Piccolo commentario dell’Epistola agli Ebrei

Jean Koechlin

Le citazioni bibliche di questo commentario fanno riferimento alla versione Giovanni Luzzi

Ebrei

Capitolo 1, versetti da 1 a 14

L’autore dell’epistola agli Ebrei è probabilmente l’apostolo Paolo; ma Egli non si nomina, per lasciare tutto il posto al Signore Gesù, il grande «Apostolo della nostra professione di fede» (3:1). Dopo aver parlato per mezzo di tanti strumenti diversi, Dio ha finito per rivolgersi direttamente ad Israele e agli uomini mediante il suo unico Figlio (Marco 12:6…). Egli è «la Parola», la piena e definitiva rivelazione di Dio e, per darcene un’idea più elevata, ci comunica chi è questo Figlio: l’erede di tutte le cose, il creatore dei mondi, lo splendore della sua gloria e l’impronta della sua essenza, colui che sostiene tutte le cose (Giovanni 1:1 e 18). Ebbene! Colui che ha fatto i mondi ha anche fatto la purificazione dei peccati. Ma, mentre per creare gli è bastata una parola, per quest’ultima opera ha dovuto pagare un prezzo supremo: la propria vita!

Una serie di citazioni dei salmi definiti messianici: 2, 45, 102, 110, ecc… stabilisce l’esaltazione e la supremazia del Figlio di Dio. Gli angeli sono delle creature, Gesù è il Creatore; essi sono servitori, Lui è il Signore. Gli angeli, in modo invisibile, servono in nostro favore; solo Gesù ha compiuto la purificazione dei peccati, dei miei e dei vostri. E ciò che Egli è esalta incomparabilmente il valore di ciò che ha fatto.




Ebrei

Capitolo 2, versetti da 1 a 9

«Dio… ha parlato a noi mediante il suo Figlio…», ed è per questo, prosegue il capitolo 2, che dobbiamo attenerci sempre più alle cose che abbiamo udite… Sul monte santo, una voce dal cielo aveva già ordinato solennemente ai tre discepoli d’ascoltare non più Mosè o Elia, ma il diletto Figlio. «Ed essi, alzati gli occhi, non videro alcuno, se non Gesù tutto solo» (Matteo 17:5,8). Anche noi, per fede, «vediamo… Gesù» (v. 9). Il cap. 1 ce l’ha presentato secondo i suoi titoli divini di Creatore e Primogenito. Egli ci appare qui come l’Uomo glorificato e il vincitore della morte. Al cap. 1, tutti gli angeli di Dio gli rendono omaggio; al cap. 2, Gesù è stato fatto di poco inferiore agli angeli, a causa di questa morte, di cui ha dovuto conoscere il gusto infinitamente amaro (fine del v. 9). Ma il Salmo 8, qui citato, ci rivela l’insieme del proposito di Dio nei riguardi dell’uomo Cristo Gesù». Una corona di gloria e d’onore è sul suo capo; il dominio universale gli appartiene di diritto; ben presto ogni cosa si piegherà sotto la sua legge. Ma il posto occupato dal «duce della nostra salvezza» proclama già l’eccellenza di questa salvezza. Come scamperemo se la trascuriamo? (10:29). Stiamo ben attenti: è sufficiente essere negligenti, rimandare a più tardi… affrettiamoci ad afferrare «una così grande salvezza»!




Ebrei

Capitolo 2, versetti da 10 a 18

Ben s’addiceva a Dio… di rendere perfetto, per via di sofferenze, il duce della nostra salvezza (v. 10). «Piacque all’Eterno di fiaccarlo coi patimenti», dice altrove Isaia (53:10). E a quale scopo? Per condurre molti figli alla gloria. «Dopo aver dato la sua vita in sacrifìzio per la colpa, egli vedrà una progenie», scrive il profeta. Questi figli, che Dio ha dato a Cristo per essere suoi compagni nella gloria, sono i suoi cari riscattati. «Egli non si vergogna di chiamarli fratelli» (v. 11). Ma, per poter prendere in mano la loro causa, doveva essere reso simile a loro, diventare veramente un uomo (v. 14). Ed il nostro capitolo ci offre vari motivi, d’un valore infinito, di questo grande mistero: — Gesù è entrato nella nostra natura per glorificare Dio e permettergli di realizzare i suoi disegni nei riguardi dell’uomo. — Egli ha preso un corpo per poter morire e riportare così la vittoria sul principe della morte all’interno della sua fortezza. — Infine, Gesù ha rivestito la nostra umanità per entrare in modo più perfetto nelle nostre pene e per poterle comprendere con un cuore umano. L’esperienza della sofferenza gli permette di simpatizzare pienamente con noi nelle nostre prove come un sacerdote fedele e misericordioso. Quale consolazione per tutti gli afflitti!




Ebrei

Capitolo 3, versetti da 1 a 15

L’epistola agli Ebrei è stata definita «l’epistola dei cieli aperti». E chi contempliamo nei cieli? Gesù, contemporaneamente apostolo, cioè portavoce di Dio agli uomini, e sommo sacerdote, portavoce degli uomini davanti a Dio. Scrivendo ai cristiani ebrei, l’autore dimostrerà, basandosi sulla loro storia, come Gesù riunisca e superi nella sua persona le glorie di quelli che i Giudei veneravano: quelle di Mosè (cap. 3), di Giosuè (cap. 4), d’Aronne (cap. 5)… Ma non possiamo imparare a conoscere il Signore senza scoprire, allo stesso tempo, la perversità del cuore naturale. Dio lo definisce «un malvagio cuore incredulo», e ci ricorda che ciò è all’origine di tutte le nostre miserie. «Sempre erra il cuor loro», dichiara il v. 10 (confr. Marco 7:21). è per questo che chiunque ode la voce del Signore (e chi oserebbe dire di non averla mai udita?) è solennemente invitato tre volte a non indurire il suo cuore (v. 7,15; 4:7). Noi riferiamo generalmente questa esortazione all’udire l’evangelo; ma noi, che siamo cristiani, non abbiamo forse ogni giorno l’occasione di udire la voce del Signore nella sua Parola? Che Dio ci guardi da ogni forma d’insensibilità, qualunque siano oggi, per noi, le Sue esigenze!




Ebrei
 

Capitolo 3, versetti da 16 a 19
Capitolo 4, versetti da 1 a 7

Il riposo di Dio, nel settimo giorno dopo l’opera della creazione, fu presto turbato dal peccato dell’uomo; e da quel momento «fino ad ora» il lavoro del Padre e quello del Figlio non è più cessato in vista della redenzione degli uomini (Giovanni 5:17). Ma noi impariamo qui: 1° Che Dio ha sempre in vista il Suo riposo. 2° Che questo deve venire, e non è avvenuto con l’insediamento del popolo in Canaan sotto Giosuè. Israele godrà del riposo sulla terra solo nel Millennio, e la Chiesa lo gusterà nella gloria celeste. 3° Che, anche se Dio vuole condividere il riposo con la sua creatura, non tutti vi entreranno. Come avvenne nel deserto, l’incredulità (3:19) e la disubbidienza (4:6) chiudono anche oggi l’accesso alla promessa. D’altronde, Giovanni 3:36 ci mostra che chi disobbedisce si confonde con chi non crede (in alcune versioni «chi rifiuta di credere» è reso con «chi disubbidisce»). Infatti, fare l’opera di Dio significa credere in Colui che Egli ha mandato (Giovanni 6:29). Ahimè! Successe ad Israele quello che succede a molta gente oggi: «La parola udita non giovò loro nulla non essendo stata assimilata per fede…» (v. 2; leggere Romani 10:17). Così, è l’obbedienza al Signore che ci permette di entrare ora nel lavoro della sua grazia, e ci prepara a condividere domani il riposo del suo amore (Sofonia 3:17).




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Capitolo 4, versetti da 8 a 16

Fino al momento del nostro arrivo al riposo celeste, per noi, figli di Dio, è ancora tempo di fatica connessa al cammino, al servizio ed al combattimento. Ma non siamo lasciati senza risorse: delle tre che menziona questo capitolo, la prima è la Parola di Dio. Oggi udiamo la Sua voce… Questa Parola veglia sul nostro stato interiore. Essa è Vivente, cioè ci porta la vita; è efficace, perché compie il suo lavoro in noi (Efesini 6:17 ce la presenta, al contrario, come arma offensiva). Infine, è penetrante: lasciamoci sondare da essa!

Ma, accanto al peccato che la Parola mette in evidenza e condanna, vi sono in noi debolezza e infermità. Dio ha provveduto mediante altre due risorse: ci ha dato un grande Sommo Sacerdote, pieno di comprensione e simpatia. Quaggiù Cristo ha conosciuto tutte le forme della sofferenza umana per potere «al momento opportuno» mostrare nei riguardi dei suoi deboli riscattati tutte le forme del suo amore. In secondo luogo, ci ha aperto l’accesso al trono della grazia. Siamo invitati ad avvicinarci ad esso mediante la preghiera con libertà e fiducia in quanto vi incontriamo il nostro diletto Salvatore. è là, e solo là, che noi cerchiamo soccorso? (Salmo 60:11).




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Capitolo 5, versetti da 1 a 14

Che contrasto fra il santo Figlio di Dio e il sommo sacerdote preso in mezzo agli uomini, costretto ad essere indulgente a causa della sua propria infermità! Un altro contrasto risulta dal v. 8: per quel che ci riguarda, abbiamo bisogno d’imparare l’ubbidienza perché siamo, per natura, disubbidienti. Il Figlio di Dio ha dovuto impararla per un motivo totalmente diverso: essendo Creatore supremo, Egli non è mai stato soggetto a nessuno; ubbidire era per Lui una cosa del tutto nuova. Ma in questo modo Egli è un esempio e, come tale, s’impone ormai a «quelli che gli ubbidiscono» (v. 9). Qual è, in una collettività, il capo che ha maggiore autorità? è quello che ha cominciato eseguendo egli stesso, nelle condizioni più difficili, i compiti che esige dai suoi subordinati. Impariamo l’ubbidienza alla scuola del Signore Gesù. Ma che genere di allievi siamo? Non meritiamo spesso il rimprovero del v. 11: «duri d’orecchi»?

La Parola di Dio non è qui, come al cap. 4, la spada che discerne i pensieri del cuore, ma il cibo sodo che fortifica il figlio di Dio e lo rende capace di discernere da solo il bene e il male. Tale è il grande progresso del cristiano: diventare sempre più sensibile a ciò che piace al Signore… e a ciò che non gli piace.




Ebrei

Capitolo 6, versetti da 1 a 20

Avanziamo dunque, spiritualmente, verso lo stato di adulti. Non accontentiamoci, come quei cristiani usciti dal giudaesimo, di conoscere alcune verità elementari. Gesù vuole essere per noi più che un Salvatore; vuole essere un Signore, un Modello, un Amico supremo

I v. 4 a 6 sono stati spesso usati dal diavolo per turbare i figli di Dio. In realtà, non si tratta di veri credenti, ma di quelli che di cristiano hanno solo il nome. Nello stato morale così descritto, si cercherebbe invano la vita divina com’è comunicata all’anima del «vero» credente. Ma è possibile, purtroppo, vivere in mezzo ai privilegi del cristianesimo senza essere stati realmente convertiti! Così era per alcuni Giudei, ed è così, oggi, per tanti cristiani e per alcuni figli di genitori credenti. Per quanto riguarda i veri credenti, essi non possono perdere la salvezza, ma corrono sempre il pericolo di compiere passi falsi.

Accanto alle opere d’amore che Dio non dimentica, non devono essere trascurate la fede e la speranza (v. 10, 11, 12), le quali si nutrono delle promesse divine. Il cristiano conosce il porto, il suo rifugio ancora invisibile, in cui ha gettato l’ancora. Per quanto sia agitato il mare di questo mondo, la fede è «l’ormeggio» che unisce saldamente il riscattato al luogo celeste in cui si trova l’oggetto della sua speranza.




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Capitolo 7, versetti da 1 a 17

L’autore dell’epistola aveva molte cose da dire riguardo a Melchisedec (5:10,11). Questo misterioso personaggio compare nella storia d’Abramo (Genesi 14), agendo come mediatore, benedicendo il patriarca da parte del Dio altissimo, poi benedicendo il Dio altissimo a nome del patriarca. Ma tutto ciò che concerne la sua persona e le sue origini è lasciato nell’ombra, e noi ne comprendiamo il motivo. Ciò che interessa qui allo Spirito di Dio, non è l’uomo Melchisedec, ma la sua funzione. Re e sacerdote, egli è una «figura» del Signore Gesù quando regnerà in giustizia e sarà sacerdote sul suo trono. Il sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedec è sotto tutti i punti di vista superiore a quello d’Aronne:

  1. Melchisedec (Cristo) è più grande di Abramo, poiché il patriarca gli ha dato la decima ed è stato da lui benedetto.
  2. Questo sacerdozio, anteriore alla storia d’Israele, non è esercitato solo a beneficio del popolo di Dio, ma di ogni credente.
  3. Esso è infine intrasmissibile, poiché colui che lo esercita è sempre vivente (Romani 8:34).

 

Molte persone, nella cristianità, ritengono necessario ricorrere a degli intermediari, preti o «santi». Quest’epistola insegna loro che Dio ci ha dato un unico Sommo Sacerdote, perfetto e sufficiente per l’eternità (10:21,22).




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Capitolo 7, versetti da 18 a 28

Gesù non poteva essere il nostro sommo Sacerdote prima di venire «innalzato al di sopra dei cieli». Per poterci rappresentare davanti a Dio, era necessario che prima si offrisse Egli stesso per noi. Innanzitutto avevamo bisogno d’un Redentore. Ma ora, il Salvatore delle nostre anime è anche Colui che ci salva «appieno», ossia Colui che si occupa di noi fino al momento del nostro arrivo nella sua gloria. E, siccome Egli è vivente per l’eternità, noi abbiamo la certezza che non potrà mai venir meno. Avevamo bisogno d’un simile sommo sacerdote; la sua perfezione morale espressa in tutti i modi, e la sua posizione in gloria davanti a Dio, ci portano ad esclamare: «O Dio…, vedi e riguarda la faccia del tuo unto!» (Salmo 84:9).

Presto non avremo più bisogno della sua intercessione, che terminerà quando tutti i riscattati avranno compiuto il loro pellegrinaggio. Ma allora, perché è ripetuto: «Tu sei sacerdote in eterno»? (5:6; 6:20; 7:17,21). Perché il sacerdote è anche colui che guida la lode, servizio eterno che il nostro amato Salvatore non adempirà più da solo, ma con quelli che avrà salvato appieno e che saranno per sempre i suoi compagni nella gloria (2:12).




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Capitolo 8, versetti da 1 a 13

L’antico patto del Sinai era stato violato da Israele. Un nuovo patto, allora annunciato in Geremia 31:31, sarà concluso con questo popolo. Avuta la prova del fatto che l’uomo è incapace di mantenere un impegno nei riguardi di Dio, questo nuovo patto non gl’imporrà più nessuna condizione (Romani 11:27). L’unica sua base sarà il sangue di Cristo, chiamato «il sangue del patto» (Matteo 26:28). Quattro punti lo caratterizzeranno:

  1. I comandamenti del Signore saranno scritti sui cuori;
  2. Israele ritroverà la sua relazione di popolo dell’Eterno (v. 10; Zaccaria 8:8);
  3. La conoscenza del Signore sarà comune a tutti (v. 11; Isaia 54:13);
  4. Dio non si ricorderà più dei loro peccati né delle loro iniquità (v. 12).

 

I cristiani, per quel che li riguarda, non sono sotto un patto (c’è forse bisogno d’un contratto tra un padre ed i suoi figli?), ma usufruiscono già, ed anche di più, di tutte le benedizioni promesse ad Israele. La Parola divina è radicata in loro (confr. 2 Corinzi 3:3), ed essi sono ora figli di Dio, conoscono il Signore per mezzo dello Spirito Santo che abita in loro, hanno la certezza che i loro peccati sono stati cancellati per sempre. Lettore, questi privilegi sono anche i tuoi?




Ebrei

Capitolo 9, versetti da 1 a 15

I capitoli da 35 a 40 dell’Esodo raccontano come fu costruito il tabernacolo. Il Levitico dà le istruzioni riguardanti i sacrifici (cap. 1 a 7) e i sacerdoti (cap. 8 a 10). Ma tutti questi ordinamenti d’un culto terreno avevano dimostrato la loro tragica impotenza. Il tabernacolo era diviso da un velo invalicabile; il sacerdote, peccatore, era costretto ad offrire sacrifici per se stesso (v. 7; 5:3); i sacrifici di becchi e vitelli, infine, non potevano, «quanto alla coscienza, render perfetto» nessuno. Allora Dio ci parla d’un santuario celeste «più grande e più perfetto… non di questa creazione» (v. 11; 8:2). Ma a che cosa servirebbe se non ci fosse un sacerdote capace di assicurarne il servizio? E a che cosa ci servirebbe un sacerdote perfetto (cap. 5 a 8) se il sacrificio non fosse altrettanto perfetto? (cap. 9 e 10). Per la nostra completa sicurezza, Gesù è contemporaneamente l’uno e l’altro. Come sacrificio, ci dà la pace della coscienza. Come sacerdote, ci assicura la pace del cuore e ci mantiene nella comunione con Dio. Sotto l’antico patto tutto era precario e condizionato; ora, tutto è eterno: sia la redenzione (fine del v. 12; 5:9) che l’eredità (fine del v. 15). Niente ce le potrà rapire né rimettere in causa.




Ebrei

Capitolo 9, versetti da 16 a 28

«Senza spargimento di sangue non c’è remissione» (v. 22; leggere anche Levitico 17:11). Ciò che ogni sacrificio dell’antico patto proclamava e che Abele aveva già compreso per fede (11:4), è qui confermato nel modo più categorico: «il salario del peccato è la morte», ma il sangue versato sulla terra è la prova del fatto che questo salario è stato pagato (Deuteronomio 12:23,24). Il sangue di Cristo è stato «sparso per molti per la remissione dei peccati» (Matteo 26:28). Chi sono questi molti? Tutti coloro che credono! Il prezioso sangue di Cristo, continuamente sotto lo sguardo di Dio, li mette al riparo dalla Sua ira.

«è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola…»: non sarà loro accordata una seconda esistenza terrena. Tuttavia, non finisce tutto così, e la morte è poca cosa rispetto a ciò che la segue. Che cosa c’è dopo la morte? Basta una parola per rispondere… «…dopo di che viene il giudizio» (2 Timoteo 4:1; Apocalisse 20:12). L’uomo senza Dio ha davanti a sé due terribili realtà: la morte e il giudizio. Ma il riscattato, da parte sua, possiede due beate certezze: il perdono di tutti i suoi peccati e il ritorno del Signore per la sua liberazione finale (v. 28). Che ognuno dei nostri lettori possa far parte di «quelli che l’aspettano»!




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Capitolo 10, versetti da 1 a 18

La necessità di ripetere continuamente i sacrifici dell’antico patto dimostrava la loro inefficacia. A dire il vero, essi costituivano unicamente un atto commemorativo del peccato (v. 3). La giustizia di Dio non era soddisfatta, ed ancor meno poteva compiacersi in essi. Allora si è presentato qualcuno che ha preso in mano la nostra causa: solo Gesù era l’oggetto del compiacimento del Padre, solo Lui poteva essere l’offerta gradita, la santa vittima offerta una volta per sempre. Mentre i sacerdoti quaggiù restavano in piedi, perché non avevano mai terminato il loro servizio, Cristo si è seduto, prova del fatto che la sua opera è terminata. E Colui che si è seduto per sempre ci ha resi perfetti per sempre. Sì, perfetti, è così che Dio ci vede, dato che i nostri peccati sono stati lavati; e non si parla al futuro, è una cosa compiuta e definitiva. Ma non dimentichiamo che l’opera fatta per noi si unisce ad un’opera attuale in noi. Il Signore vuole mettere il suo amore ed i suoi comandamenti nel cuore di ognuno di noi (confr. v. 16; 8:10). Dal momento che, venendo nel mondo, ha detto al Padre: «Dio mio, io prendo piacere a far la tua volontà, e la tua legge è dentro al mio cuore», come potrebbe non desiderare che i suoi gli assomiglino? (v. 7,9; Salmo 40:6-8).




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Capitolo 10, versetti da 19 a 31

L’opera di grazia è terminata. Colui che l’ha compiuta è innalzato al di sopra dei cieli (7:26), e noi siamo invitati a entrarvi sulle sue orme, per quel sentiero nuovo e vivente ormai aperto al credente in Cristo. Il sangue di Gesù, la cortina squarciata, l’intervento in nostro favore d’un grande sacerdote, danno alla nostra fede una completa certezza. Avviciniamoci, fratelli, in piena «libertà». Che nulla ci trattenga dall’entrare nei luoghi santi… né dall’unirci regolarmente al radunamento dei figli di Dio (v. 25). Noi siamo convertiti non per vivere da soli, egoisticamente. Incoraggiamoci l’un l’altro all’amore e alla devozione.

La fine del paragrafo è particolarmente solenne. Peccare volontariamente, per i Giudei che professavano il cristianesimo, significava ritornare alla legge e calpestare così il santo Figlio di Dio, svalutare il suo prezioso sangue, prendersi gioco della grazia. Ma tutto questo può applicarsi anche a figli di genitori cristiani che abbiano respinto l’insegnamento ricevuto durante la loro giovinezza e scelto deliberatamente il sentiero del mondo. Giovani amici che possedete dei privilegi così grandi, ricordate che il sentiero del cielo non resterà sempre aperto per voi. Imboccatelo ora (Giovanni 6:37)!




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Capitolo 10, versetti da 32 a 39
Capitolo 11, versetti da 1 a 7

I cristiani ebrei avevano accettato, ed accettato con giusta allegrezza, la ruberia dei loro beni terreni (confr. Matteo 5:12). Qual era il loro segreto? La fede, che si appropriava di beni migliori e al di fuori della portata dei persecutori. Ma la fede non è necessaria solo nei brutti momenti, né al momento della conversione: essa è il principio vivente e vitale del giusto, e rende presente l’avvenire e visibile l’invisibile. Chi non la possiede non può perseverare, ma si trae indietro e Dio non lo gradisce (v. 38; 4:2; 1 Corinzi 10:5). Senza la fede, ripete il cap. 11:6, è impossibile piacergli. Ma ora Dio ci presenta alcuni di coloro in cui trova il suo compiacimento (Salmo 16:3). Al cap. 11, i diversi aspetti della vita della fede sono illustrati da vari testimoni dell’Antico Testamento. In Abele, vediamo questa fede appropriarsi della redenzione mediante l’offerta d’un sacrificio gradito a Dio. In Enoc, essa cammina verso la sua meta celeste. In Noè, condanna il mondo e predica la giustizia divina. La fede caratterizza così tutta la vita cristiana e, giunti ormai agli ultimi passi di questo cammino nella fede, non è il momento di gettar via la nostra fiducia! Ancora un brevissimo tempo, e Colui che deve venire verrà (v. 37). Si comprende chiaramente che Gesù è «Colui che ha da venire»; noi siamo «quelli che l’aspettano» (9:28).




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Capitolo 11, versetti da 8 a 16

Ancora una volta, Abramo e i suoi sono scelti da Dio per insegnarci che cos’è la fede. «Abramo, essendo chiamato, ubbidì…». Ubbidire a qualcuno senza conoscere le sue intenzioni mostra una piena fiducia in lui. Quando è Dio che lo ordina, la fede sa andare (v. 8) e sa anche abitare (v. 9). Al patriarca capitò d’abitare a Carran nel momento in cui doveva andare fino a Canaan (Atti 7:4), e gli capitò anche d’andare in Egitto quando avrebbe dovuto abitare nel paese (Genesi 12:10). Ma qui lo Spirito di Dio preferisce coprire questi passi falsi, così come passa sotto silenzio il riso di Sara, la triste fine della storia d’Isacco e il triste inizio di quella di Giacobbe. Della vita dei suoi, Dio ritiene solo ciò che lo glorifica; e solo la fede può glorificarlo.

Non è possibile avere contemporaneamente due patrie. La promessa d’una città celeste aveva dunque reso stranieri quaggiù Abramo e i suoi. Essi non ebbero paura di confessarlo (v. 13; Genesi 23:4), ma lo mostrarono chiaramente abitando sotto tende (2 Corinzi 4:18; 5:1). Non si sono vergognati del loro Dio, ed è per questo che Lui non si è vergognato di loro: Egli rivendica infatti il nome di Dio d’Abramo, d’Isacco, di Giacobbe.

Lettore, hai il privilegio di chiamarlo «il mio Dio»?




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Capitolo 11, versetti da 17 a 31

Il sacrificio d’Isacco prova che Abramo crede alla risurrezione (confr. Romani 4:17) e ama Dio più del suo unico figlio. La lunga storia di Giacobbe è «raccontata» dal suo bastone, che fu per lui strumento da pastore, sostegno di quand’era pellegrino, poi zoppo ed infine adoratore (v. 21). Di Isacco si potrebbe pensare che il suo discernimento sia stato piuttosto tardivo, e di Giuseppe che ci sarebbero state altre cose da ricordare invece di questa semplice raccomandazione riguardante le sue ossa. Ma ognuno dei patriarchi proclama a modo suo la fiduciosa attesa delle cose a venire. Mosè rifiuta… sceglie… stima… perché riguarda alla rimunerazione (vedere 10:35). Abbandona…, non teme…, resta costante…, perché vede Colui che è invisibile.

La fede è l’unica pietra di paragone che permette di apprezzare il vero valore e la durata relativa di ogni cosa, ma è, allo stesso tempo, l’energia interiore che rende capaci di trionfare, sia sugli ostacoli (l’ira del re, il mar Rosso, Gerico) che sulle concupiscenze: le delizie del peccato o le ricchezze dell’Egitto. Sì, la fede è energica e ardita. E, se l’esempio di Mosè ci sembra troppo elevato, c’incoraggerà quello di Raab, una semplice prostituta. Qualunque siano le nostre circostanze, Dio aspetta un frutto visibile della nostra fede.




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Capitolo 11, versetti da 32 a 40
Capitolo 12, versetti da 1 a 3

A partire dal v. 32 siamo nel paese di Canaan, e vi troviamo i giudici, i re, i profeti, il grande nugolo di testimoni che ci circonda, che ci ha preceduto e che ci aspetta per entrare in possesso delle cose promesse (v. 39, 40). Attraverso i tempi più cupi, la fiaccola della fede, passata di mano in mano, non si è mai spenta. Dio solo conosce la lista di questi martiri dimenticati e la tiene aggiornata. Ognuno ha la sua pagina inserita nel volume della fedeltà. L’esercito della fede conta degli esploratori (cap. 11) ed un Capo prestigioso; noi siamo la retroguardia. Oggi tocca a noi essere impegnati in questa «corsa a staffetta». Che cosa ci vuole per correre bene? Bisogna non essere né carichi né impacciati: cominciamo a liberarci di ogni peso e bagaglio inutile. Rigettiamo anche il peccato, questa rete che, purtroppo, ci fa inciampare «così facilmente»!

Ma non è tutto. Bisogna che un oggetto, come un’irresistibile calamita, ci attiri in avanti. Fissiamo i nostri sguardi su Gesù, Guida e Modello della vita della fede, suo Duce e suo perfetto Esempio. Anche Lui aveva un oggetto davanti a Sé, più potente della croce, della vergogna, di ogni sofferenza; erano le «gioie a sazietà» che dovevano coronare la vita dell’uomo di fede secondo il Salmo 16 (v. 11).




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Capitolo 12, versetti da 4 a 17

Un figlio è sottomesso, in famiglia, all’educazione paterna che gli farà versare qualche lacrima; ma, divenuto grande, avrà motivo di ringraziare i genitori. Se siamo figli e figlie di Dio, è impossibile che non abbiamo a che fare con la sua disciplina (v. 8), perché il Dio santo vuole formare i suoi figli a sua immagine (v. 10). Tuttavia, questa disciplina potrebbe produrre in noi due reazioni opposte: in primo luogo il disprezzo, il non tenerne alcun conto. Ma noi dobbiamo essere «per essa esercitati», cioè giudicarci davanti al Signore, ricercando il motivo per cui ci manda questa prova (Giobbe 5:17). Il secondo pericolo è quello di perdersi d’animo (v. 5; Efesini 3:13). Allora ricordiamoci che il credente che è esercitato dalla disciplina è chiamato «colui ch’Egli ama» (v. 6).

Ricerchiamo la pace con tutti, ma senza che questo vada a scapito della santificazione (v. 14). Non dimentichiamo che siamo noi stessi gli oggetti della grazia, e togliamo dal nostro cuore le radici velenose. Inizialmente nascoste, esse si manifesteranno prima o poi se non sono subito giudicate (Deuteronomio 29:18).

Esaù, che lo Spirito non ha potuto nominare nel capitolo precedente con i membri della sua famiglia, è citato qui per la sua vergogna eterna. Che nessuno di noi gli assomigli!




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Capitolo 12, versetti da 18 a 29

Anche qui è stabilito un contrasto tra ciò che offriva la legge e ciò che il cristiano possiede ormai in Cristo. Al terribile Sinai, Dio sostituirà la grazia in Sion nel prossimo regno del Messia (Salmo 2:6). Ma il figlio di Dio viene già verso un ordine più elevato di benedizioni: è invitato a percorrere i versanti di quella montagna della grazia, a penetrare per fede nella «città del Dio vivente», la Gerusalemme celeste, e a salutarne gli abitanti. Vi incontra le miriadi degli angeli, poi l’assemblea dei primogeniti, cioè la Chiesa. In alto vi è Dio stesso, «Giudice di tutti», che però riceve il credente come riscattato del suo Figlio. Ridiscendendo verso i piedi della montagna, verso la base divina di tutte queste glorie, il riscattato trova gli «spiriti dei giusti resi perfetti» del cap. 11 e Gesù, mediatore d’un nuovo patto suggellato col suo sangue.

«Con te, Signor, ivi sempre saremo», dice un cantico. Se tutte le cose mutevoli sono destinate a passare molto presto, io ricevo invece un regno incrollabile; il mio nome è scritto nei cieli (Luca 10:20), e la stessa grazia che mi dà la possibilità di accedervi, mi permette già ora di servire questo Dio santo; non in un modo che sia gradito a me, ma a Lui. Il rispetto, il timore di dispiacergli mi manterranno nel cammino della Sua volontà!




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Capitolo 13, versetti da 1 a 16

L’amore fraterno può esercitarsi sotto diverse forme: l’ospitalità, che torna a vantaggio di chi la pratica (v. 2), la simpatia, che s’identifica con coloro che soffrono (v. 3; 10:34), la beneficenza, della quale Dio stesso si compiace (v. 16).

Anche l’avarizia, purtroppo, ha diversi aspetti: si può amare il denaro che si possiede, ma anche quello che si desidererebbe avere. Impariamo ad accontentarci delle cose che abbiamo ora. E, per i bisogni o i pericoli di domani, appoggiamoci «con piena fiducia» sulla fedeltà del Signore (v. 6; Matteo 6:31-34). Colui che è il nostro aiuto non può cambiare. «Tu rimani lo stesso», proclamava il primo capitolo al v. 12; e il v. 8 lo completa con questa affermazione, d’un’insondabile portata: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi, e in eterno»! Se Egli ci basta, le «diverse e strane dottrine» non avranno alcuna presa su di noi (v. 9), e saremo pronti ad uscire dal campo religioso formalista (confr. Esodo 33:7) per andare verso Gesù solo, nel luogo in cui la Sua presenza è promessa. Egli ha offerto il sacrificio supremo di se stesso: noi abbiamo il privilegio di offrire a Dio, non solo la domenica, ma del continuo, un sacrificio di lode, il frutto delle nostre labbra ma che è maturato prima nel nostro cuore (Salmo 45:1).




Ebrei

Capitolo 13, versetti da 17 a 25

Abbiamo avuto dei conduttori fedeli. Ricordiamoci di loro, imitiamo la loro fede (v. 7). Ma Dio ci dà anche oggi dei conduttori (v. 17, 24). Qual è il nostro dovere nei loro riguardi? Obbedire, pregare per loro (v. 18), fare in modo che possano adempiere il loro servizio con allegrezza, poiché essi vegliano per le nostre anime. Ed anche sopportiamo la parola d’esortazione quando ci è rivolta da loro (v. 22). Tuttavia, che nessun operaio del Signore ci faccia perdere di vista il gran Pastore delle pecore. Egli solo ha dato la sua vita per loro, ed ora le conduce con Lui fuori del campo della religione umana. Ormai tutti i cristiani costituiscono un unico gregge, che ha alla sua testa un unico Pastore (Giovanni 10:4,16).

Uno dopo l’altro, nel corso dell’epistola, gli elementi del giudaesimo sono stati tolti e sostituiti dalle gloriose verità cristiane, che sono tutte riassunte in «Gesù Cristo». Ed è questa, infine, l’opera che Dio compie in noi (v. 21): Egli ci scioglie da ogni legame, ci spoglia da ogni forma, per unirci al suo Figlio, risorto e glorificato. Aspettando la sua prossima apparizione, che questa epistola ci insegni per fede, a già fissare gli occhi su Lui (12:2).

 

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