbà, Padre» (v. 6). Chi, prima d’ora, avrebbe potuto pronunciare queste parole se non Gesù? (Marco 14:36). Ma ora, avendo ricevuto lo Spirito di adozione, tutti i credenti possono esclamare: «Abbà, Padre!» (Romani 8:15). Tu non sei più servo, non sei più schiavo della legge, dei comandamenti e delle prescrizioni; ma hai con Dio la stessa relazione che ha un figlio con suo padre, che ha un «erede» per grazia di Dio (v. 7). Ripetiamo che non si tratta di cercare di diventare figli; la grazia infinita di Dio ci dà la sicurezza che lo siamo: «Perché siete figli… Così tu sei figlio, e se sei figlio sei anche erede».

Conoscere il Padre non è prerogativa dei credenti molto avanzati, ma è la gioia dei «ragazzi», come scrive l’apostolo Giovanni: «Ragazzi, vi ho scritto perché avete conosciuto il Padre» (1 Giovanni 2:14). Nelle relazioni con Dio, tutto cambia quando afferriamo per fede la posizione che il Signore Gesù ci ha dato: «Io ho fatto loro conoscere il tuo nome (quello di Padre), e lo farò conoscere, affinché l’amore di cui mi hai amato sia in loro» (Giovanni 17:26). C’è qualcosa di più grande dell’amore col quale il Padre ha amato il Figlio? Egli lo ha amato:

  • prima della fondazione del mondo: «Padre… mi hai amato prima della fondazione del mondo» (Giovanni 17:24);
  • nel suo cammino sulla terra: «Il Figlio non può da se stesso far cosa alcuna se non la vede fare dal Padre; perché le cose che il Padre fa, anche il Figlio le fa ugualmente. Perché il Padre ama il Figlio, e gli mostra tutto quello che egli fa» (Giovanni 5:19-20);
  • quando ha dato la sua vita: «Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi» (Giovanni 10:17);
  • dandogli in mano ogni cosa: «Il Padre ama il Figlio, e gli ha dato ogni cosa in mano» (Giovanni 3:35).

Ora, il Padre ama noi dello stesso amore! Bisogna solo accettarla questa posizione di figli, questa intimità con il Padre; non conquistarla, ma riceverla per fede, con riconoscenza. E poi comportarsi come un figlio che cerca di piacere al padre, per l’amore che ha per Lui e non per dovere, osservando i vari insegnamenti della sua preziosa Parola. Questo argomento verrà trattato nella seconda parte del capitolo 5.

4.2 Perché tornare indietro?

«In quel tempo, è vero, non avendo conoscenza di Dio, avete servito quelli che per natura non sono dèi; ma ora che avete conosciuto Dio, o piuttosto che siete stati conosciuti da Dio, come mai vi rivolgete di nuovo ai deboli e poveri elementi, di cui volete rendervi schiavi di nuovo? Voi osservate giorni, mesi, stagioni e anni! Io temo di essermi affaticato invano per voi.» (v. 8-11)

Essendo stati resi liberi, essendo figli e non più servi, com’è possibile accettare di diventare di nuovo schiavi dei «deboli e poveri elementi»? Coloro che turbavano i Galati volevano vederli ritornare all’osservanza religiosa di giorni, mesi, tempi, anni (v. 8), e soprattutto alla circoncisione che obbligava «ad osservare tutta la legge» (5:3). Prima, essendo pagani, erano stati schiavi degli idoli, e adesso sarebbero diventati schiavi della legge!

Questa tendenza legalista si è mantenuta nel corso della storia del cristianesimo. Dobbiamo vegliare attentamente per non ricadere in questo errore prescrivendo delle rinunce, sottomettendo le anime ad un insieme di regole (anche se non scritte), lasciando che la tradizione s’imponga, senza che tutto ciò corrisponda alla guida dello Spirito, che non ha più bisogno della legge: «Se siete guidati dallo Spirito, non siete sotto la legge» (5:18).

4.3 Rapporti di Paolo con i Galati

«Siate come sono io, fratelli, ve ne prego, perché anch’io sono come voi. Voi non mi faceste torto alcuno; anzi sapete bene che fu a motivo di una malattia che vi evangelizzai la prima volta; e quella mia infermità, che era per voi una prova, voi non la disprezzaste né vi fece ribrezzo; al contrario mi accoglieste come un angelo di Dio, come Cristo Gesù stesso. Dove sono dunque le vostre manifestazioni di gioia? Poiché vi rendo testimonianza che, se fosse stato possibile, vi sareste cavati gli occhi e me li avreste dati. Sono dunque diventato vostro nemico dicendovi la verità? Costoro sono zelanti per voi, ma non per fini onesti; anzi vogliono staccarvi da noi affinché il vostro zelo si volga a loro. Ora è una buona cosa essere in ogni tempo oggetto dello zelo altrui nel bene, e non solo quando sono presente tra di voi. Figli miei, per i quali sono di nuovo in doglie, finché Cristo sia formato in voi, oh, come vorrei essere ora presente tra di voi e cambiar tono, perché sono perplesso a vostro riguardo!» (Cap. 4, v. 12-20)

L’apostolo Paolo ricorda che «a motivo di una malattia» evangelizzò i Galati quando andò da loro la prima volta. In quel periodo soffriva di un disturbo, probabilmente alla vista, che avrebbe potuto provocare repulsione a quelli che gli stavano vicini (v. 14). Ma i Galati, lungi dal provarne «ribrezzo», lo avevano accolto «come un angelo di Dio, come Cristo Gesù stesso». Se avessero potuto, gli avrebbero dato i loro occhi (v. 15). Che bei ricordi!

Ma ora, si chiede Paolo, «sono dunque diventato vostro nemico dicendovi la verità?» (v. 16). [Sembra che Paolo aveva visitato i Galati una volta sola. Ma aveva ricevuto brutte notizie dalle chiese di Galazia. Adesso la verità che aveva predicato la prima volta, e che predicava ancora nella lettera non era più ricevuta. Certuni consideravano l’apostolo come un nemico.] Coloro che li turbavano non avevano verso di loro un vero zelo, ma cercavano di separarli da Paolo, loro padre spirituale, per farne dei propri seguaci. Lo dirà chiaramente al v. 17 e lo ripeterà agli anziani di Efeso: «Tra voi stessi sorgeranno uomini che insegneranno cose perverse per trascinarsi dietro i discepoli» (Atti 20:30). I Galati erano stati zelanti «nel bene» quando Paolo era con loro, e dovevano continuare così. Ai Filippesi l’apostolo scriveva: «Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quand’ero presente, ma molto più adesso che sono assente…» (2:12). In un primo momento si può essere pieni di zelo per Cristo e poi scivolare, e diventare zelanti per una dottrina errata o per una setta.

Con tutto l’affetto e la tenerezza di cui il suo cuore era pieno, Paolo si rivolge a loro chiamandoli «figli miei» (v. 19). Egli è di nuovo in doglie per loro «finché Cristo sia formato». Se Cristo avesse perso nei loro cuori il posto che gli spettava, essi rischiavano di essere separati da tutti i benefici che si trovavano in Lui; «Siete scaduti dalla grazia» dice loro con accento severo (5:4).

Così Paolo, come una madre, s’impegna a far sì che il Signore abbia di nuovo, nella loro vita interiore, il primato che gli appartiene. Paolo avrebbe desiderato «cambiare tono», e lo avrebbe fatto se fosse stato presente fra loro vedendo il risultato delle sue esortazioni; ma noi non avremmo avuto questa lettera così necessaria alla Chiesa nel corso dei secoli.

4.4 Figli della schiava o figli della donna libera

«Ditemi, voi che volete essere sotto la legge, non prestate ascolto alla legge? Infatti sta scritto che Abraamo ebbe due figli: uno dalla schiava e uno dalla donna libera; ma quello della schiava nacque secondo la carne, mentre quello della libera nacque in virtù della promessa. Queste cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono due patti; uno del monte Sinai, genera per la schiavitù, ed è Agar. Infatti Agar è il monte Sinai in Arabia e corrisponde alla Gerusalemme del tempo presente, che è schiava con i suoi figli. Ma la Gerusalemme di lassù è libera, ed è nostra madre. Infatti sta scritto: “Rallegrati, sterile, che non partorivi! Prorompi in grida, tu che non avevi provato le doglie del parto! Poiché i figli dell’abbandonata saranno più numerosi di quelli di colei che aveva marito”. Ora, fratelli, come Isacco, voi siete figli della promessa. E come allora colui che era nato secondo la carne perseguitava quello che era nato secondo lo Spirito, così succede anche ora. Ma che dice la Scrittura? Caccia via la schiava e suo figlio; perché il figlio della schiava non sarà erede con il figlio della donna libera. Perciò, fratelli, noi non siamo figli della schiava, ma della donna libera.» (v. 21-31)

Voi che desiderate tanto essere «sotto la legge», dice Paolo, non volete ascoltare ciò che la legge (i Giudei designavano così l’insieme dei libri di Mosè) insegna?

Abraamo ha avuto due figli, uno da Agar, la schiava di Sara, l’altro da Sara, la sua legittima moglie. Ismaele era nato da Agar per una mancanza di fede di Sara che, ritenendo di non poter più avere figli, aveva dato la sua schiava ad Abraamo per avere un figlio da lei; e Abraamo aveva accettato. Il figlio nato da quella relazione era «secondo la carne» (Genesi 16:1-4). La nascita di Isacco, invece, derivava dalla promessa di Dio che Abraamo, il padre dei credenti, aveva accettato con fede (v. 23).

Queste cose «avvennero» (1 Corinzi 10:11), vale a dire sono un fatto storico, ma dovevano essere considerate anche in senm, allegorico. «Agar» genera per la schiavitù. Essa raffigura la legge data al Monte Sinai, ed è «la Gerusalemme del tempo presente», cioè i Giudei che vogliono rimanere sotto la legge. Isacco, invece, era il figlio «della libera… in virtù della promessa» (v. 26-28); ed è la fede cristiana che si ricollega alle cose «di lassù» e la cui speranza è celeste, «nella gloriosa libertà dei figli di Dio» (Romani 8:21)

Un tempo Ismaele «rideva» di Isacco (Genesi 21:9); ora, dice Paolo, accade lo stesso: coloro che sono «secondo la carne», sotto la legge, perseguitano coloro che sono nati «secondo lo Spirito», i credenti in Cristo (v. 28). Egli stesso lo aveva sperimentato personalmente da parte dei Giudei «i quali — egli dice — hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, e hanno cacciato noi… impedendoci di parlare agli stranieri perché siano salvati» (1 Tessalonicesi 2:15-16). E quanti altri Ebrei convertiti come lui e dopo di lui hanno sofferto da parte dei loro «connazionali» (v. 14)!

Dio aveva detto ad Abraamo: «Caccia via la schiava». (Il nostro testo presenta queste parole come proferite dalla «Scrittura»; ancora una volta Dio e la Scrittura sono messi sullo stesso piano).

C’è incompatibilità fra il «figlio della schiava» e «il figlio della donna libera». Tutti coloro che sono nati di nuovo sono figli della donna libera e non hanno più niente a che fare con la schiavitù (v. 31).

C. Le conseguenze pratiche

5. Capitolo 5

5.1 O Cristo (la libertà) o la legge (la schiavitù)

«Cristo ci ha liberati perché fossimo liberi; state dunque saldi e non vi lasciate porre di nuovo sotto il giogo della schiavitù. Ecco, io, Paolo, vi dichiaro che, se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla. Dichiaro di nuovo: ogni uomo che si fa circoncidere, è obbligato a osservare tutta la legge. Voi che volete essere giustificati dalla legge, siete separati da Cristo; siete scaduti dalla grazia. Poiché quanto a noi, è in spirito, per fede, che aspettiamo la speranza della giustizia. Infatti, in Cristo Gesù non ha valore né la circoncisione né l’incirconcisione; quello che vale è la fede che opera per mezzo dell’amore.» (v. 1-6)

Bisogna fare una scelta: o la libertà in vista della quale Cristo ci ha liberati o il giogo della schiavitù sotto il quale i Galati erano incitati a rimettersi. Paolo riprenderà l’argomento della «libertà» al v. 13. Ma prima vuole sottolineare le gravi conseguenze del ritorno alla legge. Egli scriverà agli Efesini: «Lui (Cristo)… ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo terreno la causa dell’inimicizia, la legge fatta di comandamenti in forma di precetti» (2:14-15).

La legge non serve né per la salvezza, né per la santificazione. Noi «siamo stati sciolti dai legami della legge», siamo stati «messi a morte quanto alla legge… per appartenere ad un altro» (Romani 7:6,4).

L’osservanza della legge (v. 4) non può essere un mezzo di salvezza, né costituire un merito. Non è che un giogo di schiavitù. «I comandamenti e le dottrine degli uomini… hanno, è vero, una parvenza di sapienza per quel tanto che è in esse di culto volontario» scrive Paolo ai Colossesi (2:22-23); ma se un cristiano vuole ritornare a quelle cose, vale per lui quello che Paolo scriveva ai Galati: «Io, Paolo, vi dichiaro (e lo dice facendo valere tutta la sua autorità apostolica) che… Cristo non vi gioverà a nulla» (v. 2).

Cercare di essere giustificati dall’ubbidienza alla legge di Mosè, significherebbe essere scaduti dalla grazia, separati da tutti i benefici che sono in Cristo (v. 4). Non si può avere Cristo, più qualcos’altro. Cristo dev’essere tutto.

Vi sono due opinioni diverse fra la gente:

  1. che ci si possa guadagnare il cielo grazie ad opere meritorie;
  2. che l’importante sia fare tutto il possibile, e Dio poi perdonerà le incapacità e le mancanze.

Ma i credenti sanno che l’essere umano è assolutamente incapace di fare qualcosa che gli dia diritto alla salvezza, secondo l’insegnamento della Bibbia: «Coloro che sono nella carne non possono piacere a Dio» (Romani 8:8), e «nella mia carne, non abita alcun bene» (Romani 7:18).

Le persone che si attengono a questi insegnamenti accettano il fatto di essere gli oggetti della pura grazia di Dio, una grazia immeritata che viene data da Dio per la semplice fede nell’opera espiatoria del suo Figlio Gesù Cristo. Essi trovano soltanto in Lui e nel suo sacrificio una salvezza completa.

Quelli che si attengono all’opinione del punto 2, che cercano di aggiungere i loro sforzi alla bontà di un Dio che poi li perdonerà, si comportano in un certo senso come rischiavano di fare i Galati. Non viene rifiutato Cristo né la sua opera, ma si vogliono aggiungere anche i meriti personali. In questo modo, dice Paolo, si è «scaduti dalla grazia» (*)!

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(*) Paolo non vuol dire che un credente che ritorna alla legge può perdere la salvezza. Ma i Galati avevano creduto in Cristo, erano giustificati dalla grazia perfetta di Dio, e adesso pensavano aver bisogno della legge per questa giustificazione. Davanti a Dio erano giusti per sempre. Però, per loro stessi, perdevano tutto il beneficio di Cristo e della sua grazia nelle loro relazioni con Dio. (Nota BibbiaWeb)
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No. «È in spirito, per fede, che aspettiamo la speranza della giustizia» (v. 5). La speranza della giustizia non è la speranza di essere giustificati; il credente lo è «per fede» (Romani 5:1). La giustizia di Dio gli è attribuita in Cristo. Così giustificati, «ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio» (v. 2); e «quelli che ha giustificati li ha pure glorificati» (8:30). Lo Spirito ci fa attendere e anticipare, per fede, questa gloria, che è quella di cui la giustizia di Dio ha già rivestito Cristo.

Di fatto, a coloro che sono «in Cristo» che cosa importano la circoncisione o l’incirconcisione? In se stesse non hanno alcun valore. Ciò che conta è la fede, ma una fede che opera, non per timore (come nel caso di chi si mette sotto le imposizioni e la maledizione della legge), ma per mezzo dell’amore (v. 6). Così, come spesso negli scritti di Paolo, la fede, la speranza e l’amore si trovano riuniti.

5.2 L’influenza dei giudaizzanti

«Voi correvate bene; chi vi ha fermati perché non ubbidiate alla verità? Una tale persuasione non viene da colui che vi chiama. Un po’ di lievito fa lievitare tutta la pasta. Riguardo a voi, io ho questa fiducia nel Signore, che non la penserete diversamente; ma colui che vi turba ne subirà la condanna, chiunque egli sia. Quanto a me, fratelli, se io predico ancora la circoncisione, perché sono ancora perseguitato? Lo scandalo della croce sarebbe allora tolto via. Si facciano pure evirare quelli che vi turbano!» (v. 7-12)

I Galati si erano impegnati con gioia nella vita cristiana. Essi «correvano bene» (v. 13). Chi dunque li aveva fermati perché non ubbidissero alla verità? Non era certo il Dio che li aveva chiamati a persuaderli che bisognava cambiare strada. Era bastato poco «lievito», l’influenza nefasta dei giudaizzanti, per far lievitare tutta quanta la pasta. Questo processo di rapida espansione è tipico degli errori che si diffondono in una chiesa o in un gruppo di chiese. Tutto l’insieme ne resta contaminato. E questo vale anche per il lassismo nel campo morale, come vediamo in 1 Corinzi 5:6. Perciò nella chiesa è importante vegliare e combatter il male (sempre che rivesta un carattere di gravità) fin dal suo primo insorgere.

Ricordando il felice inizio dei Galati e il fatto che essi avessero «cominciato con lo Spirito» (3:3), l’apostolo Paolo, nonostante i rimproveri che ha appena fatto, è fiducioso «nel Signore» riguardo a loro. Egli non li rifiuta, non li abbandona, ma li affida a Colui che ha il potere di illuminarli e proteggerli (v. 10).

Paolo accenna a «colui che vi turba», certamente un personaggio importante; su costui egli non invoca misericordia, ma dice: «Ne subirà la condanna». L’apostolo vorrebbe che i seguaci di quella persona si facessero evirare (probabile allusione alla castrazione) (v. 12). Predicare la circoncisione faceva evitare la persecuzione da parte dei Giudei. Paolo era perseguitato, segno che egli non predicava affatto questa circoncisione. Essa era incompatibile con la predicazione della croce.

Capita spesso che credenti che «correvano bene» si lascino fermare da razionalismi o da erronee valutazioni nel campo della morale, spesso adducendo motivazioni che si vogliono far passare per ragionevoli; ma il vero motivo che causa l’allontanamento dalla verità è il conformismo col mondo. Ecco perché è scritto: «Non vi mettete con gli infedeli sotto un giogo che non è per voi», «Non amate il mondo né le cose che sono nel mondo» (2 Corinzi 6:14; 1 Giovanni 2:15).

5.3 La libertà nell’amore

«Perché, fratelli, voi siete stati chiamati a libertà; soltanto non fate della libertà un’occasione per vivere secondo la carne, ma per mezzo dell’amore servite gli uni agli altri; poiché tutta la legge è adempiuta in questunica parola: Ama il tuo prossimo come te stesso. Ma se vi mordete e divorategli uni gli altri, guardate di non essere consumati gli uni dagli altri.» (v. 13-15)

A quale libertà sono chiamati i credenti? Non quella di fare tutto ciò che vogliono, ma la liberazione dalla legge e dalla potenza del peccato, dal compiacere a se stessi, dall’azione ossessiva delle passioni della carne. Parafrasando il v. 13, un credente che lottava per ottenere la libertà di testimoniare del Vangelo, dichiarava: «Io voglio l’uomo libero affinché possa essere meglio il servo di tutti».

Non si tratta di una libertà egoista per seguire la mia volontà, i miei impulsi, le mie ambizioni, e comportarmi chissà come; ma la libertà per aiutare e servire gli altri, per amare e servire il Signore. E tutto ciò non con un sentimento legalista (bisogna che svolga questo compito, che vada a fare quella visita, che scriva quella lettera), ma per amore per i fratelli, per coloro che soffrono, per coloro che non conoscono il Signore Gesù. Ci si raduna attorno al Signore per l’amore che abbiamo per Lui, e non per adempiere un obbligo o acquisire un merito.

Usare la libertà come «occasione per vivere secondo la carne» vuol dire essere di nuovo schiavi (v. 13). Come dice l’apostolo Pietro, le «carnali concupiscenze… danno l’assalto contro l’anima» (1 Pietro 2:11). Il nemico sa approfittare molto bene delle nostre debolezze, e se non vigiliamo cadiamo nel peccato.

L’amore porta a mettersi al servizio dei propri fratelli (v. 13), ad aiutarli, e anche ad accettare ciò che essi desiderano fare per noi («gli uni gli altri» è reciproco). I dissensi carnali tra fratelli (v. 15), sono spesso conseguenza di un ambiente legalista, e finiscono per far sparire un’assemblea locale e distruggere anni di testimonianza per il Signore. «Se una casa è divisa in parti contrarie, quella casa non potrà reggere» (Marco 3:25).

5.4 La carne e lo Spirito

«Io dico: camminate secondo lo Spirito e non adempirete affatto i desideri della carne. Perché la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; sono cose opposte tra di loro; in modo che non potete fare quello che vorreste (*). Ma se siete guidati dallo Spirito, non siete sotto la legge. Ora le opere della carne sono manifeste, e sono: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, ire, contese, divisioni, sette, invidie, ubriachezze, orge e altre simili cose; circa le quali, come vi ho già detto, vi preavviso: chi fa tali cose non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo; contro queste cose non c’è legge. Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche guidati dallo Spirito. Non siamo vanagloriosi, provocandoci e invidiandoci gli uni gli altri» (Cap. 5, v. 16-26)

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(*) Una traduzione più esatta sarebbe: «affinché voi non facciate quel che vorreste». Cioè lo scopo dello Spirito in noi è di impedirci di far quello che vogliamo secondo la carne, impedirci di far la proprio volontà, impedirci di seguire le nostre concupiscenze. (Nota BibbiaWeb)
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«Camminate secondo lo Spirito». Ecco l’essenziale per chi possiede la nuova vita in Cristo. Che sia lo Spirito di Dio a controllare i nostri pensieri, le nostre decisioni, le nostre scelte, a guidare il nostro cammino, le nostre azioni. Allora non adempiremo i desideri della carne. Non si tratta di sottomettersi a una legge, ma allo Spirito, nella libertà in cui Cristo ci ha posti. Non si tratta di stabilire delle regole alle quali conformarsi nella propria condotta, ma, istruiti dalla Parola di Dio, lasciare che Dio guidi la nostra vita, per mezzo dello Spirito.

Un credente in comunione col Signore comprende quale sia il pensiero dello Spirito; l’amore per il Signore lo porta a esaminare «che cosa sia gradito al Signore» (Efesini 5:10).

La legge, ogni legge, è una forma esteriore che viene imposta; il cammino per mezzo dello Spirito deriva da una vita interiore che si manifesta nel comportamento. Perciò è necessario nutrire e coltivare la vita interiore affinché si sviluppi e si fortifichi, piuttosto che «accarezzare» i desideri della carne che distraggono dalle cose di Dio e possono trascinare a fare il male.

L’amore di cui parla il v. 13 sarà il primo frutto di questo cammino (v. 22). Non si tratta di dimostrazioni eccezionali della vita cristiana, ma di questa nuova vita nel suo normale percorso, e di cui lo Spirito è il motore. E se è lo Spirito che ci guida non c’è bisogno della legge (v. 18).

Ma la carne, la vecchia natura, rimane in noi credenti fino al giorno in cui saremo sulla terra. La tendenza fondamentale dell’uomo carnale è quella di amare se stesso anziché amare Dio e il prossimo. La carne si divincola, incita al male; ma lo Spirito trattiene. Se la carne spinge il credente a fare il male, lo Spirito si oppone, «affinché voi non faciate quello che vorreste».

C’è dunque una scelta continua da fare: cammineremo per lo Spirito o cercheremo di soddisfare i desideri della carne? L’uomo naturale compie per forza i desideri della carne, ma il credente rigenerato può e deve camminare per lo Spirito. Ma bisogna che viva in comunione col Signore, e che confessi e abbandoni ogni eventuale mancanza di cui è consapevole. Solo così lo Spirito sarà libero di agire.

Si può obbedire allo Spirito di Dio piuttosto che alla propria volontà solo se si rinuncia completamente a se stessi, lasciando che il Signore prenda possesso di ciò che gli appartiene: «Presentate voi stessi a Dio, come morti fatti viventi, e le vostre membra come strumenti di giustizia a Dio» (Romani 6:13).

Le opere della carne sono manifeste. Esse tradiscono la loro origine corrotta: fornicazione, impurità, dissolutezza, sono delle sregolatezze nel campo della meravigliosa facoltà che Dio ha donato all’uomo e alla donna di poter trasmettere coscientemente la vita, e nel gestire il soddisfacimento di altri bisogni essenziali; idolatria e stregonerie, sono deviazioni della vita religiosa, che sostituiscono Dio con idoli e pratiche sataniche; inimicizie, discordia, gelosia, ire, contese, divisioni, sette, invidie, creano tensioni nella vita personale, famigliare e della comunità; infine, eccessi carnali grossolani, ubriachezze, orge e altre simili cose. La lista non è esaustiva; il credente, grazie al suo discernimento spirituale, deve rendersi conto di quando ha lasciato agire la carne per poterne giudicare le opere.

Che bel contrasto troviamo con quello che è invece il «frutto dello Spirito» (v. 22), manifestazione meravigliosa della nuova vita. Il credente «porta» il frutto dello Spirito, non è lui che lo produce; è lo Spirito che opera in lui ciò che è alla gloria di Dio:

  • frutto interiore (che si riflette all’esterno): l’amore, la gioia, la pace;
  • frutto verso gli altri: pazienza (sopportazione che lascia che sia il Signore ad agire nel momento giusto), benevolenza (saper rilevare il bene che Dio ha prodotto, senza criticare o parlar male degli altri), bontà, fedeltà (su cui gli altri possono contare), mansuetudine (non essere suscettibile, non contrariarsi);
  • frutto verso se stessi: autocontrollo, cioè la disciplina personale.

Non c’è più bisogno di una legge perché queste caratteristiche si manifestino; esse sono il risultato di una vita vissuta nella comunione con Dio sotto l’azione del suo Spirito.

Per quanto riguarda «la carne con le sue passioni e i suoi desideri», i credenti l’hanno crocifissa, grazie alla loro posizione in Cristo (v. 24). «Voi moriste; scrive Paolo ai Colossesi, ma questa morte va realizzata nella pratica: Fate dunque morire (lett. necrosare, morire per mancanza di nutrimento) ciò che in voi è terreno» (Colossesi 3:3-5). La crocifissione della carne è il fatto iniziale della nuova vita ed è per tutti coloro «che sono di Cristo» e gli appartengono.

Che ogni credente si ricordi che appartiene al suo Signore al quale per fede si è affidato interamente, e che è identificato con Lui nella sua morte e nella sua risurrezione (Romani 6:5-11). Si tratta di credere che la vecchia natura in Adamo è stata condannata da Dio alla croce. Questa fede, rinfrancata di continuo, è il vero fondamento della nuova vita.

Il «se» del v. 25 ha il significato di «poiché»: poiché noi viviamo dello Spirito, noi camminiamo anche per lo Spirito. In questo versetto per indicare il «camminare» è usata una parola diversa da quella usata al v. 16, dove si tratta della vita individuale. Si applica all’insieme dei credenti che, tutti insieme, «camminano allineati», in fila, nello stesso sentiero.

Ma cosa troviamo al v. 26? Lo stato d’animo non del «pastore» ma del «cacciatore», il quale cerca la propria soddisfazione senza preoccuparsi degli altri, che provoca e invidia.

Essere «vanagloriosi» (confr. Filippesi 2:3), significa voler essere qualcuno nella vita e nella chiesa. Con questo spirito si tende a denigrare gli altri, a invidiare quelli che hanno ricevuto dal Signore dei doni più importanti, e questo con lo scopo di far valere se stessi. Ecco lo spirito del cacciatore, favorito dalle tendenze legaliste, che si impone a spese della vittima. Scriveva un fratello: «Solo una coscienza esercitata, che ricorda sempre la grazia infinita di Dio che ci ha salvati, può mantenere una chiesa nella pace e nell’umiltà».

6. Capitolo 6

6.1 Il servizio pastorale

«Fratelli, se uno viene sorpreso in colpa, voi, che siete spirituali, rialzatelo con spirito di mansuetudine. Bada bene a te stesso, che anche tu non sia tentato. Portate i pesi gli uni degli altri e adempirete così la legge di Cristo. Infatti se uno pensa di essere qualcosa pur non essendo nulla, inganna se stesso. Ciascuno esamini invece l’opera propria; così avrà modo di vantarsi in rapporto a se stesso e non perché si paragona agli altri. Ciascuno infatti porterà il proprio fardello. Chi viene istruito nella parola faccia parte di tutti i suoi beni a chi lo istruisce.» (v. 1-6)

È notevole che quest’ultimo capitolo si trovi la bella parola «fratelli», che torna nuova in questa lettera. Paolo doveva riprendere, e anche severamente; tuttavia, come insegnava ai Tessalonicesi, egli voleva indirizzarsi a dei fratelli: «Se qualcuno non ubbidisce a ciò che diciamo… non abbiate relazione con lui, affinché si vergogni. Però non consideratelo un nemico, ma ammonitelo come un fratello» (2 Tessalonicesi 3:15).

Nel corso di tutta la Parola si ritrovano il pensiero e l’immagine del cacciatore e del pastore. Al cacciatore poco importa se la sua preda deve soffrire, purché egli ottenga il proprio vantaggio. Il pastore invece si prodiga per il gregge, anche se è lui a dover soffrire (Genesi 31:28-40). Egli si sacrificherà per le pecore, cercando la perduta e la smarrita, fasciando la ferita e fortificando la malata (Ezechiele 34:16). Ma il pastore malvagio, col carattere del «cacciatore», domina «su di loro con violenza e con asprezza»; le pecore sono allora «disperse» (Ezechiele 34:4-5). Esaù era un cacciatore come Nimrod; Giacobbe era un pastore. Mosè e Davide, prima di condurre il popolo di Dio, sono stati pastori; ma Saul, che avrebbe dovuto essere un «pastore» per Israele, dava la caccia a Davide «come si va dietro a una pernice sui monti» (1 Samuele 26:20). Paolo aveva avuto il carattere del «cacciatore» prima di conoscere il Signore, quando devastava le chiese; ma il Signore ha fatto di lui un pastore. E l’ordine che Gesù rivolgeva a Pietro per reintegrarlo nel servizio, dopo il rinnegamento, è indirizzata a tutti noi credenti: «Pasci i miei agnelli… Pasci le mie pecore» (Giovanni 21:15-17).

Un uomo «si è lasciato sorprendere in colpa», dice qui Paolo (6:1). Che fare? Condannarlo? Lasciarlo da parte, trattarlo con freddezza? No. «Voi che siete spirituali, rialzatelo con spirito di mansuetudine». Non si tratta di uno che vive abitualmente nel peccato, ma che è caduto in un peccato, forse anche grave. Egli è stato «sorpreso in colpa». Comprendiamo dal testo che difficilmente se ne renderà conto da solo, ma saranno i fratelli che lo aiuteranno a riprendere la buona strada; se sono spirituali lo faranno con umiltà, ricordandosi dell’esortazione: «Bada bene a te stesso, che anche tu non sia tentato». Paolo avvertiva i Corinzi: «Chi pensa di stare in piedi, guardi di non cadere» (1 Corinzi 10:12). Il Signore Gesù diceva: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello, mentre non scorgi la trave che è nell’occhio tuo?… Togli prima dall’occhio tuo la trave, e allora ci vedrai bene» (Luca 6:41).

Il pastore avrà a cuore di portare «i pesi» dei suoi fratelli nel dolore. Questo peso può anche essere il legalismo, «un giogo che né i padri nostri né noi siamo stati in grado di portare» (Atti 15:10). Si creano dei «tabù», si fanno delle regole, si impongono dei modelli di comportamento; e questo diventa un giogo che consuma il tempo e le forze che dovrebbero essere consacrati al servizio del Signore. Ma ci sono molti altri pesi: il lutto, ad esempio, la malattia, le delusioni, le sofferenze morali, senza parlare dell’ansietà e delle preoccupazioni di cui spesso ci carichiamo invece di ricordarci delle esortazioni che troviamo nella Parola: «Getta sul Signore il tuo affanno, ed egli ti sosterrà» (Salmo 55:22), «Gettando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi» (1 Pietro 5:7). Quale soccorso possiamo trovare in un fratello o in una sorella che ci aiutano in questo!

«La legge di Cristo» (v. 2), il suo comandamento nuovo, è l’amore; ci ricolleghiamo ai v. 13 e 22 del capitolo precedente. Anche un apostolo Paolo ha avuto bisogno dell’incoraggiamento dei suoi fratelli; arrivando a Roma, prigioniero, incatenato, stanco del lungo viaggio, incontra i fratelli che sono venuti ad accoglierlo e «quando li vide, ringraziò Dio e si fece coraggio» (Atti 28:15). Durante la sua seconda prigionia, egli ricorda di Onesiforo che lo ha «molte volte confortato» (2 Timoteo 1:16).

Ma ci può essere un credente che ritiene di essere «qualcuno», vale a dire un personaggio, uno troppo importante per dedicare del tempo ad aiutare gli altri, o per abbassarsi a «rialzarli». Un tale metterà volentieri sulle spalle degli altri «dei fardelli pesanti» senza volerli egli stesso «muovere neppure con un dito», come diceva il Signore (Matteo 23:4). Un uomo così orgoglioso «inganna se stesso» (v. 3). Egli ha «di sé un concetto più alto di quello che deve avere», invece di avere «di sé un concetto sobrio» (Romani 12:3).

«Ciascuno esamini invece l’opera propria» (non quella degli altri!) (v. 4); esaminiamo dunque alla luce di Dio se nel nostro cammino siamo stati coerenti coi pensieri del Signore, e fedeli nel nostro suo servizio all’incarico che abbiamo ricevuto. Non paragoniamoci agli altri, come facevano i Corinzi che, «misurandosi secondo la propria misura e paragonandosi tra di loro stessi, mancano d’intelligenza» (2 Corinzi 10:12).

Se la luce divina manifesta qualche frutto nella vita di qualcuno, non conviene vantarsene, ma piuttosto essere riconoscenti; come diceva l’apostolo: «Ho faticato… non io però, ma la grazia di Dio che è con me» (1 Corinzi 15:10). Qualsiasi servizio per il Signore, qualsiasi ministero, è una grazia accordata e non un dovere imposto: «Avendo noi tale ministero in virtù della misericordia che ci è stata fatta» (2 Corinzi 4:1).

«Ciascuno infatti porterà il proprio fardello» (v. 5). In questo passo, la parola fardello è la stessa che viene usata in Matteo 11:30, dove Gesù dice: «Il mio giogo è dolce e il mio carico (o fardello) è leggero». Non si tratta qui dei «pesi» del v. 2, ma piuttosto della responsabilità di ogni credente quando comparirà davanti a Dio e «renderà conto di se stesso» (Romani 14:12). È importante non giudicare i propri fratelli, non criticarli o denigrarli: «Non giudicate nulla prima del tempo, finché sia venuto il Signore, il quale metterà in luce quello che è nascosto nelle tenebre e manifesterà i pensieri dei cuori; e allora ciascuno avrà la sua lode da Dio» (1 Corinzi 4:5). «Ciascuno riceverà il proprio premio secondo la propria fatica» (1 Corinzi 3:8). Coloro che beneficiano delle cure del pastore, del servizio che egli esercita nell’insegnamento della Parola, devono far parte di tutti i loro beni temporali ai fratelli che il Signore ha chiamato al suo servizio. Il Signore Gesù stesso aveva già detto che «l’operaio è degno del suo salario» (Luca 10:7). L’apostolo Paolo lo conferma dicendo: «Il Signore ha ordinato che coloro che annunziano il Vangelo vivano del Vangelo» (1 Corinzi 9:14; vedere anche 1 Timoteo 5:17-18).

6.2 Semina e mietitura

«Non vi ingannate; non ci si può beffare di Dio; perché quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà. Perché chi semina per la sua carne, mieterà corruzione dalla carne; ma chi semina per lo Spirito mieterà dallo Spirito vita eterna. Non ci scoraggiamo di fare il bene; perché, se non ci stanchiamo, mieteremo a suo tempo. Così dunque, finché ne abbiamo l’opportunità, facciamo del bene a tutti; ma specialmente ai fratelli in fede. »(Cap. 6 v. 7-10)

Questi versetti non parlano della salvezza, ma del governo di Dio sulla terra: «Quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà». Il credente in Cristo ha una missione e un impegno che vanno ben al di là di ciò che richiedeva la legge mosaica; per esempio, la legge diceva «Non rubare», e chi non rubava aveva fatto il suo dovere. Ma la grazia dice: «Chi rubava non rubi più, ma si affatichi piuttosto a lavorare onestamente con le proprie mani, affinché abbia qualcosa da dare a colui che è nel bisogno» (Efesini 4:28).

Si può seminare o «per la carne» o «per lo Spirito» (v. 8). I Giudei ritornati dalla deportazione, al tempo del profeta Aggeo, invece di «seminare» per la casa del Signore, accampavano la scusa che non era «ancora venuto il tempo» per farlo; ma ognuno si preoccupava della propria casa (Aggeo 1:2-4)! «Riflettete bene sulla vostra condotta» (v. 5 e 7), dice il profeta, e vedrete che cercando i vostri personali interessi, non sarete mai soddisfatti («Non c’è chi si riscaldi»); e il prodotto del lavoro, che ciascuno serba egoisticamente per se stesso invece di farne parte ad altri, è come messo «in una borsa bucata»! (Aggeo 1:5-6). Chi usa indebitamente per la propria soddisfazione carnale ciò che Dio gli ha affidato, «mieterà corruzione».

Si semina per la carne soddisfacendo i propri desideri e i propri impulsi, ma anche diffondendo pensieri, desideri, insegnamenti che allontanano altri dalla Parola. Anche in questo modo si può seminare la zizzania e compiere così l’opera del nemico, come leggiamo nella parabola delle zizzanie e del buon seme: «Signore, non avevi seminato buon seme nel tuo campo? Come mai, dunque, c’è della zizzania? Egli disse loro: Un nemico ha fatto questo» (Matteo 13:27-28).

C’è chi legge dei romanzi di dubbio contenuto morale o intellettuale e ne consiglia la lettura ad altri; può sembrare che non vi siano conseguenze, ma giungerà il momento in cui compariranno «anche le zizzanie». Ci si stupisce vedere dei credenti, fedeli in gioventù, che giunti all’età adulta si allontanano dalle cose di Dio. Erano stati allevati con cura, ma «mentre gli uomini dormivano», il nemico ha seminato le zizzanie. C’è voluto del tempo prima che germogliassero, ma è venuto il giorno in cui esse sono apparse.

Il riscattato deve seminare «per lo Spirito». Nelle cose materiali ciò si esplica nel «fare il bene», per mezzo del soccorso, l’aiuto, le cure verso gli altri (v. 9). Ma nel campo spirituale significa spargere il buon seme della Parola di Dio: «Fin dal mattino semina la tua semenza e la sera non dar posa alle tue mani» (Ecclesiaste 11:6). Fin dal mattino della vita, il credente può spandere un seme che porterà frutto in vita eterna. È importante sapere cosa si semina, poiché la raccolta sarà in relazione al seminato, e dove si semina, se nel campo carnale o in quello dello Spirito; e infine come si semina, se scarsamente o abbondantemente.

Ma, avverte Paolo, ci si può scoraggiare nel fare il bene (v. 9). L’Ecclesiaste l’aveva già detto: «La sera non dar posa alle tue mani; poiché tu non sai quale dei due lavori riuscirà meglio: se questo o quello, o se ambedue saranno ugualmente buoni» (11:6). Non tutti i semi porteranno frutto; il seminatore della parabola ha perseverato, anche se dei semi cadevano sulla strada, fra le spine o fra le pietre. «Questo o quello» riuscirà, o forse «ambedue». In ogni caso ci sarà del frutto: «Se non ci stanchiamo mieteremo a suo tempo». E la messe sarà sempre più abbondante del seme sparso: «Il cento, il sessanta, il trenta per uno» (Matteo 13:8).

Non si tratta di aiutare gli altri senza discernimento, o senza avere uno scopo preciso. La Parola è molto chiara: «Finché ne abbiamo l’opportunità, facciamo del bene a tutti; ma specialmente ai fratelli in fede». La cerchia degli eventuali beneficiari è molto ampia: tutti gli uomini (Gesù stesso diceva: «Fate del bene a quelli che vi odiano», Matteo 5:44). Ma certamente, il cuore del riscattato lo spingerà principalmente verso i «fratelli in fede», verso ogni vero credente che necessiti sia di soccorso tangibile, sia di aiuto spirituale.

6.3 Conclusione

«Guardate con che grossi caratteri vi ho scritto di mia propria mano! Tutti coloro che vogliono far bella figura nella carne, vi costringono a farvi circoncidere e ciò al solo fine di non essere perseguitati a causa della croce di Cristo. Poiché neppure loro, che sono circoncisi, osservano la legge; ma vogliono che siate circoncisi per potersi vantare della vostra carne. Ma quanto a me, non sia mai che io mi vanti di altro che della croce del nostro Signore Gesù Cristo, mediante la quale il mondo, per me, è stato crocifisso e io sono stato crocifisso per il mondo. Infatti, tanto la circoncisione che l’incirconcisione non sono nulla; quello che importa è l’essere una nuova creatura. Su quanti cammineranno secondo questa regola siano pace e misericordia, e così siano sull’Israele di Dio. Da ora in poi nessuno mi dia molestia, perché io porto nel mio corpo il marchio (oppure: le stimmate) di Gesù. La grazia del nostro Signore Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.» (Cap. 6 v. 11-18)

«Guardate con che grossi caratteri (oppure: che lunga lettera) vi ho scritto di mia propria mano» (v. 11). In genere Paolo dettava le sue lettere ad altri che le scrivevano, e le autenticava poi con la sua firma. Ma per i Galati si è preso la pena di scrivere di sua propria mano, testimoniando così tutto il suo affetto e anche tutta la sua ansia a loro riguardo. Ancora oggi noi apprezziamo una lettera manoscritta più che una stampata. È più diretta, personale, sicuramente autentica.

Quale scopo volevano ottenere coloro che cercavano di costringere i Galati a farsi circoncidere (v. 12)? Prima di tutto quello di «far bella figura nella carne». Essere circoncisi significava rispettare gli insegnamenti dei padri, l’esempio di Abraamo, la legge di Mosè. Poi, essi non sarebbero stati «perseguitati a causa della croce di Cristo». Per i Giudei la croce era uno scandalo (1 Corinzi 1:23); che valeva un sedicente Messia che aveva finito per essere crocifisso dopo aver voluto mettere da parte gli insegnamenti antichi? Bisognava sbarazzarsene e perseguitare i suoi fedeli fino alla morte. Ma coloro che, facendosi circoncidere, dimostravano di ritornare alla legge antica, forse avrebbero evitato la persecuzione da parte dei Giudei.

La realtà era che neppure questi, che volevano che si osservasse la legge di Mosè e che erano circoncisi, osservano la legge (v. 13). Infatti nessuno può osservarla nella sua totalità. Quelle persone cercavano semplicemente di fare degli adepti, che avrebbero ceduto alle loro richieste e si sarebbero fatti circoncidere, «per potersi vantare» della loro «carne». Rientrati a Gerusalemme, avrebbero potuto dire: «Abbiamo fatto tanti proseliti!». Tutta qui sarebbe stata la loro gloria, simile a quella degli scribi e dei Farisei dei quali il Signore diceva: «Ipocriti… viaggiate per mare e per terra per fare un proselito; e quando lo avete fatto lo rendete figlio della geenna il doppio di voi» (Matteo 23:15).

L’apostolo Paolo non cercava certamente una tale gloria. Tutto ciò che egli era come Giudeo, fariseo colto e influente, era stato messo da parte. Le cose che per lui un tempo erano un guadagno, le aveva considerate «come un danno, a causa di Cristo». Il mondo, con tutto ciò che esso avrebbe potuto procurargli, era «come tanta spazzatura» (Filippesi 3:7-8). La croce di Cristo lo aveva separato per sempre dall’osservanza della legge, dalle opere ritenute meritorie e dalle attrattive del mondo.

Non si può avere Cristo e nello stesso tempo la legge, così come non si può avere Cristo e il mondo. Il cristiano non trova più soddisfazione nel mondo; e il mondo non la trova nei veri cristiani!

Ancora una volta Paolo insiste sul fatto che in sé stesse sia la circoncisione sia l’incirconcisione non sono nulla (v. 15; confr. 5:6). Ciò che importa è «l’essere una nuova creatura». Essere nati di nuovo, partecipare alla natura divina, vivere non più io, ma Cristo in me, ecco ciò che conta. Questa creazione è interamente opera di Dio per mezzo della sua Parola e del suo Spirito: «Se uno non è nato d’acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio» (Giovanni 3:5). La fede accetta con riconoscenza il dono di Dio e l’opera della croce.

Così un nuovo Israele, «l’Israele di Dio» si era formato. Un popolo nuovo sul quale Paolo invoca la pace e la misericordia; un popolo composto da credenti in Cristo, da circoncisi nel cuore, in grado di offrire il loro culto a Dio per mezzo dello Spirito, che si vantano in Cristo Gesù e non mettono la loro fiducia nella carne (Filippesi 3:3).

Nelle assemblee della Galazia ce n’erano parecchi che camminavano «secondo questa regola», veri credenti che restavano fedeli al Signore e all’Evangelo. Quanto avevano bisogno di «misericordia» in quei tempi di disordine e di dissensi, affinché la pace di Dio guardasse i loro cuori!

Coloro che giudaizzavano e si vantavano di imporre il marchio della circoncisione ai loro adepti, quanta ansietà e quanto turbamento recavano all’apostolo! Ma che segno portavano della loro appartenenza al Signore Gesù? Non era certo quello della circoncisione! Io, dice Paolo, «porto nel mio corpo il marchio (o le stimmate) di Gesù». Le cicatrici di tutto ciò che egli aveva sofferto per il suo Maestro testimoniavano che apparteneva a Cristo, come uno schiavo marchiato a fuoco non poteva rinnegare colui che l’aveva acquistato. Troviamo un elenco di ciò che aveva patito in 2 Corinzi 11:25-28: «Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno; tre volte sono stato battuto con le verghe; una volta sono stato lapidato; tre volte ho fatto naufragio; ho passato un giorno e una notte negli abissi marini. Spesso in viaggio, in pericolo sui fiumi, in pericolo per i briganti, in pericolo da parte dei miei connazionali, in pericolo da parte degli stranieri, in pericolo nelle città, in pericolo nei deserti, in pericolo sul mare, in pericolo tra falsi fratelli; in fatiche e in pene; spesse volte in veglie, nella fame e nella sete, spesse volte nei digiuni, nel freddo e nella nudità. Oltre a tutto il resto, sono assillato ogni giorno dalle preoccupazioni che mi vengono da tutte le chiese».

Quanto era stato turbato lo spirito dei Galati! Quanti pensieri si affollavano nelle loro menti e nei loro cuori! Allora chiede che «la grazia del nostro Signore Gesù Cristo» sia con il loro «spirito» (v. 18). Il vecchio apostolo farà lo stesso augurio al suo figlio Timoteo: «Il Signore sia con il tuo spirito» (2 Timoteo 4:22). Ad altri dirà: «La grazia sia con voi». Ma a Timoteo, timido e forse ansioso, così come ai Galati turbati, egli chiede che il Signore stesso e la sua grazia siano con il loro spirito.

Un’ultima parola chiude la lettera: «fratelli»; e Paolo vi mette tutto il suo cuore, tutta la sua fiducia che il Signore avrebbe operato comunque, affinché le relazioni di comunione coi fratelli e sorelle della Galazia fossero mantenute. Non troviamo saluti, come nelle altre lettere; nessuno è nominato. Abbracciandoli tutti con uno stesso amore, egli li lascia con quest’unica parola: «Fratelli».

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