Il cristiano in casa sua
Charles Henry Mackintosh
“E l’Eterno disse a Noè: Entra nell’arca tu con tutta la tua famiglia”. (Genesi 7:1)
1. Introduzione: la casa di Dio e la casa del servitore di Dio
Vi sono due case che occupano un posto importantissimo nelle pagine ispirate: sono la casa di Dio e la casa del servitore di Dio. Dio attribuisce una immensa importanza alla Sua casa; e questo giustamente, poiché questa casa è la Sua. La sua verità, il suo onore, il suo carattere, la sua gloria sono inclusi nel carattere della sua casa; quindi è il suo desiderio che l’espressione di ciò che Egli è, caratterizzi in modo evidente tutto ciò che gli appartiene. Se Dio ha una casa, questa deve essere necessariamente una casa ove regni la pietà; deve essere santa e spirituale, pura e celeste; deve avere tutti questi caratteri, non soltanto in modo astratto e in principio, ma anche in pratica. La sua posizione è quella che Dio le ha dato; ma il suo carattere pratico è il risultato del cammino pratico di quelli che ne fanno parte quaggiù.
Molti forse sono disposti a comprendere la verità e l’importanza dei principi relativi alla casa di Dio, ma pochi comparativamente danno la dovuta importanza ai principi che debbono governare la famiglia dei servitore di Dio, ossia del credente. Tuttavia, se qualcuno facesse questa domanda: «Quale è la casa che dopo la casa di Dio ha maggior importanza davanti a Lui?» Si risponderebbe indubbiamente: «È la casa del servitore di Dio». Poiché nulla ha più potenza sulla coscienza che la santa autorità della Parola di Dio, desidero citare alcuni passi della Scrittura che dimostrano con forza e chiarezza quali sono i pensieri di Dio a riguardo di ciò che deve essere la casa di uno dei suoi figli.
2. L’insegnamento della Parola di Dio
2.1 Noè
Quando l’iniquità del mondo antidiluviano ebbe raggiunto il suo limite estremo e che, nei decreti del Dio giusto, la fine di ogni carne era giunta davanti a Lui, in modo che il suo giudizio stava per sommergere tutta quella scena di corruzione, si fecero udire all’orecchio di Noè queste dolci parole: «Entra nell’arca tu con tutta la tua famiglia, poiché t’ho veduto giusto nel mio cospetto» (Genesi 7:1). Si dirà, senza dubbio e con ragione che Noè era in questo caso un tipo di Cristo, — Capo giusto di tutta la famiglia dei salvati, — salvati in virtù della loro unione con Lui. Ma io vedo nella storia di Noè qualcos’altro ancora che un carattere tipico; vedo, qui e in altri passi analoghi, un principio il quale, fin dall’inizio di questo scritto, desidero esprimere esplicitamente, cioè che la famiglia di ogni servitore di Dio, in virtù della sua associazione con lui è posta in una posizione di privilegio e, per conseguenza, di responsabilità (*).
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(*) Escludo che il lettore possa pensare
che con questo io voglia negare o indebolire la necessità
dell’opera dello Spirito Santo per la rigenerazione dei figli dei
credenti. «Se uno non è nato di nuovo, non può
vedere il regno di Dio». Questo è vero per un figlio di
credente come per ogni altro. La grazia non è ereditaria. Il
sunto di ciò che volevo dire è che la Scrittura non vede
un uomo separatamente dalla sua famiglia; il padre cristiano può
contare su Dio per i suoi figli ed è responsabile di allevarli
per Lui; altrimenti come spiegare Efesini 6:4?
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Questo principio ha conseguenze pratiche infinite: è quello che ci proponiamo di constatare per mezzo della Parola di Dio. Se fossimo limitati a ragionare per analogia, la nostra tesi sarebbe facilmente stabilita; poiché non è possibile, per chi conosce il carattere e le vie di Dio, credere che Dio attribuisca una immensa importanza a ciò che riguarda la propria casa e non ne attribuisca alcuna o ben poco a ciò che riguarda quella del suo servitore. Essere indifferente a quello che concerne uno dei suoi figli, non si addice a quel Dio che è sempre coerente con Se stesso. Ma non è per via di analogia che siamo ridotti a trattare una questione così grave e così profondamente pratica; il passo citato non è che il primo d’una serie d’altri che sono prove positive di quello che desidero fare comprendere. In Genesi 7:1 troviamo le parole significative: Tu con tutta la tua famiglia inseparabilmente unite. Dio non rivela a Noè una salvezza senza profitto per la sua famiglia. Mai ha pensato una cosa tale.
La stessa arca, che era aperta per lui, era aperta anche per i suoi. Perché? Forse perché erano fedeli? No, ma perché Noè lo era ed essi erano uniti a lui. Dio gli dà per così dire un salvacondotto che deve servire per lui e per la sua famiglia. Lo ripeto, questo non indebolisce per nulla il carattere tipico di Noè. Io vedo in lui questo carattere, ma vedo anche in lui questo principio, secondo il quale, qualunque siano le circostanze, non si deve separare un uomo dalla sua famiglia. Il fatto implicherebbe di colpo la più violenta confusione, e la più bassa demoralizzazione. La casa di Dio è posta in una posizione di benedizione e di responsabilità perché è unita a Lui; e la casa del servitore di Dio è, per la stessa ragione, in una posizione di benedizione e di responsabilità. Tale è la nostra tesi.
2.2 Abrahamo
Il secondo passo che desidero citare, si riferisce alla vita di Abrahamo. «E l’Eterno disse: Dovrei forse nascondere ad Abraamo quanto sto per fare?… Infatti, io l’ho prescelto perché ordini ai suoi figli, e alla sua casa dopo di lui, che seguano la via dell’Eterno per praticare la giustizia e il diritto, affinché l’Eterno compia in favore di Abraamo quello che gli ha promesso.» Genesi 18:17-19. Questa non è una questione di salvezza, ma di comunione col pensiero e coi consigli di Dio. Il padre credente consideri e ponderi solennemente il fatto che, allorquando Dio cercò un uomo a cui potesse svelare i suoi consigli segreti, scelse colui che ordinava ai suoi figli e alla sua casa di praticare le vie del Signore.
Questo non può che impressionare vivamente una coscienza delicata; poiché se vi è una cosa nella quale i credenti siano in fallo in modo particolare, è proprio il dovere di comandare ai loro figli e alle loro case di servire il Signore. Essi non hanno certamente avuto Dio dinanzi a loro a questo riguardo; poiché, considerando le vie di Dio relativamente alla propria casa, le avrebbero viste costantemente caratterizzate dalla potenza sul principio della giustizia. Egli ha fermamente stabilito e invariabilmente mantenuta la sua santa autorità. Qualunque sia l’aspetto o il carattere esterno della casa di Dio, il principio essenziale delle sue dispensazioni a riguardo di essa è immutabile: «I tuoi statuti sono perfettamente stabili; la santità s’addice alla tua casa, o Eterno, per sempre» (Salmo 93:5). Ora, il servitore deve sempre prendere a modello il suo maestro, e se Dio governa la sua casa con potenza esercitata in giustizia, così, debbo pure governare la mia; poiché se in qualunque particolare, agisco in modo diverso da Dio, ho evidentemente torto.
E Dio non solo governa la sua casa come abbiamo detto, ma altresì, ama, approva e onora della sua fiducia quelli che lo imitano. Nel passo citato, lo udiamo dire: «Non posso nascondere i miei disegni ad Abrahamo». Perché questo? Semplicemente perché «comanderà ai suoi figli e alla sua casa di servire l’Eterno». Un uomo che sa comandare questo alla sua casa è degno della fiducia di Dio. È una verità notevole, la cui importanza spero, si imporrà alla coscienza dei genitori cristiani. Parecchi d’infra noi, ahimè! meditando su Genesi 18:19, dovranno dire, prostrandosi davanti a Colui che ha detto e fatto scrivere queste parole: «Quale umiliante e vergognosa caduta da parte mia».
Perché ci troviamo noi in tale caso? Perché abbiamo noi così fallito alla solenne responsabilità che ci incombeva relativamente al governo della nostra casa? A mio avviso, la sola risposta che si possa dare a questa domanda è che non abbiamo saputo realizzare per la fede il privilegio conferito a questa casa, in virtù della sua associazione con noi.
È notevole che i due primi passi che abbiamo considerato ci presentino in modo esatto le due grandi divisioni del nostro soggetto, cioè: il privilegio e la responsabilità. Nel caso di Noè, la parola, era: «Tu con la tua famiglia» in rapporto con la salvezza. Nel caso di Abrahamo, era: «Tu e la tua famiglia» in rapporto col governo morale. Il rapporto è ad un tempo notevole e bellissimo e l’uomo che manca di fede per appropriarsi il privilegio, mancherà anche di potenza morale per realizzare la responsabilità. Dio considera la casa di un uomo come una parte di lui, e costui non può in nessuna maniera, sia in principio che in pratica, trascurare questa relazione, senza subirne un serio danno e senza nuocere alla testimonianza.
Ora, la domanda che si impone ad un padre cristiano è questa: «Conto io sopra Dio riguardo alla mia casa, e governo io la mia casa per Dio?». Domanda solenne invero, tuttavia è da temere che pochi cristiani ne sentano l’importanza e la gravità. Forse il mio lettore sarà disposto a chiedere altre prove scritturali riguardo al nostro diritto di contare sopra Dio per le nostre famiglie. Io citerò dunque ancora la Scrittura.
2.3 Giacobbe
Ecco una citazione tratta dalla storia di Giacobbe : «Dio disse a Giacobbe: “Àlzati, va’ ad abitare a Betel”». Questa parola sembra indirizzata esclusivamente a Giacobbe; ma nemmeno un istante egli ebbe il pensiero di isolarsi dalla sua famiglia, né riguardo al privilegio, né riguardo alla responsabilità, anzi è subito aggiunto: «Allora Giacobbe disse alla sua famiglia e a tutti quelli che erano con lui: “Togliete gli dèi stranieri che sono in mezzo a voi, purificatevi e cambiatevi i vestiti; partiamo, andiamo a Betel”» (Genesi 35:1-4). Vediamo così che un appello rivolto a Giacobbe pone tutta la casa sua sotto una responsabilità. Giacobbe era chiamato a salire alla casa di Dio, e la domanda che immediatamente si presenta alla sua coscienza è: «La casa mia si trova essa in uno stato convenevole per rispondere a questa chiamata?».
2.4 L’Egitto
Giungiamo ora ai primi capitoli del libro dell’Esodo, ove troviamo che una delle quattro obiezioni presentate da Faraone per rifiutare di lasciare uscire il popolo d’Israele dall’Egitto era relativa ai bambini (Esodo 10:8-9). «Allora [i servitori del faraone] fecero ritornare Mosè e Aaronne dal faraone. Egli disse loro: “Andate, servite l’Eterno, il vostro Dio; ma chi sono quelli che andranno?” Mosè disse: “Noi andremo con i nostri bambini e con i nostri vecchi, con i nostri figli e con le nostre figlie; andremo con le nostre greggi e con i nostri armenti, perché dobbiamo celebrare una festa all’Eterno”». Il motivo per cui dovevano prendere giovani e vecchi con loro era per celebrare una festa all’Eterno. La natura poteva dire: «Che cosa possono comprendere questi fanciulli ad una tale festa? Non temete voi di farne dei formalisti?». La risposta di Mosè è semplice e decisiva: «Noi andremo con i nostri bambini ecc… (vers. 9) perché dobbiamo celebrare una festa all’Eterno».
I genitori Israeliti non avevano il pensiero di dover ricercare una cosa per loro stessi ed un’altra per i loro figli. Non bramavano Canaan per loro stessi e l’Egitto per i loro figli. Come avrebbero essi potuto nutrirsi della manna del deserto e del frumento del paese della promessa mentre i loro figli si sarebbero saziati dei porri, delle cipolle e degli agli dell’Egitto? Era impossibile; né Mosè né Aaronne avrebbero mai compreso un tale modo di agire. Sentivano che un appello di Dio rivolto ad essi era un appello rivolto anche ai loro figli, e inoltre, se non ne fossero stati pienamente convinti, appena usciti dall’Egitto vi sarebbero stati di nuovo attirati dai loro figli che vi erano rimasti. Satana sapeva benissimo che ne sarebbe stato così, perciò suggeriva al Faraone questa obiezione: «Allora no, andate soltanto voi uomini e servite l’Eterno». È quello che molti cristiani professanti fanno o cercano di fare oggigiorno. Professano di uscire dall’Egitto per servire il Signore, e vi lasciano i loro figli. Professano di aver fatto «il cammino di tre giorni nel deserto»; in altre parole, professano di aver lasciato il mondo, di essere morti al mondo e risuscitati con Cristo, professano di possedere una vita celeste ed essere eredi di una gloria celeste, ma lasciano i loro figli indietro nelle mani di Faraone o piuttosto di Satana. Hanno rinunciato al mondo per loro stessi, ma non possono rinunziarvi per i loro figli. Nel giorno del Signore, rivestono la professione di stranieri e viaggiatori, cantano inni, pregano, edificano, insegnano, sembrano molto avanzati nella vita celeste e quasi toccare le frontiere di Canaan, ma purtroppo fin dal lunedì mattina, i loro atti e le loro abitudini contraddicono la professione del giorno precedente. I loro figli sono allevati per il mondo; lo scopo, la direzione e il genere di educazione dato ad essi, la scelta della loro vocazione, tutto è mondano nel senso più vero e più stretto della parola. Mosè ed Aaronne non avrebbero potuto ammettere un tale modo di fare, come anche un cuore, moralmente retto e sinceramente integro, non lo potrebbe comprendere.
Non debbo avere per i miei figli nessun altro principio, nessun altro oggetto da procacciare, nessun’altra prospettiva di quelli che ho per me stesso; e debbo vegliare affinché non siano portati ad averne altri. Se Cristo e la gloria celeste sono sufficienti per me, sono sufficienti anche per essi; ma bisogna che la prova che sono realmente sufficienti per me non sia equivoca. Il carattere d’un padre o di una madre cristiani, dovrebbe essere tale da non dar luogo all’ombra di un dubbio, relativamente a ciò che costituisce l’oggetto o lo scopo positivo dell’anima loro. Che cosa penserà mio figlio, se gli dico che desidero ardentemente che sia reso partecipe di Cristo e del cielo, e nello stesso tempo, lo allevo per il mondo? Che crederà egli? Che cosa eserciterà la più potente influenza sul suo cuore e sulla sua vita? Le mie parole oppure i miei atti? Risponda la coscienza, e sia la risposta retta e franca.
Per ogni uomo di preghiera, deve essere evidente che lo stato attuale del cristianesimo è miseramente basso, che vi deve essere in esso, qualcosa di radicalmente cattivo. In quanto alla testimonianza relativa al Figlio di Dio, come purtroppo ci si pensa poco! Il novantanove per cento dei cristiani professanti, pensa che siano lasciati quaggiù solo per essere salvati, e non come dei salvati per glorificare Cristo.
Ebbene, vorrei con affetto, ma anche con fedeltà, chiedere ai miei lettori se, in gran parte almeno, non si potrebbe attribuire la caduta riguardo alla testimonianza pratica per Cristo, alla negligenza del principio che troviamo implicato in queste parole: «Tu e la tua casa»? Sono convinto che questa negligenza vi entri per molto. Una cosa certa è, che molta mondanità, confusione e male morale si sono infiltrati in mezzo a noi perché i nostri figli sono stati lasciati in Egitto. Parecchi presero, un tempo, nella Chiesa una posizione eminente di testimonianza e di servizio e sembravano essere con tutto il cuore all’opera del Signore, ma ora sono indietreggiati in modo lamentevole. Tutto ciò non grida forse altamente ai genitori cristiani: «Badate di non lasciare i vostri figli in Egitto»?
Quanti cuori di padri sono straziati per aver mancato di fedeltà nel governo della propria casa! Hanno lasciato i loro figli in Egitto, lasciandosi gravemente illudere, ed ora che, con reale fedeltà e serio affetto, cercano di avvertirli del pericolo, non incontrano che cuori sedotti e sordi agli avvertimenti, cuori attaccati con decisione e vigore a questo Egitto nel quale la loro incoerenza e la loro debolezza li aveva lasciati. È un fatto profondamente serio la cui sola menzione potrebbe lacerare più di un cuore; ma la verità deve essere detta; e se, per alcuni può sembrare offensiva, per altri può essere un salutare avvertimento (*).
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(*) Debbo dire che vi è una grande
incoerenza nella condotta di genitori cristiani che affidano
l’educazione dei loro figli a persone inconvertite, oppure a
persone che, pur facendo professione di essere convertite, non sono
separate dal mondo. È naturale che un bambino guardi a colui che
gl’insegna e sia condotto ad imitarlo. Che impulso può
comunicare ad un bambino chi è incaricato di dirigerlo e di
istruirlo? Tende naturalmente a farsi imitare, a fare del bambino
ciò che lui stesso è. Stando così le cose, debbo
io affidare ad una persona inconvertita, diretta da principi mondani,
la cura dei miei figli, la loro educazione e la formazione del loro
carattere?
[BibbiaWeb — L’autore si riferisce qui al fatto corrente
nel XIX secolo di affidare i suoi figli a una governante che infatti
sostituiva i genitori.]
Le stesse considerazioni possono applicarsi ai libri
che i genitori lasciano leggere ai figli. Un libro è
effettivamente un educatore, e per quanto silenzioso, non ha per questo
meno influenza sullo spirito, sul cuore e sul carattere del
fanciullo.
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Ritorno alle prove scritturali che debbo produrre. Nel libro dei Numeri, i piccoli fanciulli ci sono ancora presentati. Abbiamo già visto che un credente fedele in comunione con Dio non può mai di proposito deliberato lasciare i suoi figli in Egitto. Bisogna che ne escano a qualunque costo; ma né la fede, né la fedeltà dei genitori cristiani si limiterà a questo. Dobbiamo contare su Dio non solo per farli uscire dall’Egitto, ma anche per condurli in Canaan. A questo riguardo, Israele ha mancato in modo evidente, poiché, quando le spie ritornano da Canaan, il popolo udendo il rapporto scoraggiante di esse, lasciò sfuggire queste tristi parole: «Perché l’Eterno ci conduce in quel paese dove cadremo per la spada? Là le nostre mogli e i nostri bambini diventeranno preda del nemico. Non sarebbe meglio per noi tornare in Egitto?» (Numeri 14:3). Spaventevole stato d’animo, che, per quanto dipendesse da loro, realizzava quella minaccia astuta e malvagia di Faraone: «Come io lascerò andare voi e i vostri bambini! Ma voi avete delle cattive intenzioni!» (Esodo 10:10). L’incredulità giustifica sempre Satana e fa Dio bugiardo, mentre invece la fede giustifica sempre Dio e fa Satana mentitore e, come è sempre vero che ci vien fatto secondo la nostra fede, è anche sempre vero che l’incredulità miete ciò che ha seminato.
Così ne fu di Israele infelice perché era incredulo. «Com’è vero che io vivo, dice l’Eterno, io vi farò quello che ho sentito dire da voi. I vostri cadaveri cadranno in questo deserto; e voi tutti, quanti siete, di cui si è fatto il censimento, dall’età di vent’anni in su, e che avete mormorato contro di me, non entrerete di certo nel paese nel quale giurai di farvi abitare… I vostri bambini, di cui avete detto che sarebbero preda dei nemici, quelli farò entrare; ed essi conosceranno il paese che voi avete disprezzato.» (Numeri 14:28-32). Limitavano il Santo d’Israele in merito ai loro piccoli. Era un grave peccato, e queste cose ci sono dette per il nostro ammaestramento. Così, non accade egli sovente che il cuore dei genitori cristiani ragioni sul modo in cui debbono agire verso i loro figli, invece di metterli semplicemente sul terreno di Dio?
2.5 I nostri figli non convertiti
Ma forse si dirà: «Non possiamo fare dei nostri figli dei cristiani», ma non si tratta di questo. Non siamo chiamati a fare di essi qualche cosa; questa è l’opera di Dio e di Dio solo; ma se ci è detto: «Menate con voi i vostri figli», rifiuteremo noi di obbedire? Si dirà ancora: «Non vorrei fare di mio figlio un formalista e non potrei neanche farne un vero cristiano»; ma, se nella sua infinita grazia Dio mi dice: «Io considero la tua casa come una parte di te stesso, e benedicendoti, la benedirò», debbo io per incredulità respingere questa benedizione sotto pretesto di evitare il formalismo o quello della mia impotenza per comunicare la verità? Dio ci guardi da uno sviamento tale. Rallegriamoci invece e con azioni di grazie di ciò che Dio ci ha benedetti di una benedizione così ricca, così abbondante e che si estende non solo a noi, ma anche a tutti quelli che ci appartengono; e poiché la grazia ci ha concesso questa benedizione, bisogna che per la fede la afferriamo e l’appropriamo alle nostre famiglie.
Ricordiamoci che il mezzo di provare che sappiamo godere d’una benedizione, è quello d’essere fedeli alla responsabilità che essa impone. Dire che io conto su Dio per condurre i miei figli in Canaan e, ad un tempo, allevarli per l’Egitto, è una perniciosa illusione. La mia condotta proclama che la mia professione è una menzogna, e non devo stupirmi se, nelle sue giuste dispensazioni, Dio permette che io raccolga i frutti amari delle mie vie (*). La condotta è la prova migliore della realtà delle nostre convinzioni, e in questo come in ogni cosa, questa parola del Signore è solennemente vera: «Se uno vuol fare la volontà di Colui che mi ha mandato, conoscerà se questa dottrina è da Dio» (Giovanni 7:17). Ma sovente vogliamo conoscere la dottrina prima di fare la Sua volontà e risulta che siamo lasciati nella più profonda ignoranza. Fare la volontà di Dio a riguardo dei nostri figli è considerarli, come Egli lo fa, come una parte di noi stessi, ed allevarli in conseguenza. Non si tratta soltanto di sperare che più tardi essi saranno manifestati come dei figli di Dio, ma di considerarli come essendo già sotto la benedizione, e agire con loro secondo questo principio, ad ogni riguardo. Si potrebbe concludere dai pensieri e dagli atti di parecchi cristiani che i loro figli non sono per loro che dei gentili che non hanno per il presente nessun interesse in Cristo, nessuna relazione qualsiasi con Dio. Questo significa fare ben poco caso del suggello divino. Non si tratta qui affatto della questione troppo sovente discussa del battesimo dei fanciulli o degli adulti. No, è semplicemente e unicamente una questione di fede nella potenza e nell’estensione di questa parola misericordiosa: «Tu e la casa tua» — parola la cui forza e bellezza ci appariranno sempre meglio di mano in mano che avanzeremo in questo breve scritto.
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(*) Parecchi si consolano della condotta
dei loro figli con la sicurezza che, una volta o l’altra, saranno
convertiti. Ma bisogna metterli subito sul terreno di Dio. Se abbiamo
la certezza che sono dei figli di Dio, perché non agire in
conseguenza? Se aspettiamo di vedere certe prove di conversione in
loro, è chiaro allora che guardiamo ad altro che alla promessa
di Dio. Il cristiano deve, fin d’ora, considerare il suo figlio
come appartenente a Cristo, e deve perciò allevarlo in
conseguenza, confidandosi in Dio, con una completa sicurezza, per il
risultato. Se prima di agire così, aspetto di vedere dei frutti,
non è fede; e durante questo tempo i miei figli potranno
vagabondare, per così dire, lungi dai sentieri del Signore,
portando dell’obbrobrio sul Suo Nome e sul suo Evangelo. Mi
basterà forse dirmi: «Essi saranno convertiti più
tardi?». No, i miei figli dovrebbero essere, fin d’ora,
una testimonianza per Dio, ed essi non possono esserlo, se non scelgo
per loro, fin d’ora, il terreno di Dio e non cammino con Lui in
ciò che li concerne.
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2.6 I genitori e i figli sempre considerati insieme
Nel capitolo 16 dei Numeri verso 26-27 troviamo pure che i figli sono considerati come inseparabilmente uniti ai loro genitori, e questo in una circostanza delle più tragicamente solenni. «Mosè disse alla comunità: “Allontanatevi dalle tende di questi uomini malvagi, e non toccate nulla di ciò che appartiene a loro, affinché non periate a causa di tutti i loro peccati”. Così quelli si allontanarono dalla dimora di Core, di Datan e di Abiram. Datan e Abiram uscirono e si fermarono all’ingresso delle loro tende con le loro mogli, i loro figli e i loro bambini». Tutti quei fanciulli scesero vivi nel soggiorno dei morti; la terra si richiuse su loro ed essi scomparvero, non per essersi personalmente associati alla ribellione, ma a causa della loro identità coi genitori ribelli. Sia in benedizione, sia in giudizio, Dio tratta i figli come essendo uno coi loro genitori. Ci si può chiedere: Perché? E Dio risponde in Esodo 34:6-7: «L’Eterno passò davanti a lui, e gridò: «L’Eterno! L’Eterno! il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco in bontà e fedeltà, che conserva la sua bontà fino alla millesima generazione, che perdona l’iniquità, la trasgressione e il peccato ma non terrà il colpevole per innocente; che punisce l’iniquità dei padri sopra i figli e sopra i figli dei figli, fino alla terza e alla quarta generazione!».
Alcuni possono trovar difficile di conciliare questo passo con quello di Ezechiele 18:20, ove è detto: «La persona che pecca è quella che morirà, il figlio non pagherà per l’iniquità del padre, e il padre non pagherà per l’iniquità del figlio; la giustizia del giusto sarà sul giusto, l’empietà dell’empio sarà sull’empio». In quest’ultimo versetto, il padre e il figlio sono considerati nella loro propria capacità individuale e, di conseguenza, sono giudicati secondo lo stato morale di ognuno d’essi individualmente. È qui una questione assolutamente personale.
Da un capo all’altro del Deuteronomio, gli Israeliti sono ammaestrati da Dio a mettere i comandamenti, gli statuti, i giudizi ed i precetti della Legge dinanzi ai loro figli; e questi sono rappresentati come chiedendo informazioni in parecchie circostanze, sulla natura e sullo scopo di diversi ordinamenti ed istituzioni.
Giungiamo ora a quella bella dichiarazione di Giosuè: «Scegliete oggi chi volete servire… quanto a me e alla casa mia, serviremo l’Eterno» (Giosuè 24:15). Notate che non è detto soltanto quanto a me, ma «quanto a me, e alla casa mia». Comprendeva che non bastava che egli, Giosuè, fosse perfettamente puro da ogni contatto con le contaminazioni e le abominazioni dell’idolatria; sentiva, sempre più di dover vegliare sul carattere morale e sulle azioni della sua famiglia. Benché Giosuè non adorasse gli idoli, non sarebbe forse stato colpevole se i suoi figli avessero servito gli idoli? Inoltre, la testimonianza per la verità sarebbe stata tanto realmente rovinata dall’idolatria della casa di Giosuè che dall’idolatria di Giosuè stesso; e il giudizio sarebbe stato certamente eseguito. È molto importante di comprenderlo bene: la verità di questo ci è solamente dimostrata al principio del primo libro di Samuele, da queste parole: «Allora l’Eterno disse a Samuele: «Ecco, io sto per fare in Israele una cosa tale che chi la udrà ne avrà intronati tutt’e due gli orecchi. In quel giorno io compirò contro Eli, dal principio fino alla fine, tutto ciò che ho detto circa la sua casa. Gli ho predetto che avrei esercitato i miei giudizi sulla sua casa per sempre, a causa dell’iniquità che egli ben conosce, poiché i suoi figli hanno attirato su di sé la maledizione ed egli non li ha sgridati» (l Samuele 3:11-13).
Da questo esempio, vediamo che qualunque sia il carattere personale del servitore di Dio, il Signore non lo terrà per innocente, se non disciplina convenientemente la sua famiglia. Egli avrebbe dovuto reprimere i suoi figli. Era il suo privilegio, come anche il nostro, di poter contare sulla potenza di Dio per agire con sé in vista di sottomettere ogni elemento che, nella sua casa, fosse in stato di compromettere la testimonianza che doveva a Dio. Ma egli non agì in questo senso e non seppe prevalersi di questa potenza per sormontare il male nei suoi; in tal modo la fine di Eli fu un terribile giudizio; perché il suo cuore non era stato rotto a riguardo della sua famiglia, la sua nuca si ruppe a riguardo della casa di Dio. Se avesse contato su Dio ed agito fedelmente con Lui per reprimere i suoi figli colpevoli, secondo la santa responsabilità che aveva di farlo, la casa di Dio non sarebbe stata contaminata, e l’arca di Dio non sarebbe stata presa. Brevemente, se Eli avesse considerato la propria famiglia come una parte di sé, l’avrebbe certamente resa come avrebbe dovuto essere, e allora non avrebbe attirato su di sé il terribile giudizio di Colui che ha per principio di non separare mai queste parole: «Tu e la casa tua».
Purtroppo, da allora quanti genitori hanno camminato sulle tracce d’Eli! Quanti ve ne sono che, avendo un’idea del tutto falsa della base e del carattere delle loro relazioni coi figli, agiscono verso loro secondo il principio d’un’indulgenza illimitata e permettono che essi facciano la loro propria volontà fin dall’infanzia. Non ponendoli per la fede sul terreno divino, questi genitori non hanno neppure la forza morale di mettersi sul terreno umano per rendere i loro figli rispettosi ed ubbidienti; e ne risulta il più triste spettacolo d’insubordinazione e di confusione.
Il primo scopo che il servitore di Dio deve proporsi nel governo della propria casa, è che vi sia in essa una testimonianza resa alla gloria di Colui alla cui casa egli stesso appartiene. È questo il vero principio che deve soprattutto agire sul cuore e sulla condotta d’un padre cristiano. Così egli deve tenere i figli nell’ordine, non perché essi gli diano meno pena e più riposo, ma perché la gloria di Dio è implicata nel buon ordine delle famiglie di tutti quelli che fan parte della casa di Dio.
Ma, si obietterà forse che tutto quel che abbiamo detto fin qui su questo punto, abbia relazione coll’Antico Testamento donde l’abbiamo tratto. Ovvero, si dirà ancora: Dio agisce verso noi secondo il principio dell’elezione e della grazia, che conduce alla chiamata individuale, senza riguardo ad alcun legame o ad alcuna relazione domestica, talché può accadere che un credente molto pio, molto devoto e attaccato alle cose celesti, si trovi tuttavia a capo d’una famiglia empia, sregolata e mondana. Ebbene, in opposizione a questa obiezione, mantengo che i principi del governo morale di Dio sono eterni e debbono, per conseguenza, essere gli stessi ed avere la loro applicazione in tutti i tempi. Dio non può insegnare, in un dato tempo, che un uomo e la sua famiglia sono uno e che il capo deve governarla convenientemente, poi insegnare, in un altro tempo, che il padre e la sua famiglia non sono uno e che il padre è libero di dirigerla come gli piace. È impossibile.
L’approvazione o la disapprovazione di Dio a riguardo di tale o tal altra cosa deriva da quel ch’egli è in Se stesso; e poiché Dio governa la propria casa secondo ciò ch’egli è in Sé stesso, così comanda ai suoi servitori di dirigere le loro case secondo lo stesso principio. La dispensazione della grazia ossia del cristianesimo ha forse annullato questo bell’ordine morale? — Oh! no, anzi, vi ha aggiunto se è possibile, nuovi dati di bellezza. Se la casa d’un Giudeo era considerata come una parte di lui stesso, quella d’un cristiano lo sarebbe meno? No, certamente. Sarebbe fare un triste abuso ed una falsa applicazione della parola celeste «grazia», se ce ne autorizzassimo per giustificare il disordine e la demoralizzazione che regnano, al giorno d’oggi, nelle famiglie d’un gran numero di cristiani. È veramente la grazia a far sì che un padre allenti la briglia alla volontà dei suoi figli? È forse agire secondo la grazia lasciare che s’abbandonino ai capricci, alle concupiscenze, alle passioni d’una natura corrotta?
Ah! guardatevi bene dal chiamare ciò col nome di grazia, per tema che abbiate a perdere l’intelligenza del vero senso di questa parola, e che giungiate ad immaginare che la grazia sia il principio di tutto questo male! Chiamate queste vedute col loro proprio nome, — un mostruoso abuso della grazia, una negazione di Dio, non solo come Governatore nella sua propria casa, ma anche come Amministratore morale dell’universo; — una contraddizione flagrante di ogni precetto ispirato.
Ma, lasciando l’Antico Testamento, vediamo nelle pagine sacre del Nuovo Testamento, se non troveremo numerose prove all’appoggio della nostra tesi.
2.7 Nel Nuovo Testamento
In questa grande divisione del libro, lo Spirito Santo separa forse la famiglia di un uomo dai privilegi e dalla responsabilità che l’Antico Testamento vi attribuisce? Ci convinceremo facilmente che non è così. Eccone delle prove: Quando il Signore Gesù manda in missione i suoi discepoli, dice loro: «In qualunque città o villaggio sarete entrati, informatevi se vi sia là qualcuno degno di ospitarvi, e abitate da lui finché partirete. Quando entrerete nella casa, salutate (Il saluto era questo: Pace sia su questa casa!). Se quella casa (non soltanto il capo di casa) ne è degna, venga la vostra pace su di essa; se invece non ne è degna, la vostra pace torni a voi.» (Evangelo di Matteo 10:11-13). Altrove leggiamo: «Gesù disse a Zaccheo: Oggi la salvezza è entrata in questa casa, poiché anche questo è figlio d’Abraamo; perché il Figlio dell’uomo è venuto per cercare e salvare ciò che era perduto» (Luca 19:9-10). Così nel caso di Cornelio: «L’Angelo… gli aveva detto: Manda qualcuno a Joppe, e fa’ venire Simone, detto anche Pietro; Egli ti parlerà di cose, per le quali sarai salvato tu e tutta la tua famiglia» (Atti 11:13-14). Fu pure detto al carceriere della città di Filippi: «Credi nel Signore Gesù, e sarai salvato tu e la tua famiglia» (Atti 16:31). E poi ne troviamo il risultato pratico: «Poi li fece salire in casa sua, apparecchiò loro la tavola, e si rallegrava con tutta la sua famiglia, perché aveva creduto in Dio» (vers. 34). Nello stesso capitolo, Lidia, dopo essere stata battezzata con quei di casa sua, disse: «Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, entrate in casa mia, e alloggiatevi» (vers. 15). «Conceda il Signore misericordia alla famiglia di Onesiforo»; e perché? Era forse a causa dei buoni servizi di questa casa verso l’apostolo? No, disse Paolo, ma poiché egli, Onesiforo, «mi ha molte volte confortato e non si è vergognato della mia catena» (2 Timoteo 1:16). «Bisogna dunque che il vescovo (o sorvegliante) sia irreprensibile… che governi bene la propria famiglia e tenga i figli sottomessi e pienamente rispettosi (perché se uno non sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di Dio?)» (1 Timoteo 3:2,4,5).
In tutte queste citazioni, troviamo la stessa grande verità, cioè che, quando Dio visita un uomo accordandogli delle benedizioni e delle responsabilità, visita nello stesso modo la famiglia di quest’uomo. Percorrete il canone intero dell’ispirazione, ovunque vedrete questo principio pratico accuratamente stabilito. È degno di Dio di farcelo conoscere; ma, purtroppo, fratelli amati dal Signore, quanto vi siamo stati infedeli e quale pregiudizio ha ricevuto la testimonianza al Figlio di Dio, in questi ultimi tempi, a causa delle nostre mancanze a questo riguardo e a tante altre cose!… Il male s’è manifestato, è vero, sotto diverse forme: orgoglio, vanità, mondanità, spirito carnale, motivi tristemente misti, empio sviluppo d’un’energia puramente carnale o intellettuale, impiego della preziosa Parola di Dio come d’un piedestallo, per innalzarci, meschine pretese, ad una posizione nella Chiesa o nel mondo, affettazioni di doni, esposizione sleale di principi di cui le nostre coscienze non hanno mai realmente esperimentato l’ascendente, presentazione agli altri d’una bilancia in cui noi stessi non ci siamo mai pesati nella presenza di Dio, lamentevole stato d’una coscienza che, se fosse stata ben regolata, ci avrebbe condotti a vedere l’incoerenza manifesta che esiste fra i principi che professiamo e il nostro modo di agire.
In tutte queste cose e in molte altre vie, è stata una caduta delle più profonde e delle più evidenti, caduta che ha contristato lo Spirito Santo di Dio, dal quale professiamo d’essere suggellati, e che ha disonorato il santo nome che portiamo. Il pensiero di questa caduta dovrebbe farci mettere il capo nella polvere, coprirci di vergogna e di confusione, condurci all’umiliazione e alla confessione — non soltanto per un momento, o per un giorno, od una settimana, ma finché Dio stesso ci rialzi. Abbiamo talvolta delle riunioni di preghiera e d’umiliazione, ma, purtroppo, fratelli, appena siamo usciti proviamo, a causa della detestabile leggerezza del nostro spirito e del nostro modo d’essere, come poco abbiamo realmente giudicato il nostro stato davanti a Dio. In questo modo come potrebbe essere colpita la radice così profonda ed estesa della malattia dei nostri cuori? La nostra coscienza ha bisogno d’essere profondamente arata, affinché il seme della verità divina non sia seminato invano. Lo strumento di cui Dio si serve per arare e ad un tempo seminare, è la VERITÀ. Dunque bisogna che ci mettiamo sotto l’azione di questa verità; bisogna recare, sotto la sua influenza, «un cuore onesto e buono», una coscienza delicata ed uno spirito retto. Ora, se la verità agisce su di noi in questa maniera, che cosa ci rivelerà? Qual è il nostro stato? Che cosa siamo in mezzo a quella sfera, in cui il Maestro ci ha comandato «di fare fruttare le mine fino al Suo ritorno?».
Donde proviene che le nostre adunanze di culto, di edificazione e le nostre adunanze di preghiera sono così sovente senza potenza e senza efficacia? E tuttavia la promessa di Cristo è sempre vera; «dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». Ora dove la sua presenza è realizzata, vi dev’essere potenza e benedizione; ma Egli ci fa sentire la Sua presenza soltanto quando i nostri cuori sono veri e diritti davanti a Lui, e lo cercano come l’oggetto speciale del nostro radunamento. Se abbiamo in vista qualche altro oggetto all’infuori di Lui, non possiamo più dire che siamo radunati nel suo nome, e, per conseguenza, la sua presenza non sarà realizzata.
Quanti cristiani assistono alle adunanze senza avere Cristo come loro primo e diretto oggetto. Alcuni ci vanno per udire dei discorsi, onde essere edificati. È l’edificazione e non Cristo che li raduna. Vi possono essere delle pie commozioni, delle sante aspirazioni, molto sentimento religioso, un vivo interesse intellettuale occupandosi delle Scritture o di certi punti della verità; ma tutto ciò può esistere senza realizzare minimamente la santa e santificante presenza di Cristo, secondo la promessa del Signore stesso: «dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Matteo 18:20).
Altri vengono all’assemblea con il cuore preoccupato di ciò ch’essi diranno o faranno. Hanno un capitolo da leggere, un inno da indicare, alcuni pensieri da esprimere, ovvero hanno l’intenzione di pregare e spiano il momento favorevole per mettersi avanti. È purtroppo evidente che Cristo non è l’oggetto principale di quei credenti, ma unicamente l’«io», i suoi poveri atti e le sue misere parole. Queste persone contribuiscono a spogliare l’assemblea del suo carattere di santità, di potenza e di vera elevazione, poiché a causa loro non è Cristo che presiede, è la carne che si mette in mostra, e questo nelle circostanze più serie. La carne può avere una parte in un teatro, o su una tribuna politica, ma, in un’assemblea di santi, non dovrebbe esistere. Non sono affatto autorizzato a presentarmi davanti al Signore, in una riunione di credenti, con la premeditazione di leggere un certo capitolo, di indicare un certo inno, o con un discorso preparato. Devo venire fra i miei fratelli per sedermi nella presenza di Dio e sottomettermi alla sua sovrana direzione. In una parola, se ci vado nel nome di Gesù, Egli solo sarà il mio oggetto e dimenticherò ogni altra cosa. Ciò non vuol dire che, avendo Gesù per oggetto, non possa né comunicare ad altri dell’edificazione, né riceverne. Anzi, è il contrario; poiché se il Signore è come posto davanti a me, io sarò veramente atto ad edificare o ad essere edificato. Il minore è sempre racchiuso nel maggiore. Se ho Cristo non posso mancare d’aver dell’edificazione; ma se cerco l’edificazione invece di Cristo, se ne faccio il mio scopo, io li perdo entrambi.
Inoltre, quanti cristiani vengono a rendere culto e non hanno né la coscienza purificata, né il cuore giudicato, né la carne mortificata. Prendono posto nei banchi, ma sono freddi e sterili, senza preghiere e senza fede, senza scopo reale. Vengono macchinalmente, perché è la loro abitudine di venire, ma non sono dominati da un sincero desiderio di incontrare il Signore. Per loro, il radunarsi non è che pura formalità religiosa, e per gli altri, essi sono soltanto un ostacolo alla benedizione.
Vediamo dunque che parecchie cause svariate concorrono a corrompere le sorgenti della vita e del vigore nelle assemblee, ed ecco perché la testimonianza è, in generale, così povera e così debole fra noi. Soltanto un lavoro profondo della coscienza potrebbe scrutare fino in fondo queste cause funeste. Ah! potesse almeno sorgere da molti cuori, la domanda: «Signore, sono io?». È perfettamente inutile di aspettare una benedizione durevole o una restaurazione, finché non saremo seriamente condotti ad un’umiliazione vera, ad un sincero giudizio di noi stessi. Se siamo chiamati a rendere testimonianza a Cristo, bisogna che quest’appello ci trovi ai piedi di Gesù, avendo quivi imparato ciò che siamo, e quanto abbiamo mancato.
Nessuno ha il diritto di gettar la pietra all’altro. Tutti abbiamo peccato; tutti siamo stati infedeli alla testimonianza del Figlio di Dio; tutti abbiamo contribuito, in una certa misura, all’umiliante stato di cose che ci attornia.
Non si tratta qui d’una semplice questione di chiesa, d’una semplice diversità di giudizio riguardo a dei punti della verità, per quanto importanti siano in sé. No, fratelli, il mondo, la carne e il diavolo sono in fondo al nostro triste stato attuale, e tutti gli argomenti che l’amore di Cristo può suggerirci sono unanimi per invitarci a giudicare noi stessi a fondo nella presenza di Dio. Ora, sono convinto che se questo giudizio ha luogo e mette in luce ogni cosa, si troverà che una delle cause maggiori di tanto male, di tanta debolezza e d’una così grande caduta, consiste nella negligenza di ciò che comporta questa espressione: «Tu e la casa tua». Per gli osservatori, i figli sono la pietra di paragone di ciò che sono i genitori; e la casa rivela lo stato morale del suo capo. Non posso mai farmi un’idea esatta di quel che è un uomo, secondo ciò che vedo e odo di lui in una assemblea. Ivi può sembrare molto spirituale e insegnare cose bellissime e verissime, ma per giudicare saviamente della sua persona, lasciatemi entrare nella sua casa, là potrò conoscere chi è. Può parlare come un angelo del cielo, ma se la sua famiglia non è governata secondo Dio, egli non è un fedele testimonio di Cristo.
3. Conseguenze pratiche
Nell’espressione «casa», due cose sono comprese: la casa stessa e i figli. Queste due cose devono portare l’impronta di ciò che appartiene a Dio. La casa di un uomo di Dio deve essere governata per Dio, per la Sua gloria e nel Suo nome.
3.1 Le nostre case. Responsabilità del padre
Il capo d’una casa cristiana deve essere il rappresentante di Dio. Come padre, egli è, per tutti quelli che sono sotto il suo tetto, il depositario dell’autorità di Dio, ed è tenuto ad agire secondo l’intelligenza e lo sviluppo pratico di questo fatto. Su questo principio egli deve dirigere la sua casa e averne cura. Sta scritto: «Se uno non provvede ai suoi, e in primo luogo a quelli di casa sua, ha rinnegato la fede, ed è peggiore di un incredulo» (1 Timoteo 5:8). Trascurando la sfera nella quale Dio l’ha stabilito, dimostra di conoscere poco Colui che è chiamato a rappresentare, e, per conseguenza Gli assomiglia poco. Ciò è semplicissimo. Se desidero sapere che cura devo avere di quelli che sono sotto la mia responsabilità e come devo governare la mia casa, non ho che da studiare accuratamente il modo in cui Dio ha cura dei suoi e come governa la Sua casa. È il miglior modo per imparare.
Non si tratta ora di sapere se le persone che compongono la famiglia sono o no convertite. Ciò che vorrei mettere con forza sulla coscienza di tutti i cristiani capi di famiglia, è che tutto quel che essi fanno, nel loro cammino, dovrebbe portare ben visibile l’impronta della presenza di Dio e dell’autorità di Dio. L’influenza del padre di famiglia dovrebbe essere tale che quand’egli è presente, ognuno potesse dire o pensare: Dio è presente; e questo dovrebbe aver luogo, non affinché il capo della casa fosse lodato a causa della sua influenza morale e della sua giudiziosa amministrazione, ma semplicemente affinché Dio fosse glorificato. Non dovrebbe soddisfarci che ciò che tende a questo scopo. La casa di ogni cristiano dovrebbe essere una rappresentazione in miniatura della casa di Dio, riguardo all’origine morale e alla pia disposizione di tutto l’insieme.
Qualcuno potrebbe scuotere il capo e dire: «Tutto questo è bello e buono, ma dove lo troverete?». Mi limito a chiedere: «La Parola di Dio insegna essa e prescrive al cristiano di governare la sua casa in questo modo?» Se così è, guai a me se rifiuto d’obbedire o se manco di fedeltà nell’obbedienza! Ogni persona di retta coscienza riconoscerà che, riguardo al modo di dirigere le nostre case, vi è stata una caduta delle più gravi; ma nulla è più vergognoso di vedere un uomo rassegnarsi tranquillamente al disordine, all’indisciplina che regnano nella casa sua, e rassicurarsi al pensiero che gli è impossibile di raggiungere la regola perfetta che Dio gli propone.
Io non ho altro da fare che seguire le direzioni della Scrittura, e la benedizione seguirà necessariamente tosto o tardi, poiché Dio non può rinnegar se stesso. Ma se, per l’incredulità del cuore, mi persuado che mi è impossibile di raggiungere la benedizione, è certo che la perderò. Ogni privilegio od ogni benedizione che Dio ci mette davanti esige un’energia di fede per essere afferrato. È la stessa cosa come di Canaan per i figli d’Israele; il paese stava loro dinanzi, ma dovevano entrarvi, poiché Dio aveva detto: «Ogni luogo che la pianta del vostro piede calcherà, io ve lo do». È sempre così: è la fede che prende possesso di ciò che Dio dà. Il nostro unico scopo dovrebbe essere di glorificare Colui che ha fatto tutto per noi; e che cos’è più contrario a questo scopo, se non di vedere la casa d’uno dei servitori di Dio essere precisamente il contrario di quel che Egli desidera che sia? Come deve l’occhio di Dio considerare tale o tal altra cosa, se il nostro occhio umano non è scandalizzato? Si potrebbe pensare, secondo quel che si vede in certe case, che i cristiani non abbiano idea che vi sia la minima relazione fra la condotta della loro casa e la loro testimonianza. Parecchi parlano di separazione dal mondo, ma le loro case presentano la più desolante mondanità. Dicono che per loro il mondo è crocifisso, e che essi sono crocifissi al mondo, e tuttavia in casa loro si trova ovunque l’impronta del mondo. Ogni oggetto vi sembra destinato a servire alla concupiscenza degli occhi, alla concupiscenza della carne e all’orgoglio della vita.
Ci si accuserà di particolari puerili, ma le figlie di Sion avrebbero potuto dire altrettanto di quelle parole che l’Eterno rivolse loro nel capitolo 3:18-23 del libro del profeta Isaia: «In quel giorno, il Signore toglierà via il lusso degli anelli dei piedi, delle reti e delle mezzelune, degli orecchini, dei braccialetti, dei veli, dei diademi, delle catenelle dei piedi, delle cinture, dei vasetti di profumo, degli amuleti, degli anelli, dei cerchietti da naso, degli abiti da festa, delle mantelline, degli scialli, delle borse, degli specchi, delle camicie finissime, dei turbanti e delle mantiglie». Non era forse questo, scendere a particolari molto minuziosi? Non è forse lo stesso di quel brano del profeta Amos 6:1-6: «Guai a quelli che vivono tranquilli a Sion… Si stendono su letti d’avorio, si sdraiano sui loro divani, mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli presi dalla stalla. Improvvisano al suono della cetra, si inventano strumenti musicali come Davide»? Lo Spirito di Dio può scendere ai particolari, quando è necessario.
Ma, diranno alcuni «le nostre case devono essere in armonia col rango che occupiamo nella società, e ammobiliate in rapporto con esso». Una tale obiezione non fa che rivelare molto apertamente la mondanità che regola il cuore di quelli che oserebbero farla. «Il vostro rango nella società!» Questo terreno è certamente il mondo. Che cosa hanno da fare con esso degli uomini che fanno professione di essere morti al mondo? Parlare del nostro rango nella società, è lo stesso che rinnegare gli elementi del cristianesimo. Se abbiamo un rango secondo il mondo, ne risulta che dobbiamo vivere come uomini nella carne, o come uomini naturali, e allora la legge ha tutto il suo imperio contro noi, poiché «la legge ha potere sull’uomo per tutto il tempo ch’egli vive». Questo rango nella vita diventa dunque un affare ben serio. Come possiamo ottenerlo? o in quale vita si trova? Se è in questa vita, siamo dunque dei mentitori quando diciamo che siamo «crocifissi con Cristo», — «morti con Cristo», — «sepolti con Cristo», — «risuscitati con Cristo», — «usciti fuori dall’accampamento con Cristo», — che non siamo «più nella carne», che non siamo «più del mondo che passa via». Tutte queste parole sono altrettante menzogne nella bocca di quelli che pretendono aver quaggiù un rango da conservare.
Ecco la verità su questo soggetto. Ah! Lasciamo che la verità raggiunga le nostre coscienze, affinché essa abbia pure la sua influenza sulla nostra vita pratica! Qual è la sola vita in cui abbiamo un rango da conservare? È la vita di risurrezione di Cristo. Ecco la vita nella quale l’amore redentore ci ha dato un rango. E certamente, sappiamo bene che del mobilio mondano, dei vestiti sontuosi, l’ostentazione e il lusso non han nulla a che fare col rango in quella vita.
Ah! no, ciò che è in armonia con la vita celeste che Gesù ci ha acquistata e comunicata, è la santità del carattere, la purezza della vita, la potenza spirituale, una profonda umiltà, la carità, la separazione da tutto ciò che appartiene direttamente al mondo e alla carne; ecco quali sono i veri ornamenti che possono armonizzare col vostro rango celeste. Quelli che parlano del loro rango in questa vita sono già «ritornati col cuore loro in Egitto» (vedere Atti 7:39). Ah! è ben da temere che la grande macina di cui parla il capitolo 18 dell’Apocalisse (vers. 21-24), non ci presenti un quadro troppo fedele della fine di molti elementi del cristianesimo vuoto e bastardo dei giorni nostri.
E se si asserisce che il cristianesimo non approva tuttavia il disordine e il sudiciume delle case, dirò che questo è perfettamente vero. Conosco infatti poche cose che siano più desolanti e disonoranti che il sudiciume e il disordine nella casa di un cristiano. Tali cose non devono mai incontrarsi con uno spirito veramente spirituale, o anche ben regolato. Dove queste cose esistono, potete essere sicuri che sono le conseguenze di qualche male morale. Anche qui la casa di Dio ci è presentata in modo particolare come modello. Sulla porta di questa casa non vediamo forse scritta la preziosa divisa: «Ogni cosa sia fatta con dignità e con ordine»? (1a epistola ai Corinzi 14:40). Per conseguenza, tutti quelli che amano Dio e la sua casa, desidereranno vedere applicato questo principio alla loro propria dimora.
3.2 I nostri figli
Dopo la casa propriamente detta ciò che vedo incluso nell’espressione: «Tu e la casa tua», è il governo dei nostri figli. Ah! questa è una piaga delle maggiori e delle più profondamente umilianti per molti, perché rivela una ben triste caduta. Lo stato dei figli tende, più d’ogni altra cosa, a manifestare lo stato morale dei genitori. La misura reale del mio rinunziamento a me stesso e al mondo si mostrerà costantemente nel modo in cui agisco verso i miei figli e in cui li dirigo. Io faccio professione d’aver rinunciato al mondo in quanto a me personalmente, ma vi ho anche rinunciato per i miei figli? Alcuni diranno: «Ma come potrei farlo? I miei figli non sono convertiti, e per conseguenza sono del mondo». Anche qui si rivela il vero stato morale del cuore di colui che parla così. Egli stesso non ha realmente rinunciato al mondo, e i suoi figli gli servono di pretesto per riafferrarne qualche cosa. Se i suoi figli sono (come lo sono senz’altro) una parte di lui stesso, e se fa professione d’aver per proprio conto abbandonato il mondo, pur cercandolo per loro, non sarebbe forse questa la strana anomalia d’un uomo che sarebbe metà in Egitto e metà in Canaan? Il solo desiderio che così possa essere, dimostra che quest’uomo è, di fatto e di cuore, interamente in Egitto.
Ora fratelli, giudichiamo noi stessi. La direzione dei nostri figli testimonia contro noi. I maestri di sport, di musica e di danza (*) che diamo loro sono gli agenti che lo Spirito Santo sceglierebbe per condurli a Cristo? Si conciliano affatto col santo nazareato al quale siamo chiamati? Se li allevo per il mondo invece che per la testimonianza di Cristo, ciò prova che questa non è la parte che l’anima mia ha scelta come pienamente sufficiente per me, e che essa apprezza più di qualsiasi altra. Poiché infine, ciò che stimerei sufficiente per me, lo stimerei sufficiente per i miei figli che sono uno con me; e potrei io essere tanto stolto da allevarli per questo mondo e per Satana che ne è il principe? Servirei e svilupperei io in essi le affezioni della carne che professo di mortificare in me? Ah! sarebbe questo un errore di criterio ben pericoloso. No, se lascio i miei figli in Egitto, è perché vi sono ancora io stesso. Se li lascio godere di Babilonia, è perché ne amo ancora io stesso le false dolcezze. Se i miei figli appartengono di fatto ad un sistema religioso corrotto, mondanizzato, è perché in principio io stesso vi appartengo. «Tu e la casa tua» siete uno; Dio ne ha fatto un tutto che non si può dividere, e ciò ch’Egli ha unito, l’uomo non lo separi.
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(*) Oggi potremmo aggiungere: gli attori di cinema, i presentatori di televisione… (Nota BibbiaWeb)
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È questa una verità solenne e penetrante, alla cui luce possiamo veder chiaramente il male che vi è nel lasciar seguire ai nostri figli una via alla quale diciamo di aver per sempre voltato le spalle, credendo fermamente che essa mette capo all’inferno. Professiamo di stimare come spazzature e come nocivi gli onori, le ricchezze, la considerazione, i piaceri del mondo; e tuttavia, tutte queste cose stesse che abbiamo dichiarate non essere altro che ostacoli alla nostra corsa cristiana e che abbiamo per così dire rigettate per noi, le tolleriamo nei nostri figli come cose necessarie ai loro progressi. Così facendo, dimentichiamo del tutto che quel che è un ostacolo per noi non può assolutamente essere un aiuto per i nostri figli, se vogliamo che raggiungano il nostro stesso scopo. Sarebbe più sincero di togliere la maschera della nostra propria mondanità e di confessare francamente che non abbiamo affatto abbandonato il mondo, allorché nulla lo prova meglio dei nostri figli.
Dallo stato delle nostre famiglie, il giusto giudizio del Signore mostra, io penso, qual è lo stato reale della testimonianza fra noi. È noto che in un certo numero di casi, i figli di cristiani sono più indisciplinati degli altri. Dovrebbe essere così? Dio potrebbe gradire la testimonianza dei genitori di tali fanciulli? Quei fanciulli sarebbero tali, se i genitori avessero camminato fedelmente davanti a Dio riguardo alle loro famiglie? A tutte queste domande, si dovrà necessariamente rispondere: No. Ah! se soltanto i padri cristiani avessero ritenuto fermamente nella loro coscienza il principio: «Tu e la casa tua», avrebbero capito che potevano contare su Dio e gridare a Lui, sia per la testimonianza della loro famiglia quanto per la loro propria, le quali, in realtà, non possono essere separate, checché si faccia o dica. Non fa forse pena di sentir dire: «Il tale è un bravo fratello, molto pio, molto devoto; peccato che i suoi figli siano così sfrontati e indisciplinati, e che la sua casa presenti un così triste miscuglio di disordine e di confusione!». Mi domando di qual valore è la testimonianza d’un tal uomo dinanzi a Dio. Purtroppo, non ha nessun valore, in verità. Può essere salvato, ma la salvezza è forse tutto ciò che abbiamo da desiderare? Non vi è forse nessuna testimonianza da rendere? E se ve n’è una, qual è, e dove deve essere resa? Deve forse essere confinata nei banchi d’una sala di radunamento, ovvero deve essere vista anche nella nostra casa? — Risponda il cuore!
Forse si dirà: «I nostri figli hanno bisogno di qualche godimento del mondo e noi non possiamo rifiutarglieli. Non si possono mettere delle vecchie teste su delle spalle giovani». A questo risponderò che anche i nostri cuori chiedono sovente delle cose mondane; le accorderemo loro? No, lo spero; ebbene! rifiutiamole pure ai nostri figli. Se vedo i miei figli desiderare le cose del mondo, devo immediatamente giudicarmi e umiliarmi dinanzi a Dio e gridare a Lui di toglier loro quei pensieri mondani, in modo che la testimonianza non abbia a soffrirne. Mi è impossibile di credere che, se il cuore dei genitori è, dal centro alla periferia, purificato dal mondo, dai suoi principi e dalle sue concupiscenze, questo non eserciti su tutta la loro casa una potente influenza.
È ciò che rende questa questione così importante e così pratica. La mia casa è dessa un criterio esatto di quel che è realmente il mio stato morale? Io credo che l’insegnamento delle Scritture sia in favore dell’affermativo, ciò che rende il nostro soggetto particolarmente solenne. In che modo cammino io come capo di famiglia? La mia condotta rende forse evidente a tutti che il mio supremo ed unico oggetto è Cristo? Forse si penserà che io spingo troppo lontano la ricerca delle cause d’un male così frequente ai giorni nostri; ma, quanto a me, penso essere il nostro dovere di proseguire quest’inchiesta fino ai suoi estremi limiti. Donde provengono, in molti casi, quella terribile profanazione, quel disgusto per le Scritture e per le assemblee cristiane, quella disposizione a mettere in ridicolo le cose sante, e quello spirito infedele e scettico, così deplorevolmente manifesto nei figli di cristiani di professione? Qualcuno oserà dire che non è colpa dei genitori? Non le si possono forse attribuire, in gran parte, al triste contrasto che esiste fra i principi professati e la condotta dei genitori? Sì, lo credo. I figli sono degli osservatori perspicaci, e scoprono bentosto quel che i genitori sono realmente. Traggono le loro conclusioni, non tanto dalle preghiere e dalle parole dei loro genitori, quanto da un modo più speditivo e più esatto, cioè dagli atti di costoro, di cui ben presto sanno discernere i principi e i motivi. Perciò, benché i genitori insegnino loro che il mondo e le vie del mondo sono cattive, e che preghino perché tutti i membri della famiglia conoscano e servano il Signore, tuttavia, se li allevano per il mondo, cercando di stabilirveli e felicitandosi quando vi son riusciti, gli altri insegnamenti e tutte le preghiere sono inefficaci. «Ah! — penseranno essi — dopo tutto il mondo è un buon posto, poiché i nostri genitori rendono grazie a Dio della nostra riuscita in questo mondo, che considerano come un favore segnalato della Provvidenza. Tutto ciò che dicono, dunque, quando pretendono essere morti e risuscitati con Cristo, quando dichiarano che il mondo è giudicato e che vi sono stranieri e pellegrini, tutto ciò dev’essere considerato come un nonsenso, ovvero i così detti cristiani devono essere considerati come degli ingannatori». Chi può dubitare che tali pensieri siano sovente saliti nel cuore dei figli di molti genitori professanti! Senza dubbio, la grazia di Dio è sovrana e può trionfare di tutte le nostre incoerenze e infedeltà. Ma pensiamo alla testimonianza, e vegliamo affinché le nostre famiglie siano realmente amministrate per Dio e non per Satana!
Forse si chiederà: «Che cosa faranno dunque i nostri figli? Come se la caveranno? Non bisogna forse metterli in grado di guadagnarsi il pane?» Senza dubbio. Dio ci ha destinati al lavoro. Il fatto stesso che ci ha dato due mani prova che non dobbiamo essere dei pigri. Ma con lo scopo di dare a mio figlio un mezzo di lavorare, non vedo la necessità di spingerlo in un mondo dal quale mi sono separato.
Il Dio Altissimo, il Possessore dei cieli e della terra, aveva un Figlio, il suo unico Figlio, l’erede di tutte le cose, per cui anche ha fatto i mondi, e quando mandò questo Figlio nel mondo, non gli diede una professione elevata, ma Egli fu conosciuto come «il falegname». Questo non ci dice nulla, non ci insegna nulla?
Ora, Cristo è salito in cielo, e ha preso posto alla destra di Dio. Così risuscitato, Egli è il nostro Capo, il nostro rappresentante e il nostro modello; ma ci ha lasciato un esempio, affinché seguiamo le sue tracce. Le seguiamo noi, cercando di far brillare i nostri figli in un mondo che ha crocifisso Gesù? Ah! certamente no; facciamo piuttosto il contrario, e il risultato non tarderà a mostrarsi, poiché sta scritto: «Non vi ingannate; non ci si può beffare di Dio; perché quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà» (Galati 6:7). Se a riguardo dei nostri figli seminiamo per la carne e per il mondo, possiamo sapere quel che mieteremo.
Non è soltanto per ciò che riguarda l’oggetto dell’educazione dei nostri figli che abbiam mancato e guastato la testimonianza, ma abbiamo anche molto peccato non tenendoli, in generale, nella sottomissione all’autorità paterna. Lo spirito del secolo presente è uno spirito d’indipendenza e d’insubordinazione. Disobbedienti o «ribelli genitori» è questo uno dei caratteri dell’apostasia degli ultimi giorni (2 Timoteo 3:2), e personalmente abbiamo concorso al suo sviluppo con un’applicazione interamente falsa del principio della grazia, come pure non vedendo che la relazione di padre e di madre comprende un principio d’autorità esercitato in giustizia, senza cui le nostre famiglie presenteranno il triste aspetto della confusione, del disordine, dell’indisciplina. Non è grazia di vezzeggiare una volontà non santificata. Ci affliggiamo di non avere una volontà rotta e sottomessa, e ad un tempo, lavoriamo a fortificare la propria volontà dei nostri figli!…
È sempre, a mio avviso, una prova di debolezza nell’esercizio dell’autorità paterna, come della ignoranza del mondo in cui il servitore di Dio deve governare la propria casa, quando la volontà d’un padre o d’una madre si sottomesse a quella dei figli. Il dialogo è importante è utile per sviluppare la fiducia tra figli e genitori, e questo può condurre a cambiare idea. Ma non permettete mai ai vostri figli di mettere in dubbio la vostra autorità. La volontà d’un padre dev’essere considerata come suprema per il figlio, poiché il padre tiene per lui il posto di Dio. Ogni potere è di Dio, e ne ha dato al suo servitore come padre. Se dunque il figlio o il servitore resiste a questo potere, resiste a Dio (*).
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(*) «E voi, padri, non irritate i
vostri figli, ma allevateli nella disciplina e nell’istruzione
del Signore» (Efesini 6:4). Vi è un gran pericolo ad
irritare i nostri figli o a provocare la loro ira con un eccessivo
rigore e dei trattamenti arbitrari. Siamo costantemente inclini a
formare e a modellare i nostri figli secondo i nostri propri gusti e le
nostre vedute particolari piuttosto che «allevarli nella
disciplina e nell’istruzione del Signore», cioè
secondo il modo in cui il Signore corregge ed insegna
i suoi figli. È un grave errore che produce confusione e
delusione. Non abbiamo nulla da guadagnare, riguardo alla testimonianza
per Cristo, modellando e foggiando la natura sotto le forme più
ricercate. Inoltre, la cultura e l’istruzione della natura non
esigono fede; ma occorre della fede per allevare dei fanciulli nella
disciplina e nell’insegnamento del Signore. Si dirà forse
che, in questo passo della Scrittura, l’Apostolo Paolo parla di
figli convertiti. Rispondo che non è parlato di conversione, non
sta scritto: «Allevate i vostri figli convertiti» ecc.; ma è semplicemente detto «i vostri figli»,
ciò che, per certo, vuol dire tutti i vostri figli. Ora, se devo
allevare tutti i miei figli in disciplina e in ammonizione del Signore,
quando devo incominciare a farlo? Devo forse aspettare che siano quasi
divenuti uomini o donne, ovvero devo incominciare, come tutte le
persone ragionevoli cominciano il loro lavoro, cioè al principio?
Permetterò loro di abbandonarsi alla loro follia naturale
durante il periodo più importante della loro carriera, senza mai
cercare di mettere la loro coscienza in presenza di Dio, riguardo alla
loro solenne responsabilità? Lascerò che perdano, in una
completa noncuranza, quel tempo della loro vita, durante la quale si
producono gli elementi del loro futuro carattere? Sarebbe il colmo
della crudeltà. Che direste d’un giardiniere che lasciasse
che i rami dei suoi alberi fruttiferi prendessero ogni sorta di forme
storte e bizzarre, prima di cominciare a servirsi di mezzi adatti a
raddrizzarli? Direste che è un insensato. Ebbene! Sarebbe savio
in paragone di genitori che rimandassero la correzione e
l’ammaestramento del Signore al tempo in cui i loro figli
avessero fatto dei progressi manifesti sotto la guida e
l’insegnamento del nemico?
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Ma si dirà forse: Dobbiamo aspettare di avere delle prove di conversione. Rispondo che la fede non aspetta mai delle prove, ma agisce secondo la Parola di Dio, e le prove seguiranno infallibilmente. È sempre un’incredulità manifesta l’aspettare dei segni quando Dio ha dato un comandamento. Se i figli d’Israele avessero aspettato un segno quando Dio diceva: «Camminino», sarebbe stata un’evidente disobbedienza. Se l’uomo dalla mano secca avesse atteso che qualche forza si manifestasse in lui quando Gesù gli comandò di stendere la mano, avrebbe portato la sua mano secca fino alla tomba.
E così è dei genitori. Se aspettano dei segni e delle prove prima di obbedire alla parola di Dio in Efesini 6:4, è certo che non camminano per la fede, ma per la vista. Inoltre, se dobbiamo incominciare dal principio ad allevare i nostri figli, ne risulta che dobbiamo incominciare prima che siano capaci di offrire qualche prova di conversione.
In questo, come in tutto, il nostro dovere è d’obbedire, e lasciare a Dio i risultati. Lo stato morale dell’anima può essere messo alla prova dal comandamento; ma quando vi è la disposizione ad obbedire, la potenza per farlo accompagnerà, senza dubbio, il comandamento, e i frutti dell’obbedienza seguiranno, «a suo tempo se non ci stanchiamo».
3.3 Il governo e la grazia
È di somma importanza di avere un’intelligenza netta della dottrina del governo morale di Dio; è il mezzo di togliere molte difficoltà e di risolvere molte questioni. Questo governo si esercita con una decisione e una giustizia particolarmente solenni. Cercando nella Scrittura ciò che si riferisce a questo soggetto, troviamo che, in ogni caso in cui vi è stato errore o peccato, questo male ha prodotto inevitabilmente i suoi frutti. Adamo disobbedì e fu immediatamente rigettato dal giardino in un mondo gemente sotto il peso della maledizione cagionata dal peccato. E non fu mai più rimesso nel paradiso. La grazia intervenne, è vero, e gli fece la promessa d’un Liberatore; essa coprì anche la sua nudità; nondimeno il suo peccato produsse il suo risultato, e Adamo non ricuperò mai più ciò che per propria colpa aveva perduto.
Mosè, alle acque di Meriba, parlò leggermente, e la conseguenza fu che Dio, il quale è giusto, gli interdisse l’entrata in Canaan. Anche in questo caso, la grazia venne a recare qualcosa di migliore di quel che era stato perduto; poiché era molto meglio contemplare, dalla sommità del monte Pisga, le pianure della Palestina in compagnia dell’Eterno, che di abitarvi con Israele (Deuteronomio 34:1-5).
Nel caso di Davide, troviamo pure che al male seguì la conseguenza. Davide commette un adulterio, e la sentenza solenne fu subito pronunciata: «La spada non si allontanerà mai dalla tua casa». Anche qui la grazia abbondò, e Davide ne godette, con un sentimento più profondo, quando saliva sul monte degli Ulivi coi piedi nudi e la testa coperta, di quel che ne avesse goduto fra gli splendori del trono. Nondimeno il suo peccato produsse i suoi risultati.
Non soltanto nell’Antico Testamento vediamo il peccato portare il suo frutto. Nel Nuovo Testamento, vediamo Barnaba (Atti 15:37-42), esprimere il desiderio, in apparenza ben convenevole, di conservare la società del cugino Marco. Da quel momento, Barnaba perde il posto onorevole che aveva nelle narrazioni dello Spirito Santo, che non lo menziona più.
Il suo posto fu da quel momento occupato da un cuore più interamente consacrato, più libero da affezioni puramente naturali, di quello di Barnaba. Era la natura, in Barnaba, che lo conduceva a desiderare la compagnia di colui che si era separato dall’apostolo Paolo e da lui fin dalla Panfilia, e non era più andato con loro per quell’opera. Era una natura amabile, ma era la natura, e trionfò in Barnaba, poiché prese con sé Marco e fecero vela assieme verso l’isola di Cipro, terra naturale di Barnaba, ove, nel tempo del primo amore, aveva venduto la sua proprietà, per poter seguire più liberamente Colui che non aveva un luogo ove posare il capo (Atti 4:36-37).
Purtroppo, non è raro che il cuore naturale ritorni a ciò che ha lasciato. I fiori dell’albero della professione cristiana sono, in primavera, belli e abbondanti e spandono un dolce profumo; ma sovente, quanto pochi frutti saporiti si trovano in autunno! Le influenze della natura e del mondo soffiano per spogliare l’anima che promette dei frutti, e, al posto di questi, non c’è sovente che sterilità e delusione. È ben triste e d’un effetto morale dei più incresciosi sulla testimonianza. Naturalmente non è messa in dubbio la salvezza della persona che ha dato in tal modo delle speranze deluse più tardi. Barnaba era salvato, senza dubbio. L’influenza che Marco e l’amor patrio ebbero su lui non poté cancellare il suo nome dal libro della vita dell’Agnello, ma cancellò il suo nome dal regno della testimonianza e del servizio quaggiù. E non era forse qualche cosa di deplorevole?
Non abbiamo noi nulla da temere o da rimpiangere, all’infuori della salvezza personale? Ah! sarebbe mostrarci ben egoisti e ben indifferenti alla gloria di Dio! Con quale scopo, quel Dio benedetto si dà tanta pena per conservare la sua Chiesa quaggiù? È forse perché i credenti siano salvati e preparati per la gloria? Niente affatto; essi sono già salvati dalla perfetta redenzione del Cristo e, per conseguenza, preparati per la gloria. Vi è un nesso inseparabile fra la giustificazione e la gloria: «Quelli che ha giustificati li ha pure glorificati». Perché dunque Dio ci lascia quaggiù? È affinché siamo una testimonianza per Cristo. Altrimenti potremmo essere rapiti al cielo subito dopo la nostra conversione. Ci sia dato di comprendere questa verità in tutta la sua pienezza e forza pratica!
Il governo morale di Dio è una verità di grande importanza: ed è tale che chi fa il male ne mieterà infallibilmente il frutto, sia egli credente o incredulo, santo o peccatore, non importa.
La grazia di Dio può perdonare il peccatore, ed essa perdona ogni volta che il peccato è giudicato e confessato; ma siccome il peccato è un attacco ai principi del governo morale di Dio, bisogna che chi l’ha commesso sia condotto a sentire il suo fallo. Ha mancato e deve necessariamente provarne le conseguenze. È questa una verità ben solenne, ma particolarmente salutare, la cui azione è stata miseramente ostacolata da false nozioni sulla grazia. Dio non permette mai alla grazia di indebolire il suo governo morale; sarebbe una confusione, e Dio non è un Dio di confusione. Abbiamo dimenticato che Dio ci ha dato un esempio esercitando un giusto governo.
Non bisogna confondere il principio del governo di Dio col suo carattere (*). Il primo è giustizia, il secondo è grazia; quel che cerco di far rilevare ora, è il fatto che la relazione di padre implica un principio di giustizia, e se questo principio non ha una applicazione convenevole nel governo della famiglia, vi dev’essere confusione. Se vedo un bambino, a me estraneo, agire male, non ho nessuna autorità divina per esercitare una giusta disciplina a suo riguardo; ma appena vedo il mio proprio figlio che fa male, devo disciplinarlo, perché sono suo padre.
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(*) Le epistole di Pietro sviluppano la
dottrina del governo morale di Dio. È in queste che troviamo la
domanda: «Chi vi farà del male, se siete zelanti nel
bene?». Alcuni trovano difficoltà a conciliare questa
domanda con la dichiarazione dell’apostolo Paolo: «Tutti
quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno
perseguitati». Sembra superfluo dire che le due idee sono in
perfetta armonia. Il Signore Gesù stesso, che fu il solo
imitatore perfetto e costante di ciò che era buono, Egli che, da
un capo all’altro della sua carriera quaggiù,
«è andato dappertutto facendo del bene»,
trovò alla fine, la croce, la lancia e il sepolcro.
L’apostolo Paolo che, più di qualsiasi altro uomo,
camminò sulle tracce del grande Modello che gli era
costantemente davanti, fu chiamato a bere un calice straordinario di
privazioni e di persecuzioni. E ai giorni nostri, più un
credente sarà simile e consacrato a Cristo, più
dovrà sopportare persecuzioni e privazioni. Se, spinto da una
vera consacrazione a Cristo e dall’amore per le anime, andasse a
stabilirsi apertamente in certe regioni del mondo per predicarvi
Cristo, la sua vita potrebbe essere in pericolo. Tutti questi fatti
sono forse in opposizione con la domanda dell’apostolo Pietro?
Affatto. La tendenza diretta del governo morale di Dio è di
garantire dal male tutti quelli che, «zelante nel bene»,
sono imitatori di ciò che è buono, e d’infliggere
dei castighi a tutti quelli che fanno il contrario; ma essa non ha
nulla a che fare con la via più elevata della posizione di
discepolo; essa non priva chicchessia del privilegio e dell’onore
d’essere tanto simile a Cristo quanto lo desidera,
«perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a
Cristo, non soltanto di credere in Lui, ma anche di soffrire per lui,
sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e
nella quale ora sentite dire che io mi trovo» (Filippesi
1:29-30). Qui, impariamo che è una grazia a noi conferita
d’essere chiamati a soffrire per Cristo, e ciò in mezzo ad
una scena in cui, sul terreno del governo morale di Dio, può
esser detto: «Chi vi farà del male, se siete zelante nel
bene?».
Riconoscere il governo di Dio e sottomettersi ad
esso, è una cosa; essere imitatori d’un Cristo rigettato e
crocifisso è tutt’altra cosa. Anche in
quest’epistola di Pietro che, come l’abbiamo fatto notare,
ha per soggetto speciale la dottrina del governo di Dio, leggiamo:
«Ma se soffrite perché avete agito bene, e lo sopportate
pazientemente, questa è una grazia davanti a Dio. Infatti a
questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo ha sofferto per
voi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme».
E anche: «Se uno soffre come cristiano (o perché
è moralmente simile a Cristo), non se ne vergogni, anzi
glorifichi Dio, portando questo nome» (1 Pietro 2:20-21; 4:16).
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Ma, si dirà forse, la relazione di padre col figlio è una relazione d’amore. È vero, poiché sta scritto: «Vedete quale amore ci ha manifestato il Padre, dandoci di essere chiamati figli di Dio!» (1 Giovanni 3:1). Ma benché questa relazione sia fondata sull’amore, è esercitata in giustizia, poiché sta anche scritto: «Infatti è giunto il tempo in cui il giudizio deve cominciare dalla casa di Dio» (1 Pietro 4:17). Così anche il capitolo 12 dell’epistola agli Ebrei ci insegna che la nostra qualità di figli legittimi ci pone sotto la giusta disciplina del Padre degli spiriti. E nel capitolo 17 dell’evangelo di Giovanni, la Chiesa è rimessa alle cure del Padre santo perché Egli la conservi nel suo nome.
Ora, ogni volta che i genitori cristiani perdono di vista questa grande verità, le loro case sono abbandonate al disordine. Essi non governano i loro figli; ne risulta che, col tempo, saranno i loro figli che li governeranno: poiché, bisogna bene che il governo ci sia; e se quelli a cui Dio ha affidato le redini non le tengono come debbono, esse cadranno ben tosto in cattive mani.
Che cosa triste e vergognosa vedere dei genitori governati dai loro figli! Non dubito che agli occhi di Dio questo sia una macchia, un disordine che, tosto o tardi attirerà il suo giudizio. Un padre che si lascia cader dalle mani le redini del governo, o che non le tiene con fermezza, manca gravemente alla propria santa responsabilità d’essere, per la sua famiglia, il rappresentante di Dio e il depositario della Sua potenza. Non penso che un tal uomo possa mai riprendere completamente la sua posizione né essere nella sua generazione un fedele testimonio di Dio. Può essere l’oggetto della grazia, ciò che è tutt’altra cosa che un testimonio per Dio.
Ecco quel che può spiegare lo stato lamentevole di molti fratelli. Essi hanno totalmente mancato al loro dovere di governare le loro famiglie secondo il Signore, ciò che ha fatto loro perdere la loro vera posizione e la loro influenza morale; da questo proviene che la loro energia è paralizzata, le loro bocche chiuse, la loro testimonianza annullata; e se qualcuno d’essi facesse udire una debole voce, il dito del disprezzo, designando subito lo stato della sua famiglia, gli produrrebbe il rossore delle guance e il rimorso alla coscienza.
Non tutti si fanno delle idee giuste a questo riguardo, e non sanno sempre risalire alla sorgente di questo grave stato di decadimento morale. Molti cristiani si adattano facilmente di vedere i loro figli crescere nella disobbedienza e nella mondanità. Sembra loro che sia cosa tutta naturale e inevitabile, e dicono ad altri: «Mentre i vostri figli sono giovani, ne fate ciò che volete; ma aspettate che siano cresciuti, e vedrete che sarete obbligati di lasciarli andare nel mondo!». [Anche se l’adolescenza è sovente un periodo difficile,] non potrò mai credere che sia secondo il pensiero di Dio, che i figli dei suoi servitori crescano necessariamente nella mondanità e nell’insubordinazione.
Ebbene, se non è questo il suo pensiero, se, nella sua misericordia, ha aperto ai figli dei suoi santi gli stessi sentieri dei genitori, se autorizza i genitori cristiani a scegliere per la loro famiglia la stessa parte che, per grazia, hanno scelto per se stessi; se, dopo tutto ciò, i loro figli sono volontari e mondani, che cosa sovente bisogna concludere, se non che i genitori hanno peccato nell’esercizio della loro relazione e della loro responsabilità? Ma devono essi fare un principio generale di ciò che è sovente il risultato della loro infedeltà e dire che tutti i figli dei cristiani devono crescendo assomigliare ai loro propri figli? Fanno essi bene a distogliere dei giovani genitori dal scegliere il terreno di Dio relativamente ai loro figli, proponendo i loro propri sbagli, invece di incoraggiarli mettendo loro davanti l’infallibile fedeltà di Dio verso tutti quelli che Lo cercavano nella via dei suoi comandamenti? Agire così sarebbe imitare il vecchio profeta di Bethel che, perché egli stesso era nel male, cercava di trascinarvi il fratello, e contribuì a farlo uccidere da un leone per la sua disobbedienza alla parola dell’Eterno.
Riassumendo, la volontà propria dei miei figli manifesto sovente la volontà propria del mio stesso cuore, e un Dio giusto si serve di loro per castigarmi, perché io non mi sono giudicato. Per risparmiarmi della pena, ho lasciato che il male avesse corso nella mia famiglia, ed ora i miei figli sono cresciuti e sono come spine ai miei fianchi, perché non li ho allevati per Dio. Tale è la storia di migliaia di famiglie. Non dovremmo mai perder di vista che i nostri figli devono, come noi, servire alla «difesa e alla conferma del vangelo». Sono convinto che, se potessimo essere condotti a considerare le nostre case come una testimonianza per Dio, ciò produrrebbe una immensa riforma nel nostro modo di governarle. Cercheremo allora di stabilirvi un ordine morale più elevato, non per risparmiarci fatica o dolore, ma piuttosto affinché la testimonianza non abbia da soffrire per il disordine delle nostre case. Ma non dimentichiamo che, per poter domare la natura nei nostri figli bisogna anzitutto domarla in noi. Non potremmo mai vincere la carne per mezzo della carne, e non è se non quando l’abbiamo sormontata in noi, che saremo in grado di sormontarla nei nostri figli.
3.4 Armonia fra il padre e la madre
Inoltre, occorre per questo, una perfetta intelligenza e una completa armonia fra il padre e la madre. La loro voce, la loro volontà, la loro autorità, la loro influenza devono essere una nel senso più stretto di questa parola.
Essendo essi stessi «una carne sola», dovrebbero sempre manifestare ai loro figli la bellezza e la potenza di questa unità. A questo scopo, essi devono servire Dio insieme, aspettarsi a Lui, tenersi molto nella sua presenza, aprirgli tutto il loro cuore, esporgli tutti i loro bisogni. I mariti e le mogli mancano frequentemente a ciò che devono essere a questo riguardo. Accade talvolta che uno dei due desideri realmente rinunciare al mondo e domare la carne ad un grado a cui l’altro non è giunto, e questo produce dei tristi risultati. Ciò reca sovente della riservatezza e conduce a dei sotterfugi, ad un antagonismo positivo nelle vie e nei principi del marito e della moglie, talché non si può dire di loro che sono uniti nel Signore. L’effetto di tutto questo, su dei figli che crescono, è pernicioso, e la sua funesta influenza su tutta la famiglia è incalcolabile.
Ciò che il padre comanda, la madre lo contesta; ciò che l’uno proibisce, l’altro lo permette; ciò che il padre edifica, la madre lo distrugge, o viceversa. Il padre è spesso rappresentato come rigido, severo, esigente. L’influenza materna agisce all’infuori e indipendentemente da quella del padre; talvolta mette completamente da parte questa, talché la posizione del padre diventa delle più penose, e tutta la famiglia presenta un aspetto di turbamento e di indisciplina (*).
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(*) Nulla è più affliggente
di udire una madre dire al figlio: «Non bisogna che tuo padre
sappia questa o quella cosa». Ove regnano queste pratiche di
dissimulazione e di duplicità, vi dev’essere qualche cosa
di radicalmente cattivo, ed è moralmente impossibile di ottenere
qualsiasi cosa che assomigli all’ordine secondo la pietà o
all’esercizio d’una vera disciplina. Bisogna, o che il
padre, con una severità disordinata o un eccessivo rigore,
«irriti i suoi figli», ovvero che la madre favorisca la
volontà propria del figlio alle spese del carattere e
dell’autorità del padre. Nell’uno e nell’altro
caso vi è un ostacolo alla testimonianza che fa molto male ai
figli. I genitori cristiani dovrebbero dunque vegliare con cura per
apparire sempre, dinanzi ai figli,
nella potenza di quest’unità che deriva dalla loro
perfetta unione nel Signore. E se, per sfortuna, il loro giudizio non
è identico, a riguardo di tal o tal altro punto del governo
della casa, ne facciano il soggetto di preghiere intime e di proprio
giudizio, nella presenza di Dio; cerchino la luce, ma non rendano mai
quelli della loro casa testimoni della loro divergenza
d’opinioni, poiché questo manifesterebbe una debolezza
morale che farebbe disprezzare il loro governo. [Purtroppo i genitori
non sono infallibili. I peccati tra genitori devono essere sistemati
tra genitori. I peccati contro i figli devono essere confessati ai
figli. Però non sarebbe secondo l’ordine stabilito da Dio
che un figlio accusi i suoi genitori, anche se avesse ragione.]
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È una cosa terribile. I figli non possono mai essere ben allevati in tali circostanze, e il solo pensiero ne fa fremere, relativamente alla testimonianza per Cristo. Ove domina un tale stato di cose, dovrebbe esservi la contrizione di cuore davanti al Signore a questo riguardo. La sua misericordia è inesauribile e le sue tenere compassioni non mancano mai; e possiamo certamente sperare che, se vi è un vero dolore ed una sincera confessione, Dio interverrà in grazia per guarire e per rilevare. È certo che non dovremmo accomodarci a cose simili; perciò, tutti quelli che ne sono afflitti nel loro cuore gridino al Signore giorno e notte, gridino a Lui, fondandosi sulla sua verità e sul suo Nome, che sono bestemmiati per tali peccati; certamente Dio udirà ed esaudirà.
3.5 La nostra casa è una testimonianza
Ma che una tale questione sia considerata nel suo insieme alla luce della testimonianza per il Figlio di Dio. Per questa testimonianza siamo lasciati quaggiù. Infatti, non vi siamo lasciati soltanto per allevare le nostre famiglie in qualsiasi modo, bensì per allevarle per Dio, con Dio, e davanti a Lui. Per raggiungere questo scopo elevato, bisogna tenersi nella presenza del Signore. Un padre cristiano non può battere, schiaffeggiare i propri figli come lo fanno a volte gli uomini del mondo, secondo i loro capricci e il loro cattivo umore del momento. Il cristiano deve rappresentare Dio in mezzo alla propria famiglia: se questo è ben compreso regolerà tutto nella casa. Egli è l’amministratore di Dio; dovrà dunque, per ben comprendere questo incarico e per adempierlo fedelmente, avere frequenti relazioni, o piuttosto delle relazioni ininterrotte, col suo Maestro. Bisogna ch’egli si tenga abitualmente ai piedi di questo Maestro, onde sapere ciò che deve fare, e come deve farlo. Con questo mezzo, tutto diventerà semplice e facile nella sua amministrazione.
Sovente il cuore vorrebbe avere una regola generale per ognuno dei vari particolari della vita della famiglia. Si chiede, per esempio, che sorta di punizioni, che sorta di ricompense, e che sorta di divertimenti debbono adottare i genitori cristiani. Riguardo alle punizioni, penso che saranno raramente necessarie, se i principi divini di educazione del fanciullo son messi in pratica fin dalla più tenera infanzia. Riguardo alle ricompense, mi sembra che dovrebbero essenzialmente consistere in espressioni d’amore e d’approvazione. Un figlio deve essere obbediente — obbediente ad ogni riguardo e incessantemente, non per ottenere una ricompensa, atta a nutrire e a sviluppare l’emulazione che può essere un fatto anche della carne, ma perché Dio lo vuole così. Tuttavia mi sembra convenevole che i genitori manifestino la loro approvazione con qualche regalo. Riguardo ai divertimenti che desiderate procurare ai vostri figli, abbiano sempre, se possibile, il carattere di qualche occupazione utile. Ciò è salutare allo spirito. Ho sovente visto dei fanciulli trovare un piacere molto più reale, e certamente più semplice, con della carta, una matita o con qualcosa che si procurano da sé, che con i giocattoli più costosi. Infine, per ogni cosa, punizioni, ricompense o giochi, abbiamo l’occhio su Gesù e cerchiamo seriamente di sottomettere la carne sotto qualsiasi apparenza o forma essa si presenti. Allora le nostre case saranno una testimonianza per Dio, e allora quelli che vi entreranno saranno costretti di dire: Dio è qui.
4.Conclusione
Bisogna ch’io termini. Non ho preso la penna, Dio lo sa, per ferire chicchessia. Sento con forza l’importanza del soggetto che ho trattato, e ad un tempo la mia incapacità di presentarlo con la chiarezza necessaria. Tuttavia mi confido in Dio, onde Egli dia efficacia a queste righe, e quando Egli agisce, il più debole strumento può rispondere al suo scopo.
A Lui raccomando ora queste pagine le quali, ne ho la fiducia, sono state incominciate, proseguite e terminate nella Sua santa presenza. Un pensiero mi ha grandemente sostenuto: è che nel momento stesso in cui sentivo sulla mia coscienza la necessità di scrivere quest’opuscolo, un certo numero di diletti fratelli erano riuniti in assemblea d’umiliazione, di confessione e di preghiere, a riguardo della testimonianza per il Figlio di Dio in questi ultimi giorni. Non dubito che un punto molto importante della confessione sia stato relativo al governo della famiglia; e se queste pagine fossero utilizzate dallo Spirito di Dio per produrre, non fosse che in una sola coscienza, un sentimento più profondo di questa caduta, e in un solo cuore, un desiderio più sincero di riparare questa breccia seconda i pensieri di Dio, me ne rallegrerei sentendo che non ho scritto invano.
Possa il Dio onnipotente, secondo le ricchezze della sua grazia, produrre, per mezzo del suo Spirito Santo, nei cuori di tutti i suoi riscattati, un desiderio più ardente, in quest’ultima ora, una testimonianza per Cristo più completa e più decisa, affinché quando la voce d’arcangelo a la tromba di Dio squilleranno, si trovi quaggiù un popolo preparato per andare con gioia incontro alla Sposo!
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