Introduzione
Il carattere dell’Epistola di Paolo a Tito, come quello della prima Epistola a Timoteo, è strettamente legato alla missione che l’apostolo aveva affidato a quei suoi due collaboratori. Tito aveva ricevuto il compito di vegliare sull’ordine nella casa di Dio (cap. 1 vers. 5), mentre Timoteo doveva occuparsi dell’insegnamento della sana dottrina (cap. 1 vers. 3-4). Nel corso di questo studio ci limiteremo a presentare i loro punti in comune.
Entrambe le epistole insistono sulla dottrina o insegnamento (in greco: didaskalia), per contrastare i falsi dottori, ma quella a Tito mette maggiormente in risalto i risultati pratici delle verità fondamentale del cristianesimo nella vita dei credenti, di modo che nella casa di Dio possa regnare l’ordine e si realizzi una bella armonia fra tutti i suoi membri.
La sana dottrina comprende tutti i principi divini che sono esposti nei tre passi principali di questa epistola:
- Cap. 1 vers. 1-4: le grandi verità del cristianesimo;
- Cap. 2 vers. 11-14: la realizzazione pratica di queste verità nella nostra vita;
- Cap. 3 vers. 4-7: i grandi mezzi di cui Dio s’è servito per compiere la sua opera in noi, per condurci a Lui ed acquisirci la salvezza.
Ci preme sottolineare anzitutto che la sana dottrina è inseparabile dalla vita cristiana. Sovente si pretende che i cristiani possano produrre dei frutti graditi a Dio anche se seguono delle dottrine malsane che minano alla base le verità essenziali del cristianesimo. Si getta del discredito sulle Sacre Scritture, che sono la sola e infallibile raccolta di queste verità. Togliendo alla vita cristiana il suo fondamento, cioè la Parola ispirata, si dimentica che non possono esserci dei frutti senza l’albero che li produce. Se si pensa che, senza la Rivelazione, l’uomo decaduto sia in grado di produrre da solo dei frutti per Dio, si dimentica che un albero cattivo non porterà mai dei buoni frutti. Considerando la Parola di Dio soltanto come una guida dotata di una moralità superiore, ma influenzata dagli errori e dai pregiudizi dei suoi diversi autori, si dimentica che un buon albero, privato della linfa che lo alimenta con la mutilazione della sua corteccia, non riesce a dare una raccolta sufficiente, anzi non dà nessun raccolto.
Il legame intimo fra la dottrina e la vita pratica si ritrova in ogni passo della Bibbia. Il Salmo 119 ci mostra che il sentiero del giusto è tracciato e illuminato solo dalla Parola di Dio. Il credente, pensando a quando non aveva alcuna conoscenza delle Scritture, riconosce di essere stato come una “pecora perduta”. In 2 Timoteo 3:16 leggiamo che sono le Scritture divinamente ispirate che ci insegnano e ci istruiscono riguardo alla giustizia pratica da applicare in tutta la nostra condotta. Il capitolo 2 dell’epistola che studieremo sarebbe già sufficiente per convincerci di questa importante verità. Ma non dimentichiamo che anche il credente che ha piena fiducia nell’autorità assoluta della Parola scritta farà l’esperienza che il livello della sua vita pratica dipende dalla misura con cui si nutre della Scrittura e si sottomette al suo insegnamento.
Capitolo 1
Saluti seguiti da grandi verità cristiane (v. 1-4).
Come abbiamo già detto, questi 4 versetti riassumono e condensano in poche parole il soggetto inesauribile delle grandi verità del cristianesimo.
Anzitutto vediamo che la sorgente di ogni benedizione si trova in Dio stesso. Egli ci è presentato prima nel suo carattere assoluto, come Dio; poi come il vero Dio che non può mentire; poi come il Dio Salvatore, che si rivela come tale a degli esseri perduti; infine come Dio Padre, il Dio d’amore. Ma è in Gesù Cristo, nostro Salvatore, che abbiamo la rivelazione di tutto ciò che Dio è per noi.
“Paolo, servo di Dio e apostolo di Gesù Cristo…” (vers. 1).
L’apostolo Paolo è il mezzo di questa rivelazione. Egli si definisce “schiavo” di Dio (così nel testo originale greco). Troviamo questo titolo solo due volte nelle epistole (qui e in Giacomo 1:1), e qualche volta nell’Apocalisse, mentre quello di schiavo di Dio è più frequente. Essere schiavi di Dio presuppone una dipendenza assoluta, il timore e il tremore nell’esercizio delle proprie funzioni, il rispetto di ogni parola uscita dalla bocca di Dio, il profondo sentimento della nostra responsabilità. Definendosi schiavo, Paolo si mette nella posizione più umile. Questo doveva essere un esempio per Tito che era stato chiamato ad occupare una posizione onorevole: se lui, Paolo, aveva una posizione così umile e dipendente, quanto più doveva averla il suo discepolo!
Come schiavo di Dio, Paolo non apparteneva a se stesso. Ciò che Dio s’aspetta dal suo servitore è un’ubbidienza senza riserve, una fedeltà scrupolosa nel trasmettere il messaggio che il Padrone gli aveva affidato. Ma questo messaggio solenne non ha nulla di spaventoso e non contiene alcuna minaccia, perché colui che lo porta è un servitore del “Dio Salvatore”.
È anche per questo che sovente Paolo si definisce “apostolo di Gesù Cristo”. Dio ha messo la verità nelle sue mani, e Cristo lo manda per farla conoscere e per spanderla. Questa missione pone Paolo in una relazione particolare con Cristo, come suo apostolo, inviato da Lui per portare agli uomini le verità di cui essi dovevano appropriarsi in virtù dell’opera di Cristo. Così Paolo parlerà (vers. 4) di “Cristo Gesù, nostro Salvatore”, l’autore della salvezza che prima di ogni tempo era nei piani di Dio a nostro riguardo. La salvezza ci è stata acquisita da Gesù Cristo. Egli stesso è diventato servo di Dio per acquistarcela e per mettercela a disposizione (Filippesi 2:6-8).
“…per promuovere la fede degli eletti di Dio e la conoscenza della verità che è conforme alla pietà, nella speranza della vita eterna promessa prima di tutti i secoli da Dio che non può mentire. Egli ha rivelato nei tempi stabiliti la sua parola mediante la predicazione che è stata affidata a me per ordine di Dio, nostro Salvatore.” (vers. 1-3)
Vediamo ora i caratteri del ministerio di Paolo:
- Il suo apostolato non ha nulla in comune con i principi del giudaesimo; è interamente indipendente dalla legge mosaica. Esso è “per promuovere la fede degli eletti di Dio”. Non si rivolge alla carne, né alla volontà dell’uomo, ma alla fede. Inoltre esso esclude il principio giudaico di un popolo basato sulla discendenza di padre in figlio. Questo popolo, chiamato a sottomettersi alla legge, per la sua disubbidienza ha perso ogni diritto ad essere riconosciuto come popolo di Dio; ritroverà più tardi questo titolo solo quando si metterà sulla stessa base dei credenti in Cristo, cioè “la fede degli eletti”.
L’apostolato di Paolo si rivolgeva alla fede individuale e non a un popolo privilegiato, uscito da una discendenza terrena. Quelli che ricevevano questa fede erano gli “eletti di Dio” che Egli aveva in vista da ogni eternità e che dovevano appartenergli; essi, salvati mediante la fede, insieme costituiscono un popolo celeste.
La fede e l’elezione dipendono esclusivamente dalla grazia e non dall’osservanza della legge.
- “La conoscenza della verità che è conforme alla pietà”.
Era nientemeno che la verità che Paolo faceva conoscere. Che cos’è la verità? È la piena rivelazione di ciò che Dio è (della sua natura ), di ciò che dice (della sua Parola) e di ciò che pensa (del suo Spirito); in altri termini, la rivelazione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Ciò che Dio è ci è rivelato in Cristo, nel quale tutta la pienezza della deità ha abitato corporalmente (Colossesi 2:9). È in Cristo che conosciamo Dio come Colui che è luce e che è amore.
La verità è anche ciò che Dio dice, cioè la sua Parola. “La tua parola – disse Gesù – è la verità” (Giovanni 17:17). Questa Parola ci è stata portata da Cristo. Egli è dunque, nello stesso tempo, ciò che Dio è e ciò che Dio dice. Nell’Evangelo di Giovanni dove è presentato come “Figlio di Dio”, dice continuamente: “Io sono”. Quando i Giudei gli chiedono: “Chi sei tu?” egli risponde loro: “Sono per l’appunto quello che vi dico” (Giovanni 8:25). Questo passo ci presenta l’identificazione in Cristo di questi due lati della verità: ciò che Dio è e ciò che ha detto, la Sua natura e la Sua Parola.
È in Cristo (“nel Figlio”) che Dio ci ha parlato. Anticamente aveva parlato in modo frammentario tramite i profeti (Ebrei 1:1), che avevano presentato una prima parte della verità; ma in Cristo, che è la Parola, Dio presenta la verità nella sua totalità. Il cristianesimo è la suprema e unica completa espressione della verità. Essa è venuta a noi “nel Figlio”, non tramite Mosè; è venuta in una persona che è la verità in se stessa.
Infine la verità è il pensiero di Dio su tutte le cose. Questo pensiero è in Cristo, e lo Spirito ne rende testimonianza, perché “lo Spirito è la verità” (1 Giovanni 5:6). Egli rende testimonianza che la vita eterna è in Cristo e che ci è acquisita tramite il suo sacrificio. La verità trova dunque la sua perfetta espressione in Cristo, perché Egli stesso è la verità. “Io sono la verità”, disse (Giovanni 14:6).
Sotto il regime della legge, Dio non rivelava il suo pensiero su ogni cosa. Non si faceva conoscere come il Dio d’amore nel modo con cui lo conosciamo oggi; al massimo, la rivelazione che Dio diede di se stesso sotto la legge e anche prima della legge fu accompagnata dalla proclamazione della sua misericordia (Esodo 34:6). Sotto la legge, Dio non rivelava nemmeno che l’uomo è perduto, perché la legge presupponeva la possibilità per l’uomo di ottenere la vita ubbidendo ai comandamenti di Dio. L’Eterno non rivelava neppure il suo pensiero sul mondo, perché allora il mondo non era ancora considerato definitivamente asservito a Satana e condannato; né lo rivelava riguardo al cielo, perché il cielo era chiuso per l’uomo in quanto peccatore, e la legge non poteva promettergli altro che una benedizione terrena. Sotto la legge, Dio stesso non si era manifestato, restava nascosto in una profonda oscurità dietro la “cortina”, prima del tabernacolo e poi del tempio. Non c’era nessun sacrificio che potesse togliere definitivamente i peccati e riconciliare per sempre il peccatore con Dio.
Concludendo, la conoscenza della verità nella sua pienezza è prerogativa del cristianesimo.
Ma nel passo in esame notiamo un secondo punto: questa conoscenza della verità è “conforme alla pietà”.
La pietà è il mantenimento di relazioni fra la nostra anima e Dio, fondate sulla conoscenza della verità. Il “mistero della pietà” (1 Timoteo 3:16) non è altro che questo; è il segreto nel quale l’anima può godere delle sue relazioni con Dio e mantenerle, relazioni stabilite da Cristo, “Dio manifestato in carne”, l’unico che ci ha fatto conoscere Dio e ci ha posti in relazione con Lui. La conoscenza della verità, se non ci mettesse in relazione con Dio, porterebbe l’uomo verso la condanna eterna. Purtroppo si potrebbe possedere la verità pur vivendo nell’iniquità, e chi è in questa condizione è oggetto dell’ira di Dio anziché del suo favore.
- L’apostolato affidato a Paolo aveva come base “la speranza della vita eterna”. Questa speranza non ha nulla di vago né d’incerto, come la speranza umana, ma è una certezza, perché essa appartiene alla fede. La vita eterna era stata “promessa prima di tutti i secoli da Dio”; e Dio, come potrebbe smentire la sua promessa eterna? Non ha Egli detto: “Nessuno è simile a me. Io annunzio la fine fin dal principio… io dico: Il mio piano sussisterà”? (Isaia 46:10).
Gli “eletti di Dio” possiedono già ora questa vita, mediante la fede in un Cristo morto e risorto (Giovanni 6:54). “Egli è il vero Dio e la vita eterna” (1 Giovanni 5:20). Chiunque crede in lui ha questa vita, non la vita umana peritura, ma una vita spirituale senza fine, la vita di Dio stesso, una vita capace di conoscere Dio, di godere di Lui, di avere comunione con Lui, il Padre, e col suo Figlio, Gesù Cristo. Senza dubbio, il godimento di questa vita da parte del cristiano, finché sarà quaggiù, sarà imperfetto, ma ne realizzeremo tutto il valore quando saremo nella gloria, quando vedremo Lui, la nostra vita, e gli saremo simili.
Questa è la dottrina cristiana, l’essenza stessa del cristianesimo. Quali ricchezze, che felicità e che pace godiamo nelle nostre relazioni con Dio! Quale gioia nelle comunione con Lui! Quale certezza per l’avvenire! C’è forse una conoscenza che possa essere paragonata a quella che l’Evangelo ci porta?
- La predicazione che era stata affidata da Dio all’apostolo Paolo aveva come oggetto la Parola di Dio “rivelata nei tempi stabiliti” (v. 4). La promessa risale a “prima di tutti i secoli” (oppure “prima dei tempi dei secoli”). In contrasto con questi tempi “dei secoli”, c’è un tempo “stabilito” (o adatto, opportuno). Noi siamo pervenuti a questi tempi; è l’epoca attuale, in cui Dio ha pienamente manifestato tutto il consiglio della sua grazia.
Dio aveva stabilito in anticipo questo tempo adatto. Esso è stato inaugurato da un fatto unico nella storia e il cui valore durerà per l’eternità: la morte di Gesù Cristo, Figlio di Dio, e la sua risurrezione dai morti. È in questo modo che tutto il consiglio di Dio a nostro riguardo è stato pienamente manifestato. La “cortina” che ci separava da Dio è stata strappata, l’accesso davanti a Lui è stato aperto a piena luce, la relazione con Lui come Padre è stata stabilita per sempre, un’eredità con Cristo nella gloria ci è stata assicurata; e tutto questo per Lui e in Lui.
Non era mai stata annunciato nulla di simile. La Parola del Dio “che non può mentire” è proclamata. I pensieri eterni di Dio che fino a quel momento erano nel mistero dei suoi consigli, ora sono conosciuti, e la predicazione di questa Parola stata affidata a Paolo. Dunque, che importanza immensa aveva il suo apostolato! Da allora la Parola della verità è completa (Col. 1:25). Paolo aveva ricevuto questo incarico “per ordine di Dio”, e sappiamo come ha ubbidito. Anche la legge mosaica era ordine, comandamento di Dio, ma che differenza! La predicazione affidata a Paolo non rivelava l’Eterno, il Dio del Sinai, ma il Dio Salvatore.
“A Tito, mio figlio legittimo secondo la fede che ci è comune, grazia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù, nostro Salvatore” (v. 4)
Paolo indirizza la sua epistola a Tito. Egli era il “figlio legittimo” (o vero figlio) dell’apostolo, perché generato secondo la verità che, come il suo padre spirituale, aveva ricevuto sulla base della fede in Cristo. Questa fede era dunque comune a Paolo (giudeo) e a Tito (non giudeo), ma Paolo era stato il mezzo di cui Dio si era servito per comunicarla a Tito.
Dio Padre e Cristo Gesù, nostro Salvatore, l’amore divino e la grazia divina, si uniscono per portare a Tito un lieto messaggio di favore e di pace, benedizioni attuali di cui entrambi godevano.
Il compito di Tito (v. 5).
Abbiamo visto dunque quali sono le basi del cristianesimo: la fede degli eletti, la verità secondo pietà, la vita eterna, la Parola di Dio, infine la predicazione che attinge queste cose nella sua Parola. Tutti questi argomenti sono compresi in ciò che viene chiamato “la sana dottrina”.
I versetti che seguono trattano dell’ordine nella Chiesa, ma quest’ordine è inseparabile dalla sana dottrina e dall’insegnamento che la presenta. Questo insegnamento è affidato a tutti coloro ai quali Dio ha dato una responsabilità speciale nella Chiesa: a Tito anzitutto (2:1), agli anziani (1:9), alla donne attempate, per quanto in misura limitata (2:3), ai giovani credenti (2:7). Infine, l’insegnamento ha come modello perfetto l’insegnamento di grazia che ha dato il Signore Gesù (2:12).
“Per questa ragione io ti ho lasciato a Creta: perché tu metta ordine nelle cose che rimangono da fare, e costituisca degli anziani in ogni città, secondo le mie istruzioni,” (v. 5)
Il compito affidato a Tito consisteva nello stabilire, regolare e mantenere l’ordine secondo Dio nelle assemblee in Creta, mentre il compito affidato a Timoteo nell’assemblea di Efeso consisteva nel vegliare specialmente sulla dottrina, perché non fosse falsificata.
Certo, il compito che era stata affidato a Paolo era infinitamente più esteso di quello dei suoi delegati: si trattava della predicazione del mistero di Cristo in questo mondo (Efesini 3:2,9 e 1:10; 1 Corinzi 9:17), mistero “nascosto fin dalle più remote età” ma ora rivelato dallo Spirito. Questo mistero consisteva nell’unione in Cristo Gesù di due popoli, Giudei e Gentili, in un solo corpo, la Chiesa. Paolo doveva far conoscere la posizione e la vocazione della Chiesa, e nel contempo doveva lavorare continuamente per presentare a Cristo la sua Sposa (o meglio ogni credente – N.d.T.) come una “casta vergine”.
Tito invece doveva mantenere, oltre ad altri impegni, l’ordine nelle relazioni individuali fra i credenti. Sotto questo aspetto, c’erano molte cose da regolare, fra cui anche la nomina degli anziani.
Sulla questione degli anziani, sollevata spesso dai difensori del clero nelle chiese protestanti, mi limiterò a esporre i concetti principali. Fra i doni dello Spirito Santo non esiste il dono di “essere anziani”. Gli anziani (o vescovi, che significa sorveglianti) sono nettamente distinti dai doni dello Spirito e dai doni concessi da Cristo glorificato alla sua Chiesa. Gli anziani, come pure i diaconi, sono dei credenti ai quali sono dati incarichi a carattere locale (cioè la loro competenza non va oltre l’assemblea locale). Questi incarichi esistevano realmente, anche se non ufficialmente, nelle assemblee uscite dal Giudaesimo, mentre in quelle formate fra i Gentili erano assegnati dall’apostolo Paolo o dai suoi delegati. Probabilmente saranno esistiti altri delegati, ma soltanto due di essi, cioè Timoteo e Tito, sono menzionati nelle epistole come incaricati dall’apostolo Paolo. Tito è il delegato di cui ci occupa la nostra epistola.
I doni esisteranno fino alla fine (Efesini 4:11-14). Questo non è mai detto degli incarichi. Senza dubbio il Signore mette a cuore dei suoi riscattati, là dove sono riuniti secondo la sua Parola, di rispondere al bisogno di sorveglianza che si fa sentire, ma ogni istituzione o consacrazione di anziani in un modo diverso da quello che è insegnato dalla Parola di Dio è in contraddizione con il pensiero dello Spirito di Dio. I cristiani che si sottomettono alla Parola si atterrano strettamente al suo insegnamento su questo punto come su ogni altro.
In uno stesso individuo potranno esistere sia il dono che l’incarico a carattere locale, ma nella Scrittura essi sono sempre distinti. Si presume che tutti gli anziani “pascano il gregge”, ma nella Parola troviamo anche degli anziani che non esercitavano questo servizio.
Oltre a sorvegliare il gregge e a prendersene cura, gli anziani dovevano essere capaci ad insegnare, essere saldi nella Parola, esortare secondo essa e rifiutare quelli che contraddicevano; ma il fatto di lavorare nella predicazione della Parola non era indispensabile al loro incarico; di fatto, non era questo il loro incarico, tant’è vero che in 1 Timoteo 5:17 è detto: “Specialmente quelli che si affaticano nella predicazione e nell’insegnamento”.
Le qualità richieste agli anziani (v. 6-9)
Nei versetti da 6 a 9 troviamo le qualità richieste agli anziani perché potessero essere stabiliti da Tito.
“quando si trovi chi sia irreprensibile, marito d’una sola moglie, che abbia figli fedeli, che non siano accusati di dissolutezza né insubordinati.” (v. 6)
In primo luogo si tratta delle qualità visibili, che possono essere controllate da tutti. Nell’anziano, esse si manifestavano nella condotta e nella vita della sua famiglia. Sotto questo aspetto, l’anziano doveva essere irreprensibile. Come avrebbe potuto riprendere gli altri se lui stesso meritava dei rimproveri? Doveva essere sposato e non poteva avere due donne, cosa che era fuori dall’ordine divino stabilito alla Creazione, ma che era un fatto abituale fra i Gentili, da cui i credenti di Creta provenivano.
L’anziano doveva governare secondo Dio la propria famiglia (quindi doveva anche avere dei figli) altrimenti, come si sarebbe potuto affidargli il governo dell’assemblea? I suoi figli dovevano essere fedeli. La fedeltà presuppone la fede, la pietà. Bisognava che i suoi figli non potessero essere accusati di dissolutezza, cioè che non si lasciassero andare a una cattiva condotta, come avevano fatto, alcuni secoli prima, i figli del sacerdote Eli. Costoro erano stati un’insidia per il loro padre che non aveva preso dei severi provvedimenti e aveva “onorato” più loro che l’Eterno. Con la loro dissolutezza si erano attirati un terribile giudizio, su se stessi e sul loro padre.
Infine i figli dell’anziano non dovevano essere insubordinati, cioè dovevano riconoscere l’autorità del padre.
“Infatti bisogna che il vescovo sia irreprensibile, come amministratore di Dio; non arrogante, non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto,” (v. 7)
Questo versetto ci dice quali devono essere le qualità interiori e personali dell’anziano. Oltre che nella sua vita di famiglia, l’anziano doveva essere irreprensibile anche come “amministratore di Dio”. Non era responsabile né verso l’apostolo che aveva ordinato di costituirlo anziano, né verso Tito che lo avrebbe stabilito, ma verso Dio che gli affidava l’amministrazione della sua casa.
Troviamo quindi tre livelli nell’amministrazione: prima l’apostolo; poi Tito, suo delegato; poi l’anziano, ma tutti erano responsabili verso Dio solo. Com’è importante tenere sempre presente questo! Qualunque sia il compito che Dio ci ha affidato, è a Lui che dobbiamo rispondere. I compiti sono molto diversi; un anziano non poteva sconfinare nel compito di Tito, né Tito in quello dell’apostolo. Facendo così, sarebbero stati colpevolmente indipendenti da Dio, il che avrebbe portato un grave disordine, ma è altrettanto vero che la responsabilità verso Dio di ciascuno di loro – in questo caso quella dell’anziano – era completa e per nulla attenuata per il fatto di essere in posizione subordinata.
L’apostolo segnala cinque caratteri che l’anziano non doveva avere:
- – Arrogante (cioè attaccato al proprio punto di vista, ostinato). Purtroppo questa caratteristica negativa è spesso presente in certi credenti non disposti a rivedere la propria opinione. Essa implica la ricerca della propria soddisfazione e molto egoismo ed orgoglio, una volontà propria che non vuole sottomettersi ai pensieri degli altri, dimenticando l’esortazione: “Sottomettendovi gli uni gli altri nel timore di Cristo” (Efesini 5:21). Questo solo difetto rende un credente incapace di essere un sorvegliante, di amministrare con saggezza la casa di Dio; così lo troviamo al primo posto nell’elenco di ciò che squalifica l’anziano.
- – Iracondo (o collerico). Un uomo collerico non ha il saggio e tranquillo governo di se stesso; come potrebbe governare gli altri?
- – Dedito al vino. Non si tratta qui degli ubriachi, dei quali è detto che “non erediteranno il regno di Dio” (1 Corinzi 6:10), ma di essere abituati a questa intemperanza che si abbina alla collera e che sovente ne è la causa.
- – Violento. Anche la violenza può essere una conseguenza di quell’intemperanza.
- – Avido di guadagno disonesto. Lo stesso è detto dei diaconi (o servitori) in 1 Timoteo 3:8: “Non propensi a troppo vino, non avidi di illeciti guadagni”, e in 1 Pietro 5:2 riguardo agli anziani: “sorvegliando non per obbligo ma volenterosamente secondo Dio, non per vile guadagno, ma di buon animo”. Era vergognoso esercitare il proprio incarico in vista di trarne un profitto pecuniario. Amare il denaro è già un’insidia terribile e predispone a riceverne da ogni mano e di ogni provenienza.
“ospitale, amante del bene, assennato, giusto, santo, temperante, attaccato alla parola sicura, così com’è stata insegnata, per essere in grado di esortare secondo la sana dottrina e di convincere quelli che contraddicono.” (v. 8-9)
Troviamo ora sette qualità positive dell’anziano. In 1 Timoteo 3:2-4 ne sono presentate 14, peraltro mescolate a quelle che non devono avere; l’elenco quindi è più completo, potremmo dire doppiamente completo, e fa risaltare la dignità della funzione. Infatti sette è un numero che esprime completezza, è il numero della pienezza in rapporto con l’amministrazione divina (notiamo per inciso che per le funzioni dei diaconi e delle diaconesse è parlato di 7 qualità).
- – Ospitale. L’ospitalità non può mai accordarsi con l’avidità di guadagno e l’avarizia. In Ebrei 13:2 questa ospitalità è raccomandata a tutti i santi in quanto talvolta ha permesso di ricevere in casa dei messaggeri divini, portatori di benedizioni speciali. Il sorvegliante non deve né cercare i propri agi né temere di turbare le proprie abitudini. La sua casa deve essere aperta a tutti; egli dev’essere accogliente in questa piccola cerchia che è il modello del grande ambito della casa di Dio che l’anziano amministra localmente.
- – Amante del bene. È di più che “odiare il male”. In quel caso, i pensieri si occupano del male per separarsene, in questo si occupano del bene per goderne. La conseguenza immediata è che ci si attacca a persone che agiscono bene e si ha comunione con loro.
- e 4. – Assennato, giusto. Un uomo assennato e giusto è riflessivo, ponderato, non si lascia andare alla prima impressione e sa pesare equamente le circostanze nelle quali gli altri si trovano.
- Santo (col significato di pio). Essere pii significa essere santi nella propria condotta e graditi a Dio; condurre una vita il cui centro è Dio, una vita regolata a nutrita da lui.
- Temperante. In questo modo le passioni della carne non hanno occasione di manifestarsi e le concupiscenze naturali sono represse.
- Attaccato alla parola sicura, così com’è stata insegnata (lett.: la fedele parola secondo la dottrina). Il dovere dell’anziano era di essere fermamente attaccato alla Parola e di mantenerla. È la “fedele parola”, secondo gl’insegnamenti degli apostoli, parola certa, che non inganna, sulla quale si può assolutamente contare, perché è la parola del Dio fedele. Ma l’anziano non era colui che l’aveva ricevuta e insegnata per primo; egli stesso era stato ammaestrato dalla dottrina affidata agli apostoli, mediante le sane parole che essi avevano l’incarico di comunicare, e queste parole altro non erano che le Scritture prima che fossero scritte. Così egli doveva mantenere fermamente questa Parola di Dio.
La dottrina non era altro che la piena certezza della Parola. Questo attaccamento alla Parola rendeva “in grado di esortare” (i fedeli) “secondo la sana dottrina e di convincere (lett.: confutare) quelli che contraddicono” (gli oppositori alla dottrina cristiana). La capacità acquisita con l’attaccamento alla parola di Dio era una delle cose necessarie all’anziano. Quando si tratta di mantenere l’ordine nella casa di Dio, le qualità morali e la condotta personale non bastavano. Senza dubbio, se queste mancavano, non ci sarebbe stata alcuna autorità morale per l’amministrazione, ma in realtà nessuna amministrazione è possibile se non ha la Parola come base e regola.
La responsabilità dell’anziano era molto più estesa di quella dei diaconi o servitori, dei quali peraltro l’epistola a Tito non parla (questo è comprensibile, perché era l’assemblea che sceglieva i diaconi, che nell’occasione riferita in Atti 6:3-5 vennero poi stabiliti dagli apostoli per un servizio particolare).
Per sorvegliare o mantenere l’ordine, sovente bisogna esortare, o confutare quelli che contraddicono. La base dell’esortazione è il sano insegnamento, a conferma di quanto dicevamo all’inizio, e cioè che la santità pratica e una condotta retta e pia sono inseparabili dalla sana dottrina e senza essa non possono sussistere. È mediante essa che i recalcitranti possono essere ridotti al silenzio e impediti nell’azione di contaminazione dell’assemblea opponendosi alla verità.
Vediamo dunque l’importanza della funzione di sorvegliante, benché la sfera del suo esercizio sia limitato all’assemblea locale. Questo incarico quindi deve essere svolto tenendo conto delle circostanze della specifica assemblea. Per questo le qualità richieste agli anziani per l’assemblea di Creta coincidono solo in parte con quelle richieste agli anziani che dovevano agire nell’assemblea di Efeso (vedi 1 Timoteo 3:1-7).
Dunque, l’essere “anziani” non era uno dei doni dello Spirito Santo, che sono caratterizzati dall’universalità della loro azione; la loro attività usuale era il risultato pratico d’una vita santa, pia, dedita al Signore, fermamente attaccata alla Parola. Tuttavia non era escluso che in un anziano si trovassero anche dei doni, come vediamo in 1 Timoteo 5:17 (anche in un diacono, come dimostra la meravigliosa predicazione di Stefano di Atti 7). Il passo citato ci dimostra però che non tutti lavoravano “nella predicazione e nell’insegnamento”. Il loro lavoro in questo campo è come un’eccellente eccezione, degna di un doppio onore riguardo all’aiuto, di qualunque natura fosse, che doveva essere loro riconosciuto.
La situazione dei credenti di Creta (v. 10-16)
“Infatti vi sono molti ribelli, ciarloni e seduttori delle menti, specialmente fra quelli della circoncisione, ai quali bisogna chiudere la bocca; uomini che sconvolgono intere famiglie, insegnando cose che non dovrebbero, per amore di un guadagno disonesto.” (v. 10-11)
Questi versetti descrivono “quelli che contraddicono” del versetto 9, vera piaga fra i credenti di Creta. Hanno tre caratteri:
- “Ribelli” (o insubordinati). Non sopportano alcuna autorità stabilita su loro, si oppongono e insorgono contro ogni sorveglianza istituita da Dio per mantenere l’ordine nella sua casa;
- “Ciarloni“, cioè che fanno discorsi vani. È sufficiente un certa facilità di parola, che sovente nasconde la nullità spirituale e morale, ad attirare certi cristiani ignoranti, leggeri o mondani, incapaci quindi di discernere lo scopo di quei discorsi.
- “Seduttori“. In realtà sono degli strumenti di Satana, il seduttore per eccellenza, per rovinare e distruggere l’opera di Dio. Questi agenti provenivano soprattutto da “quelli della circoncisione”, cioè coloro che pretendevano che i cristiani fossero ancora sotto la legge mosaica. Infatti nulla seduce maggiormente il mondo religioso di un sistema legale basato sulla capacità dell’uomo a fare il bene. Essi “insegnano cose che non dovrebbero”, in opposizione al sano insegnamento degli anziani e a quello di Tito stesso, che è esortato a “esporre le cose che sono conformi alla sana dottrina” (cap. 2 vers. 1). A costoro “bisogna chiudere la bocca“, non permettere che attacchino e distruggano la dottrina della grazia e della fede nella chiesa.
La loro azione “sconvolge intere famiglie”. Se il capo famiglia si lascia trascinare e, invece di resistere, cede ai falsi dottori, tutta la famiglia è in pericolo. Si sono viste famiglie intere abbandonare la sana dottrina per ritornare al legalismo, e talvolta diventare dei nuovi agenti di rovina invece di contribuire all’edificazione del corpo di Cristo.
Bisognava anche discernere i motivi della loro azione: “per amore di un guadagno disonesto (meglio: vergognoso)”. Ecco perché era necessario opporre loro degli anziani, scelti secondo Dio e che non fossero “avidi di guadagno disonesto” (v. 7). Questi uomini sapevano che la loro “merce” adulterata avrebbe fatto gola a molti; così traevano del profitto personale col denaro che sarebbe provenuto da qualche parte. Abraamo avrebbe fatto un guadagno vergognoso se avesse accettato i doni del re di Sodoma (Genesi 14:21-24); anche Pietro, se avesse preso il denaro di Simone il mago (Atti 8:9-24).
“Uno dei loro, proprio un loro profeta, disse: «I Cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, venti pigri». Questa testimonianza è vera. Perciò riprendili severamente, perché siano sani nella fede, e non diano retta a favole giudaiche né a comandamenti di uomini che voltano le spalle alla verità.” (v. 12-14)
Quei “ciarloni”, fra cui c’erano anche alcuni Giudei, erano Cretesi d’origine. Come altri, anche i Cretesi avevano un loro profeta, poeta e moralista, che nelle sue opere mostrava un profondo disprezzo per i suoi concittadini. È la sorte che attende molti moralisti di questo mondo che si propongono di conoscere i loro simili. Essi disistimano gli altri, ma non arrivano mai a disprezzare se stessi. Non essendosi mai trovati davanti a Dio, non dicono come Giobbe: “Ho orrore di me”.
Il profeta cretese di cui parla Paolo era Epimenide, filosofo e uomo di Stato, vissuto 600 anni prima di Cristo. La sua frase riportata dall’apostolo è uno dei pochi frammenti delle sue opere che ci restano. La menzogna, la malvagità di tipo animalesco e l’ingordigia, soddisfatta senza lavoro e fatica, caratterizzavano i Cretesi. E Paolo dice: “Questa testimonianza è vera”. Riguardo al giudizio sui suoi concittadini, Epimenide aveva parlato secondo verità; era un testimone, riconosciuto da Dio, della corruzione dei Cretesi.
Che cosa bisognava fare riguardo costoro? “Riprendili severamente“, dice l’apostolo Paolo al suo fedele delegato. Questo stesso termine greco lo ritroviamo in 2 Corinzi 13:10, in cui Paolo parla di “procedere rigorosamente secondo l’autorità che il Signore mi ha data per edificare e non per distruggere”. Verso i seduttori bisognava quindi usare della severità con autorità, e questo non era affidato agli anziani, ma a Tito, designato dall’apostolo Paolo, il quale aveva ricevuto questa autorità direttamente dal Signore. Paolo aveva agito con questa autorità più d’una volta persino con Pietro, apostolo come lui, quando erano in gioco la fede e la sana dottrina.
Ma la riprensione stessa aveva come movente l’amore. Il suo scopo era di condurre i credenti ad essere “sani nella fede”. Era necessario questa autorità spirituale perché riconoscessero le verità ricevute mediante la fede. È ovvio che questa autorità si esercitava mediante l’uso della Parola, nella dipendenza dallo Spirito.
Le “favole” sono menzionate anche nella 1° Epistola a Timoteo cap. 1 vers. 4, dove sono distinte dalle “genealogie senza fine”, pur essendovi associate. Quelle genealogie non hanno nulla a che fare con le genealogie dell’Antico Testamento; sono invece delle idee fantastiche sull’origine e l’emanazione degli essere spirituali, prodotti da una certa superstizione giudaica associata alla filosofia pagana. Le favole giudaiche, qualificate come “favole profane e da vecchie”, citate in 1 Timoteo 4:7, sono il prodotto dell’immaginazione orientale che, con il pretesto di adornarla, guastano la verità e persino l’annientano. L’apostolo Pietro le chiama “favole abilmente inventate” (2 Pietro 1:16).
In questo passo parla anche di “comandamenti di uomini”; non sono quindi quelli della legge mosaica, ma delle prescrizioni inventate dagli uomini e diventate delle tradizioni, e che abbondano nel giudaismo. Li troviamo sovente negli evangeli, come ad esempio le “abluzioni di calici, di boccali e di vasi di rame” (Marco 7:4).
Seguendo le “favole” e i “comandamenti” citati, gli uomini “voltano le spalle alla verità”; tutto ciò era in opposizione con l’apostolato di Paolo, basato sulla “conoscenza della verità”, come abbiamo visto all’inizio dell’epistola.
“Tutto è puro per quelli che sono puri; ma per i contaminati e gli increduli niente è puro ; anzi, sia la loro mente sia la loro coscienza sono impure. ” (v. 15)
Il vero cristiano è puro non in se stesso, ma davanti a Dio, in virtù dell’opera di Cristo e sotto l’azione dello Spirito Santo (1 Corinzi 6:11). Come tale non può essere contaminato dall’impurità (come invece affermavano quei giudaizzanti con i loro “comandamenti di uomini”), e la Parola di Dio impegna l’uomo nuovo a camminare sulle tracce del Signore Gesù. Mai il Signore fu contaminato, né dalla contaminazione della lebbra né di altro tipo. Una peccatrice, un’adultera potevano essere purificate da Lui, ma lui non avrebbe mai potuto essere contaminato da loro.
Invece, “i contaminati e gli increduli” non sono migliorati da alcuna purezza, perché è l’interiore, cioè “la loro mente e la loro coscienza”, che è contaminato. Le caratteristiche di questi uomini ci sono descritte nel versetto seguente.
“Professano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti; essendo abominevoli e ribelli, incapaci di qualsiasi opera buona.” (v. 16)
Le loro opere ci rivelano se conoscono Dio, come pretendono; e se le loro opere sono malvagie, non possiamo avere dubbi a questo riguardo. Non ci si può attendere da loro nessuna opera buona. Sono riprovati, respinti da Dio; sono “abominevoli e ribelli” (o disubbidienti).
Questo passo ci dà lo spunto per considerare il carattere delle buone opere. Esse sono menzionate sei volte in questa breve epistola (1:16: 2:7,14; 3:1,8,14).
Le “buone opere”
Una dottrina che non conduca alle buone opere non è la “sana dottrina”. Non esiste attività pratica gradita a Dio se essa non ha per base il “sano insegnamento” della Parola di Dio. La 1ª epistola a Timoteo, che tratta del mantenimento della sana dottrina nella casa di Dio, ci parla sovente anche delle buone opere (2:10; 3:1; 5:10,25; 6:18). La 2ª, al cap. 2 vers. 21, ci mostra che per essere “preparati per ogni opera buona” bisogna ritirarsi dal male. Questa verità è assai poco compresa da molti cari figli di Dio, che parlano di continuo di buone opere senza aver mai fatto la sola cosa che può prepararli: purificarsi dall’iniquità e da chi la pratica.
Le buone opere sono il prodotto della santità e dell’amore. Pensiamo alle opere del Signore Gesù, il “santo servitore di Dio”, “unto dallo Spirito Santo“: non ce n’era neppure una che non fosse un’opera d’amore. Lo stesso facevano i suoi discepoli. In Ebrei 10:24, le buone opere derivano dall’amore e ne sono inseparabili. Allo stesso modo anche quelle delle “sante vedove” di 1 Timoteo 5:10.
In Efesini 2:10 leggiamo che il cristiano è creato in Gesù Cristo per le buone opere, ma non per sceglierle a suo piacimento, perché Dio stesso le ha “precedentemente preparate”, e noi non dobbiamo far altro che praticarle. Esse hanno lo scopo di fare la sua volontà ed essergli graditi (Ebrei 13:21).
Queste buone opere, preparate da Dio e non da noi, sono contraddistinte dal nome di Cristo (Atti 4:9-10) e sono compiute verso Cristo (Marco 14:6); lo sono anche verso i santi (Atti 9:36) e verso tutti gli uomini (Galati 6:10), ma sono sempre per Cristo.
Il mondo non può capire nulla delle buone opere fatte per Cristo, non soltanto perché non conosce il Signore, ma perché è suo nemico. Per il mondo il profumo offerto da Maria di Betania è follia; l’amore divino che porta il cuore del credente verso i santi da un lato, e verso il mondo dall’altro, è lettera morta per l’uomo naturale.
Le opere malvagie hanno come origine e come scopo il male. Un credente, anche il più eminente, è comunque in pericolo sotto questo aspetto, tant’è vero che ha bisogno di essere liberato da ogni azione malvagia (2 Timoteo 4:18). Le opere malvagie contraddistinguono in generale i nemici di Dio (Colossesi 1:21).
Le opere morte sono l’opposto delle opere viventi. Esse non hanno come origine la vita divina. Non sono “opere malvagie”, ma non hanno alcun valore per Dio; esse infatti hanno come punto di partenza la natura peccatrice, dalla quale devono esserne purificate (Ebrei 6:1; 9:14).
Il buon ordine nella casa di Dio lo si riconosce dalle buone opere di coloro che fanno parte di questa casa, non dal fatto che essi professano il cristianesimo. Infatti tale professione esteriore non impedisce alle persone menzionate al versetto 16 di essere “abominevoli e ribelli”. Dio non soltanto non tiene conto della loro professione, ma li respinge lontani da Sé.
Capitolo 2
Le cose conformi alla sana dottrina (v. 1-5)
“Ma tu esponi le cose che sono conformi alla sana dottrina:” (v. 1)
Come abbiamo già fatto notare, tutto l’ordine nella casa di Dio, tutte le relazioni cristiane dei membri di questa casa fra loro, sono basate sulla “sana dottrina”, senza la quale non può esserci che confusione e disordine. L’assenza di tale base spiega in gran parte le aberrazioni della cristianità riguardo ai doni e agli’incarichi, al ruolo dei vecchi, al posto delle donne anziane o giovani, e alle relazioni dei servi con i loro padroni.
Ci sono delle cose che non sono conformi al sano insegnamento, e non le troveremo mai nella parola di Dio. Un insegnamento, per quanto fosse elevato secondo l’uomo, non sarebbe sano se non spingesse i cristiani a una vita di santità e di giustizia pratica che onori il Signore. Questo insegnamento riguarda tutte le classi del “corpo di Cristo” nella casa di Dio, perché la salute di un corpo è sempre legata all’equilibrio delle sue diverse parti; ma dobbiamo applicarlo anzitutto a noi stessi per la nostra vita, la nostra condotta e la nostra speranza.
“I vecchi siano sobri, dignitosi, assennati, sani nella fede, nell’amore, nella pazienza;” (v. 2)
L’apostolo Paolo comincia dai vecchi, cioè coloro che occupano una posizione onorevole e di conseguenza sono particolarmente responsabili di dare l’esempio nella famiglia di Dio.
Generalmente il termine “sobrio” è messo in relazione al consumo di bevande e altri alimenti. Così vediamo Isacco, vecchio, mancare di sobrietà, il che, aggiunto alle infermità della sua età, turbava la sua vita spirituale; ma qui, come in 1 Timoteo, si tratta piuttosto di sobrietà in senso figurato, d’uno spirito che non si lascia inebriare dalla passione, perché ha il sentimento della presenza di Dio.
I termini “dignitosi, assennati” potrebbero anche essere tradotti in “gravi, saggi”: esprimono una grande ponderazione nella vita pratica, che non potrebbe essere realizzata senza la sobrietà che deve essere la base della loro condotta. Essi diventano così degli uomini di esperienza che contribuiscono alla salute e al buon ordine di tutta la famiglia di Dio.
“Sani nella fede”. Qui il termine fede non si riferisce all’accettazione della testimonianza divina nell’anima, ma alle verità che la parola di Dio presenta alla fede. La salute morale dei vecchi doveva mostrarsi in un armonioso equilibrio di queste verità. Il credente che ha esperienza deve aver cura, nell’insegnamento, di non dare un posto sproporzionato a certe parti dell’insieme. Per esempio, non sarebbe bene mettere l’accento sulla posizione celeste del credente senza insistere sulla sua condotta, o viceversa.
“Sani nell’amore”. Questo stesso equilibrio morale deve manifestarsi nell’amore fraterno. Fare delle distinzioni o delle preferenze per un membro della casa di Dio a danno di altri (qui non si tratta dell’amore per Cristo, che non è soggetto a misura) non è essere sani nell’amore.
“Sani nella pazienza”. Specialmente nelle persone attempate potrebbe essere presente una certa impazienza o indifferenza nella prova, o potrebbe smorzarsi il sentimento dell’attesa del prossimo ritorno del Signore: questo non sarebbe indizio di una buona salute spirituale.
“Anche le donne anziane abbiano un comportamento conforme a santità, non siano maldicenti né dedite a molto vino, siano maestre nel bene, per incoraggiare le giovani ad amare i mariti, ad amare i figli,” (v. 3-4)
Nell’avvicinarsi alle persone e nella loro accoglienza, come pure nell’atteggiamento esteriore, le donne anziane devono avere un comportamento serio e decoroso, “ornamento” peculiare della donna, ma occorre che questa condotta sia il riflesso del loro carattere interiore di santità. Questa raccomandazione corrisponde a ciò che ci è detto della donna cristiana in 1 Timoteo 2:9-10 e 1 Pietro 3:2-5. L’assenza di ogni influenza mondana deve caratterizzarle in primo luogo.
“Non siano maldicenti”. Devono tenere la lingua sotto controllo, evitare di parlare male del prossimo, il che può essere una trappola particolarmente pericolosa per loro.
“Né dedite a molto vino”. Talvolta le donne anziane ricorrono a questo mezzo quando sono sole e con una salute malferma, e se non vegliano possono cadere sotto questa schiavitù, di cui Satana si servirebbe per la loro rovina morale e per impedire che esercitino un’influenza salutare attorno a sé. Se poi, riprese dalla coscienza circa l’improprietà di tali abitudini, cercassero di nasconderle, cadrebbero nell’ipocrisia.
“Maestre nel bene”. Ora sono le donne anziane che devono insegnare, nel campo in cui la donna può farlo: quello della casa. Debbono insegnare il bene, cioè le cose buone, onorevoli, ma devono farlo nei confronti delle donne giovani, affinché l’ubbidienza di queste ultime all’insegnamento della Parola sia completa, cioè che realizzino le sette cose che sono raccomandate a loro.
Il loro campo d’azione nella casa è molto più ampio di quello dell’insegnamento, perché esse possono rivolgersi a tutti, uomini, vecchi, donne e bambini, infermi, poveri, diseredati; ma quando si tratta d’insegnare, l’apostolo Paolo dice: “Non permetto alla donna d’insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio” (1 Timoteo 2:12).
L’insegnamento alla giovani donne raccomanda in primo luogo l’amore, amore che si esercita anzitutto nell’ambito della famiglia. Il marito ha il primo posto nell’affezione legittima della donna. Può succedere che l’affetto della donna per i figli arrivi a sopprimere quello che è dovuto al marito. Il sano insegnamento mette ogni cosa al suo giusto posto.
“a essere sagge, caste, diligenti nei lavori domestici, buone, sottomesse, ai loro mariti, perché la parola di Dio non sia disprezzata.” (v. 5)
“Essere sagge“. Questo termine significa moderazione, ritegno, discrezione, autocontrollo. In effetti, potrebbe mancare il giusto ritegno anche negli affetti più legittimi, nel qual caso essi non sarebbero più secondo Dio.
“Essere caste” (o pure). Qui si tratta delle relazioni della giovane donna nella sua sfera d’intimità. La purezza è compagna necessaria del ritegno, anche nelle relazioni col marito; e, nei confronti dei figli, deve essere esercitata una stretta sorveglianza contro ogni possibile tendenza all’impurità.
“Diligenti nei lavori domestici”. Come abbiamo già detto, la casa è il dominio, infinitamente vario, assegnato alla donna, mentre quello pubblico non le compete. È nella casa, nella più vasta accezione del termine, che la donna ha il suo posto: cure fisiche, psichiche e spirituali, preghiera, lettura, esortazione, evangelizzazione nei contatti personali, insegnamento nei dovuti limiti, ordine materiale e morale, beneficenza, cura degli anziani, dei figli, dei malati, e quante altre cose ancora, tutto questo è dominio della donna.
In questo passo, si tratta anzitutto delle cure della propria casa, soprattutto materiali, che tuttavia non escludono le altre. Il suo cerchio si allargherà con l’età, come per l’uomo. Abbiamo un esempio nelle sante donne che seguivano il Signore e lo assistevano coi loro beni (Luca 8:1-3).
L’ordine nella casa di Dio non si accorda col disordine nella famiglia, nei figli, anzi. C’è una regola secondo Dio alla quale, sotto la direzione della donna, i figli e anche i servitori, se ci sono, devono sottomettersi: c’è da mantenere e riparare i vestiti, provvedere alla preparazione dei cibi e ai diversi bisogni in questa piccola espressione della casa di Dio che è la famiglia. In tutte queste cose, abbiamo l’esempio della donna virtuosa descritta da Proverbi 31:10-31.
“Buone”. La bontà, fatta di compassione, di dedizione agli altri, di pensieri caritatevoli, è citata qui perché le cure della propria casa potrebbero assorbire la donna in modo esclusivo. In effetti, la bontà si esercita indistintamente in favore di tutti e in ogni genere di cura.
“Sottomesse ai loro mariti”. La sottomissione viene presentata come coronamento delle qualità delle giovani mogli. Un bell’equilibrio in tutte le cose non può esservi senza la rinuncia a se stesse e la dipendenza dell’autorità alla quale sono sottoposte da parte di Dio.
Tutte queste cose non devono andare a detrimento della vita cristiana, come nel caso di Marta nell’episodio citato in Luca 10:38-42, che era troppo presa (addirittura distratta, come qualcuno traduce) dalle cure domestiche e che, in questo modo, trascurava la comunione col Signore e la sua parola. Ma è proprio questo che dà alla donna la forza per mantenere l’equilibrio in tutti i lati della sua testimonianza.
“Perché la Parola di Dio non sia disprezzata”. Tutto quest’ordine, anche materiale, fa parte, come lo vediamo qui, della testimonianza cristiana. Il mondo ci osserva. L’autorità della Parola di Dio non può essere messa in dubbio quando se ne constatano i frutti. Così possiamo notare che in questo capitolo è riaffermato più volte che la sana dottrina è alla base di tutta la vita cristiana.
Il giovane Tito esempio per i giovani (v. 6-8)
“Esorta ugualmente i giovani ad essere saggi, presentando te stesso in ogni cosa come esempio di opere buone;” (v. 6-7)
L’esortazione ai giovani non è affidato alle donne anziane, ma a Tito. L’unica esortazione rivolta ai giovani (in contrasto con le sette raccomandazioni alle giovani) riguarda la sobrietà, cioè la moderazione e l’autocontrollo. In ogni cosa essi avevano un modello in Tito e nella sua condotta.
La vita pratica del delegato di Paolo non doveva presentare delle lacune. Come abbiamo già detto, le “opere buone” sono la manifestazione della fede e dell’amore (vedi anche 1 Tessalonicesi 1:3). L’esortazione del giovane Tito ai giovani doveva necessariamente essere accompagnata dal suo esempio, senza il quale essa non avrebbe avuto valore.
“mostrando nell’insegnamento integrità (lett.: purezza della dottrina), dignità, linguaggio sano, irreprensibile, perché l’avversario resti confuso, non avendo nulla di male da dire contro di noi.” (v. 7-8)
Tito era chiamato anche a insegnare. Il suo insegnamento doveva avere tre caratteri:
- – Purezza della dottrina.
È importante che la dottrina non sia mescolata con elementi dubbi o estranei, che potrebbero portare gli uditori sia a respingere anche le cose sane sia a ricevere tutto senza discernimento, e a diventare a loro volta dei mezzi di diffusione dell’errore. Quest’ultimo pericolo è tanto più grave quando chi insegna è in posizione di autorità e ha del prestigio.
- – Insegnamento dignitoso (o grave).
Sovente nella predicazione dei nostri giorni questa qualità manca. Per attirare l’attenzione, si cerca di fare effetto, di essere originali, di parlare all’immaginazione degli uditori, di suscitare la curiosità. Le parole leggere o fuori posto possono distruggere l’effetto salutare della verità, togliendole il suo carattere divino; colui che se ne serve perde così il carattere di “oracolo di Dio” per gli uditori.
- – Linguaggio sano, irreprensibile.
Chi insegna incontrerà sempre, e talvolta anche fra i fratelli più in vista, degli avversari che speculano sulle sue parole per accusarlo di essere contro la sana dottrina. Il “dottore” non deve dare occasione a chi si oppone. Certe parole non ben ponderate e insufficientemente fondate provengono spesso dal desiderio di presentare delle novità per mettersi in evidenza. Esse diventano un’arma in mano ai malintenzionati per combattere e compromettere colui che insegna.
Se la sua parola è “sana”, ha una virtù propria; non si può condannare un rimedio che porta la salute a chi lo prende. Chi attacca i nostri discorsi è allora obbligato a ritirarsi con vergogna, senza aver trovato un pretesto plausibile alla sua opposizione.
Le esortazioni per i servi (v. 9-10)
“Esorta i servi (lett. schiavi) ad essere sottomessi ai loro padroni, a compiacerli in ogni cosa, a non contraddirli, a non derubarli, ma a mostrare sempre lealtà perfetta, per onorare in ogni cosa la dottrina di Dio, nostro Salvatore” (v. 9-10)
Oltre ai giovani, Tito doveva esortare anche gli schiavi. Non gli era ordinato di esortare le persone in età avanzata, uomini o donne che fossero; notiamo la correttezza della Parola anche in questi particolari. Osserviamo che, da tempo ormai, la schiavitù è stata abolita, ma i principi che troviamo qui debbono essere applicati in tutti i casi in cui si è in posizione di subordinazione.
La “dottrina di Dio, nostro Salvatore”, ricevuta nel cuore, per i servi ha quattro risultati:
- – La sottomissione ai loro padroni.
La sottomissione è un po’ diversa dall’ubbidienza. L’ubbidienza è in rapporto con gli ordini dati; ad essa sono tenuti tanto i figli quanto i servi. Invece la sottomissione è l’accettazione di un’autorità superiore. È ciò che è raccomandato alle mogli, mentre la posizione di servo unisce l’ubbidienza alla sottomissione.
- – “Compiacere ai padroni in ogni cosa”. Alla scuola di Dio Salvatore si impara a non compiacere se stessi. Il Signore non ha forse agito così nei confronti di Dio? Il servo deve essere sempre all’erta per scoprire le cose che fanno piacere al suo padrone.
- – “Non contraddirli”. Cercare di far valere la propria opinione e opporsi al pensiero o agli ordini equivarrebbe ad essere insubordinati.
- – “Non derubarli”. Questo pericolo è reale perché la condizione servile è accompagnata da costrizioni e restrizioni, che talvolta sono ingiustificate. Ma può succedere che un padrone si fidi del proprio servo e gli lasci una certa autonomia. Ad esempio, lo schiavo Onesimo (Filemone 18) era stato infedele prima della sua conversione, perché aveva abusato della fiducia del suo padrone. Invece lo schiavo cristiano doveva “mostrare sempre lealtà perfetta”, una fedeltà scrupolosa in ciò che gli era affidato.
La condotta aveva lo scopo di “onorare (meglio: illustrare) in ogni cosa la dottrina di Dio, nostro Salvatore”. Colui che ha coscienza di essere stato salvato (e a quale prezzo!) da Dio stesso e che conosce un tale Dio, non ha che un desiderio: essere istruito da Lui e portare dei frutti che siano coerenti con la dottrina ricevuta. Bisognava che si potesse dire, vedendo la condotta di quegli schiavi: sono l’illustrazione di ciò che hanno imparato dal loro Maestro eccellente; dalla loro condotta si vedeva quale scuola avevano frequentato; in ogni cosa, facevano onore a questo insegnamento.
Notiamo quante volte in quest’epistola Dio ci è presentato come Dio Salvatore. Al cap. 1 vers. 3 c’è già “l’ordine di Dio, nostro Salvatore”, e al vers. 4 “Cristo Gesù, nostro Salvatore”. Nel vers. 10 che stiamo studiando, “la dottrina di Dio, nostro Salvatore”. Il vers. 13 di questo capitolo ci parla dell'”apparizione … del nostro grande Dio e Salvatore, Cristo Gesù”. Al cap. 3 vers. 4, “la bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per gli uomini sono stati manifestati” per salvarci. Infine, al vers. 6 di questo capitolo, lo Spirito Santo è “sparso abbondantemente su di noi per mezzo di Gesù Cristo, nostro Salvatore”.
Nell’opera della salvezza, dunque, Gesù Cristo non è mai separato da Dio, anzi, è sempre in unione perfetta con lui. Dio ordina, insegna e poi apparirà come grande Dio nella persona di Cristo. È in questa stessa persona che il suo amore è apparso e ci ha salvati. Stiamo ancora aspettando di veder apparire la sua gloria in questa stessa persona. Ma nell’attesa possediamo lo Spirito Santo, sparso su noi per mezzo di Lui, nostro Salvatore. In sintesi, la salvezza acquisita, lo Spirito donato, la gloria futura, tutto questo dipende dal Cristo Salvatore, immagine del Dio invisibile, nostro Salvatore. E vedremo al vers. 11 che, nell’attesa di questa gloria, è la grazia che ci “insegna”.
A differenza di quest’epistola, la 1ª a Timoteo ci parla piuttosto del Dio Creatore e Conservatore, mentre la 2ª, che ci presenta la rovina della casa di Dio e il cammino del fedele in questa situazione, insiste particolarmente sulla signoria di Cristo; il Signore: questo è il titolo di Gesù Cristo preponderante in 2 Timoteo (15 volte). Gli uomini “degli ultimi giorni” disconoscono i diritti assoluti del Signore su di noi. Noi credenti di oggi, che stiamo attraversando i tempi della fine, siamo chiamati a proclamare la sottomissione a quest’autorità, che non può essere dimostrata che con la sottomissione assoluta alla Sua Parola.
È degno di nota che nell’epistola a Tito, in cui il credente è considerato sempre sottoposto all’insegnamento della Parola, il nome “Signore” non è presentato neppure una volta.
La grazia di Dio in azione (v. 11-14)
Arriviamo ora al secondo grande argomento dell’epistola: la grazia di Dio in azione. Nei prossimi versetti infatti troviamo:
- che cos’è la grazia,
- che cosa porta,
- a chi si rivolge,
- ciò che essa insegna.
Coerentemente col contenuto dell’epistola, questo brano insiste particolarmente sull’insegnamento datoci dalla grazia. Il termine originale usato qui è paideuo (invece di didasko e didaskalia “insegnamento o dottrina” usato in tutto il resto dell’epistola), che significa insegnamento pratico, come quello che si dà ai bambini, e non dottrinale.
“Infatti la grazia di Dio, salvifica (cioè che porta la salvezza) per tutti gli uomini, si è manifestata (meglio: è apparsa),” (v. 11)
La menzione del Dio Salvatore (v. 10) così notevole in questa epistola, implica necessariamente il concetto della grazia e gli dà il primo posto.
La grazia non è la bontà di Dio; è il suo amore che si abbassa e viene incontro ai peccatori per salvarli. Qui la grazia è una persona (come in Giovanni 1, la Parola fatta carne), una persona piena di grazia. Non è quindi né un principio né un’astrazione; è il Dio Salvatore nella persona di un uomo, che appare in modo tale che ogni uomo ha potuto vederla e riceverla. Ciò che dà alla grazia il suo valore è che è la grazia di Dio. Essa dunque è sovrana, perfetta ed eterna come Lui.
Questi versetti ci parlano di due apparizioni. Prima l’apparizione della grazia, discesa quaggiù per portarci la salvezza; poi l’apparizione della gloria (v. 13) del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo. La prima ci porta la salvezza in grazia, la seconda la salvezza in gloria. La salvezza in grazia è stata già perfettamente compiuta, la salvezza in gloria lo sarà perfettamente in un futuro così prossimo che per la fede è già presente, perché lo attualizza (Filippesi 3:20-21).
La grazia è apparsa non per esigere qualcosa dall’uomo, ma per portargli un dono dal valore inestimabile: la salvezza! La grazia di Dio non chiede né esige nulla dall’uomo per salvarlo, come fa la legge; gli porta la salvezza senza chiedergli nulla in cambio. Non è detto che porterà, e neppure che ha portato, ma che porta. Questo fa della salvezza, perfettamente compiuta, una cosa attuale, immutabile, che non può essere cambiata né revocata. Ma più di questo, essa è per tutti gli uomini. La sua portata è universale e nessuno ne è escluso.
Questa gratuità della salvezza contraddice il pensiero dell’uomo, che, a causa del suo orgoglio, non vuole ammettere che il dono di Dio non gli costi nulla. Accetterebbe volentieri un Dio che gli ordinasse di conquistare la salvezza, o gli offrisse il suo aiuto per ottenerla, o gli insegnasse i diversi modi per acquistarla. Accetterebbe una salvezza che fosse il risultato del suo zelo nelle buone opere, ma non una salvezza interamente gratuita. L’uomo vorrebbe offrire qualcosa, forse anche molto poco, per ottenere la salvezza e in seguito vantarsene. Perché chi è che abbia acquistato a basso prezzo qualcosa di molto prezioso e poi non se ne vanti?
Pensiamo a questa salvezza. Non possiamo comprenderne tutta la portata; ci occorrerà l’eternità per abbracciarla nella sua estensione.
Per il credente, la salvezza non è soltanto il perdono dei peccati che ha commesso. Nella gran maggioranza, i credenti si fermano a questa verità primaria e trascorrono la vita senza aver conosciuto la vera liberazione. Essa non solo è il perdono dei peccati, ma l’assoluta liberazione dal peccato, dalla radice stessa che è in noi, chiamata carne e vecchio uomo, e che porta tutti quei frutti cattivi: i peccati.
La liberazione consiste in questo: poiché Cristo è stato “fatto peccato” al nostro posto, la nostra vecchia natura, cioè “il peccato nella carne” è stata condannata e crocifissa nella sua persona. Noi quindi possiamo ritenerci ormai “morti al peccato”, e “non c’è dunque più alcuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù”. Da questo fatto deriva che sono ridotte al nulla tutte le conseguenze del peccato: la schiavitù di Satana, la morte e il giudizio.
Ma, per quanto grande sia la liberazione, la salvezza è ancora molto di più di questo: è anche l’introduzione attuale del credente alla presenza di Dio, ricevuto e accolto in virtù del fatto che Dio ha pienamente accettato l’opera di Cristo – accettazione pubblicamente dichiarata perché Dio ha risuscitato Cristo dai morti e lo ha fatto sedere alla sua destra. I risultati di questa accettazione del credente davanti a Dio ci sono descritti in Giovanni 20:17, Romani 5:1-2, Efesini 1:2-6.
Infine la salvezza è l’introduzione futura nella gioia perfetta e senza fine di tutte le cose che possediamo solo in speranza e che saranno manifestate nella gloria (Filippesi 3:20-21).
Tale è la salvezza che la grazia ci porta. Possiamo dire ben a ragione che essa è senza limiti.
“e ci insegna a rinunziare (lett. rinnegare) all’empietà e alle passioni mondane, per vivere in questo mondo moderatamente, giustamente e in modo santo (lett. piamente),” (v. 12)
La grazia ha cominciato col portare la salvezza a tutti gli uomini; in seguito essa “ci insegna”. Il credente non si trova, come Israele, sotto l’insegnamento della legge, ma sotto quello della grazia. La grazia, apparsa in Cristo, ha preso il posto del primo “precettore”, la legge, che è stato messo da parte (Galati 3:24).
Questo nuovo insegnante non è dato al mondo. Occorre anzitutto che gli uomini siano salvati mediante la fede e soltanto dopo possono essere ammaestrati. Quelli che sono stati salvati formano ormai una nuova famiglia che ha bisogno d’educazione. La grazia se ne fa carico. Ecco perché l’apostolo dice: ci insegna. Dio non istruisce il mondo, ma i giusti. Senza dubbio “insegna la via ai peccatori” (Salmo 25:8), cioè a quelli che, riconoscendo le loro trasgressioni, fanno appello alla sua grazia e al suo perdono. Quando gli si avvicinano e mettono la loro fiducia in Lui, Dio li conta fra “gli umili” (vers. 9 dello stesso Salmo).
Non ci sarà mai terreno d’incontro fra il peccato e la grazia, perché sono totalmente opposti. La grazia non migliora il peccatore, ma lo salva. Il peccato separa l’uomo da Dio, la grazia lo conduce a Dio. Il peccato rende l’uomo schiavo di Satana, la grazia lo libera da questa schiavitù. Il peccato produce la morte, la grazia dona la vita eterna. Il peccato conduce l’uomo al giudizio, la grazia gli porta la giustizia. Il peccato ha per conseguenza la condanna, la grazia toglie quest’ultima per sempre.
Vediamo ora in che cosa consiste l’insegnamento della grazia:
Quanto al passato, essa ci insegna a rinnegare l’empietà e le passioni mondane; quanto al presente, a vivere nel tempo attuale sobriamete, giustamente e piamente; quanto al futuro, ad aspettare la beata speranza.
Questo insegnamento della grazia è totalmente pratico (cosa che del resto contraddistingue tutta la “dottrina o insegnamento” di questa epistola), cioè riguarda la nostra condotta quaggiù. Esaminiamolo più da vicino:
- – “Rinnegare l’empietà e le passioni mondane”. Rinnegare significa dichiarare di non conoscere più una persona o un soggetto che un tempo si conosceva. Pietro che rinnega Gesù ne è un esempio. Praticamente, il credente istruito dalla grazia ha rotto con le cose del passato, col disprezzo che mostrava verso Cristo e l’indifferenza riguardo alle sue relazioni con Dio. L’empietà è vivere senza Dio in questo mondo; le passioni, cioè la concupiscenza degli occhi, quella della carne e l’orgoglio della vita, appartengono al mondo e non alla nuova natura. La croce di Cristo, come pure la gloria di Cristo, sono incompatibili con queste cose.
Tutto il cammino del credente, ammaestrato dalla grazia, è compreso fra il punto di partenza (la croce) e quello d’arrivo (la gloria). Questo cammino è totalmente estraneo alla nostra condotta di prima, quando eravamo lontani da Dio.
- – “Per vivere in questo mondo…”. Noi siamo stati “sottratti al presente secolo malvagio” perché Cristo “ha dato se stesso per i nostri peccati” (Galati 1:4). Dunque non apparteniamo più al mondo, perché siamo del cielo, una nuova creazione. Le cose vecchie sono passate, ma come cristiani siamo sempre in pericolo di conformarci al presente secolo (Romani 12:2), persino, ahimè, di amarlo e di abbandonare così, come il fratello Dema, la testimonianza di Cristo (2 Timoteo 4:10). Questo non vuol dire che non dobbiamo “vivere in questo mondo”, ma, avendo rotto ogni legame morale con esso, vi siamo lasciati per mostrare con la nostra condotta che abbiamo ormai altri principi di cammino e di comportamento.
- – “… moderatamente, giustamente e piamente”. Moderatamente quanto a noi stessi, giustamente quanto al nostro prossimo, piamente quanto a Dio. È ciò che deve caratterizzare tutta la nostra vita nel suo svolgimento nel mondo presente, finché abbia raggiunto la sua pienezza in quello futuro. Le tre cose che la grazia ci insegna qui sono la caratteristica di fondo della vita pratica di tutte le classi di credenti trattati in questa epistola.
Moderatamente. Abbiamo visto che la moderazione in tutte le cose, la sobrietà o saggezza, l’autocontrollo devono contraddistinguere i fratelli e le sorelle avanti nell’età e i giovani (vers. 5 e 6); in sintesi tutti quelli che formano l’insieme della casa di Dio.
Giustamente. La giustizia pratica consiste anzitutto nel non permettere che il peccato si introduca nei nostri cuori e nelle nostre vie; ma allo stesso tempo essa ci obbliga a rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto. La giustizia deve regolare i nostri rapporti, sia con i nostri fratelli, sia col mondo; e qui è questo il significato essenziale del termine “giustamente”. Le cure per gli altri, l’assenza di ogni egoismo, l’onore reso a ciascuno, è ciò che garantisce l’ordine in tutte le relazioni reciproche dei membri della casa di Dio.
Piamente. Abbiamo già visto, al primo versetto di questa epistola, in che cosa consiste la pietà, e come essa sia inseparabile dalla conoscenza della verità. Qui la pietà è il più elevato di questi tre punti. Vivere piamente significa mantenere le relazioni abituali della nostra anima con Dio, nell’amore, il rispetto, l’ubbidienza, il timore di dispiacergli. Queste cose hanno caratterizzato di fedeli di tutti i tempi. Quante volte la pietà è raccomandata nelle epistole a Timoteo; quante volte i vantaggi e le benedizioni da esse derivanti sono messi in luce! (vedere 1 Timoteo 2:2; 3:16; 4:7,8; 5:4; 6:3,5,6,11; 2 Timoteo 3:5,12).
“aspettando la beata speranza e l’apparizione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore, Cristo Gesù.” (v. 13)
Anche questo fa parte dell’insegnamento della grazia. Ci insegna ad attendere il ritorno del Signore che verrà per portarci presso di Sé. Come non chiamare “beata” questa speranza? In essa non v’è traccia di timore o di apprensione; nessuna nuvola la attraversa; per il riscattato è il trionfo e il coronamento della grazia. Ma questa speranza è intimamente legata all’apparizione della gloria, per colui che è ammaestrato dalla grazia. Anche se queste due prospettive si realizzeranno separatamente nel tempo, “beata speranza” e “apparizione della gloria” appartengono allo stesso avvenimento, che è la venuta del Signore.
Ma la beata speranza è il suo ritorno in grazia, mentre l’apparizione della gloria è la Sua venuta in gloria; l’una è la Sua venuta per i santi, l’altra è la Sua venuta con i santi; l’una è il Suo ritorno visibile solo ai riscattati, l’altra è la Sua venuta visibile agli occhi del mondo; l’una è per la benedizione ineffabile dei suoi, l’altra per il giudizio del mondo; l’una è per introdurci nelle dimore celesti, l’altra è per stabilire sulla terra il Suo regno di giustizia e di pace; l’una è per prenderci accanto a Sé, l’altra per manifestare noi nella Sua stessa gloria.
“Il nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo“. Di quale dignità suprema, di quale maestà sarà rivestito il Signore Gesù, al momento della sua apparizione! Il mondo farà cordoglio e si batterà il petto vedendolo venire con le nuvole, ma, a questo pensiero, i nostri cuori sono ricolmi di gioia ineffabile, perché possiamo dire: Questo grande Dio è il nostro Dio, questo grande Dio è il nostro Salvatore Gesù Cristo!
“Egli ha dato se stesso per noi per riscattarci da ogni iniquità e purificarsi un popolo che gli appartenga, zelante nelle buone opere” (v. 14)
“Ha dato se stesso per noi”! Ecco dove l’ha condotto il suo amore! Non è vero soltanto che Dio ha dato il suo unico Figlio, ma Gesù si è dato, dato interamente, ha dato se stesso, per noi. La sua morte e le sue sofferenze hanno ancora altri scopi, come vedremo; ma qui, siamo noi lo scopo. Meraviglioso amore! È la storia del tesoro e della perla di gran prezzo (Matteo 13:44-46). Gesù ha stimato che acquistarci valeva la sua propria vita; così ci ha visti, non secondo ciò che eravamo, ma secondo le perfezioni di cui il suo amore voleva rivestirci.
Elenchiamo qualche altro passo sugli scopi del suo sacrificio:
- – Galati 2:29. “Il Figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me”.
Questo passo, insieme a quello che stiamo studiando, è uno dei più preziosi: Egli si è dato per chi? Per me, un individuo. Anche se fossi stato solo al mondo, Egli si sarebbe dato fino al punto di subire la morte per me solo. In Tito 2, è per noi, cioè l’insieme dei suoi riscattati. Egli vuole avere quaggiù un popolo che gli appartenga. Romani 5:8 mostra che è morto per noi, quando eravamo ancora peccatori. Come questo fatto esalta la grandezza del suo amore! Quando non eravamo altro che peccatori, vedeva in noi il risultato dell’opera che stava per compiere. Ci considerava alla luce della redenzione, ma il suo amore ha trovato, nel peccato stesso, un motivo per mostrarne tutta l’estensione.
- – 1 Corinzi 15:3. “Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture”. È il riassunto di tutto l’Evangelo, il primo grande scopo della morte di Cristo. Per possederci, era necessario che regolasse la questione dei nostri peccati.
- – Galati 3:13. Egli è morto per “riscattarci dalla maledizione della legge, essendo divenuto maledizione per noi”. Possiamo concepire il Santo e il Giusto che s’identifica a un tale punto con degli esseri maledetti? In senso stretto, si può dire che gli Ebrei, che avevano la legge, sono stati riscattati dalla maledizione della legge; i non Ebrei sono stati liberati dall’ira di Dio che è su di loro a causa del peccato.
- – Galati 1:4. “Ha dato se stesso per i nostri peccati, per sottrarci al presente secolo malvagio”. Mi chiedo: i cristiani hanno coscienza che lo scopo di Cristo morendo per cancellare i nostri peccati era di separarci dal mondo, e realizzano questo scopo nella loro condotta?
- – Giovanni 11:52: “Gesù doveva morire… non soltanto per la nazione, ma per riunire in uno i figli di Dio dispersi”. Ecco un altro scopo della sua morte. Voleva raccogliere i suoi nell’unità della famiglia di Dio quaggiù. Diciamo “la famiglia” perché Giovanni non parla della Chiesa alla quale, del resto, questo passo può anche essere applicato. Anche qui, come nel punto precedente, notiamo che purtroppo i cristiani non sempre apprezzano lo scopo di Cristo.
- – 1 Pietro 3:18. “Cristo ha sofferto una volta per i peccati,… per condurci a Dio“. Risultato immenso del suo sacrificio! “Vi ho portati su ali d’aquila – dice l’Eterno – e vi ho condotti a me” (Esodo 19:4). E ancora: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14:6).
- – 2 Corinzi 5:15. “Egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per sé stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro”. L’apprezzamento della morte di Cristo distrugge in noi l’egoismo che mette sempre il nostro “io” al centro: l’uomo fa tutto per il suo io. Ciò che abbiamo detto ai punti dal 3 al 7 potranno essere realizzati solo se abbiamo sempre davanti agli occhi la morte e le sofferenze di Colui che ha dato se stesso per noi.
- – Efesini 5:25-27. “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei”. Ha compiuto quel sacrificio d’amore per acquisire la sua Sposa, l’oggetto più caro del suo cuore; e dopo averla acquisita, la purifica durante il viaggio del deserto, perché sia degna di Lui, quando entrerà nella gloria. I cristiani pensino ad amare non la loro denominazione, ma la Chiesa, perché Cristo la ama!
Ritorniamo ora al passo che stiamo esaminando.
Dando se stesso per noi, il Salvatore aveva due scopi:
- – “Riscattarci da ogni iniquità”. Questo risultato è acquisito per sempre mediante la sua opera di redenzione, mentre l’opera della purificazione giornaliera, per stabilire con Dio la comunione interrotta, si protrae lungo tutto il nostro cammino quaggiù. “Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità”.
- – “Purificarsi un popolo che gli appartenga”. L’acquisizione di questo popolo ha avuto luogo grazie al suo sacrificio; la purificazione di cui è parlato qui ha luogo una volta per tutte mediante la Sua parola,. Ma questo popolo che ha acquisito, per il quale ha dato Se stesso, lo vuole per Sé, così come la sua opera l’ha fatto e la sua santità lo desidera. Tutta quest’opera ha luogo in vista di formare quaggiù, come ci mostra questo passo, una famiglia, un popolo per Dio, una Sposa per Cristo.
Ma questo popolo che gli appartiene dev’essere “zelante nelle buone opere”. Abbiamo già trattato l’argomento delle buone opere e avremo ancora l’occasione di ritornarci. Ciò che risalta da questo passo è che il Signore vuole vedere dello zelo, dell’attività, nella vita dei suoi diletti. Il nostro zelo ha risposto al desiderio del suo cuore? o il Signore non è invece obbligato a dirci, come a Laodicea: “Sii dunque zelante e ravvediti” (Apocalisse 3:19)?
Riassunto del ministerio di Tito (v. 15)
“Parla di queste cose, esorta e riprendi con piena autorità. Nessuno ti disprezzi” (v. 15)
In quest’ultimo versetto del capitolo troviamo il riassunto del ministerio di Tito. Doveva “parlare di queste cose”, cioè annunciarle, esortare (vers. 6), riprendere (cap. 1 vers. 13).
Il suo ministerio doveva mostrare “piena autorità”, fra quei Cretesi malvagi, bugiardi e pigri. Ci sono dei casi in cui un atto di autorità secondo Dio, fatto da coloro che il Signore ha designato per mantenere l’ordine nella sua casa, è il solo in grado di fare diga contro il male.
Questo non significa che Tito dovesse compiere soltanto degli atti d’autorità. La dolcezza, la grazia, la sopportazione, l’amore guadagnano i cuori; l’atto di autorità reprime il male. Consideriamo il nostro modello perfetto. Il Signore parlava con autorità alle onde ribelli del mare, comandava con autorità agli spiriti immondi, ma questo non era il lato essenziale della sua attività; così era anche del ministerio di Tito, delegato dell’apostolo. “Io sono mansueto ed umile di cuore”, dice il Signore. La sua caratteristica, come vero servitore, non era soltanto di “prosciugare il mare con la sua minaccia”, ma di “aiutare con la parola chi è stanco” (Isaia 50:2,4).
Il caso di Tito era particolare non soltanto per l’ambiente nel quale era chiamato ad agire, ma per la sua età. Come Timoteo, probabilmente era ancora giovane e come tale era importante che si comportasse in modo da non essere esposto al disprezzo, che si sarebbe riversato anche sulla parola che Dio gli aveva affidato (vedi anche 1 Timoteo 4:12).
Capitolo 3
I principati e le autorità
Il versetto che stiamo per esaminare ci parla dei magistrati e delle autorità.
Nel testo originale greco, il termine tradotto con magistrati è lo stesso usato in altri passi, che citerò qui appresso, nei quali è tradotto in principati. In Efesini 1:21 vediamo il Signore risuscitato, seduto alla destra di Dio “al di sopra di ogni principato, autorità, potenza, signoria e di ogni altro nome che si nomina non solo in questo mondo, ma anche in quello futuro”. Questi principati e queste autorità si dividono in tre classi, corrispondenti agli esseri terresti, celesti e infernali di Filippesi 2:10.
- Efesini 3:10 ci parla dei principati e delle autorità celesti.
- Efesini 6:12 dei principati e delle autorità sataniche.
- Colossesi 1:16 dei principati e delle autorità celesti e terrestri istituite da Dio.
- Colossesi 2:10 dei principati e delle autorità celesti.
- Colossesi 2:15 dei principati e delle autorità sataniche.
Il passo che stiamo per esaminare ci parla dei principati e delle autorità terrestri. Arriverà il giorno in cui tutte queste potenze piegheranno le ginocchia davanti a Cristo, in quanto sono costituite da tutti gli esseri che appartengono alla sfera celeste, o terrestre, o infernale.
Sintetizziamo il contenuto dei passi sopra citati. Ci sono dei principati e delle gerarchie celesti e terrestri mediante le quali Dio esercita il suo governo. Sono state tutte create da Cristo (Colossesi 1:16). Egli è e resterà eternamente al di sopra di tutte. Una parte dei principati e autorità celesti è caduta sotto la potenza di Satana al momento della sua rivolta contro Dio. Inoltre, come principe di questo mondo, Satana li dirige e si serve di loro per fare la guerra a Cristo.
Le autorità celesti o angeliche che non sono cadute e che Dio ha mantenuto nella purezza primitiva, sono al riparo delle sue imprese malvagie, ma il Signore si serve anche delle autorità sataniche e di Satana stesso per compiere i Suoi disegni; così avvenne per Giobbe. Allo stesso modo il Signore sovrintende su tutte le decisioni dei principati e delle autorità terrestri che ha istituito, e se ne serve per compiere la sua volontà.
Già ora Satana e le potenze sataniche nei luoghi celesti sono state vinte e “spogliate” alla croce, e il credente può considerare il Diavolo come un nemico che non ha più potere su lui; per farlo fuggire, il credente deve solo resistergli. Il tempo in cui Satana sarà cacciato dai luoghi celesti e fatto precipitare sulla terra (Apocalisse 12:9) non è ancora venuto, ma è molto vicino. Infine il Dio della pace lo “stritolerà” sotto i nostri piedi (Romani 16:20).
Nel passo che stiamo per esaminare, i principati e le autorità sono le potenze umane alle quali il Signore ha affidato il governo sulla terra. Esse sono cadute sotto il potere di Satana che se ne serve per fare la guerra a Cristo, ma il credente è chiamato a riconoscere il principio di autorità come stabilito da Dio alle origini; è per loro mezzo che il Signore, nel suo governo, pone ancora freno al pieno sviluppo del male (2 Tessalonicesi 2:6).
Per quanto malvagi, per quanto asserviti a Satana siano, ai principati e alle potenze terrestri il credente si sottomette in quanto essi provengono da Dio, anche se le loro azioni fossero compiute dalle mani più abiette e ostili.
Esortazioni utili alla vita cristiana (v. 1-2)
“Ricorda loro che siano sottomessi ai magistrati e alle autorità, che siano ubbidienti, pronti a fare ogni opera buona, che non dicano male di nessuno, che non siano litigiosi, che siano miti mostrando grande gentilezza verso tutti gli uomini.” (v. 1)
In questi versetti, Paolo dice a Tito le cose che doveva ricordare ai cristiani di Creta. Sono in numero di sette, come pure sono sette le cose che li caratterizzavano prima della loro conversione (vedi vers. 3). Il numero sette nella Scrittura indica una completezza, sia nel bene e sia nel male.
- – Sottomissione alle autorità istituite da Dio in questo mondo.
La sottomissione è menzionata molte volte in questa epistola, come pure altrove. La sottomissione all’autorità consiste nel non sottrarsi al suo giogo e nel riconoscere i suoi diritti su noi, in quanto dati loro da Dio. Così disse il Signore a Pilato: “Tu non avresti alcuna autorità su di me, se ciò non ti fosse dato dall’alto” (Giovanni 19:11). Egli accettò di essere consegnato al magistrato e al potere del governatore. Ai capitoli 4 e 5 degli Atti, i suoi discepoli fanno come Lui. Rendono testimonianza davanti ai principati della loro fede nel Signore Gesù, ma non protestano contro l’autorità che ingiustamente li aveva arrestati. Che l’autorità sia giusta o ingiusta, nei suoi confronti noi dobbiamo sempre avere lo stesso atteggiamento.
Anzitutto dobbiamo essere sottomessi a Colui che è elevato alla destra di Dio e a cui angeli, autorità e potenze sono sottomessi (1 Pietro 3:22). Quanto a noi, dobbiamo essere “sottomessi, per amor del Signore, a ogni umana istituzione: al re, come al sovrano; ai governatori, come mandati da lui per punire i malfattori e per dar lode a quelli che fanno il bene” (1 Pietro 2:13-14). In quella epistola di Pietro, come in questa a Tito, la sottomissione è raccomandata ai domestici (2:18), alle mogli (3:1,5), ai giovani nei confronti degli anziani (5:5). Infine i cristiani devono essere “sottomessi gli uni agli altri” (Efesini 5:21).
- – Essere ubbidienti.
L’ubbidienza non dev’essere identificata con la sottomissione. Quest’ultima è passiva, la prima è attiva. Ha a che fare con dei comandamenti, degli ordini positivi. Questa ingiunzione riguarda il nostro atteggiamento verso ogni autorità che ha il diritto di comandare per stabilire l’ordine fra gli uomini e che quindi deve essere ascoltata e ubbidita. In questo passo l’ubbidienza non è raccomandata in modo specifico nei confronti dei magistrati; è invece un carattere di tutta la nostra condotta, senza riferimento a qualche autorità particolare o a qualche suo atto. Dev’essere manifesto a tutti che siamo pronti a rispondere a ogni ordine di Dio, qualunque sia l’intermediario mediante il quale gli piaccia farcelo pervenire.
Si è sovente confusa la sottomissione con l’ubbidienza e questo è andato a detrimento delle anime durante i terribili conflitti che hanno insanguinato il mondo. I passi che abbiamo citato non implicano affatto l’ubbidienza del credente alle autorità militari per usare delle armi micidiali in guerra. Sotto questo aspetto, il credente è responsabile nei confronti di Dio. “Bisogna ubbidire a Dio anziché agli uomini” (Atti 5:29). L’idea che il soldato che uccide sia responsabile soltanto al suo superiore e che solo quest’ultimo è responsabile nei confronti di Dio, è un misero sotterfugio per sottrarsi al comandamento del Signore. “Giudicate voi se è giusto, davanti a Dio, ubbidire a voi anziché a Dio” (Atti 4:19).
- – Essere pronti a fare ogni opera buona.
È Dio, non noi, che prepara in anticipo le buone opere perché le pratichiamo (Efesini 2:10); ma la parte del credente è di essere pronto a compierle, qualunque siano, quando Dio gliele presenta. Non dev’essere preso alla sprovvista, né occupato di cose che gli impedirebbero di compierle immediatamente.
- – Non dire male di nessuno.
Il termine greco tradotto con dir male ha il senso di ingiuriare. L’ingiuria può essere proferita sia in assenza che in presenza della persona ingiuriata. Nell’epistola di Giuda è parlato dei “visionari” che parlano male delle dignità (vers. 8) riconosciute da Dio. L’apostolo va oltre e dice: nessuno. Nei giorni attuali, in cui la falsità e la violenza imperversano, l’indignazione fra i cristiani potrebbe esternarsi con l’ingiuria. Nemmeno l’odio contro il male o una legittima indignazione dovrebbero degenerare in questo modo.
- – Non essere litigiosi.
Questa qualità è negativa, come la precedente. I Proverbi sono pieni di raccomandazioni a questo riguardo. In essi vediamo che la malvagità, l’odio, l’orgoglio, l’ira, la beffa producono i litigi. Questo non avviene soltanto nel mondo, ma nella famiglia di Dio: gli animi agitati, privi della comunione col Signore, cercano i litigi. Quanto è dunque importante per noi evitare ogni conflitto che potrebbe risvegliare questa tendenza naturale dei cuori!
- – Essere miti.
Questo aggettivo e il suo sostantivo (epieikes, epieikeia) esprime il carattere di un uomo dolce e umile che non rivendica i propri diritti. Il Signore Gesù ha manifestato questa virtù nella perfezione quando era “come una pecora muta davanti a chi la tosa” (Isaia 53:7), davanti a coloro che lo spogliavano di tutti i suoi diritti e le sue dignità. Era anche il carattere di Abraamo nei confronti di Lot, dopo aver fatto in Egitto un’amara esperienza di se stesso. È proprio per questo che rinunciò a tutti i suoi diritti pur di non fare una scelta che fosse a detrimento del suo fratello.
Questa stessa dolcezza è raccomandata agli anziani in 1 Timoteo 3:3, unita come qui all’assenza di uno spirito litigioso. In realtà, non c’è nulla che generi i litigi come l’insistenza sui propri diritti. Questa stessa moderazione è strettamente connessa alla “saggezza che viene dall’alto” (Giacomo 3:17) che presenta sette aspetti, come il passo che stiamo esaminando. In 1 Pietro 2:18, questa qualità è raccomandata (e quanto è necessaria!) ai padroni nei confronti dei servi.
- – Mostrare grande gentilezza verso tutti gli uomini.
La gentilezza (o dolcezza, come altri traducono) non è identica alla mitezza. Si tratta di quella dolcezza amabile, perché è umile e bonaria, il contrario di una severità rigida o d’una durezza che atterra invece di rialzare, che tiene a distanza invece di attirare. Questa dolcezza è uno degli attributi della grazia che, nella persona di Cristo, è apparsa a tutti gli uomini per attirarli a Lui, che diceva: “Imparate da me, perché io sono mansueto (o dolce) e umile di cuore” (Matteo 11:29).
Ciò che anche noi eravamo (v. 3)
“Perché anche noi un tempo eravamo insensati, ribelli, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella cattiveria e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda.” (v. 3)
Qui troviamo la contropartita delle cose che Tito doveva ricordare ai cristiani di Creta. Non è la descrizione dei tratti morali del paganesimo come in Romani 1:29-31, né quella dei tratti morali della cristianità degli ultimi giorni di 2 Timoteo 3:1-5; è invece la descrizione di ciò che noi eravamo un tempo. Noi, dice l’apostolo Paolo, senza distinguere fra Giudei e Gentili, non eravamo un tempo diversi dagli altri. Questo fatto rende capace il cristiano di mostrare ogni dolcezza verso tutti. Possiamo dire loro: Ciò che voi siete, noi lo eravamo. La grazia che ci ha chiamati e salvati vi chiama oggi per salvarvi nello stesso modo. Essa è accessibile a tutti. È la vera filantropia; voi potete essere salvati come lo siamo stati noi.
Questo versetto 3 è un quadro completo dello stato di tutti gli uomini, e perciò anche del nostro nel passato. Anche questa descrizione si compone di sette elementi, così come il risultato dell’insegnamento della grazia (cap. 2 vers. 12-13).
- – Insensati. Questo termine descrive anzitutto lo stato dell’uomo davanti a Dio. Egli dice nel proprio cuore: “‘Non c’è Dio”. Questo carattere dell’uomo peccatore è così manifesto che due Salmi (14 e 53) lo ripetono. Non è la bocca dell’uomo, ma il suo cuore, che parla così. Tutte le sue azioni provano che Dio è bandito dalla sua vita, se no, come potrebbe non aver paura di commetterle? Questo rende gli uomini:
- – Ribelli (cioè disubbidienti). Quando non si tiene conto di Dio, i suoi ordini e i suoi comandamenti non hanno alcuna presa sul cuore e la coscienza rimane indifferente davanti all’espressione del pensiero di Dio contenuto nella Parola.
- – Traviati (o smarriti) (Ebrei 3:10). Significa uscire dalle vie di Dio o ignorarle, e la disubbidienza porta a questo. La pecora perduta non può ritrovare la strada; per lei c’è una sola possibilità: essere trovata dal Pastore che, peraltro, lei stessa ha abbandonato.
- – Schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri. In balia di se stessa, l’anima smarrita che aveva creduto di godere la propria libertà lontano da Dio, che ha perso Dio e ogni legame morale con Lui, diventa schiava di ciò che Satana le propone: le concupiscenze, le passioni più o meno degradanti, e i piaceri, quasi sempre volti alla soddisfazione dei desideri della carne (2 Timoteo 3:4).
- – Vivendo nella cattiveria e nell’invidia. Il cuore del peccatore trova soddisfazione nel seguire i propri istinti. Vive in queste cose; è una delle sue ragioni d’essere. L’invidia che ha per gli altri quando questi hanno più successo di lui e lo ostacolano impedendogli di avanzare, lo spinge ad essere cattivo nei loro confronti.
- Odiosi. Non soltanto odiosi per Dio, come leggiamo in Romani 1:30, ma, in modo generale, degni di essere odiati. La razza umana non è amabile, eppure dobbiamo mostrare ogni dolcezza verso tutti gli uomini, perché un tempo anche noi eravamo come loro.
- Odiandoci a vicenda. Qui l’odio è vicendevole. L’uomo naturale non odia per un sentimento di onestà e di giustizia. Vedendo il male negli altri, è accecato riguardo al male del proprio cuore. Così il suo prossimo l’odia con la stessa intensità.
La conclusione del versetto 3 è che noi eravamo perduti. Com’è dunque possibile che ora siamo diventati tali da poter essere esortati a riprodurre il carattere di Cristo in ogni cosa? È in virtù della salvezza, come abbiamo visto al cap. 2 vers. 11-14, e come ci ripete il versetto 5, che esamineremo. Al capitolo 2 era la grazia incondizionata che porta la salvezza e che è apparsa nella persona di Cristo. Nei prossimi versetti sono la bontà e l’amore di Dio verso tutti gli uomini ad essere manifestate, e lo sono nel dono del Signore Gesù. Dio è il nostro salvatore, ma anche Gesù Cristo è chiamato “il nostro grande Dio e Salvatore” (2:13), per far risaltare che quell’uomo in cui la grazia è apparsa per la salvezza, è nientemeno che Dio, il grande Dio.
L’amore di Dio e la sua opera di salvezza (v. 4-7)
“Ma quando la bontà di Dio, nostro Salvatore, e il suo amore per tutti gli uomini (cioè la sua filantropia) sono stati manifestati, egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute,” (v. 4-5)
Notate che l’apostolo chiama sempre Dio “il nostro Dio Salvatore”. Soltanto quelli che sono al beneficio della sua opera possono chiamarlo nostro. Egli è il Dio Salvatore per tutti nel senso che “vuole che tutti gli uomini siano salvati”, ma nessuno, se non è salvato personalmente, può chiamarlo così! Potete tutti dire che Dio è il vostro Salvatore?
Gli uomini parlano molto di filantropia. Un filantropo vede sempre gli uomini come se fossero suscettibili di praticare la bontà, infelici sì, sovente colpevoli, ma in grado di essere rialzati moralmente e migliorati, così come possono migliorare materialmente. Una cosa di cui il filantropo non dubiterà mai è della propria bontà, e la stima di sé lo sostiene nell’opera che ha intrapreso. Spesso tuttavia, constatando i propri infruttuosi tentativi, prova disgusto per l’umanità, senza però modificare in nulla la propria opinione su se stesso.
Se il filantropo leggesse il vers. 3 prima illustrato, vedrebbe che Dio non fa eccezioni e ci presenta il quadro, dipinto da Lui stesso, di tutti gli uomini che si odiano (non si amano) a vicenda. Anche il filantropo ne fa parte. Per non essere odioso e per non odiare, bisogna, come vedremo, essere salvati e aver ricevuto, mediante la nuova nascita, la natura di Dio. Solo allora si può amare, ma pur possedendo la natura divina, il credente ha bisogno delle esortazioni della grazia, così come sono formulate nei vers. 1-2.
Dio dice: “Non c’è nessuno che pratichi la bontà, no, neppure uno” (Romani 3:12). La conclusione è che non c’è alcun inconvertito che sia filantropo agli occhi di Dio. Ovviamente non escludiamo affatto i sentimenti naturali di pietà, di compassione per le sofferenze altrui che si possono incontrare persino dove il cristianesimo non ha mai potuto esercitare la sua influenza benefica. È così che in Atti 28:2 ci è parlato di bontà (o umanità, filantropia) “non comune” che gli indigeni di Malta usarono verso Paolo e i suoi compagni.
Eppure, un filantropo esiste: è Dio stesso! Da ogni eternità, Dio è stato il Dio d’amore, ma, al momento giusto, questo amore è apparso, è stato manifestato. Come la grazia è apparsa nella persona di Cristo (cap. 2 vers. 11), l’amore di Dio verso tutti gli uomini è apparso nel dono di Cristo. Chi erano quindi gli uomini di cui parla qui? Quelli descritti al versetto 3. Verso tali uomini Dio ha usato della “bontà”, ed è alla sua scuola che quelli che sono nati da lui hanno imparato a mostrare quello stesso amore verso gli uomini. Non possono più odiare, perché hanno riconosciuto, quando si sono convertiti, di essere ancora più odiosi degli altri. Il più grande filantropo del mondo non potrebbe mai avere tali sentimenti riguardo a se stesso. Invece, la filantropia di Dio si è mostrata mediante la salvezza che ha operato per noi.
Al vers. 5 troviamo il mezzo che Dio ha impiegato per salvarci, ma prima indica il mezzo che, a dispetto di tutti i pensieri degli uomini, Dio non impiegherà mai: “non per opere giuste che noi avessimo compiute”. Le “opere giuste” (lett. di giustizia) sono quelle che l’uomo compie per ottenere la salvezza, mentre le “buone opere” sono la conseguenza della salvezza ottenuta. Le prime non hanno mai procurato agli uomini ciò che la sola grazia può ottenere in loro favore; essi pretendono di poterle fare, mentre l’opera di Dio è quella che Dio ha fatto.
“ma per la sua misericordia, mediante il bagno della rigenerazione e del rinnovamento dello Spirito Santo, che egli ha sparso abbondantemente su di voi per mezzo di Gesù Cristo, nostro Salvatore,”(vers. 6)
Escluse quindi le nostre opere, ci resta una sola risorsa: l’opera di Dio. In questo passo troviamo non ciò che Dio ha operato fuori di noi, ma ciò che Dio opera in noi per salvarci. Una differenza simile a quella fra la parabola del figliuol prodigo e le altre due che la precedono, in Luca 15.
“Per la sua misericordia”. La salvezza è quindi basata solo su un principio: la misericordia di Dio. Ma Dio impiega due cose indispensabili per procurarcela: il bagno della rigenerazione e il rinnovamento dello Spirito Santo.
- – Il bagno della rigenerazione.
Il bagno (greco: Loutron) è proprio l’acqua del bagno nella quale si è immersi. Questo bagno, che è presentato in diversi passi della Scrittura, significa la morte nella quale si è purificati dal peccato e liberati dal vecchio uomo: una bella figura è quella del fiume Giordano in cui Naaman è purificato dalla lebbra (2 Re 5:14).
In realtà, è nella morte di Cristo che il “vecchio uomo” prende fine e che siamo “morti al peccato”. Ciò che qualificava il peccatore, le sue abitudini, i suoi pensieri, tutto ha preso fine agli occhi di Dio nella morte di Cristo. Dio ci ha salvati purificandoci da queste cose. Non si può entrare in relazione con Lui senza questa purificazione, ed è ciò che Dio ha fatto a nostro riguardo immergendoci, per così dire, nella morte di Cristo. Questo stesso termine è usato in Efesini 5:26 per la purificazione della Chiesa che Cristo ha amato e per la quale si è dato, “per santificarla purificandola con il bagno di acqua, mediante la parola” (traduzione letterale).
Il bagno della purificazione ha luogo una volta per tutte e non si rinnova mai: “Chi è lavato tutto, non ha bisogno che di aver lavato i piedi (quanto alla purificazione giornaliera); è purificato tutto quanto” (Giovanni 13:10). Il bagno di cui parliamo è raffigurato nell’Antico Testamento dall’acqua della conca di rame del tabernacolo (Esodo 30: 17-21) e dal lavaggio in essa.
C’è differenza fra la conca di rame e l’acqua che contiene. Il rame rappresenta la capacità di Cristo ad occuparsi del peccato: sia per espiarlo col suo sacrificio, come all’altare di rame; sia per abolirlo nella morte, come nel bagno della conca di rame. In quest’ultimo caso, l’uomo è posto davanti a Dio, mediante la morte di Cristo, in uno stato di purezza che corrisponde alla santità della Sua natura.
La conca di rame del tabernacolo era stata realizzata con gli specchi di rame delle donne che venivano a gruppi a fare il servizio all’ingresso della tenda di convegno (Esodo 38:8). Così quelle donne riconoscevano, in figura, il loro peccato e la capacità di Cristo solo di portarne la responsabilità. Si spogliavano di ciò che era servito alla loro vanità. Ormai non potevano più piacere a sé stesse considerando i loro volti naturali. Avevano davanti agli occhi un oggetto composto da tutti quegli specchi fusi in uno, l’unico capace di portarli riuniti. È così che tutti i credenti riconoscono la loro vita di vanità e di concupiscenza portata da Colui, l’unico, che ne ha preso la responsabilità. Ma nello stesso tempo trovano in Lui l’acqua della loro purificazione, uscita dal costato di un Cristo morto.
Questo lavaggio, come abbiamo detto, ha luogo una volta per tutte mediante la Parola che ci presenta la morte di Cristo che mette fine al nostro stato di uomini peccatori e contaminati. Ma, per il cammino e ogni atto di servizio sacerdotale, è necessaria, oltre alla purificazione iniziale, una purificazione giornaliera. È il lavaggio dei piedi di cui il passo che stiamo esaminando non parla, perché tratta solo della salvezza.
Consideriamo ora il significato dell’espressione “bagno della rigenerazione”.
La rigenerazione è il passaggio dal nostro antico stato a uno stato nuovo, dalla nostra vita nella carne a una vita di risurrezione, grazie alla fede in un Cristo morto e risuscitato, dall’antica creazione alla nuova creazione. È per mezzo del bagno della rigenerazione che noi siamo salvati (1 Pietro 3:20). La rigenerazione è una posizione di benedizione nella quale siamo introdotti ora mediante la potenza divina in Cristo, e nella quale saremo stabiliti pubblicamente quando il Signore verrà in gloria.
Questa posizione noi l’afferriamo ora mediante la fede. Siamo liberati dal potere delle tenebre e “trasportati nel regno del sua amato Figlio” (Colossesi 1:13). È in questo che consiste la rigenerazione, ma avrà la sua piena manifestazione solo nella gloria. È per questo che il Signore disse ai suoi discepoli: “Nella nuova creazione (greco: palingenesìa), quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, anche voi, che mi avete seguito, sarete seduti su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele” (Matteo 19:28).
Concludendo, il bagno della rigenerazione ha a che fare con la mia vecchia vita che ha trovato il suo termine nella morte di Cristo.
- – Il rinnovamento dello Spirito Santo
Ha a che fare invece con la mia vita nuova. Il credente è rinnovato, acquisisce questa vita nuova, mediante lo Spirito Santo. Questa potenza divina produce in lui pensieri, abitudini e desideri nuovi, in contrasto con tutto ciò che appartiene al suo vecchio uomo, all’uomo nella carne, all’uomo peccatore e perduto.
Lo Spirito che Dio “ha sparso abbondantemente su di noi per mezzo di Cristo Gesù, nostro Salvatore” non si è limitato a comunicarci una vita nuova, ma Dio lo ha sparso abbondantemente; e Gesù Cristo, nostro Salvatore, è Colui dal quale lo abbiamo direttamente. È Lui che, “avendo ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso – come dice l’apostolo Pietro – ha sparso quello che ora vedete e udite” (Atti 2:33). Lo Spirito Santo è sparso abbondantemente, perché “Dio non dà lo Spirito con misura” (Giovanni 3:34), e noi abbiamo ora “la vita in abbondanza” (Giovanni 10:10).
Il contenuto del versetto seguente è riferito non a “Gesù Cristo nostro Salvatore”, ma a “Dio nostro Salvatore” del vers. 4.
“affinché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo, in speranza, eredi della vita eterna.” (v. 7)
Il termine affinché si riferisce sia al “bagno” che al “rinnovamento”. È tramite la purificazione e il dono dello Spirito Santo che diventiamo eredi in speranza della vita eterna, di cui l’apostolo Paolo aveva già parlato all’inizio dell’epistola (cap. 1 vers. 2).
Bisogna morire in Cristo per aver parte al regno di Dio Salvatore, e questo corrisponde al bagno della rigenerazione. Ma bisogna aver ricevuto la potenza di una vita nuova per essere eredi in speranza di questa vita, e questo corrisponde al rinnovamento dello Spirito Santo. Il bagno della morte in Cristo ci separa totalmente dalla nostra antica posizione; la risurrezione con Cristo e la vita nuova che possediamo in Lui ci introducono in una nuova posizione come eredi di Dio e coeredi di Cristo.
Riassumendo, in questi versetti da 5 a 7 abbiamo sette caratteristiche della salvezza:
- le “opere giuste” compiute dall’uomo per ottenerla sono escluse;
- essa dipende dalla misericordia del Dio Salvatore;
- essa ha luogo mediante il bagno della rigenerazione, e
- mediante il rinnovamento dello Spirito Santo;
- questo Spirito è sparso riccamente su noi;
- siamo giustificati dalla grazia di Dio;
- siamo diventati eredi della vita eterna.
Ritroviamo anche qui il numero sette che esprime completezza, a cui non è possibile aggiungere altro.
Le cose buone e utili e quelle da evitare (v. 8-11)
“Certa è quest’affermazione, e voglio che tu insista con forza su queste cose, perché quelli che hanno creduto in Dio abbiano cura di dedicarsi a opere buone. Queste cose sono buone e utili agli uomini.” (v. 8)
È l’affermazione di quanto espresso prima, cioè la misericordia di Dio che salva e giustifica, e che dà a quelli che hanno creduto la vita eterna come eredità.
Quando l’aggettivo “certa” è impiegato, si tratta sempre della grazia, e lo troviamo frequentemente nelle epistole a Timoteo e a Tito:
- In 1 Timoteo 1:15, l’affermazione “certa” e “degna di essere accettata” è che Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori.
- In 1 Timoteo 3:1, l’affermazione “certa” è che “se uno aspira all’incarico di vescovo (cioè di sorvegliante nella casa di Dio), desidera un’attività lodevole (lett. opera buona)”. Aspirare a questo incarico significa desiderare di essere personalmente irreprensibili (v. 2) per condurre gli altri nello stesso cammino, alla gloria di Dio. Questa funzione ha un grande valore, perché si tratta della testimonianza pratica della casa di Dio quaggiù, ed è chiamata “opera buona”.
- In 1 Timoteo 4:8, Paolo dice che “la pietà è utile a ogni cosa, avendo la promessa della vita presente e di quella futura”, e aggiunge: “Certa è quest’affermazione e degna di essere pienamente accettata”. Egli accentua così, come al cap. 1 vers. 15, la certezza di ciò che esercita il credente alla pietà, secondo l’insegnamento divino. L’apostolo aggiunge che lavorava e sopportava il vituperio in vista di questo. Per insegnare la pietà agli altri, bisogna essere personalmente un modello di pietà, sperando nel Dio vivente che è il Conservatore di tutti gli uomini, specialmente dei fedeli.
- In 2 Timoteo 2:10-12, troviamo un'”affermazione certa” che abbraccia tutta l’opera della redenzione: “la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna”; la morte e la vita con Lui; le sofferenze e il regno con Lui. Non è forse un programma completo di certezze?
- Qui, in Tito 3:8, “l’affermazione certa” ha molto a che fare con 2 Timoteo 2:11, perché si tratta della salvezza, dell’opera per la quale ci Dio ha acquistati, del dono dello Spirito, della vita e dell’eredità eterne. Anche questo è un programma completo.
“E voglio che tu insista con forza su queste cose”. Nel suo insegnamento Tito doveva insistere particolarmente e ritornare sulle cose che sono il fondamento stesso della salvezza. Doveva annunciare (cap. 2 vers. 15) le cose insegnate dalla grazia che porta la salvezza. Queste cose avevano a che fare con tutta la vita pratica del cristiano. Tito doveva ripresentare questo insegnamento. Qui l’esortazione di Paolo è analoga: Tito doveva insistere sul fondamento stesso della salvezza che ha origine dall’amore di Dio e la sua misericordia in Cristo, come pure sull’opera che Egli ha compiuto nel cuore dei credenti.
La conseguenza di questo insegnamento era: “quelli che hanno creduto in Dio abbiano cura di dedicarsi a opere buone“. Si tratta di un risultato anzitutto pratico, sul quale non insisteremo mai abbastanza, che derivano dalla buona dottrina e dal sano insegnamento nella casa di Dio. Noi non siamo nati di nuovo, giustificati per grazia, eredi in speranza della vita eterna, per godere semplicemente di questi privilegi, ma perché essi esercitino un’influenza benefica e potente sul nostro cammino e sui minimi dettagli della nostra condotta in questo mondo.
La conoscenza di queste cose deve stimolarci a essere in testa nelle buone opere, sia in presenza dei nostri fratelli, sia davanti al mondo. Più la conoscenza dell’opera di grazia è grande, più brillante dev’essere la testimonianza, e più intensa l’attività cristiana. Che tutti i figli di Dio, alla scuola della grazia, possano rispondere a quest’obbligo! Una vita cristiana senza buone opere è una vita inutile per Cristo. Quale triste risveglio ci sarà per quei cristiani che, essendo vissuti “per se stessi” (2 Corinzi 5:15), scopriranno il ruolo insignificante che il loro Signore e Salvatore, e l’attività per Lui, hanno svolto nella loro esistenza!
“Queste cose sono buone e utili agli uomini”. Sono buone agli occhi di Cristo e agli occhi dei fedeli, ma più ancora sono utili agli uomini. L’opera di Cristo è utile agli uomini, perché la sua grazia è apparsa a tutti gli uomini, come pure l’amore di Dio verso loro (cap. 2 vers. 11; cap. 3 vers. 4); ma ora noi abbiamo il compito di continuare quest’opera di grazia tramite la nostra condotta fra gli uomini, per mostrarne loro il valore. L’opera di evangelizzazione in questo mondo, l’annuncio dell’amore di Dio verso i peccatori è d’importanza illimitata, ma la condotta dei cristiani è sovente un’evangelizzazione molto più potente delle parole che potrebbero pronunciare (leggere 1 Tessalonicesi 1:8).
Ecco ciò che Tito doveva ricercare. Ma c’erano anche delle cose che doveva evitare
“Ma quanto alle questioni stolte, alle genealogie, alle contese, e alle dispute intorno alla legge, evitale, perché sono inutili e vane.” (v. 9)
Si tratta di cose inutili.
Le “genealogie”, come abbiamo gia visto al cap. 1 vers. 14, sono delle dottrine giudaico-platoniche che di buon’ora avevano invaso il cristianesimo (1 Timoteo 1:4). In questa stessa categoria rientravano le “dispute stolte” sollevate da persone ostinate che non sopportavano di essere contraddette (2 Timoteo 2:23). Le “contese” ne erano il seguito.
Le “dispute intorno alla legge” sono quelle disquisizioni dell’intelligenza rabbinica che trattavano la legge come materia di discussione, invece di applicarla alla coscienza. Queste dispute sono inutili e vane; il risultato per l’anima è nullo, perché ogni verità che non porta gli uomini alla conoscenza di Dio e a una vita di santità, è senza valore. Non sono altro che “discorsi senza senso” (1 Timoteo 1:6).
Tutte queste cose negative, Tito doveva evitarle, senza vedervi – per quanto biasimevoli fossero, o perlomeno inutili e vane – dei casi che comportassero l’esclusione dalla comunione con l’assemblea. Era sufficiente tenersi a parte dalle “questioni stolte” e restarvi estraneo per far tacere quella corrente malsana che cercava d’infiltrarsi fra i santi. Tuttavia c’erano dei casi in cui Tito, a cui l’apostolo aveva conferito l’autorità per mettere “in buon ordine” il funzionamento dell’assemblea, doveva usare quest’autorità per impedire il formarsi di sette, come vediamo nei versetti seguenti.
“Ammonisci l’uomo settario una volta e anche due; poi evitalo; sapendo che un tal uomo è traviato e pecca, condannandosi da sé.” (v. 10-11)
Nel seno della Chiesa potevano sorgere occasionalmente delle divisioni per le cose menzionate al vers. 9: “contese, dispute intorno alla legge”, ecc., senza che l’unità del corpo di Cristo fosse attaccata (1 Corinzi 1:10; 11:18). Le sette separavano i fratelli dall’assemblea stessa, e l’uomo che le produceva doveva essere trattato senza riguardi. Egli cercava di radunare attorno a sé un certo numero di fedeli, costituendo se stesso come centro.
Le dottrine di un tale uomo potevano anche non essere antiscritturali, quelle cioè alle quali abitualmente diamo il nome di eresie. Era sufficiente far uscire una verità dal suo posto dandole un ruolo esagerato nell’insieme delle dottrine scritturali, radunare i cristiani attorno a questo principio, vero o falso, e attorno all’uomo che lo impersonificava, per creare una setta.
Chi prende questo posto e diventa per questo il capo d’un partito, o di una “chiesa” a suo modo, dev’essere respinto senza riguardi, perché ha rotto l’unità e fatto oltraggio a Cristo, Capo del corpo; ma non dev’essere respinto senza un ammonimento preliminare, con lo scopo di farlo uscire dalla sua via malvagia e prevenire una rottura nella Chiesa. Occorre anche che l’ammonimento non sia fatto con precipitazione. Il primo dev’essere seguito da un secondo; essi devono essere ben distinti uno dall’altro, e solenni.
Pur agendo con autorità ma con misura, Tito sapeva che un tale uomo era “traviato”; la sua anima si era distolta dal bene al male, e se non si pentiva alla prima riprensione, “peccava”, sapendolo e volendolo; ora, chi segue il peccato e la propria volontà, si condanna da sé.
Ultime raccomandazioni (v. 12-15)
“Quando ti avrò mandato Artemas o Tichico, fa’ il possibile per venire da me a Nicopoli, perché ho deciso di passarci l’inverno. Provvedi con cura al viaggio di Zena , il giurista, e di Apollo, perché non manchi loro niente. Imparino anche i nostri a dedicarsi a opere buone per provvedere alle necessità, affinché non stiano senza portar frutto” (v. 12-14)
Ogni parola della sacra Scrittura è importante. Ne abbiamo un’ulteriore prova nei pochi versetti che concludono questa epistola.
Anzitutto notiamo che le funzioni di Tito a Creta non avevano un carattere permanente. Conclusa la sua missione, e quando Artemas o Tichico fossero venuto da lui, Tito doveva affrettarsi a raggiungere Paolo a Nicopolis, dov’egli aveva deciso di passare l’inverno. È improbabile che sia fatta allusione a questo viaggio in 2 Timoteo 4:10, perché quando scrive quella lettera, Paolo è di nuovo prigioniero a Roma e cosciente di essere prossimo alla partenza per il cielo.
Quanto a Tichico, è sempre rappresentato come inviato da Paolo per informare le assemblee circa le sue vicende e riportare all’apostolo delle notizie sulla loro situazione. Zena, giurista ma non della legge mosaica, e Apollo, stavano per visitare Creta. Ora Tito non doveva limitarsi alla sua missione speciale, ma prendersi cura di loro, in modo che non mancassero di nulla. Paolo mostra qui una sollecitudine particolare per i fratelli stranieri e che non erano associati a lui nell’opera in modo diretto.
Ma se Tito doveva mostrare questo zelo per i fratelli che non facevano parte dei compagni dell’apostolo, “i nostri”, cioè tutti i santi in Creta, dovevano imparare “a dedicarsi a opere buone per provvedere alle necessità”. Queste necessità a cui provvedere non si riferivano solo ai bisogni dei poveri, ma ai bisogni dei fedeli servitori di Cristo, di cui è detto in 3 Giovanni 5 e 7 che erano “stranieri” e che erano “partiti per amore del nome di Cristo”. Quelle buone opere erano una funzione che spettava a tutti i fedeli, senza le quali sarebbero stati “senza portar frutto”.
“Tutti quelli che sono con me ti salutano. Saluta quelli che ci amano nella fede.
La grazia sia con tutti voi!” (v. 15)
In quel momento Paolo era ancora circondato dai fratelli che stavano abitualmente con lui, mentre nella seconda epistola a Timoteo, tutti l’avevano abbandonato, salvo Luca, suo fedele compagno e servitore (2 Timoteo 1:15; 4:10). L’apostolo stesso saluta quelli che lo amavano, in quella fede comune che lega i cristiani fra loro, come con Dio e con Cristo.
Il suo ultimo augurio, che dovrebbe essere sempre il nostro, è che la grazia sia con tutti i santi.
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