Charles Henry Mackintosh
È stato pubblicato in italiano con W.W. Fereday come autore.
1. Introduzione
1.1 Elia, una freccia del turcasso di Dio
1.2 Il ministerio dei profeti
2. Il primo messaggio di Elia — 1 Re 17:1
2.1 Elia davanti ad Achab
2.2 L’esercizio segreto davanti a Dio prima del ministerio pubblico
3. Elia al torrente Kerith (o Cherit) — 1 Re 17:2-7
3.1 Di nuovo in disparte alla scuola di Dio
3.2 Una prova per la fede
3.3 La fede e le circostanze
4. Elia e la vedova di Sarepta — 1 Re 17:8-24
4.1 «Io ho ordinato ad una vedova che ti dia da mangiare»
4.2 Incredulità e morte
4.3 «Per me e per il mio figliuolo»: L’egoismo della natura umana
4.4 Una richiesta a cui solo la fede può far fronte
4.5 Altruismo e amore, frutti della grazia divina
4.6 La morte del figlio della vedova — I diritti di Dio su tutto e su tutti
4.7 Una coscienza risvegliata sulla questione del peccato
4.8 Esaminare se stessi e giudicare se stessi
4.9 Elia, vero uomo di Dio
4.10 Un’applicazione allegorica
5. Elia inviato ad Achab — 1 Re 18:1-20
5.1 La casa di Achab. Situazione drammatica di peccato e di corruzione
5.2 Abdia, un uomo fedele nella casa del re
5.3 Elia ubbidisce all’ordine divino
5.4 Abdia, un uomo fedele ma non al posto giusto
5.5 Elia, «rivoluzionario» per la verità
6. Elia sul monte Carmel — 1 Re 18:20-46
6.1 La disfatta dei profeti di Baal
6.2 L’unità del popolo, un solido fondamento
6.3 L’unità della Chiesa agli occhi di Dio
6.4 Dio risponde alla fede di Elia
7. Elia nel deserto e sul monte Horeb — 1 Re 19:1-14
7.1 Le difficoltà non sono inutili nella vita del credente
7.2 Izebel e Achab, strumenti di Satana
7.3 La crisi di Elia
7.4 I danni dell’«incredulità» nel radunamento dei credenti
7.5 Sotto la ginestra e nella spelonca. Ma Dio lo trova.
7.6 «Che fai tu qui ?»
8. La fine del ministero di Elia — 1 Re 19:15-21 — Il suo rapimento in cielo — 2 Re 2:1-13
8.1 Dobbiamo imparare che non siamo nulla
8.2 Accettiamo i metodi di Dio
8.3 Le varie tappe del viaggio con Eliseo
8.4 La morte non ha potere su Elia
8.5 Verso il glorioso rapimento
8.6 Elia con Gesù sul monte della trasfigurazione — Luca 9:28-36
1. Introduzione
1.1 Elia, una freccia del turcasso di Dio
L’esercizio del ministerio profetico in Israele era sempre la prova della decadenza del popolo. Finché le grandi istituzioni nazionali erano in vigore e la dispensazione mosaica era conservata intatta secondo l’intenzione di Dio, non era necessario nulla di straordinario, e perciò non si udiva la voce d’un profeta. Ma quando le istituzioni, emanate da Dio stesso, cessavano d’essere osservate nella loro originaria potenza, allora si faceva sentire il bisogno di qualche comunicazione dello Spirito per mezzo dei profeti.
Un ministerio come quello di Elia il Tishbita non era necessario nei giorni di gloria e di grandezza di Salomone; allora tutto era in ordine, in buono stato; il re era sul trono e portava lo scettro per la salvaguardia degli interessi civili d’Israele; i sacerdoti, nel tempio, adempivano le funzioni religiose; i leviti e i cantori erano al loro posto. Tutto si svolgeva con un ordine che rendeva superflua la voce d’un profeta.
Ma presto la scena cambiò; la corrente del male si levò con tale forza che spazzò via i fondamenti stessi del sistema politico e religioso d’Israele. Il regno fu diviso. Coll’andar del tempo, uomini empi salirono sul trono di Davide; e, soprattutto sul trono che l’apostata Geroboamo aveva innalzato, si videro uomini sacrificare gli interessi del popolo di Dio alle loro vergognose concupiscenze. Invece di un re come Salomone che aveva amministrato la giustizia secondo Dio, si vide il malvagio Achab, con sua moglie Izebel, occupare il trono di Samaria.
L’Eterno non poteva sopportare più a lungo un tale stato di cose; non poteva permettere che questa marea di iniquità continuasse a salire. Perciò scoccò una freccia per trafiggere la coscienza d’Israele, e per ricondurre il suo popolo alla posizione di una beata dipendenza da Lui.
Questa freccia era Elia il Tishbita, l’intrepido e incorruttibile testimone di Dio, che si tenne alla breccia in un momento in cui tutti sembravano essersi allontanati dal campo di battaglia, incapaci di resistere al torrente in piena.
1.2 Il ministerio dei profeti
Prima di considerare la vita e il ministerio di quest’uomo straordinario, notiamo i due aspetti del ministerio profetico. Considerando il servizio dei profeti vediamo che ad ognuno di loro era affidato un ministerio speciale, ma anche che, in ogni singolo profeta, il Signore aveva in vista un duplice scopo: agire sulle coscienze per renderle sensibili al male che imperava, e orientare lo sguardo dei fedeli sulla gloria futura. Il profeta, per mezzo dello Spirito, presentava la luce e la verità di Dio al cuore e alla coscienza del popolo; svelava il peccato pienamente e fedelmente, nei suoi recessi più profondi; segnalava apertamente la deplorevole caduta d’Israele e il suo allontanamento da Dio; abbatteva le fondamenta di quel falso sistema religioso che i figli d’Abrahamo andavano innalzando. Ma il suo compito non s’arrestava qui. Sarebbe stato triste vederlo limitato all’umiliante storia della caduta d’Israele, e a deplorare la scomparsa della sua antica gloria. Alla grave e seria dichiarazione «Tu hai perduto te stesso, o Israele!» il profeta poteva, per grazia, aggiungere una consolante sicurezza da parte di Dio: «Ma in Me è il tuo soccorso».
Questo mette in luce i due elementi che erano all’origine del ministerio dei profeti, cioè la caduta totale d’Israele e la grazia trionfale di Dio; l’allontanamento della gloria, perché legata all’obbedienza d’Israele e basata su questa obbedienza, e il ritorno finale, lo stabilimento permanente di quella gloria, perché legata all’obbedienza e alla morte del Figliuolo di Dio e basata su questa obbedienza e questa morte.
Possiamo ben dire che quello dei profeti era un ministerio dei più elevati e dei più santi; era una missione gloriosa l’essere incaricato a stare in mezzo alle macerie d’un sistema crollato e di là additare, per la gioia dei suoi riscattati nel cielo e sulla terra, il tempo beato in cui Dio stesso si sarebbe manifestato negli immortali risultati dalla sua grazia salvifica.
2. Il primo messaggio di Elia — 1 Re 17:1
2.1 Elia davanti ad Achab
Il tempo del regno di Achab, figlio di Omri, era arido e buio per la casa d’Israele. L’iniquità era giunta al colmo; i peccati di Geroboamo non erano nemmeno da paragonare alle trasgressioni di Achab. La malvagia Izebel, figlia del re incirconciso dei Sidoni, era stata da lui scelta come compagna della sua sorte e del suo trono. Achab, ci dice la Parola, fece il male più di tutti i re d’Israele che l’avevano preceduto, per provocare a sdegno l’Eterno, l’Iddio d’Israele (1 Re 16:30-33).
Tutta la serie dei re, da Geroboamo fino a lui, avevano fatto ciò che è male agli occhi dell’Eterno; ma di lui è detto che ha fatto peggio di tutti, mostrando una corruzione e un’empietà senza pari.
Tale era Achab, l’uomo che regnava sull’antico popolo di Dio, quando Elia, il Thisbita, entrò nella carriera della testimonianza profetica.
È uno spettacolo che affligge il cuore, questo regno di Achab. Ogni luce è spenta; ogni voce di testimonianza soffocata; il cielo è tutto coperto da oscure nubi; la morte sembra librarsi sulla scena, il diavolo pare che abbia mano libera ovunque e in ogni cosa, quando infine Iddio, nella sua misericordia verso il suo infelice popolo oppresso e sviato, fa sorgere un meraviglioso e potente testimone nella persona del profeta.
È proprio in un tempo così che un vero testimone di Dio è in grado di produrre un energico effetto e di esercitare un’ampia influenza. L’ambiente era preparato, perché un uomo forte e valoroso potesse entrare in azione con una divina energia, contro il torrente di iniquità che andava via via ingrossandosi.
2.2 L’esercizio segreto davanti a Dio prima del ministerio pubblico
È bene tuttavia notare che Elia, come tutti i suoi compagni di lavoro, ci è presentato in circostanze di disciplina segreta prima della sua comparsa in pubblico. È un carattere che si incontra nella storia di tutti i servitori di Dio, compreso Colui che fu il Servitore per eccellenza; tutti sono stati segretamente istruiti da Dio, prima di agire in pubblico fra gli uomini; quelli che sono stati più profondamente iniziati nell’intelligenza e nell’importanza di questi intimi insegnamenti, sono anche quelli il cui servizio e la cui testimonianza pubblica hanno avuto una maggiore efficacia e una più lunga durata. Chi è arrivato a una posizione pubblica che oltrepassa di molto la misura degli esercizi segreti dell’anima sua davanti a Dio, fallirà certamente. Se la sovrastruttura d’un edificio non è sostenuta da adeguate fondamenta, l’edificio rischia di crollare. È lo stesso per l’uomo che compie un ministerio pubblico: bisogna, prima di tutto, che sia stato solo con Dio; che nella sua personale esperienza sia passato per le acque profonde, altrimenti sarà un teorico e non un testimone. Bisogna che il suo orecchio sia stato aperto per udire, perché la sua lingua possa essere in grado di parlare il linguaggio di chi è bene ammaestrato.
Che cosa è avvenuto di tutti quelli che, in apparenza, e di quando in quando, hanno brillato nella lunga storia della Chiesa di Dio come dei luminari e che sono ad un tratto scomparsi dietro le nubi? Perché hanno lasciato così poche tracce? Perché non erano che scintille di luci umane. Non c’era in loro né profondità, né potenza, né realtà; così sono svaniti rapidamente lasciando intorno a loro delle tenebre ancor più fitte. Ogni vero ministro di Dio deve, in una certa misura, poter dire con l’apostolo: «Benedetto sia Iddio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre delle misericordie e l’Iddio d’ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione onde noi stessi siam da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione» (2 Corinzi 1:3-4).
Il capitolo 17 del primo libro dei Re ci riferisce la prima apparizione di Elia in pubblico; ma lo Spirito, nell’epistola di Giacomo, ci fa intravedere un tirocinio più antico nella storia dei profeta (cap. 5:17). E questa rivelazione è piena d’ammaestramento per noi. La storia sacra introduce Elia in modo che può sembrare improvviso. Egli entra arditamente sulla scena con le solenni parole: «Com’è vero che vive l’Eterno»; ma non ci dice nulla delle sue precedenti esperienze; né in che modo egli abbia conosciuto ciò che il Signore voleva che annunziasse da parte Sua. Tutto ciò è completamente passato sotto silenzio dallo Spirito Santo.
La storia ci fa vedere Elia che agisce in pubblico; ma l’apostolo Giacomo ci rivela che Elia, prima di entrare nel servizio davanti agli uomini, pregava Dio. «Elia era un uomo sottoposto alle stesse passioni che noi, e pregò ardentemente che non piovesse, e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi.» (Giacomo 5:17).
Se lo Spirito Santo non ci avesse rivelato questo fatto importante, saremmo stati privati d’uno dei più potenti motivi alla preghiera; ma la Scrittura è divinamente perfetta. In essa non manca nulla di ciò che deve trovarsi, e non vi si trova nulla di ciò che non deve esservi. Perciò Giacomo ci svela i momenti segreti di lotta e di preghiera di Elia; ce lo fa scorgere rifugiato nelle montagne di Galaad, laddove, certamente, gemeva sul deplorevole stato di cose in Israele, ma dove anche s’era fortificato in ispirito per il compito assegnatogli.
Questa circostanza della vita del nostro profeta ci offre un utile insegnamento. Viviamo in un tempo di grande ansietà e di povertà spirituale. Dobbiamo difenderci non solo dalle eresie e dal male che hanno caratterizzato i tempi passati, ma anche da una corruzione che sta colmando la sua misura, in un’epoca in cui tutte le impurità di un mondo senza Dio si trovano unite alla professione cristiana e coperte dal suo manto. E se, in mezzo a questa confusione, guardiamo a coloro che conoscono la verità e lo dichiarano con vanto, se guardiamo a noi stessi, scopriamo che spesso la conoscenza non è che fredda teoria senza influenza sul cammino; che la vita cristiana è priva di consacrazione e la verità di Dio è di poco interesse.
In tale stato di cose, qual è la risorsa del fedele? La preghiera, paziente e perseverante, una segreta comunione con Dio, un profondo e reale esercizio dell’anima nella Sua presenza; ecco gli unici mezzi con cui possiamo ottenere la forza spirituale sufficiente per agire per Dio sia fra i nostri fratelli che di fronte agli increduli.
«Elia era un uomo sottoposto alle stesse passioni che noi»; si trovava in mezzo ad una oscura apostasia, ad un allontanamento generale dei cuori da Dio; vedeva i fedeli diminuire, il male innalzarsi come un’alta marea, la luce della verità indebolirsi sempre più, l’altare di Baal sostituire l’altare dell’Eterno; tutto, attorno a lui, era un cumulo enorme di macerie e di rovine. Egli lo sentiva, e non solo piangeva su quelle rovine ma «pregava ardentemente». Ecco qual era la risorsa sicura e infallibile del profeta abbattuto: cercare rifugio nella presenza di Dio, e qui spandere il cuore e le lagrime, pensando all’orribile caduta e ai guai del suo popolo diletto. Elia era sinceramente preoccupato della triste condizione di tutto quel che lo circondava: ecco il movente che lo faceva pregare, e pregare come va fatto, non freddamente e con formalismo, ma con insistenza e perseveranza. E questo è un bell’esempio per noi. Forse non ci fu mai un tempo in cui, come oggi, delle ferventi preghiere siano più necessarie nella Chiesa di Dio. Sembra che il diavolo spieghi tutta la sua potenza malefica per abbattere gli animi e ostacolare l’attività del popolo di Dio. E lo fa presso gli uni sfruttando le ansie del lavoro, presso gli altri approfittando delle difficoltà e delle prove famigliari, presso altri ancora facendo presa sulle loro afflizioni o le loro lotte individuali. Insomma, «vi sono molti avversari» e soltanto la forza potente di Dio può renderci capaci di lottare contro di loro e riportare la vittoria.
Ma Elia non era soltanto chiamato a passare, immune, attraverso al male; doveva anche esercitare una influenza benefica sugli altri. Era chiamato ad agire per Dio in un tempo di decadimento: doveva fare degli sforzi per ricondurre la sua nazione all’Iddio dei padri. Quanto bisogno aveva di cercare il Signore, di raccogliere la sua forza morale in presenza di Dio, unico luogo per poter diventare uno strumento di benedizione per altri! Elia lo sentiva; perciò «pregò ardentemente che non piovesse»! Egli richiama Dio stesso sulla scena, e raggiunge lo scopo: «E non piovve!». Iddio non rifiuterà mai di agire, quando la fede s’indirizza a Lui fondandosi sulla Sua gloria, e sappiamo che era unicamente su questo fondamento che il profeta s’indirizzava a Dio. Riguardo a sé, egli non poteva certa provare piacere vedendo il paese ridotto in un deserto arido e sterile, e i suoi fratelli consumati dalla carestia e dagli orrori che l’accompagnano. No; era unicamente per far ritornare i cuori dei padri verso i figliuoli, per ricondurre il popolo alla sua antica fede, per estirpare i principi d’errore che si erano impadroniti di tutte le menti. Era per questo che il nostro profeta pregò ardentemente che non piovesse, e Dio udì ed esaudì quella richiesta, prodotta dal suo Spirito nell’anima del suo diletto servitore. Pregare, confidare in Dio, e aspettare!
V’è molta dolcezza e consolazione in quest’esercizio dell’anima. Che felicità per il credente tentato e provato trovarsi solo con Dio! Che benedizione quando può lasciare che il suo cuore si apra davanti al Signore, e i suoi affetti salgano a Colui che solo è capace di elevarlo al di sopra della snervante influenza delle cose del tempo, nella calma e nella luce della Sua presenza benedetta. Ci sia dato d’esser tutti trovati fiduciosi in Dio, sempre di più, cogliendo le stesse difficoltà dei nostri giorni come un’occasione per accostarci con maggior fiducia al trono di grazia; così, non soltanto eserciteremo una salutare influenza intorno a noi, ma anche i nostri cuori saranno consolati e incoraggiati da questa ricerca di Dio. «Quelli che sperano nell’Eterno acquistano nuove forze»! È una constatazione meravigliosa, una promessa a cui il nostro Dio fedele non verrà mai meno (*).
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(*) Vorrei aggiungere alcune parole sul soggetto della preghiera in comune fra i cristiani, esercizio che purtroppo è tanto trascurato in un tempo in cui è particolarmente necessario. In generale la vita, l’energia, il servizio e la testimonianza collettivi, sono proporzionati alla misura con cui la collettività ricerca Dio. Dove non vi sono assemblee pubbliche di preghiere, si può esser certi di trovare molte manchevolezza riguardo al servizio ed alla testimonianza; gli interessi della Chiesa di Dio non sono realmente apprezzati, e perciò le cose della terra occupano un posto di illegittima preminenza nei pensieri dei cristiani. Se sentissimo la nostra debolezza collettiva, vi sarebbe una confessione collettiva di questa debolezza, e in seguito un rinnovamento della nostra forza collettiva. Siamo convinti che tutti i movimenti importanti che hanno avuto luogo fra il popolo di Dio sono stati il risultato di ferventi preghiere in comune. Non possiamo aspettarci che Iddio spanda la sua grazia vivificante su quelli che si accontentano del loro stato di tiepidezza e di sonno. La Scrittura dice: «Apri la tua bocca, e io la riempirò». Se non vogliamo aprire le nostre bocche, come potranno essere riempite? Se siamo soddisfatti di ciò che abbiamo raggiunto, come potremmo sperare di ricevere di più?
Il lettore cristiano abbia dunque a cuore di incitare i suoi fratelli e parlare al Signore in preghiere in comune, e non tarderanno a manifestarsi dei meravigliosi risultati.
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È così che Elia il Tishbita Iniziò la sua carriera. Egli uscì dal santuario di Dio ben armato di potenza divina per agire con efficacia sui suoi simili. C’è molta forza in queste parole: «Com’è vero che vive l’Eterno, l’Iddio di Israele, di cui io sono servo». Ecco il fondamento su cui riposava l’anima di questo eminente servitore di Dio, come pure il principio che lo sosteneva nel suo ministerio. Egli era servo dell’Eterno, l’Iddio d’Israele; stava alla sua presenza e da questa posizione poteva parlare con potenza e autorità. Il malvagio re Achab non sapeva che Elia era stato a lungo in ginocchio, nel segreto, prima di presentarsi in pubblico. Egli ignorava tutto ciò. Ma Elia ne aveva coscienza, e potè così arditamente affrontare il responsabile di tutto il male, parlare al re stesso, e annunziargli i giudizi di un Dio giustamente offeso. Che esempio per quelli che sono chiamati a parlare nel nome del Signore! Dovrebbero tutti, in virtù della loro missione divina, sentirsi elevati completamente al disopra dell’influenza dell’opinione degli uomini. Non accade sovente che qualcuno che si sente di parlare con un certo grado di potenza e di libertà in presenza di certi uditori sia, dinanzi ad altri, in soggezione a tal punto da non poter parlare? Non sarebbe così se fossero ben convinti di aver ricevuto dal Signore la loro missione e se sapessero di compierla come Suoi servi, in presenza dell’Iddio vivente. Il messaggero del Signore si terrebbe al disopra di quelli a cui annunzia il suo messaggio, pur prendendo l’umile posto di servitore. Il suo linguaggio sarebbe come quello di Paolo: «A me poi pochissimo importa d’esser giudicato da voi o da un tribunale umano» (1 Corinzi 4:3).
3. Elia al torrente Kerith (o Cherit) — 1 Re 17:2-7
3.1 Di nuovo in disparte alla scuola di Dio
Non appena il nostro profeta ha reso la sua testimonianza, eccolo nuovamente chiamato lontano dagli sguardi del popolo nella solitudine delle rive del torrente Kerith. «E la parola dell’Eterno gli fu rivolta in questi termini: Partiti di qua, volgiti verso oriente e nasconditi presso al torrente Kerith, che è dirimpetto al Giordano». Vi sono in queste parole degli insegnamenti seri a cui dobbiamo prestare attenzione. Elia aveva assunto una posizione eminente in presenza di Israele, ma sebbene l’avesse fatto dopo un tempo trascorso segretamente e con preziosi esercizi d’animo alla presenza di Dio, tuttavia quel Dio fedele, per il quale Elia aveva agito, stimò necessario ritirarlo di nuovo lungi dalla folla, perché potesse occupare un posto umile davanti al Signore. Bisogna che siamo tenuti e mantenuti nell’umiltà; bisogna che «la carne» sia annientata. Perciò occorre che impieghiamo più tempo a lasciarci ammaestrare nel segreto. Ed Elia, che si era presentato in pubblico solo per un momento, e dopo essere stato solo con Dio, subito dopo deve sparire dalla scena e nascondersi di nuovo, per ben tre anni e mezzo. Com’è difficile occupare un posto onorevole! Vedremo più tardi che il fedele profeta aveva gran bisogno d’essere tenuto in disparte. Il Signore conosceva il suo carattere e le sue tendenze, e agisce in conseguenza. È umiliante pensare come siamo pieni di noi stessi, portati ad immaginare d’essere qualche cosa, e che Dio voglia fare grandi cose per mezzo nostro; per questo abbiamo bisogno, come il nostro profeta, di ascoltare la voce che ci dice di «tenerci nascosti», di sottrarci agli occhi del pubblico, per imparare, nella calma della santa presenza del nostro Padre, a conoscere la nostra propria nullità.
È così che il nostro divino Maestro agì con i discepoli da lui inviati. quando ritornarono forse un poco orgogliosi di se stessi e del loro servizio, dicendo: «Signore, i demoni stessi ci sono sottoposti». Quale fu la risposta di Gesù? «Venite in disparte in un luogo deserto». Gesù stesso, il Figlio di Dio, cercava di frequente la solitudine, per potere, lungi dal movimento e dal rumore della città, in un tranquillo isolamento, darsi alla preghiera in intima comunione col suo Padre. «Gesù se ne andò al monte degli Ulivi», ove trascorreva talvolta la notte (Giovanni 8:1, Luca 21:37). «Poi la mattina, essendo ancora molto buio, Gesù, levatosi, usci e se ne andò in un luogo deserto; e quivi pregava» (Marco 1:35). Non che avesse bisogno di nascondersi, poiché la sua vita sulla terra era una vita di completa abnegazione. Lo spirito del suo ministerio è espresso in queste parole: «La mia dottrina non è mia, ma di Colui che mi ha mandato» (Giovanni 7:16). Ah! se tutti i servitori del Signore fossero realmente animati dello stesso spirito! Abbiamo tutti bisogno di rinunciare di più al nostro «io». Il diavolo agisce spesso sui nostri poveri cuori; le nostre menti sono occupate di noi, e facciamo del nostro misero servizio, e molto spesso anche della conoscenza della verità di Dio, un piedestallo che serva d’appoggio alla nostra propria gloria. Non dobbiamo stupirci se il Signore ci utilizza raramente; come potrebbe adoperare degli agenti che non sarebbero capaci di dare a Lui tutta la gloria del loro lavoro? Come poteva il Signore adoperare Israele al suo servizio, quando Israele era sempre incline a glorificare se stesso? Chiediamo al nostro Dio di renderci veramente umili, più disposti ad essere considerati come «le spazzature del mondo», per amore del nostro divino Signore e Maestro.
3.2 Una prova per la fede
Elia doveva rimanere parecchi giorni nel suo rifugio solitario, presso al torrente di Kerith; ma c’era per lui una preziosa promessa dell’Eterno, relativa al cibo di cui aveva bisogno: «Ho comandato ai corvi che ti dian quivi da mangiare». Il Signore avrebbe avuto cura del suo servitore diletto, mentre sarebbe rimasto nascosto alla vista del popolo, e avrebbe sovvenuto alle sue necessità, fosse anche per mezzo di corvi. Che strana risorsa! Che continuo esercizio di fede implicava quella posizione! Essere chiamato ad aspettare le visite giornaliere di uccelli che se fossero stati spinti dal loro istinto avrebbero divorato il cibo del profeta! Ma era proprio dai corvi che Elia aspettava il sostentamento della sua vita? Certamente no. L’anima sua confidava in quelle preziose parole: «Io ho comandato». Dio era per lui, non i corvi. Aveva con sé, nel suo rifugio, l’Iddio d’Israele, ed egli viveva di fede. Che grande benedizione attaccarsi, con sincera semplicità, alle promesse di Dio! Come si è felici quando si è innalzati al disopra dell’influenza delle circostanze, nel sentimento della presenza e delle cure di Dio! Elia si nascondeva dagli uomini, mentre Dio si manifestava a lui. È sempre così. Se mettiamo l’io da parte possiamo essere certi che Dio si rivelerà in potenza alle anime nostre. Elia doveva nascondersi, perché il fiume delle risorse ristoratrici di Dio potesse scorrere per lui nel posto del ritiro e della rinuncia. «Ho comandato ai corvi che ti dian quivi da mangiare». Se il profeta fosse andato altrove, non avrebbe ottenuto nulla da Dio. Che ammaestramento per noi! Perché le anime nostre sono così misere e sterili? Perché ci dissetiamo raramente al torrente dei ristori preparato dal Signore.
Ma c’è qualcosa di più in quella piccola parola: «quivi». Elia doveva essere «là» e in nessun altro luogo per godere il beneficio delle risorse di Dio. È così anche del credente ai giorni nostri; bisogna che egli conosca «dove» Dio vuole che si trovi e che rimanga. Non abbiamo il diritto di scegliere il nostro posto, poiché il Signore «determina i limiti della nostra abitazione», ed è buona cosa per noi saperlo e sottometterci al suo savio e misericordioso ordinamento.
Era sulle rive del torrente Kerith, e là soltanto, che i corvi avevano ricevuto l’ordine di portare pane e carne al profeta; se egli avesse lasciato il torrente per stabilirsi altrove, avrebbe dovuto provveder da solo al proprio sostentamento. Ma quanto era più bello lasciare che fosse Dio a provvedere! Elia lo sentiva; così non esitò a recarsi presso il Kerith.
Il profeta, così, dovette passare da una solitudine all’altra, affinché il suo spirito fosse esercitato e la sua forza rinnovata nella presenza di Dio. Chi vorrebbe essere esente da una tale disciplina data dalla mano del Padre? Chi non desidererebbe essere condotto lungi dagli occhi dell’uomo, e posto al disopra delle influenze delle cose terrestri, nella pura luce della divina presenza, dove «l’io» e tutto ciò che lo circonda sono considerati ed apprezzati secondo la misura del santuario? Chi non desidererebbe essere solo con Dio, come Mosè sul monte di Dio, come Aaronne nel luogo santissimo, come Giovanni nell’isola di Patmos?
Ma che cosa significa essere solo con Dio? Significa vedere noi stessi e il mondo messi da parte, aver la mente occupata dai pensieri di Dio, dalle sue perfezioni, lasciare passare davanti a noi tutta la Sua bontà, considerarlo come Colui che agisce PER noi e IN noi, sentirci al disopra della carne e delle sue passioni, del mondo e del suo andazzo, di Satana e delle sue accuse; e soprattutto sentire che siamo stati introdotti in quella santa solitudine solo e unicamente dal prezioso sangue del nostro Salvatore Gesù Cristo. Conosceremo allora la gioia, la libertà, la pace, la perfetta semplicità del santuario, ove Dio, nella varietà dei suoi attributi e delle sue perfezioni, si presenta alle anime nostre e ci riempie di inesprimibili benedizioni.
3.3 La fede e le circostanze
Ma benché Elia fosse in una così felice solitudine, presso al torrente Kerith, non era esente dai profondi esercizi d’animo che accompagnano una vita di fede. I corvi, è vero, obbedienti al comandamento, gli facevano giornalmente le loro visite, e il torrente Kerith continuava il suo corso tranquillo, in modo che né il pane né l’acqua gli mancavano. Per quanto lo riguardava personalmente, poteva anche dimenticare che la verga del giudizio di Dio era stesa sul paese e sul popolo di Israele. Ma la fede deve essere messa alla prova; non può essere permesso all’uomo di fede di riposare sulla sua feccia; bisogna ch’egli sia travasato da vaso a vaso (Isaia 33: 16, Geremia 48: 11). Il riscattato deve passare da una classe all’altra nella scuola di Cristo, e dopo aver, per grazia, sormontato le difficoltà dell’una è obbligatoriamente chiamato a lottare con quelle dell’altra. Era dunque indispensabile che l’anima del profeta fosse provata. affinché potesse vedere se si confidava nel torrente, o nell’Eterno, l’Iddio d’Israele; perciò «di lì a qualche tempo il torrente rimase asciutto»! L’infermità della carne ci espone al pericolo di appoggiare la nostra fede sulle circostanze e di farla dipendere da esse; in tal modo, quando le circostanze sono favorevoli, crediamo di avere una grande fede, e viceversa.
La fede non guarda mai alle circostanze; guarda direttamente a Dio, ed ha a che fare solo con Lui e con le sue promesse. Così fu di Elia; poco gl’importava che il Kerith continuasse a scorrere o no; poteva dire con un poeta cristiano: «Se i rivi del mondo sono asciutti, mi rimane sempre una sorgente». Iddio era per lui una sorgente che non poteva né mancare né inaridirsi. Il torrente poteva asciugarsi per la siccità generale, ma nessuna siccità poteva colpire Dio; il profeta sapeva che la parola dell’Eterno era tanto certa quanto lo era stata durante il suo soggiorno su quelle rive; e infatti la parola dell’Eterno gli fu rivolta in questi termini: «Levati, va’ a Sarepta dei Sidoni, e fa’ quivi la tua dimora; ecco io ho ordinato colà ad una vedova che ti dia da mangiare». La fede d’Elia doveva sempre basarsi sullo stesso immutabile fondamento: «Io ho ordinato».
Che benedizione! Le circostanze cambiano, le cose umane falliscono, i torrenti della natura inaridiscono, ma Dio e la sua Parola sono sempre gli stessi, ieri, oggi e in eterno. Il profeta non sembra essere stato turbato da questo nuovo ordine: e come Israele, anticamente, aveva imparato a fissare la sua tenda conformemente ai movimenti della nuvola di Geova (Num. 9:21-23), così Elia si stabiliva nel suo posto solitario sulle rive del Kerith, ovvero si metteva in cammino verso Sarepta di Sidon, senza allontanarsi mai dalla obbedienza alla «parola del Signore». Agli Israeliti non era permesso di fare i loro piani; l’Eterno ordinava tutto, per loro. «Al comandamento dell’Eterno si accampavano, e all’ordine dell’Eterno si mettevano in cammino». Se un Israelita si fosse rifiutato di partire quando la nuvola si alzava o di fermarsi quando si fermava, sarebbe stato lasciato a sé per perire nel deserto. La «roccia» e la «manna» seguivano i figliuoli d’Israele finché essi seguivano l’Eterno, poiché il nutrimento e il ristoro non si trovano che nel sentiero della semplice obbedienza.
È stato detto che «un servitore deve muoversi quando la campana suona». Ah! possiamo noi pure essere più attenti al suono della campana del nostro Maestro, e più pronti a correre nella direzione in cui ci chiama! «Parla, Signore, poiché il tuo servo ascolta» (1 Sam. 3:10).
Ora, questo sentiero dell’obbedienza non è affatto un sentiero facile; esso implica una continua rinuncia all’«io», e non può essere percorso se non tenendo l’occhio fisso su Dio, e la coscienza sotto l’azione della sua verità. Ogni atto d’obbedienza porta con sé una ricca ricompensa; soltanto, la carne e il sangue devono essere messi da parte, e non è certamente facile.
4. Elia e la vedova di Sarepta — 1 Re 17:8-24
4.1 «Io ho ordinato ad una vedova che ti dia da mangiare»
Quando il torrente si prosciugò, Elia dovette partire di nuovo, verso una città lontana della contrada di Sidon, per essere mantenuto da una vedova priva di tutto, e che sembrava sul punto di morire di fame. Ecco l’ordine: «Levati, va’ a Sarepta dei Sidoni e fa’ quivi la tua dimora; io ho ordinato colà ad una vedova che ti dia da mangiare». Arrivando in quel luogo, la scena che si offrì agli occhi del profeta non era certo atta a confermare le parole del Signore. Anzi, non avrebbe potuto far altro che riempirlo di dubbi e di timori. «Egli dunque si levò, e andò a Sarepta; e come giunse alla porta della città, ecco quivi una donna vedova che raccoglieva delle legna. Egli la chiamò e le disse: Ti prego, vammi a cercare un po’ d’acqua in un vaso, affinché io beva. E mentre ella andava a prenderne, egli le gridò dietro: Portami, ti prego, anche un pezzo di pane. Elia rispose: Com’è vero che vive l’Eterno, il tuo Dio, del pane non ne ho, ma ho solo una manata di farina in un vaso, e un po’ d’olio in un orciuolo; ed ecco, sto raccogliendo due stecchi per andare a cuocerla per me e per il mio figliuolo; e la mangeremo e poi morremo». Ecco la scena che si presentò al profeta quando giunse a destinazione; tutto ciò che vi era di più triste e scoraggiante per «la carne ed il sangue». Ma il coraggio di Elia era sostenuto dall’infallibile parola dell’Eterno; l’orizzonte era oscuro ma l’occhio della fede poteva attraversare le nubi e vedere, al di là, un fermo fondamento su cui la fede poteva basarsi. Quanto è preziosa la parola di Dio! Possiamo ben dire col Salmista: «Le tue testimonianze mi sono un’eredità per sempre». Preziosa eredità! Pura, incorruttibile, immortale verità! Come dovremmo benedire il nostro Dio di averne fatto la nostra sorte inalienabile; una sorte che, quando tutte le cose sotto il sole saranno svanite, quando il mondo sarà passato con la sua concupiscenza, quando ogni carne sarà stata consumata come fieno, sarà per il fedele una realtà eterna.
Ecco dunque una vedova ed il suo figliuolo che stavano per morire di fame, due stecchi, un po’ d’olio e una manata di farina! Eppure la parola dell’Eterno era: «Io ho ordinato colà ad una vedova che ti dia da mangiare». Che prova misteriosa per la fede! Nondimeno Elia non formula nessun dubbio sulla promessa di Dio, ma fu fortificato nella fede, dando gloria a Dio. Egli sa che era l’Iddio altissimo e onnipotente, padrone dei cieli e della terra, a dover provvedere ai suoi bisogni; e se anche non vi fosse stato né olio né farina, poco gli sarebbe importato, poiché guardava al di là delle circostanze, e non si confidava nella manata di farina ma nel comandamento divino. Così, con lo spirito perfettamente calmo e tranquillo e senza ombra di dubbio, può dire: «Così dice l’Eterno, l’Iddio d’Israele: Il vaso della farina non si esaurirà e l’orciuolo dell’olio non calerà, fino al giorno che l’Eterno manderà la pioggia sulla terra». Abbiamo qui la risposta della fede.
4.2 Incredulità e morte
Ma in questa scena interessante, c’è un altro punto da segnalare, cioè il modo con cui la morte appare sospesa su colui che non cammina per fede. «Mangeremo, e poi morremo» (1 Re 17:12); così parla la vedova di Sarepta. La morte e l’incredulità sono inseparabilmente legate. Lo spirito non può essere condotto nel sentiero della vita se non dall’energia della fede; se dunque la fede non è attiva, non c’è né potenza né vita. Tale era lo stato di quella povera donna; la sua speranza per la vita era riposta nel vaso di farina e nell’orciuolo d’olio; all’infuori di ciò, ella non vedeva nessuna sorgente di vita, nessuna speranza di prolungamento di giorni. L’anima sua non conosceva ancora la vera felicità della comunione con l’Iddio vivente al quale solo appartengono le risorse della vita. Non era ancora in grado di credere, e tanto meno di sperare contro speranza. Ahimè! che povera cosa fragile è mai una speranza che si fonda unicamente su una manata di farina e un orciuolo d’olio! Com’è misera l’attesa che dipende unicamente dalla creatura! E non siamo forse tutti propensi ad appoggiarci sopra qualcosa che è altrettanto meschino quanto una manata di farina? Ma una manata di farina, nella mano di Dio e agli occhi della fede, fornirà delle risorse reali quanto una dispensa ricolma di beni. «V’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cosa sono per tanta gente?» (Giov. 6:9). Ecco il linguaggio del cuore umano; ma la fede sa cosa è Dio per tante persone. L’incredulità dice: Noi non possiamo; la fede dice: Dio può. Applichiamo questi principi al povero peccatore la cui coscienza si è risvegliata. Quante volte chi è in questo stato tenta di aggrapparsi a qualche vana risorsa per ottenere il perdono dei suoi peccati! Eppure non c’è che credere all’opera di Cristo compiuta sulla croce, che ha per sempre soddisfatto le esigenze della giustizia divina, e che, per conseguenza, può bastare per soddisfare a tutto quel che richiede una coscienza oppressa del sentimento della propria colpa.
«Signore, io non ho alcuno che, quando l’acqua è mossa, mi metta nella vasca; e mentre ci vengo io, un altro vi scende prima di me» (Giov. 5:7). Sono le parole di un paralitico che non aveva ancora imparato a guardare, al di sopra di tutti i soccorsi dell’uomo, direttamente a Gesù. «Non ho alcuno» dice il povero peccatore che si sente colpevole e non crede. Io invece ho Gesù, dice il credente, e per mezzo di lui so di avere il perdono dei miei peccati e la vita eterna.
Perciò, se queste pagine dovessero andare fra le mani di qualche povero peccatore, tremante, timoroso, l’inviterei a farsi coraggio, meditando su questa preziosa verità: Dio, nella sua grazia infinita, ha messo la croce di Gesù, fra lui peccatore e i suoi peccati, purché egli creda alla testimonianza divina. La grande differenza fra un credente e un incredulo consiste in questo: il primo ha Cristo fra sé e i suoi peccati; il secondo ha i suoi peccati fra sé e Dio.
Ci sia dato di godere d’una comunione più semplice e più abituale con i pensieri del cielo, e di saper mettere da parte le cose e i pensieri della terra!
4.3 «Per me e per il mio figliuolo»: L’egoismo della natura umana
Abbiamo già detto che l’uomo di fede dev’essere «travasato da vaso a vaso» secondo l’espressione di Geremia (48:11). Ogni scena, ogni successivo stadio della vita del credente è per lui il passaggio ad una nuova classe della scuola di Cristo, dove ha qualche lezione nuova, e naturalmente più difficile da imparare. Ma ci si può chiedere se Elia avesse da incontrare circostanze più difficili a Sarepta che a Kerith. Non era forse meglio per lui rimettersi a delle simpatie umane, come quelle della vedova, che aver dei corvi come strumenti del suo sostentamento? Non era più gradevole trovarsi in seno ad una famiglia che vivere nell’isolamento di quel torrente? Tuttavia, la solitudine ha le sue dolcezze e la società le sue prove. Vi sono interessi egoistici che agiscono fra gli uomini e che ostacolano quel godimento reale e puro che la vita in società dovrebbe procurare (e che procurerà un giorno, allorché l’umanità sarà ristabilita nello stato di perfezione che riceverà da Dio).
Il nostro profeta non udì parole come «per me e per il mio figliuolo» quando fissò la sua dimora vicino al torrente. Là non c’erano interessi egoistici che ponevano ostacoli al suo sostentamento e alle sue gioie. Ma appena entrò nella società dei suoi simili dovette sentire che il cuore umano non prova piacere a vedere altri entrare in concorrenza con gli oggetti del proprio affetto. Elia comprese tutto il significato delle parole «per me e per il mio figliuolo», parole che manifestano le profonde sorgenti di quell’egoismo che guida l’umanità nel suo stato di caduta. Qualcuno dirà che era naturale per il cuore della vedova pensare a sé e al proprio figlio prima che ad altri. Certamente, era naturale; è quel che la natura fa sempre: «Prenderei io il mio pane, la mia acqua e la carne che ho macellata per i miei tosatori, per darli a gente che non so donde venga?» (1 Samuele 25:11) . La natura umana cercherà sempre, prima di tutto, il proprio interesse, piuttosto che il bene d’altri. È soltanto la natura di Dio che può agire altruisticamente. È vano cercare di allargare il cuore dell’uomo con dei mezzi che non siano la ricca grazia di Dio. Essa sola riesce a risvegliare le affezioni dell’uomo verso i poveri e gli infelici. La benevolenza umana può fare molto, quando un’abbondanza di risorse non implica privazioni personali, ma soltanto la grazia renderà un uomo capace di dimenticare il proprio interesse personale per rispondere ai bisogni degli altri. L’uomo guarda alla lode della gente (Salmo 49:18); questo è il principio del mondo. E nulla può farcelo disimparare se non la conoscenza del fatto che Dio ci ha fatto del bene e che è il nostro interesse lasciare che sia Lui a continuare a farci del bene fino alla fine.
4.4 Una richiesta a cui solo la fede può far fronte
Era la conoscenza di questo principio divino che faceva dire al nostro profeta: «Fanne prima una piccola focaccia per me, e portamela; poi ne farai per te e per il tuo figliuolo». Con queste parole, Elia non faceva che ricordare il diritto di Dio sulle risorse della vedova, e, ricordiamolo, il risultato d’una fedele e pronta risposta a questo diritto di Dio sarà sempre una ricca raccolta di benedizioni per l’anima. Però questo esigeva della fede nella donna; il suo compito era esercitante e difficile, e richiedeva un’energia di fede in questa promessa divina: «Così dice l’Eterno, l’Iddio d’Israele: Il vaso della farina non si esaurirà e l’orciuolo dell’olio non calerà fino al giorno che l’Eterno manderà la pioggia sulla terra».
Non è sempre così per ogni credente? Certamente; dobbiamo agire con fede. Se il vaso della farina della povera vedova fosse stato pieno, ella non avrebbe avuto bisogno dell’esercizio della fede; ma quando è ridotto ad «una manata di farina», ricevere l’ordine di dare quella manata prima di tutto ad un estraneo era certamente una grande richiesta, e ci voleva della fede per rendere quella donna obbediente. Ma il Signore agisce sovente col suo popolo come fece coi suoi discepoli quando si trattava di sfamare una moltitudine di persone. «Diceva ciò per provarli, poiché sapeva quel che stava per fare» (Giov. 6:6). A volte ci chiede di fare un atto che implica una grande rinuncia per noi, ma appena siamo pronti ad obbedire riceviamo la forza per continuare. «Dì ai figliuoli d’Israele che si mettano in marcia» (Esodo 14:15). Dove dovevano andare? Attraverso il mare! Tuttavia, con questo comandamento così difficile, vediamo la grazia che provvede la capacità di compierlo, nella parola indirizzata a Mosè immediatamente dopo: «E tu, alza il tuo bastone, stendi la tua mano sul mare e dividilo; e i figliuoli d’Israele entreranno in mezzo al mare a piedi asciutti». La fede rende un uomo capace, quando è chiamato da Dio, di mettersi in cammino senza sapere dove andare, come ha fatto Abramo (Ebrei 11:8).
4.5 Altruismo e amore, frutti della grazia divina
Ma questa interessante scena fra Elia e la vedova di Sarepta ci dà anche altre lezioni. Vi è di più che il semplice principio dell’obbedienza; vi impariamo anche che solo la potenza della grazia divina può elevare lo spirito umano al disopra dell’atmosfera glaciale dell’egoismo in cui l’uomo caduto vive e si muove. Lo splendore della bontà di Dio che irradia sull’anima, dissipa quelle nebbie di cui il mondo è avvolto, e rende un uomo capace di pensare e di agire secondo principi più elevati e più nobili di quelli che dirigono la massa degli uomini attorno a lui.
Quella povera vedova era uscita di casa, animata dai soli motivi, umanamente plausibili, del proprio interesse e della propria conservazione; e non aveva altra prospettiva che la morte. È forse diverso per le moltitudini che ci attorniano? Ahimè! L’uomo più illustre, più intelligente, ma sul cui spirito la grazia divina non ha brillato, si troverà, al giudizio di Dio, simile a quella povera vedova, animato, come lei, da motivi d’interesse personale, ma senza prospettiva migliore che la morte.
Tuttavia la verità di Dio cambia prontamente l’aspetto delle cose. Nel caso della vedova, essa agisce con grande potenza; questa verità la rimanda a casa per occuparsi d’un altro, essendo l’anima sua ripiena del giubilo della vita. E sarà sempre così. Quando l’anima è messa in comunione con la verità e la grazia di Dio, subito è ritirata da questo presente malvagio secolo e strappata alla funebre corrente che trascina con se milioni di esseri umani. È diretta da motivi celesti, e spinta avanti da uno scopo celeste. La grazia insegna all’uomo a vivere e ad agire per gli altri. Più l’anima nostra godrà la dolcezza dell’amore divino, più diventerà sincero il desiderio di servire gli altri. Ci sia dato sentire più profondamente e in modo più permanente la potenza dell’amore di Cristo in questi tempi di orribile freddezza e di egoistica indifferenza! Piacesse a Dio che potessimo tutti vivere ed agire ricordando che non apparteniamo a noi stessi, ma che siamo stati comprati a gran prezzo.
4.6 La morte del figlio della vedova — I diritti di Dio su tutto e su tutti
Questa verità fu insegnata alla vedova di Sarepta. Non soltanto il Signore fece valere i suoi diritti sul pugno di farina e sull’orciuolo dell’olio, ma mise anche la mano sul suo figlio, il più tenero oggetto dei suoi affetti. La morte visita la sua casa nella quale il profeta dell’Eterno, la vedova e il figlio, vivevano assieme dei frutti preziosi della bontà divina. «Or dopo queste cose avvenne che il figliuolo di quella donna, ch’era la padrona di casa, si ammalò; e la sua malattia fu così grave, che non gli rimase più soffio di vita». Ora, come sappiamo, quel figlio era stato un ostacolo nel far riconoscere immediatamente alla donna i diritti divini esposti da Elia; vi è per conseguenza un insegnamento solenne per i credenti nella morte di quel fanciullo. Possiamo esser certi che se permettiamo che un oggetto qualsiasi, genitore o figlio, marito o moglie, fratello o sorella, sbarri per noi il sentiero della semplice obbedienza e della devozione a Cristo, quest’oggetto ci sarà tolto. Quella vedova aveva dato a suo figlio, nei suoi pensieri, un posto più alto che al profeta dell’Eterno, e il figlio le è tolto perché potesse imparare che non era soltanto «la manciata di farina» che doveva essere messa a disposizione dell’Eterno, ma anche il più caro dei suoi beni terrestri. Bisogna usare di tutto ciò che possediamo come semplice amministratori di cose che appartengono a Dio. Siamo così propensi a considerare tutte le cose come se ci appartenessero, invece di ricordarci che tutto ciò che abbiamo e tutto ciò che siamo appartiene al Signore e dovrebbe sempre essere ceduto alla sua voce. E qui non è una semplice questione di obbedienza; si tratta pure del nostro bene permanente e della nostra felicità. La vedova riconobbe i diritti di Dio sulla sua manata di farina; e che cosa ne risultò? Essa e la sua casa furono alimentati per degli anni! In seguito l’Eterno stese la mano sul suo figlio, e che ne risultò? Il ragazzo risuscitò dai morti per la grande potenza di Dio che le insegnava così che l’Eterno poteva non soltanto conservare la vita, ma anche darla a chi l’aveva persa. La potenza di risurrezione è applicata alle circostanze della sua vita, e la donna riceve ora il suo figliuolo, come prima aveva ricevuto la farina e l’olio, direttamente dalla mano dell’Eterno, l’Iddio d’Israele.
Come siamo felici di dipendere da una tale bontà! Come siamo felici di trovare ogni giorno il nostro vaso di farina e il nostro orciuolo d’olio riempiti dalla mano liberale del nostro Padre! Come siamo felici di tenere gli oggetti più cari dei nostri affetti nei potenti legami della risurrezione! Questi sono i privilegi che anche i più deboli dei credenti in Gesù posseggono.
4.7 Una coscienza risvegliata sulla questione del peccato
Ma prima di terminare questo soggetto vorrei far osservare l’effetto prodotto su questa vedova dalla divina visita: quello di risvegliare nella sua coscienza una seria consapevolezza di peccato. «Sei tu venuto da me per rinnovare la memoria delle mie iniquità?». Quando il Signore si accosta a noi, produrrà sempre una coscienza sensibile. Se il Signore si fosse limitato a sovvenire ogni giorno ai bisogni della povera vedova, la «questione del peccato» non sarebbe forse mai sorta nel suo spirito; ma quando la morte sopraggiunge, la coscienza comincia ad agire, poiché la morte è il salario del peccato.
In tutte le dispensazioni divine verso di noi vi è una duplice azione: un’azione di verità ed un’azione di grazia. La prima scopre il male, la seconda lo toglie; la prima svela ciò che l’uomo è; la seconda ciò che Dio è; quella manifesta e mette in luce le segrete radici del male nel cuore dell’uomo; questa fa conoscere le ricche ed inesauribili sorgenti della grazia nel cuore di Dio. Entrambe sono necessarie: la verità per mantenere la gloria di Dio, la grazia per stabilire la nostra benedizione; l’una per giustificare il carattere divino ed i suoi attributi, l’altra per il perfetto riposo del cuore e della coscienza del peccatore. Che felice cosa sapere che «la grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo»! (Giovanni 1:17).
Le dispensazioni di Dio verso la vedova di Sarepta non sarebbero state complete se non avessero prodotto in lei la confessione: «Ora riconosco che tu sei un uomo di Dio, e che la parola dell’Eterno che è nella tua bocca è la verità». Aveva imparato a conoscere la grazia nella meravigliosa risposta ai suoi bisogni, ma imparò a conoscere la verità nella morte del suo figliuolo. Se fossimo più spiritualmente sensibili, noteremmo sempre questi due risultati nel modo d’agire verso di noi del nostro Padre. Finché il nostro «vaso» e il nostro «orciuolo» sono pieni, la coscienza è propensa a sonnecchiare; ma quando Iddio batte alla porta dei nostri cuori con qualche castigo, ci risvegliamo e giudichiamo noi stessi.
4.8 Esaminare se stessi e giudicare se stessi
Non è mai detto al credente di esaminarsi nel senso di vedere se è o non è «nella fede». Una tale idea è basata su una falsa interpretazione di 2 Corinzi 13:5: «Esaminate voi stessi per vedere se siete nella fede». Sembra che l’assemblea di Corinto avesse ricevuto dei falsi apostoli, che osavano mettere in dubbio il ministerio di Paolo, e obbligavano così l’apostolo a intraprendere la difesa del suo apostolato; cosa che egli fa, anzitutto ricordando in modo generale il suo servizio e la sua testimonianza, e in secondo luogo rivolgendo ai santi di Corinto un commovente appello: «Giacché cercate una prova che Cristo parla in me… Esaminate voi stessi». La prova più forte e più decisiva della divina autorità di quell’apostolato era quella dedotta dal fatto che essi erano nella fede.
Vi è tuttavia una grande differenza fra «l’esame di se stesso» e «il giudizio di se stesso». È un esercizio dei più benedetti quello di giudicare con dirittura e severità la nostra natura malvagia che portiamo con noi e che ci ostacola e ci impedisce sempre di vivere come Dio vorrebbe la nostra vita cristiana. Il Signore accordi a noi tutti più forza spirituale per eseguire quel giudizio senza interruzione.
4.9 Elia, vero uomo di Dio
Ma in questa visitazione vi era pure un avvertimento per Elia. Egli si era presentato alla vedova come un uomo di Dio, e doveva perciò giustificare il diritto che aveva di attribuirsi il titolo e il carattere di «uomo di Dio». È ciò che l’Eterno fece in misericordia per lui, per mezzo della risurrezione del fanciullo. «Ora riconosco che tu sei un uomo di Dio». Fu la risurrezione che legittimò il suo diritto alla fiducia di quella donna.
Bisogna che vi sia, nella vita dell’uomo di Dio, la manifestazione della potenza di risurrezione. Questa potenza si mostrerà con la vittoria sull’«io», e su tutte le sue opere. Il credente è risuscitato con Cristo ed è fatto partecipe della natura divina; ma è ancora nel mondo, e porta con sé un corpo vile; se non rinuncia a se stesso si metterà in dubbio la realtà del suo carattere d’uomo di Dio. Tuttavia sarebbe meschino cercare unicamente di accreditare se stesso; il profeta aveva uno scopo ben più elevato: dimostrare la veridicità della parola di Dio pronunciata dalla sua bocca. Era unicamente per avvalorare l’origine divina dell’Evangelo da lui predicato, che l’apostolo Paolo difendeva il suo apostolato, come vediamo nelle lettere ai Galati e ai Corinzi. Poco gli importava ciò che pensassero di lui; gli importava però molto ciò che pensavano dell’Evangelo da lui proclamato. Era per amore per quei credenti, che egli desiderava comprovar loro che la parola del Signore nella sua bocca era la verità (*).
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(*) Mi si permetta di aggiungere qui una parola sul soggetto dell’autodifesa. È triste vedere un servitore di Dio obbligato a difendersi; ciò prova che vi è del male o in lui, o in quelli che hanno reso necessaria questa difesa. Ma quando ciò avviene v’è una cosa importante che egli non deve mai perdere di vista: è la gloria di Cristo e le purezza della verità che gli è stata affidata. Accade di frequente che, quando un’accusa è portata sia contro il nostro ministerio sia contro il nostro carattere, si manifesti l’orgoglio dei nostri cuori e si sia portati a difendersi accanitamente. Ora, non dovremmo mai dimenticare che in quanto a noi non siamo altro che miseri esseri, neppure degni che ci si occupi di noi. Dunque non cerchiamo mai di riabilitare la nostra propria reputazione. Siamo stati, se un ministerio ci è stato affidato, i depositari della reputazione di Cristo, e purché la conserviamo immacolata non abbiamo bisogno di preoccupari di noi.
Ci accordi il Signore la grazia di vivere nella costante consapevolezza dei nostri elevati privilegi e delle nostre sante responsabilità, come essendo «la lettera di Cristo, conosciuta e letta da tutti gli uomini».
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Era dunque importante per il profeta avere una simile testimonianza («ora riconosco che tu sei un uomo di Dio») all’inizio del suo ministerio, prima di comparire sulle scene imponenti del capitolo 18! Egli guadagnò dunque molto nel suo ritiro a Sarepta. Il suo spirito fu raffermato in modo straordinario; Iddio mise il suo sigillo sul ministerio del suo servitore, reso così capace di rientrare nella sua carriera pubblica con la beata sicurezza di essere un uomo di Dio, e che la parola dell’Eterno nella sua bocca era la verità.
4.10 Un’applicazione allegorica
Siamo dunque giunti alla fine di un periodo importantissimo della storia di Elia, che abbraccia un’intervallo di tre anni e mezzo, durante il quale egli fu nascosto agli sguardi d’Israele. Considerando la sua carriera sotto un aspetto tipico, non potremmo trarne istruzione? Credo di sì. L’allusione che Gesù Cristo stesso fa dell’invio del profeta presso quella vedova di un paese pagano (Luca 4:25-26), può condurci a vedere, in questa missione, l’ingresso dei «Gentili» nella Chiesa di Dio. «In verità io vi dico che ai dì d’Elia, quando il cielo fu serrato per tre anni e sei mesi e vi fu gran carestia in tutto il paese, c’erano molte vedove in Israele; eppure a nessuna di esse fu mandato Elia; ma fu mandato ad una vedova in Sarepta di Sidon». Il Signore Gesù si era presentato ad Israele come Profeta di Dio, ma non trovava accoglienza; la «figliuola di Sion» rifiutava d’ascoltare la voce del suo Signore. Alle parole di grazia che uscivano dalla Sua bocca rispondevano con domande carnali: «Non è costui il figliuol di Giuseppe?» (Luca 4:22-23). Vedendosi disprezzato e rigettato da Israele, Gesù trova sollievo nel pensiero che, al di fuori delle frontiere giudee, vi erano degli esseri su cui la grazia divina, per mezzo di Lui, si spandeva in tutta la sua ricchezza e la sua purezza. La grazia di Dio è tale che se è ostacolata dall’orgoglio, dall’incredulità o dalla durezza di cuore di alcuni, si riverserà tanto più abbondantemente su altri, e così «benché Israele non sia raccolto, io sarò glorificato agli occhi dell’Eterno, e il mio Dio sarà la mia forza». «Ed Egli mi disse: È troppo poco che tu sia mio servo per rialzare le tribù di Giacobbe e per ricondurre gli scampati d’Israele; voglio far di te una luce delle nazioni, lo strumento della mia salvezza fino alle estremità della terra» (Profeta Isaia 49:5-6). La preziosa verità dell’appello dei Gentili è molto insegnata nell’Antico Testamento, sia per mezzo di figure, sia con dichiarazioni esplicite, e potrebbe essere molto utile considerare a fondo questo soggetto; ma qui il mio scopo è piuttosto di considerare la vita e il ministerio del nostro profeta, unicamente sotto l’aspetto pratico, con la speranza che il Signore si degnerà, nella sua grazia, di approvare queste semplici riflessioni, e farle contribuire alla consolazione e all’edificazione dei suoi riscattati a qualunque denominazione appartengano.
5. Elia inviato ad Achab — 1 Re 18:1-20
5.1 La casa di Achab. Situazione drammatica di peccato e di corruzione
Lasciamo per un momento il nostro profeta, e consideriamo il triste stato di cose che v’era in Israele durante il tempo in cui Elia era «nascosto» con Dio. Terribile è la situazione della terra, quando «i cieli sono chiusi»! L’aspetto di questo mondo è arido e sterile, quando il cielo ritiene le sue piogge ristoratrici. A risentirne particolarmente era il paese di Canaan, che doveva bere «l’acqua della pioggia dei cieli». Per l’Egitto, il cielo chiuso non poteva essere considerato come un gran male, poiché l’Egitto aveva la sua risorsa nelle acque del Nilo. «Il mio fiume è mio, e son io che me lo son fatto», esso diceva con un linguaggio arrogante (Ezechiele 29:3). Ma così non era del paese dell’Eterno, di quel «paese di monti e valli». Se il cielo non gli dava le piogge, tutto era sterile e secco. Gli Israeliti non potevano dire: «I nostri fiumi sono nostri». No; erano costretti a guardare in alto; i loro sguardi dovevano essere costantemente sul Signore, come lo sguardo del Signore era sempre su loro. E quando qualcosa interrompeva le relazioni fra il cielo e la terra, il paese di Canaan doveva tragicamente risentirne. Così «ai giorni di Elia, quando il cielo fu chiuso tre anni e sei mesi, vi fu una grande carestia per tutto il paese».
Israele raccolse, nelle sue spaventevoli conseguenze, il frutto del suo allontanamento dalla sola sorgente di ogni vera benedizione. «La carestia era grave in Samaria e Achab mandò a chiamare Abdia, che era il suo maggiordomo, e gli disse: Va’ per il paese, verso tutte le sorgenti e tutti i ruscelli; forse troveremo dell’erba, e potremo conservare in vita i cavalli e i muli, e non avrem bisogno di distruggere parte del nostro bestiame. Così si spartirono il paese da percorrere; Achab andò da una parte e Abdia da un’altra» (1 Re 18:3-6). Israele ha peccato e Israele deve sentire la verga della giusta ira di Dio. Che umiliante quadro per l’antico popolo di Dio: il suo re che esce in cerca di foraggio! Che contrasto con la ricca e gloriosa abbondanza del tempo di Salomone! Ma Iddio era stato grandemente disonorato; la sua v-rità era stata rigettata. Izebel, moglie di Achab, aveva esteso la funesta influenza dei suoi principi per mezzo dei suoi malvagi profeti; gli altari di Bael avevano sostituito l’altare di Dio. Perciò i cieli erano come di ferro; l’aspetto delle cose non erano che l’espressione del povero stato morale d’Israele.
Ora, nelle direttive che Achab dà al suo servitore non c’è una sola parola di Dio, né del peccato che aveva attirato il giudizio di Dio sul paese. «Va’ a tutte le sorgenti e a tutti i ruscelli», tali erano i pensieri d’Achab; il suo cuore non si volgeva assolutamente, con sincera umiliazione, verso l’Eterno; non gridava affatto a Lui nel tempo della distretta. Per questo egli dice anche: «Forse troveremo dell’erba». Iddio è bandito dal suo cuore, che è pieno solo d’egoismo e di interesse personale. Purché possa trovare dell’erba; non si preoccupa affatto di trovare Dio. Invece di scrutare le cause della carestia, giudicando se stesso, invece di cercare il perdono e il rilevamento presso Dio, esce in uno stato d’impenitente egoismo per cercare dell’erba. Ahimè! egli si era venduto per fare il male; era diventato lo schiavo di Izebel; il suo palazzo era un covo di ogni impurità. I profeti di Baal circondavano il suo trono, e di là spargevano «il lievito» dell’idolatria su tutto il paese. È cosa veramente spaventevole lasciare che i nostri cuori s’allontanino da Dio: non si può dire dove si andrà a finire. Achab era Israelita; ma aveva abbracciato un falso sistema religioso alla testa del quale era Izebel sua moglie; aveva fatto naufragio quanto alla fede e, perduta una «buona coscienza», era ciecamente trascinato alla più abominevole malvagità. Un uomo che si allontana dalle vie di Dio può essere sicuro di cadere in abissi di iniquità più profondi ancora di quelli in cui vivono le vittime ordinarie del peccato e di Satana. Il diavolo sembra trovare un piacere particolare a servirsi d’un tal uomo come d’uno strumento per mettere in opera i suoi perfidi disegni contro la verità di Dio.
Lettore cristiano, «custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa» (Prov. 4:23); guardati dall’influenza d’una falsa religione; attraversi una scena in cui l’atmosfera stessa che respiri è funesta per la vita spirituale; il Nemico, con una sagacità infernale, una sagacità perfezionata da una conoscenza di migliaia di anni del cuore umano, ha gettato ovunque i suoi lacci, le sue reti, e nulla potrà preservare l’anima tua se non una comunione abituale col tuo Padre celeste. Ricordati di Achab, e prega continuamente per essere preservato dalla tentazione. «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo e fa della carne il suo braccio, e il cui cuore si ritrae dall’Eterno. Egli è come un tamerice nella pianura sterile, e quando giunge il bene, egli non lo vede; dimora in luoghi aridi, nel deserto, in terra salata, e inabitata» (Geremia 17:5-6). Tale era il miserabile Achab, miserabile benché portasse il diadema e lo scettro; non si curava né di Dio né del suo popolo. Le sue parole ed i suoi atti, nelle tristi circostanze di cui parliamo, non mostrano sollecitudine per Dio. I suoi pensieri sono così carnali che sembrano incapaci di elevarsi al disopra dei beni terreni, dei «cavalli» e dei «muli». Erano questi gli oggetti dell’ansiosa sollecitudine di Achab al tempo della spaventosa carestia in Israele. Ah! che contrasto fra questo vile egoismo, ed i nobili sentimenti di Davide, dell’uomo secondo il cuore di Dio! Quando il paese gemeva sotto i colpi della verga dell’Eterno egli diceva: «Son io che ho peccato, e che ho mal agito; ma queste pecore che hanno fatto? Ti prego, o Eterno, o mio Dio, si volga la tua mano contro di me e contro la casa di mio padre, ma non contro il tuo popolo, per colpirlo» (1 Cronache 21:17). Qui abbiamo il vero spirito d’un re. Davide voleva esporre la sua propria persona ai colpi, affinché «le pecore» fossero risparmiate; voleva mettersi fra loro e l’avversario; voleva cambiare lo scettro con un bastone di pastore; non pensava ai suoi «cavalli» ed ai suoi «muli», né a sé, né alla casa di suo padre, ma al popolo di Dio. Felicità, ineffabile felicità, sarà la sorte delle tribù disperse d’Israele, quando si troveranno di nuovo sotto le tenere cure e sotto lo scettro del vero Davide, di Gesù re su tutta la terra.
Potrebbe essere istruttivo ed utile seguire sino al termine la storia di Achab, soffermarsi sulla sua indegna condotta verso il giusto Naboth (cap. 21), sull’influenza seduttrice ch’egli esercitò sullo spirito del buon Giosafat, come pure su altre circostanze di questo disgraziato regno; ma ciò ci allontanerebbe troppo dal nostro soggetto. Ci limiteremo dunque a fare ancora alcune osservazioni sul carattere d’un uomo che occupava un posto importante nella casa d’Achab, per ritornare in seguito ad Elia.
5.2 Abdia, un uomo fedele nella casa del re
Abdia, maggiordomo di Achab, temeva l’Eterno nel segreto del suo cuore, ma si trovava posto nell’atmosfera più perniciosa. La casa del malvagio Achab, e della sua moglie ancor più malvagia, doveva essere una scuola assai penosa per l’anima giusta di Abdia, che non poteva trovar altro che ostacoli al suo servizio e alla sua testimonianza. Ciò che faceva per il Signore, lo faceva di nascosto; temeva di agire apertamente. Tuttavia quello che ha fatto ci fa comprendere quello che avrebbe potuto fare, se fosse stato piantato in un terreno migliore e favorito da un’atmosfera sana. Quando Izebel sterminava i profeti dell’Eterno, Abdia aveva preso cento profeti, li aveva nascosti, cinquanta in una spelonca e cinquanta in un’altra, e li aveva sostenuti con del pane e dell’acqua. Era quello un prezioso segno della dedizione del suo cuore all’Eterno, un trionfo benedetto del principio divino sulle circostanze più dolorose.
Era stato lo stesso di Gionathan nella casa di Saul. Anch’egli era penosamente ostacolato nel suo servizio verso Dio e verso Israele. Avrebbe dovuto trovarsi in una più completa separazione dal male in cui il padre viveva: il suo posto alla tavola di Saul avrebbe dovuto essere vacante, come lo era quello di Davide. Avrebbe dovuto comprendere che il posto che gli conveniva era la caverna di Abdullam ove, in una santa comunione con Davide rigettato e il suo piccolo seguito, avrebbe trovato una sfera più appropriata per manifestare la sua devozione piena d’affetto per Dio e per il suo unto.
Il buon senso umano, raccomandava a Gionathan di rimanere nella casa di Saul, e ad Abdia di abitare nella casa di Achab, e si poteva dire che quella era la posizione nella quale la Provvidenza li aveva messi; ma il buon senso dell’uomo non è la fede. La fede può condurre l’uomo ad andare contro alle regole anche apparentemente più logiche, per potersi esprimere in modo franco e chiaro. Gionathan si sentiva, talvolta, spinto a lasciar la tavola del padre Saul, per poter stare con Davide, ma avrebbe dovuto lasciarla completamente; avrebbe dovuto associarsi interamente alla sorte di Davide; avrebbe dovuto non accontentarsi di parlare al padre in favore di Davide, ma identificarsi con lui. Ma non lo ha fatto; perciò cadde sui monti di Ghilboa ucciso dai nemici incirconcisi, concludendo una vita tormentata e ostacolata dagli iniqui principi del governo di Saul, con una morte senza gloria.
Era anche così di Abdia. La vocazione che aveva scelta lo metteva in intima relazione con l’uomo che occupava il più basso gradino dell’apostasia. Di conseguenza, era obbligato a nascondersi per obbedire a Dio e fare qualcosa in favore dei suoi servitori; aveva paura di Achab e di Izebel; non aveva né la forza né il coraggio di opporre una reale testimonianza a tutte le loro abominazioni. E mentre Elia affrontava arditamente Achab e serviva apertamente l’Eterno, Abdia serviva apertamente Achab e di nascosto l’Eterno. Mentre Elia respirava la santa atmosfera della presenza di Dio, Abdia respirava l’atmosfera impura della corte profana di Achab. Mentre Elia riceveva il suo pane quotidiano dalla mano dell’Iddio d’Israele. Abdia percorreva il paese in cerca di erba per i cavalli ed i muli del re. Che contrasto!
Non vi sono pure ai giorni nostri degli Abdia che, pur temendo Dio, partecipano alla miseria e alla morte dei figli di questo mondo e lavorano in accordo con loro nel vano tentativo di distogliere l’imminente rovina del mondo? Dovrebbero «i muli ed i cavalli» di un mondo empio occupare la mente e l’attività d’un cristiano e distoglierlo dagli interessi della Chiesa di Dio? Ah! non dovrebbe mai essere così. Il cristiano dovrebbe avere in vista uno scopo più nobile; le sue capacità dovrebbero esercitarsi in una sfera più elevata, più celeste. Iddio, e non Achab, richiede e merita la nostra dedizione.
Quanto vai meglio essere occupati a nutrire i profeti del Signore in una caverna, che favorire l’adempimento dei piani degli uomini di questo mondo! Chiediamoci lealmente, come in presenza dello Scrutatore dei cuori: Che cosa ci occupa? Che scopo ci proponiamo? Seminiamo per la carne o per lo Spirito? Lavoriamo unicamente per la terra? Non abbiamo noi in vista oggetto più elevato dell’«io» o del mondo? Sono domande penetranti quando ce le poniamo con rettitudine. Il cuore e gli affetti dell’uomo tendono sempre in basso, sempre verso la terra e le cose della terra. Il palazzo di Achab aveva certo più potenti attrazioni per la nostra natura scaduta delle rive solitarie del Kerith o della povera casa della vedova affamata di Sarepta. Ma pensiamo alla fine. La fine è il solo vero criterio per un giudizio saggio su tali soggetti. Come diceva Asaf: «Finché non sono entrato nel santuario di Dio e non ho considerato la fine di costoro» (Salmo 73:17).
Elia, poiché era «nel santuario», sapeva bene che Achab si trovava su una china sdrucciolevole, che la sua casa sarebbe stata bentosto ridotta in polvere, che tutta la sua pompa e la sua gloria sarebbero terminate nella tomba solitaria, e che alla sua anima immortale sarebbe stato intimato di rendere conto! Ecco quel che il santo uomo di Dio comprendeva perfettamente, talché era felice di trovarsi separato da tutto ciò. La sua cintura di cuoio, il suo cibo frugale, il suo isolamento valevano infinitamente di più di tutti i piaceri della corte d’Achab. Tale era il suo pensiero; e più tardi vedremo che questo modo di pensare era giusto. «Il mondo passa via con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio dimora in eterno» (1 Giov. 2:17).
Piacesse a Dio che tutti quelli che amano il nome di Gesù fossero più decisi e più energici nella loro testimonianza per lui!
Il tempo s’avvicina rapidamente in cui rimpiangeremo di non essere stati più sinceri e più fedeli nel nostro cammino quaggiù. Noi siamo troppo tiepidi, troppo disposti a cambiare la cintura di cuoio del profeta con l’abito di cui Achab e Izebel ci rivestirebbero così volentieri. Voglia il Signore concedere a tutti i suoi riscattati la grazia di rendere contro questo mondo la testimonianza che le sue opere sono malvage, e di tenersi in disparte dalle sue vie, dalle sue aspirazioni, dai suoi principi. «La notte è avanzata, e il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e rivestiamo le armi della luce». Come risuscitati con Cristo, siano i nostri affetti rivolti alle cose che sono in alto, e non a quelle che sono sulla terra; poiché la nostra cittadinanza è nei cieli, aspettiamo costantemente e realmente «il Signore Gesù Cristo come Salvatore il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa» (Filippesi 3:21).
5.3 Elia ubbidisce all’ordine divino
Nel 1° versetto del cap. 18, un nuovo ordine è dato al nostro profeta: «E molto tempo dopo, nel corso del terzo anno, la parola dell’Eterno fu rivolta ad Elia in questi termini: Va’, presentati ad Achab, e io manderò la pioggia sul paese». Ad Elia è intimato di uscire dal suo ritiro di Sarepta, per ricomparire in pubblico e mostrarsi di nuovo al re Achab. Poco gli importa l’appello che riceve. Sia esso «Va’, nasconditi», oppure «Va’, presentati», egli è pronto ad obbedire.
Per tre anni e mezzo il Signore lo aveva disciplinato nel segreto; e quando il momento giunge per lui di mostrarsi ad Israele, egli è chiamato a lasciare il deserto e a riapparire come il testimone pubblico dell’Eterno. Elia non esita neppure un istante, benché preferisse, probabilmente, la solitudine alle scene tempestose e alle penose vicissitudini della vita pubblica. Elia era un servitore. Era altrettanto pronto ad affrontare il furioso Achab e tutti i profeti di Baal, come lo era stato a nascondersi per lo spazio di tre anni e mezzo. Desideriamo lo spirito di un servitore umile ed obbediente! Questo spirito ci farà passare attraverso molte difficoltà, ma ci risparmierà molte dispute e ci spingerà direttamente sul sentiero del servizio, mentre altri discuteranno su ciò che è questo sentiero. Purché siamo disposti ad obbedire, non saremo lasciati nel dubbio riguardo al cammino da seguire.
Abbiamo già avuto occasione di notare l’obbedienza del profeta alla parola del Signore. Una simile obbedienza implicherà sempre la rinuncia a noi stessi. Ci volle una grande abnegazione quando ricevette l’ordine di lasciare la sua tranquilla dimora per comparire davanti ad un tiranno irritato che, con la sua malvagia moglie, eccitava contro a lui una folla di profeti idolatri. Ma, per la grazia di Dio, Elia era pronto. Sentiva che non apparteneva a se stesso. Egli era servitore e come tale aveva sempre «i lombi cinti e le orecchie aperte» per udire gli appelli del suo Signore qualunque essi fossero. Beata attitudine! Che molti siano trovati così!
Elia s’avanza dunque incontro ad Achab, e lo seguiremo ora in una delle scene più importanti della sua vita (*).
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(*) In ogni tempo, il carattere di servitore è segnalato dallo Spirito Santo come molto prezioso. Infatti è la sola cosa che resta in piedi nelle epoche di decadimento generale. Ne abbiamo numerosi esempi nella Scrittura. Quando la casa di Eli stava per cadere sotto i colpi del giurdizio di Dio, Samuele occupava la posizione di servitore, e le sue orecchie erano «aperte per ascoltare». Egli diceva: «Parla, Signore, poiché il tuo servitore ascolta». Quando tutto Israele fuggiva dinanzi alla presenza del gigante Goliath, il carattere di servitore appare di nuovo, in modo molto notevole. «Il tuo servo andrà e combatterà», dice Davide. Il Signore Gesù stesso portava il titolo di servitore, che l’Eterno gli aveva dato (Isaia 49:56). Quando nella Chiesa incominciarono a penetrare delle false dottrine, «il servitore del Signore» ricevette delle direzioni sul modo di condursi. Ed ora che uno spirito carnale e mondano minaccia di distogliere tanti cristiani, qual è il rimedio a un così grave pericolo? Credo sia lo spirito del servitore. Un po’ di quello spirito che ci condurrebbe a dire: «Parla, Signore, poiché il tuo servitore ascolta!». Oh! ce ne conceda Iddio una misura più grande.
Il lettore intelligente avrà, senza dubbio, capito che queste osservazioni non hanno nulla a che fare con i privilegi del cristiano e la sua adozione; ma che hanno lo scopo di risvegliare in noi un desiderio più vivo e più sincero d’essere adoperati da Cristo per la sua Chiesa e per l’Evangelo.
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5.4 Abdia, un uomo fedele ma non al posto giusto
Prima di incontrarsi con Achab Elia entra in contatto con Abdia. Abdia non manifesta certo quella cordialità affettuosa che dovrebbe mostrarsi nei rapporti d’un fratello verso un altro fratello, ma piuttosto il freddo formalismo d’un uomo che ha vissuto molto nella società del mondo, «Sei tu il mio signore Elia?». Benché queste parole possano essere giustificate dalla personalità e dalla solennità dei modi di Elia, tuttavia dobbiamo riconoscere che avrebbe dovuto esserci più familiarità fra i due servitori del Signore. Elia pure mantiene la stessa distanza: «Son io, dice egli; va’ a dire al tuo signore: Ecco qua Elia». Elia si sentiva il depositario del segreto dell’Eterno, segreto di cui Abdia non sapeva nulla. E come avrebbe potuto essere altrimenti? La casa di Achab non era il luogo ove si poteva entrare nel segreto dei consigli divini. Lo scopo principale di Abdia era dell’erba per la sussistenza dei cavalli e dei muli di Achab. Lo scopo principale di Elia era quello di annunziare il disegno dell’Eterno concernente la pioggia, ed anche quello di ricondurre Israele alla fede di prima e alla devozione all’Eterno.
Erano entrambi uomini di Dio; qualcuno avrebbe potuto dire che Abdia era al suo posto come Elia, poiché serviva il suo padrone; ma avrebbe dovuto essere Achab il suo padrone? Non lo credo. Credo piuttosto che il suo servizio presso il re non era il risultato della comunione con Dio. È vero che ciò non lo privava del suo carattere d’uomo che temeva molto l’Eterno, poiché lo Spirito Santo ricorda misericordiosamente questo fatto, parlando di lui; ma era cosa triste vedere un uomo che temeva molto l’Eterno, riconoscere come suo padrone il più empio dei re apostati d’Israele. Elia non avrebbe agito così; non avrebbe voluto riconoscere Achab per suo padrone, benché dovesse riconoscerlo come re. Vi è una grande differenza fra essere suddito e servitore.
Gli uomini ragionano così: le autorità stabilite sono ordinate da Dio, perciò è bene esercitare un impiego sotto il loro governo; ma quelli che ragionano così sembra abbiano perso di vista la distinzione che esiste fra essere suddito delle autorità e lavorare con le autorità; il primo è un atto di sottomissione conforme alle Scritture, un atto d’obbedienza a Dio; il secondo è una posizione falsa e non scritturate, ove il cristiano si riveste di un’autorità mondana, all’esercizio della quale il credente non è assolutamente chiamato e che, inoltre, diverrà un deplorevole impedimento nel sentiero del servitore di Dio. Non vogliamo giudicare quelli che si sentono liberi di mettersi volontariamente al servizio di questo mondo; ma vorremmo almeno dir loro che si troveranno in una difficile posizione riguardo al servizio del loro celeste Maestro. I principi di questo mondo sono diametralmente opposti a quelli di Dio, perciò è difficile comprendere come un uomo possa conciliare gli uni e gli altri. Abdia ne è un esempio notevole. Se fosse stato più apertamente dal lato del Signore, non avrebbe avuto bisogno di dire: «Non hanno riferito al mio signore quello ch’io feci quando Izebel uccideva i profeti dell’Eterno?». Egli crede di aver fatto una cosa così straordinaria nascondendo i profeti che si stupisce che non tutti l’abbiano saputo. Elia non aveva bisogno di esprimersi a quel modo; «ciò che faceva» era ben noto; i suoi atti di servizio verso Dio non erano delle eccezioni nella sua storia. E perché? Perché egli non era coinvolto negli affari della casa di Achab.
5.5 Elia, «rivoluzionario» per la verità
Elia era libero, e poteva perciò agire per Dio senza preoccupazioni di ciò che pensavano Achab e Izebel. Però, agendo in tal modo, doveva essere accusato di «metter sossopra» Israele (1 Re 18:17). «Sei tu colui che mette sossopra Israele?». Più si è fedeli verso Dio e verso la sua verità, più si è esposti a quest’accusa. Se tutti dormono del sonno della morte, l’iddio di questo mondo è soddisfatto; ma se sorge un uomo fedele a Dio, si può esser certi che egli verrà considerato uno che turba la pace, come un nemico dell’ordine. La nostra natura ama la vita comoda, e anche i credenti si danno da fare spesso per la pace e per la tranquillità quando la fedeltà a Cristo e ai principi cristiani esigerebbero invece una lotta, la lotta contro le false dottrine e contro sistemi di vita mondani. La tendenza del secolo è di metter da parte tutte le questioni religiose. Le cose del mondo e della carne sono troppo importanti agli occhi di questa generazione perché possano, anche per un solo istante, essere compromesse da questioni di interesse eterno!
Ma Elia non la pensava così. Si direbbe ch’egli sentisse che il pacifico sonno del peccato doveva essere interrotto, ad ogni costo. Vedeva la nazione immersa nel profondo sonno dell’idolatria, ed era disposto ed essere lo strumento che avrebbe dovuto suscitare l’uragano. L’uragano della controversia è sempre preferibile alla calma del peccato e della mondanità. È vero che si sarebbe felici di non aver bisogno d’un tale uragano; ma quand’esso è necessario, quando il nemico cerca di stendere sul popolo di Dio lo scettro di piombo d’un riposo profano, si è riconoscenti se si trova abbastanza energia per interrompere un tale riposo. Se non ci fosse stato un Elia in Israele ai giorni di Achab e di Izebel, se tutti fossero stati come Abdia, o gli altri settemila, Baal e i suoi profeti avrebbero esercitato un’autorità assoluta e non contestata sul popolo. Ma Iddio suscitò un uomo poco curante dei suoi propri agi, né degli agi della sua nazione. Uno che non temeva di far fronte, nel timore dell’Eterno, alla terribile truppa di quattrocentocinquanta profeti, la cui esistenza dipendeva dall’accecamento del popolo. Ma ci voleva molto vigore ed energia spirituale; occorrevano profonde e potenti convinzioni della realtà della verità divina, un’intelligenza chiara dello stato basso e degradato d’Israele, per rendere un uomo capace di lasciare il suo tranquillo ritiro di Sarepta e gettarsi in mezzo ai profeti di Baal, attirando su di sé da ogni lato una terribile tempesta d’opposizione. Elia avrebbe potuto, per parlare secondo l’uomo, vivere in perfetta pace nella sua solitudine, se si fosse accontentato di lasciar Baal regnare da solo e avesse acconsentito a vedere intatte le fortezze dell’idolatria. Ma non poteva agire così, perciò uscì incontro al furioso Achab, con queste solenni e penetranti parole: «Non io metto sossopra Israele, ma tu e la casa di tuo padre, perché avete abbandonato i comandamenti dell’Eterno, e tu sei andato dietro ai Baali». Era risalire alla vera sorgente del male. L’allontanamento da Dio e dai suoi santi comandamenti aveva prodotto tutto quel caos e quello stato d’angoscia. Gli uomini sono sempre propensi a dimenticare il peccato che ha prodotto il turbamento; ma la vera sapienza porta sempre a risalire alle cause.
Così, quando delle false dottrine si sono insidiosamente introdotte, un uomo fedele che si sentisse chiamato ad opporvisi con fermezza e decisione può contare in anticipo d’essere considerato come provocatore di disordine e causa dello scompiglio che seguirà al suo intervento; ma le menti intelligenti e riflessive comprenderanno che lo scompiglio proviene non da chi si è fedelmente messo alla breccia per la verità e contro l’errore, bensì da colui che ha introdotto l’errore e da quelli che l’hanno ricevuto e sostenuto. Naturalmente, il difensore della verità avrà bisogno di vegliare sul suo spirito e sul suo temperamento, per agire con equilibrio e sapienza. Parecchi di quelli che si sono messi avanti, in sincerità di cuore, per difendere qualche verità trascurata o attaccata, hanno poi fallito a causa di un modo d’agire criticabile, e hanno così in gran parte paralizzato la loro preziosa testimonianza. Il loro abile nemico, il Diavolo, è sempre pronto a far leva sulla grettezza di spirito e sul falso giudizio degli uomini, conducendoli a soffermarsi su povere infermità di carattere e a perdere di vista gli importanti principi in questione e la sincerità che anima il servitore di Dio.
Ma il nostro profeta entrava nell’arena bene armato; era uscito dal nascondiglio segreto dell’Altissimo; aveva imparato nella solitudine a giudicarsi e a vincere se stesso, ciò che solo poteva qualificarlo per le scene solenni nelle quali stava per entrare. Elia non era un disputatore focoso; era stato troppo a lungo nel segreto della presenza divina; il suo spirito era stato benedetto e reso serio per poter in seguito affrontare l’armata dei profeti di Baal. Ecco perché si tiene dinanzi a loro con santa elevatezza, nella dignità e nella calma, che caratterizzano tutte le azioni di questo profeta. Non vediamo in lui né precipitazione, né turbamento, né esitazione. Ora, è in tali circostanze che si può veramente giudicare lo spirito d’un uomo. Nulla, se non la forza potente di Dio, avrebbe potuto mantenere Elia ritto nella sua straordinaria posizione sul monte Carmel. «Elia era un uomo avente le stesse passioni che noi», ci dice. Ora, poiché era il solo del suo tempo che avesse abbastanza forza morale per prendere pubblicamente la difesa di Dio contro la potenza dominante dell’idolatria, il nemico avrebbe potuto suggerire al suo povero cuore dei pensieri come questo: «Che grande uomo tu sei, tu che solo osi metterti avanti come il campione dell’antica fede d’Israele!». Ma Iddio guardava il suo diletto servitore; e lo sostenne perché era il suo servitore ed il suo testimone. E sarà sempre così. Il Signore rimane sempre vicino a quelli che stanno vicini a Lui. Se Abdia si fosse pronunciato contro le vie d’Achab e di Izebel, il Signore l’avrebbe approvato e sostenuto nella sua opposizione, in modo che, invece d’essere il servitore d’Achab, sarebbe stato il compagno d’opera di Elia nella grande riforma.
Caro lettore cristiano, aspiriamo ad una posiziona migliore di quella di Abdia. Non lasciamoci incatenare alla terra con una volontaria associazione coi sistemi o i piani del mondo. La nostra patria è il cielo; là è anche la nostra speranza. Noi non siamo del mondo; Gesù ci ha comprati e ce ne ha liberati, affinché brilliamo come luminari e camminiamo come esseri celesti, attraversando questo mondo per recarci al nostro riposo del cielo.
Tuttavia non era soltanto nel suo comportamento e nei suoi costumi che Elia camminava come un servitore di Dio; si vedeva che era ammaestrato da Dio sui principi che dovevano servire di base alla riforma divenuta ormai indispensabile. Il cammino e l’attitudine individuali servirebbero poco se non fossero accompagnate da una vera fede. Sarebbe facile portare una cintura di cuoio e assumere un atteggiamento solenne e grave; ma nulla, salvo l’intelligenza spirituale dei principi divini, renderà mai qualcuno atto ad esercitare un’influenza riformatrice sui suoi contemporanei. Elia possedeva tutte le qualità necessarie per l’opera che doveva compiere. E il suo cammino e la sua fede erano quelle che convenivano ad un grande riformatore.
6. Elia sul monte Carmel — 1 Re 18:20-46
6.1 La disfatta dei profeti di Baal
Elia dice dunque ad Achab: «Manda ora a far radunare tutto Israele presso di me sul monte Carmel, insieme ai quattrocentocinquanta profeti di Baal ed ai quattrocento profeti di Astarte che mangiano alla mensa di Izebel». È deciso a mettere Baal e l’Iddio d’Israele in presenza l’uno dell’altro, di fronte a tutta la nazione. Egli è convinto che occorre metter fine a un tale stato di cose con una prova decisiva. Che energia potente in quelle parole rivolta alle folle radunate d’Israele: «Fino a quando zoppicherete voi dai due lati? Se l’Eterno è Dio, seguitelo; se poi è Baal, seguite lui». Nulla di più semplice. I profeti di Baal non possono né contraddire né opporsi a quell’appello. Tutto ciò che il profeta chiedeva era una decisione. O da un lato, o dall’altro; non si guadagnava nulla in un cammino zoppicante e vacillante. «Oh, fossi tu pur freddo o fervente!» (Apoc. 3:15).
In Israele c’erano settemila uomini che non avevano piegato le ginocchia dinanzi a Baal e, possiamo supporlo, aspettavano il momento che qualche mano coraggiosa inalberasse lo stendardo della verità, per adunarsi attorno a lui. Sembra che nessuno di loro avesse avuto la forza di fare un tale passo, ma dovevano certamente rallegrarsi nel vedere in Elia l’ardimento e la capacità di farlo. In tempi di tenebre profonde, ci sono sempre stati dei santi che facevano cordoglio in segreto sul male e sull’apostasia che li circondavano, e sospiravano verso l’apparizione d’una luce spirituale che erano pronti a salutare con gioia. Iddio non si è mai lasciato senza testimonianza; e sappiamo che per quanto oscure e fitte fossero le tenebre, in tutti i tempi vi sono state delle stelle, benché sovente la loro luce fosse poco notata. Così, era ai giorni di Elia. Vi erano settemila di queste stelle, la cui luce era oscurata dal buio fitto dell’idolatria; una sola luce però aveva potenza e splendore sufficiente per dissipare l’oscurità e creare una sfera nella quale le altre potessero splendere. Elia il Tishbita che ora contempliamo assale con potenza e splendore celesti la fortezza stessa di Baal, rovesciando la tavola di Izebel (*), incidendo la parola follia su tutto il sistema di culto idolatra, e compiendo, per mezzo della grazia di Dio, un importante cambiamento morale nella nazione, conducendo numerose migliaia d’Israele a prostrarsi in terra in un sentimento di vera umiliazione, e mescolando il sangue dei profeti di Baal alle acque del Chison.
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(*) La falsa religione ha sempre ricercato il favore del mondo; mentre il vero cristianesimo è sempre stato tanto più puro e più vivente quanto più il mondo gli è stato contrario. I profeti di Astarte mangiavano alla tavola di Izebel. Ma era la sua tavola, e non il bene dell’anima sua che essi cercavano.
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Che grazia del Signore l’aver suscitato un tale liberatore per il suo popolo sedotto e ingannato! Che colpo mortale per i profeti di Baal e che triste quadro ci offrono! Invocano il loro dio «a gran voce e facendosi delle incisioni addosso, secondo il loro costume, con delle spade e delle picche, finché grondavan sangue» e gridano sempre più forte con un fervore completamente inutile: «O Baal, rispondici!». Ma Baal non poteva né udire né rispondere! Il vero profeta, nel sentimento intimo che ha del peccato e della follia di tutta quella scena, si beffa di loro; essi gridano ancor di più, saltano con uno zelo frenetico intorno all’altare che avevano fatto; ma non vi fu né voce, né risposta. Era giunto il momento di smascherarli alla presenza di tutto il popolo. I loro artifici avevano attirato su di loro una imminente rovina; le mani della gente del popolo che, grazie alla loro influenza, si erano così sovente alzate nel culto diabolico, furono ad un tratto pronte ad afferrarli e far loro subire il castigo che avevano meritato.
Come sono solenni e costantemente vere le parole di Geremia: «Maledetto l’uomo il cui cuore si ritrae dall’Eterno!». Poco importa in chi o in che cosa poniamo la nostra fiducia, se in un sistema ecclesiastico o in ordinamenti religiosi; è sempre il cuore che si ritrae da Dio, e questo attira una maledizione. Quando giungerà l’ultimo combattimento, invano questo Baal sarà invocato: non vi sarà né voce né alcuno che risponderà.
Com’è terribile questo allontanamento dall’Iddio vivente! Come sarebbe spaventoso se scoprissimo, alla fine della nostra carriera, che ci siamo appoggiati su una canna rotta! O lettore, se non avete ancora trovato, per la vostra coscienza colpevole, una pace durevole e salda nel sangue espiatorio di Gesù e se provate nel vostro cuore una sensazione di timore al pensiero del vostro incontro con Dio, permettete che vi rivolga la domanda del profeta: «Fino a quando zoppicherete voi dai due lati?». Perché state lontani quando Gesù vi invita a venire a Lui e a prendere il suo giogo su voi? Prestate orecchio alle seguenti parole: «Poiché quando ho chiamato, avete rifiutato d’ascoltare, quando ho steso la mano nessuno vi ha badato, anzi avete respinto ogni mio consiglio e della mia correzione non ne avete voluto sapere, anch’io mi riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando lo spavento vi piomberà addosso, quando la sventura v’investirà come un uragano e vi cadranno addosso la distretta e l’angoscia» (Proverbi 1:24-27). Terribili parole! spaventevoli al di là d’ogni pensiero! Ma quanto più temibile sarà la realtà! Lettore, andate a Gesù, recatevi alla sorgente aperta per purificare il peccato, per trovarvi un rifugio e la pace, prima che l’uragano dell’ira divina e del giudizio piombi sul vostro capo. Quando «il padrone della casa si sarà alzato, e avrà chiuso la porta», se voi siete fuori sarete perduto, per sempre perduto.
6.2 L’unità del popolo, un solido fondamento
Giungiamo ora ad un’altra scena del quadro. I profeti di Baal avevano subito una disfatta terribile; il loro sistema era stato manifestato come una volgare illusione, il tempio dell’errore era interamente crollato; non rimaneva ora che innalzare il magnifico edificio della verità alla vista di quelli che erano stati così a lungo schiavi della vanità e della menzogna.
«Allora Elia disse a tutto il popolo: Accostatevi a me! E tutto il popolo s’accostò a lui; ed Elia restaurò l’altare dell’Eterno che era stato demolito. Poi prese dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei figliuoli di Giacobbe, al quale l’Eterno aveva detto: Il tuo nome sarà Israele. E con quelle pietre edificò un altare al nome dell’Eterno». È sempre buona cosa aspettare pazientemente, anche fino a che il male e l’errore trovino il loro livello. Il tempo non mancherà di mettere in luce la verità; e quand’anche l’errore si rivestisse accuratamente dei venerabili abiti della tradizione, il tempo perverrà a spogliarla dei suoi vestiti menzogneri, e a mostrarla tale quale è nella sua orrida nudità. Elia lo sentiva, perciò poteva rimanere calmo e lasciar scorrere tutti i granelli di sabbia della clessidra di Baal prima di presentare ad Israele il modello d’una via più eccellente.
Occorre un’intelligenza profonda e reale dei principi divini per rendere qualcuno capace di seguire questo cammino di pazienza. Se il nostro profeta fosse stato un uomo dallo spirito leggero o poco illuminato, si sarebbe affrettato a sviluppare il suo piano e avrebbe sollevato una tempesta d’opposizione contro i suoi antagonisti. Ma uno spirito dotato d’una vera elevatezza non agisce mai con precipitazione, non è mai turbato. Ha trovato un centro attorno al quale può muoversi, e facendolo si sente egli stesso innalzato al disopra della portata d’ogni altra influenza.
Tale era Elia, quest’uomo che in quasi tutte le scene della sua straordinaria carriera seppe conservare quella celeste dignità che dovrebbe essere ricercata ardentemente da tutti i servitori del Signore. Quando era sul monte Carmel, contemplando gli esercizi faticosi e senza frutto dei profeti di Baal, stava impassibile nella piena consapevolezza della sua missione celeste, e non soltanto la sua attitudine ma anche i principi che lo facevano agire lo segnalavano come un profeta dell’Eterno.
Quali erano dunque i principi secondo i quali Elia agiva? Erano quelli su cui era basata l’unità della nazione. La prima cosa che fa è restaurare «l’altare dell’Eterno che era stato demolito». Era quello il centro d’Israele, e a quello ogni riformatore vero doveva anzitutto aver riguardo. Quelli che cercano di compiere una mezza riforma possono accontentarsi di demolire ciò che è falso senza andare più oltre, senza far nulla per porre un fondamento solido su cui si possa edificare il nuovo edificio. Ma una tale riforma non terrà; essa racchiude in sé troppo del vecchio lievito per potere elevarsi alla posizione di testimonianza. Non soltanto doveva essere demolito l’altare di Baal, ma l’altare del Signore doveva essere innalzato. Ci sono delle persone che acconsentirebbero ad offrire sacrifizi al Signore sopra l’altare di Baal; cioè vorrebbero conservare un sistema falso, accontentandosi di dargli un nome diverso. Ma questi accomodamenti umani non sono che un laccio; il solo centro d’unità che oggi Iddio possa riconoscere è il nome di Gesù, solo ed esclusivamente il nome di Gesù. Non si possono considerare i figli di Dio come membri d’un sistema, ma soltanto come membra di Cristo. Iddio li vede così; ed essi devono prendere apertamente questa posizione benedetta.
Nei suoi atti sul monte Carmel Elia non trascura di riconoscere l’unità intatta d’Israele. Prende dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei figli di Giacobbe, a cui era stata indirizzata la parola dell’Eterno, dicendo: «Israele sarà il tuo nome». Era questo il vero fondamento. Riconoscere le dodici tribù d’Israele in un tempo in cui erano divise, indebolite, degradate, era la prova d’un’alta comunione col pensiero di Dio riguardo al suo popolo. Ed è ciò che lo Spirito metterà sempre nel cuore. Le dodici tribù possono essere disperse e divise a causa della loro debolezza e della loro follia; nondimeno l’Iddio d’Israele non può considerarle che nella perfetta unità che un tempo realizzavano, e che realizzeranno di nuovo allorché, riunite sotto il vero Davide, Cristo, percorreranno in santa comunione i cortili dell’Eterno. Ebbene, è questo che, per lo Spirito Santo, il profeta Elia vedeva. Con l’occhio della fede penetrava al di là del lungo e triste periodo dell’umiliante asservimento d’Israele, e lo contemplava nella sua vera unità; non più Giuda ed Efraim, ma Israele, poiché ecco la parola: «Israele sarà il tuo nome». La sua mente non era occupata di ciò che era Israele, ma di quel che Dio aveva detto. L’incredulità avrebbe potuto obiettare che era presunzione parlare delle dodici tribù, quando non ce n’erano che dieci; parlare di una unità intatta, quando non c’era che divisione. Questo sarà sempre il linguaggio dell’incredulità che non può mai attaccarsi fermamente ai pensieri di Dio, né vedere le cose come Egli le vede. Ma è il beato privilegio dell’uomo di fede riposarsi in pace sulla testimonianza immutabile di Dio, che non può essere annullata dalla colpevole follia dell’uomo. «Israele sarà il tuo nome». Preziosa e permanente promessa! Nulla poteva distruggerla; né la puerilità di Roboamo, né l’astuta politica di Geroboamo; nemmeno la bassezza di Achab poteva impedire ad Elia di prendere la posizione più elevata che un Israelita potesse prendere, la posizione di adoratore ad un altare edificato con dodici pietre, secondo i nomi delle dodici tribù d’Israele.
6.3 L’unità della Chiesa agli occhi di Dio
Quaggiù v’è grande abbondanza di sette, di religioni; la professione religiosa la si trova dappertutto, come pure la controversia su punti di dottrina; ma in mezzo a tutto ciò, ove possiamo contemplare la Chiesa nel suo vero carattere? La cercheremmo invano in mezzo a quell’ammasso di sette e di partiti, pieni di mondanità, d’ipocrisia, e di freddo formalismo. Il tutto forma una mostruosità, i cui orribili difetti inducono gli increduli a bestemmiare il nome di Dio ed espongono alle beffe il vero cristianesimo. Pensando al cosiddetto cristianesimo dei giorni nostri non possiamo che considerarlo come un grande albero dove ogni uccello impuro ha fatto il suo nido; non è che una massa di male ricoperta da un mantello di santa professione e sante parole. Non v’è nulla di più scandaloso per colui a cui sta a cuore la gloria di Cristo!
È vero, vi sono delle eccezioni. C’è, anche nella cristianità, un certo numero di persone che, per la grazia di Dio, non hanno contaminato le loro vesti (Apoc. 3:4); qui e là, fra le ceneri fumanti, si può scorgere la luce di una fiammella. Vi sono alcuni che desiderano invocare il Signore con cuore puro; voglia Dio aumentarli di numero, ma anche condurli a camminare insieme, in una santa e caritatevole armonia, affinché il diavolo non abbia ad attirare questo residuo sul suo proprio terreno, e vi sia ancora una testimonianza per il nostro glorioso Maestro, anche in mezzo ai suoi nemici, aperti o segreti che siano.
Il credente non è mai visto da solo. Il Signore vuole i suoi uniti insieme e nessun cristiano può e deve rifiutarsi di sottomettersi a questo volere del Signore (*); ma da ciò proviene la necessità di avere un centro attorno al quale i cristiani possano, come tali, radunarsi, e questo centro è Cristo.
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(*) Vedere Ebrei 10:25.
Il motivo di questa ricerca d’isolamento dei giorni nostri, si trova in quell’egoismo raffinato contro cui dobbiamo tutti vegliare. Non ci si vuole identificare con la debolezza e l’imperfezione che, purtroppo, non mancheranno mai in mezzo a una riunione di cristiani, e che potrebbero compromettere il nostro nome e la nostra reputazione. Poter dire: «Non appartengo a nessun partito!». Consideriamo la fede di Mosè, il quale «scelse piuttosto d’essere maltrattato col popolo di Dio». Avrebbe potuto rimanere alla corte di Faraone, ed evitare tutto l’obbrobrio legato alla sua identificazione con un tale popolo; ma lo Spirito di Cristo lo conduceva a scegliere l’obbrobrio di Cristo, che proveniva proprio dall’unione col suo popolo.
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Ma è cosa infinitamente preziosa, nonostante il quadro umiliante che la Chiesa professante presenta, che il credente possa sempre trovare del riposo ricordando ciò che la Chiesa è lassù. Il pensiero del suo stato celeste consola, rallegra e sostiene l’anima in mezzo alle circostanze più scoraggianti. Abbiamo molto mancato non ritenendo in pratica la nostra posizione celeste; ma Iddio non ha mancato, e l’ha serbata e conservata per noi. Sforziamoci di realizzare, dunque, ciò che la vera Chiesa deve essere; se rinunciamo a questo, saremo lasciati alla povera alternativa di fare una scelta fra le numerose sette che pullulano nella cristianità.
6.4 Dio risponde alla fede di Elia
Ora, in Elia abbiamo un esempio della potenza della fede nella promessa di Dio, in un tempo in cui tutto, attorno a lui, sembrava contrario. Questo lo mette in grado di elevarsi al disopra del male che lo circondava, e di costruire un altare di dodici pietre, con la stessa fiducia e la stessa sicurezza di Giosuè quando, fra gli eserciti trionfanti d’Israele, erigeva il suo trofeo sulle rive del Giordano.
Il fuoco sceso dal cielo confuse ad un tratto i profeti di Baal, confermò la fede del profeta e liberò i figli di Israele dalla triste posizione in cui si trovavano, quella di zoppicare dai due lati. Elia aveva reso la cosa più difficile, riempiendo il fosso attorno all’altare di acqua, affinché il trionfo di Dio fosse più completo; e così fu. Iddio risponderà sempre all’appello della semplice fede: «Rispondimi, o Eterno», dice il profeta, «rispondimi, affinché questo popolo riconosca che tu, o Eterno, sei Dio, e che tu sei quello che converte il loro cuore». È questa una preghiera intelligente. Non dice: «Rispondimi, affinché questo popolo conosca che io sono un vero profeta». No; il suo scopo è quello di ricondurre il popolo al Dio dei loro padri. E Iddio ascoltò, poiché subìto «cadde il fuoco dell’Eterno e consumò l’olocausto, le legna, le pietre e la polvere, e prosciugò l’acqua che era nel fosso. Tutto il popolo, veduto ciò, si gettò con la faccia a terra, e disse: L’Eterno è Dio! L’Eterno è Dio!» La verità trionfa. Il profeta, in una santa indignazione, mescola il sangue dei profeti di Baal alle acque del torrente Kison. Essendo il male giudicato, non rimane nessun ostacolo alla benedizione divina, che Elia annunzia al re Achab con le parole: «Risali, mangia e bevi, poiché già s’ode rumore di gran pioggia». Queste parole manifestano il carattere di Achab: «Mangia e bevi». Era ciò che più gli interessava; e il profeta gli recava una notizia che rispondeva così bene ai suoi desideri. Non poteva chiedergli di venire ad unirsi a lui per rendere grazie a Dio di quel glorioso trionfo sul male, poiché sapeva che una tale richiesta non avrebbe incontrato una eco.
Erano, è vero, entrambi Israeliti; ma l’uno era in comunione con Dio, mentre l’altro era lo schiavo del peccato; mentre Achab trovava il suo piacere «a mangiare e a bere», Elia cercava la sua gioia nella solitudine con Dio. Godimento celeste, santo e benedetto! Chi non preferirebbe essere un santo in comunione col Signore, piuttosto che un sensuale all’inseguimento dei suoi volgari piaceri?
Ma notate la differenza di condotta di Elia in presenza dell’uomo e in presenza di Dio. Egli aveva incontrato Abdia — un santo in una falsa posizione — con un’aria di dignità e di elevatezza; aveva incontrato Achab con giusta severità; era apparso in mezzo alle migliaia dei suoi fratelli sviati, con la fermezza e la grazia d’un vero riformatore; ed infine aveva affrontato i malvagi profeti di Baal, dapprima con beffe, poi con la spada del castigo. Così si era comportato in presenza dell’uomo. Ma come si comportò davanti a Dio? «Gettatosi a terra, si mise la faccia fra le ginocchia»! Il profeta conosceva il suo posto davanti a Dio e davanti all’uomo. In presenza dell’uomo agiva, secondo il caso, nella sapienza dello Spirito; in presenza di Dio, si prostrava con sincera e rispettosa umiltà. Possano tutti i servitori del Signore avere lo stesso discernimento in tutte le loro diverse circostanze.
7. Elia nel deserto e sul monte Horeb — 1 Re 19:1-14
7.1 Le difficoltà non sono inutili nella vita del credente
Fra quanti hanno avuto un posto eminente nella storia della Chiesa di Cristo pochi sono quelli la cui carriera non sia stata contrassegnata da grandi variazioni; si può parlare di loro come di «quelli che scendono sul mare nelle navi, che trafficano sulle grandi acque: salgono al cielo; scendono negli abissi; l’anima loro si strugge per l’angoscia» (Salmo 107). Li vediamo talvolta sul monte, altre volte in fondo alla valle; talvolta felici al sole, tal altra battuti dalla tempesta. Ma ogni credente conosce qualcosa di queste vicissitudini. Il sentiero che attraversa il deserto è rude e scabroso; ed è bene che sia così; nessun cristiano preferirebbe essere posto in luoghi sdrucciolevoli piuttosto che su un sentiero scabroso.
Il Signore vede che abbiamo bisogno di essere esercitati dalle difficoltà, non solo affinché troviamo, alla fine, il riposo ancora più dolce, ma anche perché siamo disciplinati, istruiti e resi atti al posto che dobbiamo occupare.
Nel Regno non avremo bisogno di prove, ma avremo bisogno di quei doni di grazia e di quelle disposizioni d’animo che si vanno formando in mezzo alle tribolazioni e alle sofferenze del deserto. Saremo allora costretti a riconoscere che la nostra strada quaggiù non è stata «troppo» rude; che non uno solo dei penosi esercizi che sono stati la nostra parte, è stato inutile. Ora vediamo le cose oscuramente, e siamo sovente incapaci a scoprire la necessità o il motivo di molte delle nostre prove; inoltre, la nostra natura impaziente è troppo spesso pronta a recalcitrare e a mormorare; ma se ci è dato d’essere pazienti, potremo dire senza esitazione e con tutto il cuore: «Ci ha condotti per la diritta via, per giungere in una città da abitare» (Salme 107:7).
7.2 Izebel e Achab, strumenti di Satana
Questa corrente di pensieri ci è stata suggerita dalle circostanze attraversate da Elia al cap. 19. Egli non prevedeva certo la spaventevole tempesta che stava per piombare su di lui; era disceso dalla sommità del Carmel, e nell’energia dello Spirito era corso innanzi ad Achab sul suo carro, all’ingresso di Izreel; ma ora doveva ricevere un duro colpo da parte di una persona che fino a quel momento s’era tenuta indietro: la malvagia Izebel. Si era tenuta in disparte ma non era stata in ozio. Aveva influenzato il suo debole marito; si era servita della potenza di questi per venire a capo del suoi empi disegni, e aveva aperto la sua casa ai profeti di Baal che riceveva alla sua tavola.
Non bisogna considerare Izebel semplicemente come un individuo, ma come la personificazione d’un principio che di secolo in secolo ha spiegato la sua efficacia in opposizione alla verità di Dio, e che appare, in una piena maturità, nella figura della grande meretrice di cui è parlato in Apocalisse al cap. 17. Lo spirito di Izebel è uno spirito persecutore attivo, energico, perseverante, in cui è facile riconoscere un vigore satanico.
Lo spirito di Achab è ben diverso. In Achab vediamo un uomo preoccupato di soddisfare i suoi desideri carnali e mondani, e per nulla preoccupato delle cose di Dio. Non voleva darsi la pena di decidere fra i diritti dell’Eterno e le pretese di Baal. Gli uni e gli altri erano uguali ai suoi occhi. Era un tale uomo che Izebel poteva piegare come voleva. Aveva cura di procurargli tutto ciò che poteva soddisfare i suoi desideri, mentre adoperava con diabolica sagacia il suo potere di re in opposizione alla verità di Dio.
Si troveranno sempre degli Achab per essere strumenti delle Izebel. Così, nell’Apocalisse ove tutti i principi che sono stati, che sono, o che saranno all’opera son visti nella loro piena maturità, vediamo la meretrice seduta sulla bestia, cioè la religione corrotta che domina la potenza secolare. È lo spirito di Izebel pienamente sviluppato. Ma c’è una voce solenne che si rivolge alla generazione attuale: «Chi ha orecchie da udire, oda». Gli uomini diventano sempre più indifferenti agli interessi e ai destini della verità di Dio sulla terra. Poco importa loro di Cristo o di Belial, purché non siano ostacolati nei loro movimenti gli ingranaggi dell’enorme e paurosa macchina dell’utilitarismo. Tale è lo spirito, tali sono le tendenze del nostro secolo. Appena lo spirito di Izebel si leverà, precipiterà gli uomini in una via sulla quale già si sono incamminati, una via che sfocerà infallibilmente nella morte e nelle tenebre eterne. «Chi ha orecchie da udire, oda».
«E Achab raccontò a Izebel tutto quello che Elia aveva fatto e come aveva ucciso di spada tutti i profeti». Notate le parole: «E Achab raccontò a Izebel»; quell’affare non lo coinvolgeva a tal punto da condurlo a prendervi una parte attiva. Ai suoi occhi, forse, l’abbondanza di pioggia sembrava in connessione con la morte dei profeti; perciò aveva potuto rimanere tranquillamente in disparte a contemplare quel massacro. Che cos’era Baal per lui, o che cos’era l’Eterno? Nulla. Quando un Achab, e tutti quelli che gli assomigliano, hanno da «mangiare e da bere», non si preoccupano affatto di tutte le questioni relative alla pietà e alla verità. È questa una volgare abominazione, una sensualità deplorevole e insensata.
Figli di questo secolo, voi i cui sentimenti sono espressi da queste parole: «Mangiamo e beviamo, poiché domani morremo», pensate ad Achab, ricordatevi la sua spaventevole fine, la fine di quella vita fatta di mangiare e di bere: «I cani leccarono il suo sangue». E riguardo all’anima sua l’eternità ne rivelerà i destini spaventevoli.
7.3 La crisi di Elia
In Izebel vediamo una donna a cui non mancava né l’interesse, né l’energia. Per lei, la controversia fra l’Eterno e Baal era della più grande importanza ed essa era risoluta ad agire con decisione. «E Izebel mandò un messo ad Elia per dirgli: Gli dèi mi trattino con tutto il loro rigore, se domani a quest’ora non farò della vita tua quel che tu hai fatto della vita di ognuno di quelli». Ecco ora il profeta chiamato a sopportare l’uragano della persecuzione. Lo si era visto, al monte Carmel, tener testa a tutti i profeti di Baal; fin qui la sua carriera non era stata che un trionfo, risultato della sua comunione con Dio; ma ora gli sembra che il suo sole tramonti e che il suo orizzonte diventi oscuro e lugubre. «Elia vedendo questo, si levò e se ne andò per salvarsi la vita; giunse a Beer-Sceba, che appartiene a Giuda, e vi lasciò il suo servo; ma egli s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino, andò a sedersi sotto una ginestra, ed espresse il desiderio di morire, dicendo: Basta! Prendi ora, o Eterno, l’anima mia, poiché io non valgo meglio dei miei padri». Lo spirito d’Elia è abbattuto; egli non vede le cose che attraverso l’oscura nuvola da cui è avvolto; tutto il suo lavoro gli appare come fatto per il nulla e senza frutto; non gli rimane che coricarsi e morire. Il suo cuore è spossato dagli sforzi infruttuosi per ricondurre la nazione all’antica fede e desidera ardentemente entrare nel riposo. Ma in tutto ciò scorgiamo gli effetti dell’impazienza e dell’incredulità. Elia non parlava del suo desiderio di morire quand’era sul monte Carmel. Là tutto era trionfo; là sapeva di compiere un’opera, sapeva di essere utile; di conseguenza il pensiero della morte non gli si presentava alla mente.
Ma il Signore voleva mostrare al suo servitore non solo ciò che doveva fare, ma anche ciò che doveva soffrire. «Fare», ci piace abbastanza, ma a «soffrire» non siamo tanto disposti. Eppure il Signore è tanto glorificato da chi soffre pazientemente quanto dal servitore più attivo. È ciò che il nostro profeta avrebbe dovuto ricordare. Ma, ahimé, i nostri cuori possono comprenderlo e simpatizzare con lui nel suo stato di tristezza e di scoraggiamento. Sono rarissimi i servitori del Signore che non abbiano, almeno una volta, desiderato di abbandonare le fatiche della lotta, soprattutto in tempi in cui il loro lavoro e la loro testimonianza sembrano vani. Ma bisogna aspettare il tempo di Dio, e fino allora cercare di proseguire la corsa in un servizio fedele, paziente e senza mormorio. Il pensiero del riposo è dolce per l’uomo che ha molto lavorato; è dolce pensare alle «molte stanze» preparate dal sangue del nostro Signore Gesù Cristo; al tempo in cui il nostro Dio di misericordia asciugherà ogni lacrima dagli occhi nostri; è dolce pensare a quei verdi pascoli e a quelle sorgenti d’acqua viva, a cui l’Agnello condurrà il suo gregge durante le età future di gloria. Però non abbiamo il diritto di dire: «O Signore, prendi ora la mia vita!». È soltanto uno spirito d’impazienza che può dettare un tale linguaggio. Come sono diverse le parole dell’apostolo Paolo: «Io sono stretto dai due lati; ho il desiderio di partire e d’essere con Cristo, perché è cosa di gran lunga migliore; ma il mio rimanere nella carne è più necessario per voi. Ed ho questa ferma fiducia ch’io rimarrò e dimorerò con tutti voi per il vostro progresso e per la gioia della vostra fede» (Filippesi 1:23-26).
C’è in queste parole uno spirito veramente cristiano. Il servitore della Chiesa deve cercare il bene della Chiesa e non il proprio vantaggio. Se Paolo non avesse pensato che a sé, non avrebbe voluto rimanere un momento di più sulla terra; ma quando considerava lo stato e i bisogni della Chiesa, desiderava continuare a rimanere per contribuire alla sua gioia e ai progressi della fede dei santi. Avrebbe dovuto essere quello anche il desiderio di Elia; ma egli falli in questo. È fuggito nel deserto in un momento di debolezza per salvare la propria vita; e là esprime il desiderio che la sua vita gli sia tolta, unicamente per sfuggire alle prove che la posizione di fedeltà gli attiravano.
Tutto ciò può offrirci un’utile lezione.
7.4 I danni dell’«incredulità» nel radunamento dei credenti
L’incredulità ci allontana sempre dal posto della testimonianza e dal servizio. Finché Elia camminò per fede, fu al suo posto di servitore e di testimone; ma appena la fede sparì, abbandonò quel posto e se ne fuggì nel deserto. L’incredulità ci rende sempre inadatti al servizio e fa di noi dei servitori disutili. È quel che dovremmo ricordarci nel tempo in cui viviamo e nel quale tante persone lasciano il sentiero della fedeltà e se ne allontanano. Vediamo parecchi credenti che un tempo avevano camminato in quel sentiero in modo deciso, perché avevano compreso (così dicevano) questa grande verità: la presenza dello Spirito Santo nell’Assemblea. Ora, quando questa verità è realmente capita e realizzata, affranca il cristiano dall’autorità dell’uomo in materia di fede e lo conduce fuori dai sistemi che riconoscono e sostengono questa autorità. Se è lo Spirito Santo che governa nell’Assemblea, l’uomo non ha il diritto di intervenire in questo governo; non ha il diritto di istituire delle cerimonie; poiché, facendolo, usurpa con presunzione le prerogative divine. Se un uomo crede di cuore a questa importante verità, essa avrà influenza sulla sua condotta, si sentirà chiamato a separarsi da ogni sistema nel quale questa verità è in pratica negata. Il primo dovere dell’uomo è di «cessare di fare il male», ma poi deve «imparare a fare il bene». Tuttavia, parecchi di quelli che professarono un tempo di aver compreso questa verità, hanno perduto la fiducia in essa e sono tornati ai sistemi da cui erano usciti. Come Elia, non hanno realizzato i risultati che si aspettavano; e questo li ha allontanati e li ha portati a dire con scoraggiamento: «Basta!». Così più d’un cuore è oggi curvato verso terra sotto il peso della tristezza. In molti casi l’«io» si è manifestato nel modo più umiliante, e il nemico si è affrettato a trarre profitto da tutto questo per scoraggiare quelli che desideravano rimanere fermi in una chiara testimonianza per Cristo. Facciamo bene attenzione: è l’incredulità che spinse Elia a fuggire nel deserto, ed è pure per incredulità che un cristiano abbandona la posizione di testimonianza.
L’uomo può mancare, anche nei suoi migliori sforzi per mettere in pratica la verità di Dio; ma i falli degli uomini possono forse annullare la verità di Dio? «Così non sia! Sia Iddio riconosciuto verace e ogni uomo bugiardo». Se quelli che fanno professione di attaccamento alla dottrina dell’unità della Chiesa si dividono in vari partiti; se quelli che mantengono la dottrina della presenza dello Spirito nell’Assemblea per ciò che concerne il governo e il ministerio, s’appoggiano, in pratica, sull’autorità dell’uomo; se quelli che dicono di aspettare l’apparizione personale e il regno del Signore Gesù, ricercano con avidità le cose di questo mondo; tutte queste incoerenze e contraddizioni possono forse annullare quei principi celesti? Certamente no. Grazie a Dio, la verità sarà la verità sino alla fine. Iddio sarà sempre Dio, quand’anche l’uomo si mostrasse mille volte più imperfetto di quel che è. Così dunque, invece di abbandonarci allo scoraggiamento, perché l’uomo ha mancato nell’uso che doveva fare della verità di Dio, il nostro compito è ugualmente quello di tener fermamente questa verità come il solo puntello delle anime nostre e in mezzo alla rovina e al naufragio universali. Se Elia fosse stato saldo nella verità che riempiva l’anima sua, quand’era sul monte Carmel, non lo si sarebbe mai visto sotto la ginestra, non lo si sarebbe mai udito pronunciare parole come queste: «Prendi ora l’anima mia; poiché non sono migliore dei miei padri».
7.5 Sotto la ginestra e nella spelonca. Ma Dio lo trova.
Il Signore può incontrare in grazia il suo povero servitore, anche se dorme sotto una ginestra. Egli sa di che cosa siamo fatti, si ricorda che sialmo polvere. Però, invece di esaudire la richiesta del suo servitore stanco ed abbattuto, cerca di sostenerlo e di fortificarlo in vista di nuove lotte. Non è questo «il modo d’agire degli uomini» (2 Samuele 7:19); ma è il modo d’agire di Dio, le cui vie non sono le nostre vie, e i cui pensieri non sono i nostri pensieri. L’uomo agisce sovente con rigore e severità verso il suo simile, senza nessuna indulgenza per lui; Iddio invece agisce sempre con la più tenera compassione verso i suoi figliuoli, Egli comprendeva Elia; si ricordava della fedeltà con cui aveva poco prima lottato per il suo Nome e per la sua verità; perciò gli viene in aiuto nel tempo del suo abbattimento. «Ed Elia si coricò e si addormentò sotto la ginestra; quand’ecco un angelo lo toccò e gli disse: Alzati e mangia. Egli guardò e vide presso il suo capo una focaccia cotta su delle pietre calde e una brocca d’acqua. Egli mangiò e bevve poi si coricò di nuovo. E l’angelo dell’Eterno tornò la seconda volta, lo toccò e disse: Alzati e mangia, poiché il cammino è troppo lungo per te. Egli s’alzò, mangiò e bevve; e per la forza che quel cibo gli dette, camminò quaranta giorni e quaranta notti, fino a Horeb, il monte di Dio» (cap. 19:5-8). Il Signore conosce meglio di noi ciò che abbiamo da fare e nella sua grazia ci fortifica secondo il bisogno per l’opera che dobbiamo compiere. Il profeta afflitto desiderava dormire, ma il Signore voleva fortificarlo per un ulteriore servizio. Così pure i discepoli, nell’orto di Getsemani, abbattuti da profonda tristezza alla vista dell’apparente naufragio di tutte le speranze che avevano così ardentemente accarezzate, si lasciano cogliere da un sonno profondo, mentre il loro Maestro voleva che avessero i lombi cinti e le braccia raffermate per le scene terribili in cui dovevano entrare. Ma Elia mangiò e bevve, e così fortificato camminò fino a Horeb, il monte di Dio, il monte della legge. Là pure dobbiamo segnalare i tristi effetti d’uno spirito impaziente. Elia sembra deciso a lasciare definitivamente il suo posto di servizio e di testimonianza. Se non può più dormire sotto una ginestra, si nasconderà in una caverna. «E quivi entrò in una spelonca e vi passò la notte».
Quando un cristiano si permette di allontanarsi dalla posizione nella quale la fede può preservarlo, è impossibile prevedere fino a che punto può cadere. Solo la fede costante nella parola di Dio può mantenerci nel sentiero del servizio, perché per la fede l’uomo si sottomette ad aspettare la fine; ma l’incredulità, che guarda soltanto alle circostanze del momento, è impaziente e immerge l’uomo in un completo scoraggiamento. Il cristiano deve prevedere di incontrare quaggiù prove e delusioni. Sovente pensiamo al riposo e alla felicità che potremmo trovare quaggiù in una condizione diversa da quella in cui ci troviamo, ma non è che un sogno. Elia, certo, aveva sperato di vedere un immenso cambiamento morale operarsi per mezzo suo, e invece anche la sua vita è minacciata. Avrebbe dovuto esservi preparato! L’uomo che aveva, senza timore, tenuto testa ad Achab e a tutti i profeti di Baal, doveva certo essere in grado di sostenere la minaccia d’una donna. Invece no; la sua fede si era eclissata. Quando la fede abbandona qualcuno, questi ha paura persino della propria ombra. Contemplando il profeta sul monte Horeb si è indotti a chiedersi: È proprio lo stesso uomo che abbiamo visto sul monte Carmel? quello che edifica un altare di dodici pietre, e che perora in modo così trionfante la causa dell’Iddio d’Israele in presenza dei suoi fratelli? Ahimè! che misera creatura è mai l’uomo quando non è sostenuto da una fede semplice nella testimonianza di Dio! Nello stesso modo Davide poteva, ragazzo com’era, sfidare Goliath nella potenza della fede, e più tardi dire in cuor suo: «Un giorno o l’altro io perirò per le mani di Saul» (1 Samuele 27:1). La fede si pone al disopra delle circostanze e guarda a Dio; l’incredulità perde di vista Dio e non vede che le circostanze. L’incredulità dice: «Ci pareva d’esser locuste»; la fede dice «Possiamo benissimo soggiogarlo» (Numeri 13:30, 34).
Tuttavia, l’Eterno non abbandona il suo servitore nella spelonca; non cessa di seguirlo e di cercare di ricondurlo al posto che l’impazienza e l’incredulità gli hanno fatto lasciare. «Ed ecco, gli fu rivolta la parola dell’Eterno, in questi termini: Che fai tu qui, Elia?». Che rimprovero! Perché Elia si nascondeva così in una caverna? Perché aveva abbandonato l’onorevole posto di testimonianza? A causa del messaggio minaccioso di Izebel, e perché il suo ministerio non era stato riconosciuto pienamente, come egli si aspettava. Elia s’immaginava di meritare una mietitura più abbondante per tutto il suo lavoro; s’aspettava ben altro che un messaggio minaccioso ed un’apparente diserzione generale; perciò si ritirò in una caverna di montagna, posto adatto per coltivare il suo malcontento. Bisogna ammettere che vi fosse, comunque, in ciò che era accaduto, di che ferire il cuore del profeta: era uscito dal suo tranquillo rifugio di Sarepta per affrontare tutto il popolo, indottrinato da Izabel e da un’armata di preti malvagi e di falsi profeti; aveva, per la grazia di Dio, confuso questi ultimi; Iddio aveva fatto scendere il fuoco dal cielo, in risposta alta sua preghiera e tutto Israele sembrava avesse riconosciuto la verità, come egli l’aveva proclamata. Queste cose facevano nascere delle legittime speranze; eppure, dopo tutto ciò la sua vita è minacciata, non vede nessuno che si schieri con lui, è avvolto da una nube oscura; così abbandona il campo di battaglia e si nasconde in una spelonca.
7.6 «Che fai tu qui ?»
È molto più facile criticare gli altri che agire rettamente, e dobbiamo pensarci due volta quando si tratta di pronunciare un giudizio sugli atti d’un servitore di Dio, com’era Elia il Tishbita. Ad ogni modo, possiamo trarre ammaestramento e avvertimento da questa triste parte della storia del nostro profeta. Possiamo impararvi una lezione di cui abbiamo tutti molto bisogno. «Che fai tu qui?»; è una domanda che potrebbe essere rivolta a più d’uno di noi, allorché cedendo all’impazienza o all’incredulità, lasciamo il nostro posto di servizio e di testimonianza fra i nostri fratelli, per andare a «dormire» o a «nasconderci». È a tali credenti che la domanda «Che fai tu qui?» dovrebbe essere indirizzata con forza particolare. Cos’è questo modo d’agire? o piuttosto, perché agisci tu in modo da fare del male alle pecore di Gesù? Un uomo che si ritira non è inoffensivo, è nocivo; e fa torto ai suoi fratelli. Meglio sarebbe valso che non si fosse mai messo avanti come fautore di verità essenziali, che ritrarsi, dopo averlo fatto; si è molto colpevoli se, dopo aver attirato l’attenzione su alcuni grandi principi della verità divina, si finisce poi per abbandonarli. Dobbiamo aver pietà dell’ignorante, e sforzarci di istruirlo; ma colui che, avendo professato di conoscere la verità, l’abbandona più tardi non può essere considerato come qualcuno da istruire.
Ma non sono soltanto l’incredulità e i disappunti in rapporto a certe verità che spingono alcuni ad un desolante isolamento; delle delusioni, reali o apparenti, nel ministerio possono avere lo stesso effetto. E fu forse proprio questo che addolorò particolarmente Elia. Il trionfo che aveva riportato sul monte Carmel gli aveva senza dubbio fatto intuire delle speranze molto elevate, riguardo ai risultati del suo ministerio, e non era preparato a vedere il contrario. Ora, il sommo rimedio a queste due malattie morali, cioè l’incredulità riguardo a una verità importante e la delusione relativamente al nostro ministerio, è di tenere lo sguardo semplicemente e costantemente fissato su Gesù.
Sappiamo qual’era il vero stato d’animo del profeta dalla risposta al rimprovero di Dio: «Sono stato mosso da una grande gelosia per l’Eterno, per l’Iddio degli eserciti, perché i figliuoli d’Israele hanno abbandonato il tuo patto, han demolito i tuoi altari, e hanno ucciso con la spada i tuoi profeti; son rimasto io solo, e cercano di togliermi la vita». Che differenza fra questo linguaggio e quello che faceva udire al monte Carmel! Là egli difendeva la causa di Dio, qui egli perora per sé; là si sforzava di convertire i suoi fratelli presentando loro la verità di Dio, qui accusa i suoi fratelli, ed espone i loro peccati davanti a Lui (*).
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(*) È istruttivo osservare l’ordine in cui Elia espone i peccati d’Israele:
1°. «Hanno abbandonato il tuo patto»;
2°. «Han demolito i tuoi altari»;
3°. «Hanno ucciso con la spada i tuoi profeti».
Il fondamento di tutto questo male ere il seguente: essi avevano abbandonato il patto di Dio; la conseguenza naturale era la demolizione degli altari di Dio e l’abbandono del suo culto, seguito dall’uccisione dei profeti. Questa successione è facile da comprendere ed è molto vera.
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«Io sono stato mosso da una grande gelosia», ma «essi hanno abbandonato il tuo patto». Ecco il modo con cui il profeta, nella spelonca dei monte Horeb, esprimeva li suo malcontento. E si considerava, sembra, come il solo uomo che avesse fatto o facesse qualche cosa per Dio. «Son rimasto io solo, e cercano di togliermi la vita». Tutto ciò non era che la conseguenza naturale della posizione che aveva assunta, andandosene seguendo l’impulso del cuore. Appena un servitore di Dio abbandona, senza motivo, il suo posto di testimonianza e di servizio fra i suoi fratelli, comincia ad innalzar se stesso e ad accusare loro. Ma a tutti quelli che si separano dai loro fratelli, accusandoli, s’indirizza la domanda: «Che fai tu qui?».
Tuttavia, il nostro profeta è chiamato ad uscire dal suo luogo di reclusione. «Esci, fuori», gli dice Dio, «e fermati sul monte dinanzi all’Eterno. Ed ecco, passava l’Eterno. Un vento forte, impetuoso, schiantava i monti e spezzava le rocce dinanzi all’Eterno, ma l’Eterno non era nel vento. E dopo il vento, un terremoto; ma l’Eterno non era nel terremoto. E, dopo il terremoto, un fuoco; ma l’Eterno non era nel fuoco. E, dopo il fuoco, un suono dolce e sommesso». Per mezzo di queste solenni manifestazioni di sé e dei suoi atti meravigliosi, il Signore voleva insegnare al suo servitore, in modo molto espressivo, che Egli non si serviva di un solo agente per eseguire i suoi disegni. Il vento era uno di questi agenti, e un agente potente; nondimeno non era per mezzo del vento che lo scopo di Dio doveva essere raggiunto; altrettanto era del terremoto e del fuoco, i cui terribili effetti non servivano che ad aprire la via all’ultimo agente, al più debole in apparenza, cioè alla voce dolce e sommessa.
Così il profeta doveva imparare ad accontentarsi d’essere un agente, fra un gran numero d’altri. Aveva forse pensato che tutta l’opera dovesse esser fatta da lui; arrivando, come l’aveva fatto, con l’impetuosità spaventevole d’un vento violento, si sarebbe aspettato di rovesciare tutti gli ostacoli, e ricondurre la nazione al suo posto di fedeltà verso Dio. Ma quanto è difficile, anche per lo strumento più eminente, comprendere la propria nullità! Gli uomini più devoti, i meglio dotati, i più onorati, non sono che delle pietre nella struttura, dei chiodi nel vasto meccanismo, e uno che si considerasse come lo strumento per eccellenza, si troverebbe bentosto deluso. Paolo può piantare, Apollo innaffiare, ma è Dio che fa crescere. Così il profeta doveva imparare che il Signore voleva adoperare altri strumenti ancora; che aveva nel suo turcasso altre frecce ch’Egli avrebbe lanciato a suo tempo. Il vento, il terremoto e il fuoco dovevano fare ciascuno l’opera sua; dopo di che la voce dolce e sommessa avrebbe potuto essere udita distintamente e con efficacia. A Dio solo appartiene di farsi udire, anche se parla con «voce dolce e sommessa». Elia rimane nella spelonca, finché questa voce gli giunge all’orecchio; allora «si coprì il viso con mantello, uscì fuori e si fermò all’ingresso della spelonca».
8. La fine del ministero di Elia — 1 Re 19:15-21 — Il suo rapimento in cielo — 2 Re 2:1-13
Ci è facile formarci un’alta opinione di noi e del nostro ministerio, finché non siamo condotti nella presenza di Dio; allora impariamo a coprirci il viso con un mantello, cioè impariamo veramente a cancellare noi stessi. Quando Mosè si trovò nella presenza di Dio «si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Iddio» (Esodo 3:6). Quando Giobbe si vide in quella presenza, ebbe «orrore» di sé e si pentì «nella polvere e nella cenere» (Giobbe 42:6). Ed è così di tutti quelli che, in qualsiasi tempo, hanno imparato a conoscersi alla luce della presenza di Dio. Là hanno imparato la loro totale nullità; là hanno imparato che Dio poteva fare a meno di loro. Il Signore è sempre pronto a riconoscere il più piccolo atto di servizio per Lui, ma appena un servitore è orgoglioso del suo servizio, il Signore gli mostra che non ha più bisogno di lui.
8.1 Dobbiamo imparare che non siamo nulla
Fu il caso di Elia. Si era ritirato dal campo di attività e di combattimento, e aveva espresso un ardente desiderio di partire dal corpo; si credeva un testimonio isolato e unico, un servitore abbandonato e deluso; l’Eterno gli ordina di mettersi davanti a Lui, ed è là, in certo modo, che gli revoca la sua missione e gli annunzia i nomi dei suoi successori. «E l’Eterno gli disse: Va’, rifà la strada del deserto fino a Damasco, e quando sarai giunto colà, ungerai Hazael come re di Siria; ungerai pure Jehu, figliuolo di Nimsci come re d’Israele, e ungerai Eliseo figliuolo di Shafat da Abel-Mehola, come profeta, in luogo tuo. E avverrà che chi sarà scampato dalla spada di Hazael, sarà ucciso da Jehu; e chi sarà scampato dalla spada di Jehu, sarà ucciso da Eliseo. Ma io lascerò in Israele un resto di settemila uomini, tutti quelli il cui ginocchio non s’è piegato dinanzi a Baal, e la cui bocca non l’ha baciato». Queste parole erano atte a gettare una gran luce nello spirito del profeta. Settemila! e lui s’immaginava di essere rimasto solo! Non mancheranno mai gli strumenti all’Eterno. Se il vento non basta, ha il terremoto; se il terremoto non basta, ha il fuoco; e dopo tutti questi ha «la voce dolce e sommessa».
Così Elia imparò che altri ministeri potevano agire su Israele. Hazael, Jehu ed Eliseo sarebbero apparsi sulla scena, e come la voce dolce e sommessa si era era dimostrata potente per far uscire Elia il Tishbita dalla caverna, così il ministerio di grazia di Eliseo si mostrerà potente per far uscire dai loro nascondigli le migliaia di fedeli che Elia non aveva saputo scoprire. Non era lui a dover far tutto; egli era solo uno degli agenti di Dio. «L’occhio non può dire alla mano: Io non ho bisogno di te; né il capo può dire ai piedi: Io non ho bisogno di voi» (1 Corinzi 12:21).
Tale era, credo, l’importante insegnamento dato al nostro profeta per mezzo delle scene solenni del monte Horeb. Vi era salito pieno di sé; era stato sul monte col pensiero di essere il solo testimone; ne è disceso con la nozione umiliante, ma salutare, di non essere che uno dei settemila. Che differenza dal suo modo di vedere e di giudicare! Nessuno può insegnare come Dio. Quando vuole impartire una lezione, può farlo in modo efficace, sia benedetto il Suo Nome! Elia, conosciuta la propria incapacità, fu felice di rifare la strada, di uscire dalla spelonca, e discendere dal monte; fu felice di bandire tutte le sue lagnanze e le sue accuse, e di gettare umilmente, in silenzio, con sottomissione volontaria, il suo mantello profetico sulle spalle d’un altro. Tutto questo è molto istruttivo. Il silenzio di Elia, dopo aver udito parlare dei settemila, è notevole. Aveva imparato ciò che il monte Carmel non aveva potuto insegnargli, ciò che né Sarepta, né il Kerith gli avevano insegnato. In quei luoghi, egli aveva imparato molte cose concernenti Dio e la sua verità, ma sull’Horeb aveva compreso la propria piccolezza, e la conseguenza di questo insegnamento ricevuto fu che egli scendesse dal monte e trasmettesse il suo ufficio ad un altro.
Elia è ancora incaricato di un messaggio di giudizio per Achab, nella vigna di Naboth (cap. 21) e d’un messaggio analogo per Achazia sul suo letto di malattia; poi abbandona la terra, lasciando l’opera che ha incominciato fra altre mani che devono proseguirla. Come Giovanni Battista che era venuto nello spirito e nella potenza di Elia, egli era felice d’introdurre il suo successore e ritirarsi. Se tutti i santi conoscessero meglio questo spirito d’umiltà e di rinuncia, e vedendo l’opera fatta da un altro se ne rallegrassero! Anche il Battista dovette imparare ciò come il Tishbita; dovette imparare a terminare volentieri la sua brillante carriera nell’oscurità d’una prigione, mentre un altro faceva l’opera. Anche Giovanni trovava strano che fosse così, e mandò dei messaggeri a Gesù per chiedergli: «Sei tu colui che doveva venire, o ne aspetteremo un altro?». Come se avesse detto: «È possibile che colui al quale ho reso testimonianza sia realmente il Cristo? È possibile che mi lasci perire, senza curarsi di me, nella prigione di Erode?». Così era, e Giovanni dovette imparare a sottomettersi. Aveva detto entrando nel suo ministerio: «Conviene ch’Egli cresca e che io diminuisca»; ma può darsi che non avesse pensato a un tale modo di «diminuire». Come i pensieri di Dio sono diversi da quelli dell’uomo! Giovanni, dopo aver compiuto una missione importantissima, quella d’introdurre il Figliuol di Dio sulla terra, era destinato ad aver la testa tagliata su richiesta d’una malvagia donna.
Era lo stesso per Elia il Tishbita. Senza dubbio la sua carriera era stata delle più brillanti: era passato dinanzi agli sguardi d’Israele in tutta la dignità e la maestà d’un uomo celeste, d’un messaggero celeste; la verità divina era uscita dalle sue labbra, e Iddio l’aveva altamente onorato nella sua opera. Tuttavia, da quando cominciò a pensare a sé come a qualcuno importante, da quando disse: «Sono stato mosso da una gran gelosia per l’Eterno… e sono rimasto io solo», il Signore gli insegnò che sbagliava e gli ordinò di stabilire il suo successore.
Ci sia concesso d’imparare ad essere realmente umili e pieni di rinunzia di noi nel nostro servizio, qualunque esso sia. E quand’anche il nostro ministerio fosse senza frutto, e noi fossimo disprezzati e respinti, ci sia dato di guardare in avanti, al fine ultimo, ove tutte le cose saranno manifestate. È ciò che faceva il nostro adorabile Maestro. Egli aveva lo sguardo fisso sulla «gioia che gli era posta dinanzi» e non si curava dei pensieri degli uomini. Non si lagnava di quelli che lo rigettavano, lo disprezzavano e lo crocifiggevano, e non li accusava. Una delle sue ultime parole sulla croce fu: «Padre, perdona loro». Maestro benedetto, concedici una più grande misura di quello spirito di dolcezza, d’amore, di grazia e di perdono! Insegnaci ad assomigliarti e a camminare sulle tue orme attraverso questo povero mondo.
8.2 Accettiamo i metodi di Dio
Vi erano in serbo per Elia delle cose molto belle. Si era lasciato andare alla violenza; si era nascosto in una spelonca, donde aveva fatto intercessione contro a Israele; aveva impazientemente desiderato d’essere ritirato dalla carriera di prove a cui era stato sottoposto, e di conseguenza aveva potuto anche vedersi chiamato a lasciare il suo posto; nondimeno, l’Iddio d’amore aveva verso lui dei pensieri di grazia, che non avrebbero mai potuto salire nel suo cuore. Com’è prezioso e benedetto lasciare a Dio la cura di adottare i suoi procedimenti nelle sue dispensazioni verso noi! Siamo sicuri che perderemo qualche cosa se vogliamo intrometterci nel modo d’agire di Dio; eppure è sempre stata questa la tendenza dell’uomo. Egli non vuole, ad esempio, permettere a Dio di adottare il suo metodo per salvarlo, ma vuole sempre intervenire nel piano meraviglioso della redenzione; e anche quando, per l’efficacia dello Spirito Santo, si è sottomesso alla giustizia di Dio, pretende sempre di nuovo, nonostante le esperienze ripetute che fa della sapienza superiore di Dio, di cercare di intervenire nel metodo di disciplina e di condotta di Dio, come se potesse, meglio di Dio, disporre le cose in modo favorevole per sé. Che presuntuosa follia! Per i primi, i risultati ne saranno la perdizione eterna; per gli altri, la privazione attuale della benedizione legata ad una maggior conoscenza ed esperienza del carattere e delle vie di Dio.
Se Elia fosse stato esaudito, quanto avrebbe perduto! Come era meglio essere rapito in cielo in un carro di fuoco, piuttosto che essere ritirato da questo mondo in uno scatto d’impazienza!
«Or quando l’Eterno volle rapire in cielo Elia in un turbine, Elia si partì da Ghilgal con Eliseo» (2 Re 2:1). Uscirei dal quadro di questo scritto, se mi fermassi sulle circostanze dell’introduzione d’Eliseo nell’ufficio profetico, sulla sua lentezza, dapprima, a seguire Elia, e, più tardi, sul suo rifiuto positivo a lasciarlo. Lo vediamo ora che accompagna Elia da Ghilgal a Bethel a Gerico, e da Gerico al Giordano. Tutti luoghi celebri nella storia d’Israele.
8.3 Le varie tappe del viaggio con Eliseo
Bethel era il luogo ove Giacobbe aveva visto la scala mistica appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo, bella e giusta espressione dei disegni futuri di Dio relativamente alla famiglia celeste e alla terrestre. In questo luogo Giacobbe dovette ritornare, per ordine espresso di Dio, dopo che si fu purificato dalle contaminazioni di Sichem (Genesi 35:1). Bethel era dunque un luogo profondamente interessante per il cuore d’un Israelita. Ma, ahimè! era stato contaminato. Il vitello di Geroboamo aveva realmente fatto dimenticare i principi sacri di verità insegnati dalla scala vista da Giacobbe; questa innalzava lo spirito dalla terra al cielo — portava l’obbrobrio d’Egitto di sopra al suo popolo; là i figliuoli d’Israele avevano celebrato la prima pasqua nel paese di Canaan e si erano saziati col grano del paese.
Ghilgal era un punto di adunata per Giosuè e per i suoi soldati. Di là uscivano con la forza dell’Eterno per riportare gloriosi trionfi sui loro nemici, e là ritornavano per dividere il bottino di guerra. Così Ghilgal era un luogo caro ad ogni Israelita; un luogo di santi ricordi. Tuttavia aveva anch’esso perduto tutta la realtà. L’obbrobrio d’Egitto era di nuovo sopra Israele. I principi di un tempo in relazione con Ghilgal avevano perduto il loro imperio sui cuori del popolo di Dio. Bokim (il luogo delle lagrime) aveva ormai da molto tempo sostituito Ghilgal per Israele, e Ghilgal era diventato una forma vuota, con l’antica austerità, senza dubbio, ma senza virtù, poiché Israele aveva cessato di camminare nella potenza della verità, che Ghilgal insegnava.
Era nella città di Gerico che gli eserciti dell’Eterno, sotto il loro valente capitano Giosuè, avevano riportato la loro prima vittoria nel paese della promessa, e manifestato la potenza della fede. Era stata una vittoria di Dio.
Infine, quanto al Giordano, fu là che Israele aveva avuto una manifestalzione meravigliosa della potenza dell’Eterno, in relazione con l’arca della Sua presenza. Il Giordano era il luogo dove, in figura, la morte era stata vinta dal potere della vita; il fiume si era prosciugato per lasciar passare gli Israeliti, e sul suo fondo e sulle sue rive c’erano i trofei della vittoria sul nemico, rappresentati dai mucchi di dodici pietre.
Così questi vari luoghi: Bethel, Ghilgal, Gerico e il Giordano erano profondamente interessanti per il cuore d’un vero figlio d’Abrahamo; ma la loro efficacia e il loro significato erano andati perduti; Bethel era solo più di nome la casa di Dio; Ghilgal non era più apprezzata come il luogo ove l’obbrobrio d’Egitto era stato tolto di sopra al popolo. Le mura di Gerico, che erano state distrutte, erano riedificate. Il Giordano non era più considerato come la scena della potenza dell’Eterno. Insomma, tutti questi luoghi erano diventati pure forme senza potenza; e anche al tempo di Elia il Signore avrebbe potuto, riguardo a queste cose, rivolgere al suo popolo le severe parole del profeta Amos: «Perché così parla l’Eterno alla casa d’Israele: Cercatemi e vivrete! Non cercate Bethel, non andate a Ghilgal, non vi recate fino a Beer-Sceba; perché Ghilgal andrà sicuro in cattività, e Bethel sarà ridotto a niente. Cercate l’Eterno e vivrete» (Amos 5:4-6). C’è qui un’importante verità per tutti quelli che sono propensi ad attaccarsi a forme antiche. Questo passo ci insegna che nulla sussisterà se non la divina realtà d’una comunione personale con Dio.
8.4 La morte non ha potere su Elia
Il nostro profeta attraversa dunque questi luoghi nell’energia e nella dignità d’un uomo celeste. Il suo destino era al di là e al disopra di tutti questi luoghi. Elia cerca, più volte, di lasciar indietro Eliseo, mentre si affrettava sulla via che doveva far capo al cielo; ma Eliseo s’affeziona a lui e lo accompagna, per così dire, fino alla porta dei cieli, e reprime l’inquieta curiosità dei suoi fratelli meno intelligenti con le parole: «Tacete!».
Elia va avanti con la forza della sua missione celeste: «L’Eterno mi manda», egli dice, e in obbedienza all’ordine divino passa per Ghilgal, Bethel, Gerico e il Giordano, lasciando dietro a sé tutte quelle antiche orme e quelle località sacre, che non avrebbero potuto attirare gli affetti di tutti quelli che non erano, come Elia il Tishbita, trasportato in avanti da una speranza celeste. I figli dei profeti potevano fermarsi a queste cose, che risvegliavano forse in loro molti ricordi sacri; ma per colui il cui spirito era occupato del pensiero del suo rapimento in cielo, le cose della terra, per quanto sacre e venerabili potessero essere, non gli presentavano nessuna attrazione. Il suo oggetto era il cielo, e non Bethel o Ghilgal. Stava per lasciare la terra e tutte le sue faticose scene; stava per lasciare dietro a sé Achab e Izebel, per giungere al disopra della regione dei patti abbandonati, degli altari demoliti, e dei profeti uccisi dalla spada; per passare, cioè, al di là delle oscurità e dei dolori, delle prove e delle delusioni di questo mondo burrascoso; e non per la via della morte, ma in un carro celeste! La morte non doveva avere potenza contro quell’uomo celeste. Senza dubbio, il suo corpo fu cambiato in un batter d’occhio poiché «la carne e il sangue non possono eredare il regno di Dio, né la corruzione eredare l’incorruttibilità»; ma la morte non ha alcun potere su di lui; è piuttosto come un vincitore che sale sul suo carro trionfale, ed entra così nel suo riposo. Uomo felice! Per lui il combattimento era finito, la corsa terminata, la vittoria sicura. Egli era stato straniero quaggiù, in contrasto con gli uomini del mondo, ed anche in contrasto con parecchi figli del regno. Era uscito dai monti di Galaad con i fianchi cinti, come un testimone fedele di Dio, per rendere una severa testimonianza contro l’andazzo di vita d’un mondo professante. Non aveva né dimora, né luogo di riposo quaggiù, ma come straniero e viaggiatore correva innanzi verso il riposo celeste.
Dal principio alla fine, la carriera d’Elia fu una carriera unica nella storia. Come Giovanni Battista, egli era una «voce che grida nel deserto», lungi dagli assembramenti degli uomini, e ovunque faceva apparizione, era come una meteora celeste, di cui l’origine e il destino erano ugualmente al di sopra della portata delle idee umane. L’uomo dalla cintura di cuoio non era conosciuto che come il testimone contro il male, il messaggero della verità di Dio. Non aveva nessuna comunione con l’uomo, ma in tutte le sue vie conservava una dignità che respingeva ogni influenza carnale e gli assicurava la venerazione e il rispetto. Era come circondato dalla santa solennità del santuario, in modo che la vanità e la follia non potevano resistere nella sua presenza. Non era,come il suo successore Eliseo, un uomo socievole; il suo cammino fu solitario: «egli venne non mangiando né bevendo». In una parola, fu singolare in ogni cosa: singolare alla sua entrata nella carriera profetica, singolare nel modo in cui ne uscì. Fu una vera eccezione. Il fatto stesso ch’egli non fu chiamato a passare attraverso le porte del sepolcro, basterebbe ampiamente per attirare su di lui una attenzione del tutto particolare.
8.5 Verso il glorioso rapimento
Ma osserviamo la strada che il nostro profeta percorse, camminando verso la scena del suo rapimento. Egli faceva lo stesso sentiero fatto prima, ma in senso contrario, da Israele. Israele aveva camminato dal Giordano a Gerico, ma Elia camminava da Gerico al Giordano. Poiché il Giordano era il fiume che separava il deserto dal paese promesso, il profeta lo attraversò, lasciando così Canaan dietro di sé. Il suo carro lo incontrò non nel paese, ma nel deserto. Il paese era contaminato e doveva presto essere purificato da quelli che vi avevano introdotto la contaminazione. Icabod (cioè, senza gloria) doveva essere scritto su tutto. Perciò il profeta lo lascia e passa nel deserto, indicando così alle menti spirituali che nulla rimaneva per degli uomini celesti se non il deserto e il riposo di lassù. La terra non doveva più essere il luogo del riposo o la parte dell’uomo di Dio; essa era contaminata. Le acque del Giordano erano state divise per permettere ad Israele di passare dal deserto a Canaan; saranno ora divise per permettere ad un uomo celeste di passare da Canaan al deserto, ove lo attendeva il carro di fuoco, pronto a trasportarlo dalla terra al cielo.
Le cose terrene e le speranze terrene erano bandite dallo spirito di Elia; aveva imparato la totale vanità delle cose di quaggiù, e non gli rimaneva che guardare al di là di queste cose. Qui la morte aveva perso il suo «pungiglione», il sepolcro non aveva vittoria. Elia, sulla sabbia del deserto, ebbe il privilegio di guardare direttamente lassù, e senza essere ostacolato dalle circostanze umilianti della malattia e della morte, di vedere il cielo aperto per riceverlo. Fu esente, riguardo alla sua dipartita, da tutte le circostanze penose che sono la sorte dell’umanità scaduta.
Era felice di lasciar cadere a terra il suo mantello di profeta, mentre saliva al cielo. Lasciava dietro a sé, è vero, un uomo che l’aveva apprezzato e che avrebbe sentito la sua mancanza, un uomo che, contemplando il suo miracoloso rapimento, esclamerà: «Padre mio, padre mio! Carro d’Israele e sua cavalleria!». Eliseo aveva detto all’inizio: «Che io baci, ti prego, mio padre e mia madre»; ma presto questo profeta sarà al di sopra di questi affetti naturali. Le cose umane non conteranno più per lui. Che posizione! È la sola posizione che ogni uomo celeste dovrebbe occupare. Il mondo e la terra non hanno più alcun diritto sull’uomo che crede in Gesù. La croce ha spezzato tutte le catene che l’avvincevano precedentemente alla terra. Come il Giordano separò Elia da Canaan e lo condusse nel deserto incontro al carro dell’Eterno, così la croce ha introdotto il credente sopra un terreno del tutto nuovo, lo ha messo nelle reali circostanze del deserto, lo ha posto dall’altro lato della morte, non avendo altro oggetto davanti a sé che il suo rapimento all’incontro col Signore nell’aria.
Tale è la parte reale, incontestabile di ogni credente, per quanto debole ed ignorante egli sia. Ma quando si tratta di farne la felice esperienza pratica, le cose cambiano. Per giungere a realizzarle, bisogna essere molto soli con Dio, bisogna che conosciamo l’esercizio frequente del giudizio di noi stessi. La carne e il sangue non possono mai essere condotti a comprendere il rapimento d’un uomo celeste. Infatti, vediamo che neppure i figli dei profeti lo comprendevano, poiché dicevano ad Eliseo: «Ecco qui fra i tuoi servi cinquanta uomini robusti; lascia che vadano in cerca del tuo signore, se mai lo Spirito dell’Eterno l’avesse preso e gettato su qualche monte o in qualche valle». Essi non potevano concepire che fosse stato trasportato in cielo sopra un carro di fuoco. Si fermavano alle cose della terra e non avevano un senso spirituale sufficientemente esercitato per comprendere ed apprezzare una verità così gloriosa. Eliseo cede alla loro insistenza, ed essi imparano qual é la follia dei loro pensieri. I cinquanta uomini coraggiosi non poterono trovare in nessun luogo il profeta rapito! Se n’era andato, e occorreva una tutt’altra forza di quella della natura per seguire la sua stessa via. «L’uomo animale (cioè naturale) non riceve le cose dello Spirito di Dio,… e non può comprenderle. perché si discernono spirituamente». Ma quelli che camminano per lo Spirito comprenderanno il privilegio del profeta Elia d’essere liberato dalla soggezione alla morte e d’essere introdotto in modo così glorioso nel suo celeste riposo.
Questa fu la fine della carriera del nostro profeta. Gloriosa fine! Chi non direbbe: «La mia fine sarà simile alla sua?» Benedetta sia la grazia che ha condotto il Figliuol di Dio, il Principe della vita, a scendere dal seno della gloria nei cieli, per sottomettersi alla morte ignominiosa della croce. Fu in virtù di questo che anche Elia fu esentato dalla penalità del peccato e autorizzato a passare nelle regioni della luce e dell’immortalità senza aver risentito neppure l’odore della morte. Come dovremmo adorare questo amore, caro lettore cristiano!
La vita di Elia il Tishbita magnifica grandemente la grazia di Dio, e confonde la sapienza del nemico. Il rapimento di un credente al cielo è uno dei frutti più preziosi e dei risultati più magnifici della redenzione. Salvare un’anima dall’inferno è un’opera gloriosa, un superbo trionfo; risuscitare il corpo d’un fedele addormentato è una manifestazione della grazia e della potenza divina; ma prendere un uomo vivo, in tutto il vigore e l’energia della sua esistenza naturale, e trasportarlo dalla terra al cielo, è uno spiegamento ammirevole della potenza di Dio e del valore della redenzione.
8.6 Elia con Gesù sul monte della trasfigurazione — Luca 9:28-36
Le nostre riflessioni sulla vita e sull’epoca del nostro profeta potrebbero naturalmente terminare qui. Tuttavia vi è una scena particolare in cui egli appare nel Nuovo Testamento, e se non la considerassimo un momento, il nostro studio su quest’uomo di Dio sarebbe incompleto. Alludo alla scena del monte della trasfigurazione, in cui Mosè ed Elia apparvero in gloria, conversando col Signore Gesù Cristo sulla «dipartenza ch’Egli stava per compiere a Gerusalemme» (Luca 9:31). Il Signore Gesù aveva preso con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e li aveva condotti su un alto monte per manifestar loro l’aspetto della sua gloria futura, con lo scopo di fortificare i loro cuori in vista delle circostanze critiche per le quali sia Lui, sia loro, dovevano passare. Che compagnia su quel monte, in quel momento! Il Figliuol di Dio, il cui vestito era d’un biancore sfolgorante, Mosé, tipo dei santi che si sono addormentati in Gesù, Elia, tipo dei santi tramutati, alla venuta di Cristo per prendere la Chiesa, e Pietro, Giacomo e Giovanni che son chiamati le «colonne della Chiesa»! È evidente che l’intenzione del Signore era di preparare i suoi apostoli alla vista delle sue sofferenze, mostrando loro come «un campione» delle glorie che dovevano seguirli. Egli vedeva la croce, con tutto il suo corteo di orrori, dinanzi a sé; poco prima della sua trasfigurazione aveva detto ai suoi discepoli: «Bisogna che il Figliuol dell’uomo soffra molto, e sia rigettato dagli anziani e dai capi sacerdoti e dagli scribi, e sia messo a morte, e che risusciti tre giorni dopo». Ma prima d’entrare in quelle terribili sofferenze, volle mostrare a tre di loro qualcosa della propria gloria.
La croce è in realtà la base di tutto. La gloria futura di Cristo e dei suoi santi, la gioia d’Israele ristabilito nel paese di Canaan, l’affrancamento di tutte le creature dalla schiavitù della corruzione; tutto si rifà alla croce del Signore Gesù Cristo. I suoi dolori e le sue sofferenze hanno assicurato la gloria della Chiesa, la restaurazione d’Israele e la benedizione di tutta la creazione. Non v’è dunque da stupirsi che la croce sia il soggetto della conversazione fra Cristo e i suoi compagni nella gloria. Essi parlavano della morte che Egli stava per compiere in Gerusalemme. Tutto dipendeva da questo grande fatto. Il passato, il presente e l’avvenire; tutto si basava sulla croce, come sopra un fondamento immortale. Mosè poteva vedere e riconoscere nella croce ciò che metteva da parte la legge con i suoi riti e le sue cerimonie, che erano soltanto delle ombre; Elia vedeva e riconosceva nella croce ciò che poteva dare efficacia a tutta la testimonianza profetica. La legge ed i profeti mostravano la croce come fondamento della gloria futura. Com’era dunque profondamente interessante il soggetto di quella conversazione sul monte della trasfigurazione, in mezzo alla «gloria magnifica»! Era un soggetto interessante per la terra, interessante per il cielo, interessante per l’immensa creazione di Dio. Esso forma il centro di tutti i consigli, di tutti i decreti divini; concilia, in una santa armonia, tutti gli attributi di Dio; fonda e salvaguarda, su dei principi immutabili, la gloria di Dio e la pace del peccatore; su di esso si può leggere, scolpito in caratteri incancellabili: «Gloria a Dio nei luoghi altissimi, pace in terra fra gli uomini ch’Egli gradisce».
Mosè ed Elia sono ritornati al loro riposo, mentre il loro adorabile Signore doveva ridiscendere nel pieno del combattimento ed incontrare la croce in tutta la sua spaventevole realtà. Ma essi sapevano benissimo che tanto Lui che loro si sarebbero incontrati ancora in mezzo ad una gloria che non sarà mai offuscata da una nube, una gloria di cui l’Agnello sarà per sempre la sorgente e il centro, e che brillerà d’uno splendore eterno, mentre tutte le glorie umane e terrene saranno oscurate dalle ombre d’una notte eterna.
Ma che cosa facevano i discepoli durante questa meravigliosa conversazione? Dormivano! Dormivano mentre Mosè ed Elia s’intrattenevano col Figliuol di Dio sulla sua croce e sulla sua passione. La povera natura umana può dormire anche in presenza della magnifica gloria! «E quando si furono svegliati, videro la sua gloria, ed i due uomini stavano con lui. E come questi si partivano da Lui, Pietro disse a Gesù: Maestro, egli è bene che stiamo qui; facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, ed una per Elia; non sapendo quel che si dicesse» (Luca 9:30-33). Senza dubbio, era bello essere là; molto più bello che discendere da quella gloria per incontrare di nuovo tutte le contraddizioni e la complicità degli uomini. Quando Pietro vide la gloria, e Mose ed Elia, si presenta subito al suo spirito di giudeo il pensiero che nulla poteva impedire la celebrazione della festa dei Tabernacoli. Egli aveva dormito, mentr’essi parlavano della «morte», aveva ceduto alla natura, mentre le sofferenze del suo Maestro erano il soggetto dei loro discorsi; e quando si sveglia, non vede nulla di meglio che piantar la sua tenda in mezzo a quella scena di pace e di gloria, sotto i cieli aperti. Ma, ahimè, non sapeva quel che andava dicendo. Quell’atmosfera di gloria non era che un istante passeggero. Gli ospiti «celesti» si allontanavano; il Signore Gesù doveva essere dato nelle mani degli uomini! Doveva passare dal monte di gloria a quello delle sofferenze, e Pietro stesso doveva ancora essere vagliato da Satana, essere profondamente umiliato e straziato sotto il rimorso di una vergognosa caduta, e, alla fine, essere «cinto da un altro» e condotto ove non avrebbe voluto.
Un lungo ed arido periodo, una buia notte di sofferenza e di tribolazione, aspettava la Chiesa; gli eserciti di Roma avrebbero calpestato la santa città e devastato i suoi baluardi; i fulmini della guerra e delle rivoluzioni politiche sarebbero ancora caduti, con terribile violenza, su tutto il mondo civilizzato. Tutte queste cose, e ben altre ancora, dovevano accadere, ed accadranno in un prossimo futuro, prima che il pensiero che il povero cuore di Pietro accarezzava, possa davvero realizzarsi sulla terra.
Il profeta Elia deve di nuovo visitare questo mondo «prima che venga il giorno dell’Eterno, giorno grande e spaventevole», come dice il profeta Malachia (4:5). Anche Gesù ha detto ai suoi: «Certo, Elia deve venire e ristabilire ogni cosa» (Matteo 17:11). In Giovanni Battista era già venuto e non era stato riconosciuto. Il Signore aveva in vista i raggi risplendenti del mattino del Millennio, un mattino e «senza nuvole» che illumina i colli da lontano. Tutto, attorno a noi, dice che il regno glorioso di Cristo è vicino. Ma noi guardiamo al cielo e con gli occhi della fede contempliamo, durante il nostro passaggio quaggiù, il riposo e la gloria futura, l’eternità con le sue realtà divine e gloriose. Sentiamo il mare che muggisce con le sue onde in burrasca, vediamo le nazioni turbolente, i troni abbattuti, ma tutte queste cose hanno una voce per le orecchie dei credenti, e questa voce dice: «Levate gli occhi in alto». Chi ha ricevuto lo Spirito ha ricevuto la caparra della sua eredità futura; e la caparra, noi lo sappiamo, è una parte di ciò che si dovrà possedere.
Rendiamo grazie a Dio, ogni giorno, del fatto che le nostre speranze non sono limitate al triste orizzonte di questo mondo, ma abbiamo una dimora al di là e al di sopra di tutta questa scena!
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