La prima epistola di Paolo a Timoteo

Henri Rossier

Indice:
Introduzione

Introduzione

Prima di intraprendere uno studio particolareggiato di questa epistola, ci sembra utile soffermarci brevemente sul concetto di Chiesa come è presentata nell’epistola agli Efesini e in alcuni altri passi delle tre epistole chiamate «pastorali», cioè le due indirizzate a Timoteo e quella a Tito.

L’epistola agli Efesini ci presenta la Chiesa sotto tutti i suoi aspetti (Corpo di Cristo, Sposa, dimora di Dio) tranne uno (casa di Dio) che è presentato nelle altre tre.

  1. La Chiesa è, innanzi tutto, il Corpo di Cristo sulla terra (Efesini 1:23), composto da tutti i credenti viventi, costituiti in unità. Questa unità abolisce ogni distinzione fra Giudei e Gentili e forma un tutto unico, indissolubilmente legato dallo Spirito Santo a Cristo, Capo glorificato del Suo corpo, nel cielo. È un «mistero» di cui solo l’apostolo Paolo fu «amministratore». Malgrado la decadenza attuale della Chiesa noi possiamo ancora, sia pure in due o tre, realizzare questa unità e manifestarla alla tavola del Signore, secondo 1 Corinzi 10:17. Che immenso privilegio per coloro che ne hanno compresa l’importanza!
  2. La Chiesa è la Sposa di Cristo (Efesini 5:24-27). Il Signore si occupa di purificarla con la Parola, durante il suo cammino quaggiù, prima di accoglierla presso di se nella gloria. E qui ancora, malgrado la rovina della Chiesa, chiunque realizza come cosa attuale l’amore senza limiti col quale Cristo ha dato se stesso per la sua Sposa, capirà nel più profondo del cuore di farne parte, e ne godrà come di una profonda realtà che si rivela ai suoi sentimenti; e griderà con lei, nella potenza dello Spirito Santo che la anima: «Vieni, Signore Gesù!» (Apocalisse 22:20).
  3. La Chiesa è un tempio santo che il Signore stesso edifica, prendendo come fondamento gli apostoli e i profeti del Nuovo Testamento secondo l’insegnamento dei quali Gesù Cristo stesso è la pietra angolare; un edificio che continua ad innalzarsi fino a che il suo divino architetto non vi avrà aggiunta l’ultima pietra. Costruita così da Dio, questa casa è un edificio perfetto (2:19-21). La stessa verità ci è presentata in Matteo 16:18.
    È sulla confessione che ha dichiarato Cristo figlio del Dio vivente che il Signore edifica la propria Chiesa; Pietro stesso è una pietra di questo edificio contro il quale le porte dell’Ades nulla possono fare. Qui ancora l’opera dipende da Cristo soltanto, e Satana è impotente per distruggerla.
    In 1 Pietro 2:5 troviamo qualcosa di analogo: Cristo è la pietra vivente rigettata dagli uomini ma prescelta e preziosa agli occhi di Dio. Noi ci avviciniamo a Lui come pietre viventi e siamo edificati su di Lui come un edificio spirituale.
    Che ci siano degli strumenti che portano queste pietre non possiamo metterlo in dubbio, ma il passo di Pietro, facendo astrazione da qualsiasi strumento umano, ci mostra che l’edificio è unicamente composto di pietre viventi.
  4. Noi siamo edificati tutti insieme nel Signore per servire da dimora a Dio per lo Spirito (Efesini 2:22). Vi è dunque nel mondo una cosa di immenso valore: il luogo in cui Dio stesso abita per lo Spirito. Ed anche qui nulla è lasciato alla responsabilità dell’uomo. Non è lui che edifica ma è Dio stesso che vuole avere una dimora quaggiù. Questo grande fatto è stato realizzato con l’effusione dello Spirito Santo alla Pentecoste ed è stato completato con l’introduzione dei Gentili nel cristianesimo.

 

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Questi sono i diversi aspetti sotto cui ci è presentata fin qui la Chiesa. È Dio stesso che fa il lavoro, sicché non esistono in pratica differenze fra ciò che costituisce il corpo, la sposa, l’edificio e la dimora. Tutti sono composti dagli stessi elementi. L’opera che li riunisce è perfetta perché è divina.

Ma è anche vero che Dio affida l’edificazione della sua dimora in questo mondo alla responsabilità di coloro che ne fanno parte. L’opera dell’uomo subentra allora parzialmente; ed è ciò che ci presenta in modo evidente il terzo capitolo della prima epistola ai Corinzi. Paolo, da saggio architetto, aveva posto il fondamento che è Cristo, e nessuno può porre altro fondamento. Ciascuno doveva badare a come edificava su questo fondamento. Dio ha, come per ogni cosa creata, fatto tutto bene, ma viene il momento in cui affida la sua opera all’uomo. Come adempirà questi il suo incarico? Nonostante tutto ciò che potrà capitare, Dio continua il suo lavoro e lo porterà a termine; affidato all’uomo, è dimostrato che se certi operai sono dei «buoni operai» che lavorano bene, altri, pur essendo dei buoni operai, lavorano male; infine, c’è una terza categoria composta di «cattivi operai» che corrompono e distruggono il tempio di Dio.

Il lavoro degli operai può consistere nell’introduzione di buone o cattive persone, di buone o cattive dottrine; però, pur considerato sotto questo aspetto, l’edificio, resta sempre il tempio di Dio, la dimora di Dio (*). Questa casa è, in sostanza, sempre opera di Cristo; nonostante gli elementi impuri che l’uomo vi ha introdotto, malgrado il cattivo materiale, le basi sono state poste da un «savio architetto»; l’apostolo Paolo non è venuto meno al suo incarico. Ed è per questo che, qualunque sia la sua corruzione, questa casa sussisterà fintanto che Dio vi abiterà col suo Spirito. Ma giungerà un momento in cui essa non conterrà più dei buoni materiali, quando lo Spirito Santo risalirà al cielo con la Sposa e il Signore vomiterà dalla sua bocca, come cosa ripugnante, ciò che aveva portato il Suo nome.

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(*) La stessa cosa era per il tempio di Gerusalemme quando il Signore diceva: «Sta scritto: “La mia casa sarà una casa di preghiera”, ma voi ne avete fatto un covo di ladri». (Luca 19:46). Ma anche in quello stato non aveva cessato di essere chiamata la casa di Dio.
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Tuttavia non dobbiamo dimenticare che appartenere alla casa di Dio, anche se siamo responsabili, è un immenso privilegio; qualunque sia la condizione morale di questa casa, essa resta un luogo in cui Dio abita col suo Spirito. Questo luogo non si trova dappertutto nel mondo, poiché Dio non abita col suo Spirito nell’Islamismo e neppure nel Giudaesimo. È qui che si trova la vita unita alla professione cristiana, ma ahimè anche la professione cristiana senza la vita; e questo diventa per coloro che hanno solo la professione esteriore la causa stessa della loro condanna. È qui che si trovano, d’altra parte, lo Spirito e le sue diverse manifestazioni, la verità, la Parola ispirata, l’evangelo della salvezza, la testimonianza. Separando la professione dalla vita, Satana ha fatto un’opera di distruzione. Questa opera nefasta, basata sulla mondanità che si è introdotta nella Chiesa, accompagnata da false dottrine e da insegnamenti legali, è cominciata fin dal tempo degli apostoli, come troviamo nelle Epistole e negli Atti. Non è forse degno di nota il fatto che queste cose fossero preannunziate agli anziani di Efeso, in un’assemblea in cui le verità più elevate del cristianesimo erano state proclamate ed apprezzate (Atti 20:29-30), e che sia ancora ad Efeso che Timoteo debba reprimerle (1 Timoteo 1:3)? Ma il male ha progredito e la casa di Dio è diventata una grande casa che contiene dei vasi a disonore (2 Timoteo 2:20-21); bisogna che il cristiano si purifichi «da queste cose» (*) perché non può uscire lui dalla casa.

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(*) Cioè: da questi vasi a disonore (Nota BibbiaWeb).
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È dunque sul terreno della casa di Dio responsabile che ci introducono le epistole a Timoteo e a Tito. Nella prima epistola a Timoteo troviamo inoltre la casa di Dio come «chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità», i cristiani come responsabili del suo ordine e del suo funzionamento, il male che cerca di predominare nella Chiesa, e una diga frapposta dallo Spirito Santo contro lo straripare di questo male, l’attività del fedele Timoteo delegato dell’apostolo Paolo. Nella seconda epistola troviamo invece una «grande casa», con un insieme profondamente rattristante di vasi ad onore e di vasi a’ disonore; ma nello stesso tempo, cosa infinitamente consolante in mezzo a questa rovina, troviamo anche un cammino rivelato per il giorno attuale, giorno di rovina irrimediabile; un cammino nel quale il Signore può essere glorificato dai suoi fedeli come nei più bei giorni della edificazione della casa di Dio.

È evidente che le epistole a Timoteo non ci trasportano, come quella agli Efesini, nei luoghi celesti. Si tratta di una testimonianza resa al Signore sulla terra e caratterizzata dalla disciplina secondo Dio, ordine che gli angeli sono chiamati a contemplare per vedere il Dio invisibile nell’assemblea di coloro ch’Egli ha salvati.

1. Capitolo 1

1.1 L’indirizzo e i saluti

Vers. 1-2: — «Paolo, apostolo di Cristo Gesù per ordine di Dio, nostro Salvatore, e di Cristo Gesù, nostra speranza, a Timoteo, mio legittimo figlio nella fede: grazia, misericordia, pace, da Dio Padre e da Cristo Gesù nostro Signore».

Questi versetti incominciano con lo stabilire le sole basi secondo le quali l’uomo entra in relazione con Dio e che saranno sviluppate dettagliatamente in questo capitolo. Queste basi sono il soggetto del ministero dell’apostolo. Dio si manifesta qui con un titolo che troviamo soltanto nelle epistole pastorali; non che non sia chiamato anche altrove (per esempio in Luca 1:47) «Dio mio Salvatore» o «nostro Salvatore», ma qui lo troviamo con questo appellativo per così dire unico e primordiale. Ciò che caratterizza, in questo passo, la sua divinità di per se stessa è la salvezza. Questa salvezza è presentata nel suo valore universale. Avvicinandoci a Dio, lo troviamo soltanto con questo carattere. Senza dubbio è il Giudice, il Dio sovrano, il Creatore, il Santo, ma nel giorno attuale si rivela soltanto come Dio Salvatore. Che nome prezioso! Che grazia incomparabile! I peccatori lo dovranno incontrare un giorno come Giudice, ma attualmente Egli non riveste che un carattere: quello del Dio che fa grazia. Quando gli uomini di oggi dovranno comparire dinanzi a Lui, potranno forse scusarsi di non essere stati salvati quand’Egli non si era manifestato al mondo sotto altro titolo?

Paolo era apostolo secondo il suo comandamento. Come Dio eterno, gli aveva dato un comandamento, una missione in vista della rivelazione del mistero della Chiesa (Romani 16:25-26); ma qui il comandamento è di far conoscere al mondo che il Dio Salvatore si è rivelato in Gesù Cristo e che la salvezza non può essere ottenuta se non per mezzo di Lui. Questo comandamento esige l’obbedienza della fede ed è inseparabile dalla persona di Cristo Gesù, «nostra speranza», la sola nel quale un peccatore possa confidare, l’unica àncora di salvezza offerta all’uomo perduto.

Ma queste cose possono essere proclamate soltanto da un uomo che ha incominciato a riceverle per se stesso; ed è così che Paolo le aveva ricevute, direttamente dal Signore; e il suo «vero figlio» Timoteo le aveva ricevute a sua volta da Paolo. Troviamo dunque in questi due versetti gli elementi sui quali sono fondate le relazioni di ciascun individuo con Dio. Per Paolo, come per Timoteo, il «Dio Salvatore» è il «nostro Salvatore»; Gesù Cristo è «nostra speranza», Dio è «nostro Padre» in virtù della salvezza, avendo Cristo nostro Signore acquistato tutti i diritti su Paolo e su Timoteo. Queste benedizioni erano acquisite per loro per mezzo della fede, nella quale Timoteo era diventato il figlio dell’apostolo.

I saluti di Paolo a Timoteo portano a questi grazia e pace, e oltre a ciò «misericordia», termine che si trova soltanto nelle epistole indirizzate a un individuo. È infatti ciò di cui non possiamo fare a meno nella nostra vita quotidiana. L’apostolo stesso, chiamato da Dio per la sua missione, cosa sarebbe diventato senza la sua misericordia (v. 13)?

1.2 Le false dottrine e l’evangelo della grazia

Vers. 3-7: — «Ti ripeto l’esortazione che ti feci mentre andavo in Macedonia, di rimanere a Efeso per ordinare ad alcuni di non insegnare dottrine diverse e di non occuparsi di favole e di genealogie senza fine, le quali suscitano discussioni invece di promuovere l’opera di Dio, che è fondata sulla fede. Lo scopo di questo incarico è l’amore che viene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. Alcuni hanno deviato da queste cose e si sono abbandonati a discorsi senza senso. Vogliono essere dottori della legge ma in realtà non sanno né quello che dicono né quello che affermano con certezza».

Il compito affidato a Timoteo è più elevato ed esteso di quello di Tito. Innanzitutto riguardo alla sfera in cui si sviluppa; l’attività di Timoteo si esercita infatti ad Efeso, dove le dottrine più elevate sulla posizione celeste della Chiesa erano state proclamate e ricevute nella forza del primo amore. Il luogo d’attività di Tito, invece, è l’isola di Creta, il cui stato morale abituale è sufficientemente stigmatizzato nell’epistola che gli è indirizzata.

Riguardo poi alla missione, quella di Tito è la nomina degli anziani, con particolare insistenza sulla sana dottrina che anziani e giovani dovevano ricordare e serbare.

La missione di Timoteo va oltre. L’incarico che gli è affidato ha per scopo, prima di tutto, il comportamento di ogni credente nella casa di Dio, non soltanto di quelli che esercitano delle cariche in questa casa. Del resto, non vediamo che sia ordinato a Timoteo di stabilire gli anziani, ma troviamo l’elenco delle qualità che devono contraddistinguere gli anziani e i diaconi.

Innanzi tutto è mantenere e difendere la buona e sana dottrina, la dottrina secondo la pietà, il compito del delegato dell’apostolo. Tutto l’ordine della casa di Dio è basato sulla dottrina; diciamo piuttosto sulla fede (v. 4), cioè l’insieme della dottrina cristiana ricevuta con la fede. S’impara così come bisogna comportarsi in questa casa affinché la testimonianza di Cristo, che le è affidata, abbia tutto il suo valore di fronte al mondo.

Ma ecco che, non appena affidata alla responsabilità dei santi, questa testimonianza correva il pericolo di scomparire per le astuzie o gli attacchi aperti del nemico. «Alcuni» opponevano alla sana dottrina dell’apostolo un insegnamento non basato su Cristo. È ciò che Paolo con una sola parola chiama «insegnare dottrine diverse» (*). Si trattava di resistere contro quelle persone con autorità e decisione. «L’incarico» (v. 3-5) era affidato a Timoteo a questo scopo; ogni diritto gli era conferito di «ordinare» a tali persone. Fino a quando esisteva l’autorità apostolica, questa missione era necessaria affinché la Chiesa potesse sussistere come testimonianza esteriore in questo mondo e le anime semplici, incapaci di discernere tra la vera e la falsa dottrina, fossero messe al riparo. Queste «dottrine diverse» non erano le «sane parole», quelle del nostro Signore Gesù Cristo; non avevano per base e per origine le parole di Cristo così come sono contenute nelle Scritture; non avevano per scopo la «pietà» (6:3). Dovevano essere dunque represse con autorità.

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(*) Il termine greco è «eterodidaskaleo», che si traduce anche con «insegnare in altro modo» (1 Timoteo 6:3).
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Insegnare in altro modo (v. 4) conduce inevitabilmente alle favole, chiamate in Tito 1:14 «favole giudaiche». Nel capitolo 4 v. 7 della nostra epistola esse sono qualificate «favole profane e da vecchie». Gli evangeli apocrifi e i libri talmudici ne sono pieni!

Queste dottrine non hanno assolutamente e non avranno mai come risultato né l’edificazione né l’ordine della casa di Dio. Invece di edificare questa casa esse la distruggono e l’abbandonano al disordine e alla rovina. Questo si svolge ogni giorno sotto i nostri occhi, e il fieno e la paglia introdotti in questa costruzione (1 Corinzi 3:12) saranno infine bruciati, con la casa che si ha la pretesa di edificare.

Il ministero (*) basato sulla rivelazione della grazia di Dio e sul mistero della Chiesa era stato affidato a Paolo (Efesini 3:2-9). Era allora necessario che fosse manifestato chi edificava su questo fondamento e chi su dottrine diverse, perché «l’opera (*) di Dio è fondata sulla fede», cioè per mezzo di una dottrina divina che si indirizza alla fede per essere ricevuta, e ciò in contrasto con la legge, come vedremo più avanti.

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(*) Oppure: amministrazione o dispensazione. È la stessa parola nel testo originale in Efesini 3:2 e 1 Timoteo 1:4.
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Ma l’apostolo si interrompe (v. 5) per mostrare il «fine», lo scopo finale, dell’incarico affidato a Timoteo (v. 3). Questo scopo è completamente morale. È l’amore, l’amore inseparabile da un buono stato d’animo davanti a Dio, e di cui non si potrebbe fare una descrizione più completa di quella che abbiamo qui; se si presenta così, non saremo mai ingannati da false apparenze, tanto frequenti in questo mondo e che dovrebbero essere estranee alla casa di Dio. Questi tre pilastri sono il cuore, la coscienza e la fede.

«Un cuore puro» non significa un cuore immacolato, puro quanto a se stesso, ma un cuore purificato dal lavacro della Parola (Giovanni 13:8-10; 15:3; 1 Pietro 1:22).

Una «buona coscienza» è una coscienza che dopo la purificazione dei nostri cuori non ha nulla da nascondere a Dio e di conseguenza nulla da rimproverarsi (1 Timoteo 1:19; Ebrei 10:22).

Una «fede sincera» è una fede senza ipocrisia. Questa parola «fede», che è ripetuta diciassette volte in questa epistola, ha due significati un po’ differenti, come abbiamo già potuto rilevare. Nel suo significato abituale, la fede è l’accettazione, per mezzo della grazia, di ciò che Dio ha detto riguardo al suo Figlio; significa ricevere il Salvatore. Ma è anche l’insieme della dottrina cristiana ricevuta per mezzo della fede. Così, al v. 19 del nostro capitolo si «conserva la fede»; al capitolo 3 v. 9 la fede è l’insieme delle cose fino allora nascoste, ma adesso rivelate e che la fede afferra; al capitolo 4 v. 1 «apostatare dalla fede» è abbandonare ciò che la dottrina cristiana rivela; al capitolo 5 v. 8 è rinnegarla.

La fede è sovente menzionata insieme ad una buona coscienza (1:5 e 19; 3:9). È molto pericoloso per il cristiano non avere, per una ragione qualsiasi, una buona coscienza di fronte a Dio. La mancanza di una buona coscienza ci fa allontanare dalla fede, e le nostre parole, da allora in poi, diventano delle «vane chiacchiere» senza alcun interesse per le anime.

L’amore, dunque, scopo di tutta l’attività di Timoteo, doveva avere per base il cuore, la coscienza e la fede. Se quest’amore è veramente attivo, non c’è più bisogno di fare degli sforzi per arrestare il male e non ci sarebbe più bisogno di lottare per mantenere o ristabilire l’ordine nella Chiesa. Ma ad Efeso l’ordine era turbato a causa di certe persone che erano estranee allo stato pratico del cuore e della coscienza di cui abbiamo parlato precedentemente. Queste persone, invece di cercare il bene delle anime, non pensavano che a loro stessi e a farsi ricevere come dottori della legge. Tali pretese, senza lo stato morale che può farle accettare, non fanno che mettere in evidenza l’estrema miseria spirituale e l’ignoranza di coloro che le accampano. Le loro parole non hanno alcun valore: sono «discorsi vani». A che cosa sono utili? Coloro che le pronunciano non comprendono nemmeno loro il senso di ciò su cui insistono. Questo quadro che ci parla della pretesa d’insegnare la Parola senza la fede, senza un cuore purificato, senza una buona coscienza, è di altrettanta attualità, al giorno d’oggi. L’azione di tali persone avrà del resto sempre un carattere legale; ma comprendono questi ciò che significa la legge?

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Vers. 8-11: — «Noi sappiamo che la legge è buona, se uno ne fa un uso legittimo; sappiamo anche che la legge è fatta non per il giusto ma per gl’iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori, per i sacrileghi e gl’irreligiosi, per coloro che uccidono padre e madre, per gli omicidi, per i fornicatori, per i sodomiti, per i mercanti di schiavi, per i bugiardi, per gli spergiuri e per ogni altra cosa contraria alla sana dottrina, secondo il vangelo della gloria del beato Dio, che egli mi ha affidato».

L’apostolo stabilisce il contrasto più completo fra la legge, alla quale questi sedicenti dottori volevano condurre i cristiani, e l’Evangelo. Il primo punto sul quale egli insiste è che la legge è buona. Troviamo questa stessa affermazione in Romani 7:12. Il nocciolo della questione è che bisogna usarla legittimamente, cioè conoscere l’uso che se ne deve fare. Essa non s’indirizza ai giusti, perché come potrebbe condannare un giusto? Ma è data per condannare il male. Qui l’apostolo enumera le persone alle quali la legge s’indirizza e contro le quali infierisce legittimamente. Con poche parole egli descrive il loro stato morale: la propria volontà, la disobbedienza, l’empietà e lo spirito profano riguardo a Dio, la mancanza di rispetto verso i genitori e le sevizie contro di loro, la violenza, l’omicidio, la depravazione della carne, le passioni infami, le bugie, lo spergiuro, e altri vizi che cadono tutti sotto la condanna della legge.

Qui l’apostolo torna al soggetto principale della sua epistola: la legge infierisce contro tutto ciò che si oppone alla sana dottrina, all’insieme delle verità che costituiscono il cristianesimo, la dottrina che è secondo pietà (6:3). Ora l’Evangelo è conforme a questa dottrina; non contraddice affatto la legge, ma introduce una cosa del tutto nuova che non ha assolutamente alcun punto in comune con la legge. È l’Evangelo della gloria del beato Dio, affidato all’apostolo. Queste poche parole ci aprono una sfera di benedizioni nella quale lo spirito e il cuore si possono muovere liberamente, senza mai raggiungerne i confini. Giudicatelo voi stessi: l’Evangelo è il buon annunzio agli uomini della gloria di Dio che è stata pienamente manifestata in Cristo. La gloria di Dio, cioè l’insieme delle perfezioni divine, giustizia, santità, potenza, luce, verità e, al di sopra di tutto, amore e grazia, è stata pienamente rivelata e messa alla nostra portata nella persona di un Uomo, Cristo Gesù, nostro Salvatore. Essa è stata manifestata in nostro favore; è la meraviglia dell’Evangelo! Tutta questa gloria non si nasconde né si vela; noi la vediamo risplendere nel volto di un solo Uomo ma, più ancora, essa ci è riserbata e ci appartiene. L’opera di Dio ce la conferisce; la posizione che Cristo ha di fronte a Dio è la stessa, d’ora in avanti, che hanno coloro che credono in Lui. Sì, la gloria di Dio non troneggia più nella sua solitaria e inaccessibile perfezione ma è diventata, in un Uomo, la parte di tutti quelli che credono in Lui. Noi siamo, in virtù del suo sacrificio che abolisce il peccato, perfetti davanti a Dio come Lui stesso. Egli ci ha fatti, da parte di Dio, saggezza, giustizia, santità e redenzione. Noi siamo luce nel Signore. L’amore di Dio è stato versato nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato. Tutto ciò è il libero dono della grazia a dei poveri peccatori giustificati per fede.

Ma notate che quest’Evangelo è l’Evangelo della gloria del Dio beato. Nel farcelo conoscere, Dio vuole renderci felici come è Lui; la felicità di cui Egli gode è diventata la nostra felicità! Vi è forse contrasto più evidente fra la legge che maledice il peccatore e la grazia che lo trasporta nel godimento della gloria e della felicità di Dio, in attesa di una gioia perfetta in un’eternità senza nubi e senza ombre?

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Vers. 12-14: — «Io ringrazio colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù, nostro Signore, per avermi stimato degno della sua fiducia, ponendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento; ma misericordia mi è stata usata, perché agivo per ignoranza nella mia incredulità; e la grazia del Signore nostro è sovrabbondata con la fede e con l’amore che è in Cristo Gesù».

Chi era dunque questo Paolo al quale un evangelo di tale valore era stato affidato? Cosa sorprendente! Era un uomo che aveva violato il primo comandamento: «Ama il Signore Dio tuo». Egli aveva odiato Dio credendo di servirlo, perché lo odiava nella persona del suo Figlio. Costringendo i santi a bestemmiarlo, egli stesso lo aveva bestemmiato (Atti 26:11) e lo aveva perseguitato nella sua Chiesa amata, coprendolo d’oltraggi in coloro che credevano in Lui e lo servivano fedelmente.

Una tale attitudine non avrebbe potuto essere perdonata se Paolo non avesse fatto tali cose «per ignoranza», nella sua incredulità. Per questo misericordia gli è stata fatta, se no sarebbe stato condannato senza remissione. Riguardo ai Giudei, questa misericordia non aveva potuto continuare; è vero che sulla croce Gesù, intercedendo per il popolo, aveva detto: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno», invocando la misericordia del Padre suo a causa della loro ignoranza. Ed è anche ciò che Pietro diceva loro in Atti 3:17. Ma in seguito, quando lapidavano Stefano sapevano ciò che facevano; rigettavano lo Spirito Santo che era stato loro inviato, da Gesù Cristo risuscitato (Atti 7:51). Questo peccato non poteva essere loro perdonato. Saulo da Tarso, che consentiva alla morte di Stefano (Atti 7:58; 8:1), non era forse allo stesso livello del suo popolo? Quale risorsa gli restava dunque? Una soltanto: la grazia sovrabbondante che poteva stimare fedele un tale uomo e stabilirlo nel servizio! Solo per mezzo della fede la sua precedente incredulità poteva essere annullata. Solo «l’amore che è in Cristo Gesù» poteva sostituire l’odio di cui il suo cuore era stato fino allora ripieno, e questo non poteva essere conosciuto che per mezzo della fede. Questo versetto 14 è dunque la prova di ciò che la grazia produce quando si occupa persino del «primo dei peccatori». Essa lo ritrae dai peccatori, gli dà la fede, e per mezzo d’essa gli fa conoscere l’amore che è in Dio solo.

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Vers. 15-17: — «Certa è quest’affermazione e degna di essere pienamente accettata: che Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, dei quali io sono il primo. Ma per questo mi è stata fatta misericordia, affinché Gesù Cristo dimostrasse in me, per primo, tutta la sua pazienza, e io servissi di esempio a quanti in seguito avrebbero creduto in lui per avere vita eterna. Al Re eterno, immortale (oppure incorruttibile), invisibile, all’unico Dio, siano onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen».

Non appena quest’opera dello Spirito di Dio ha avuto eco nel suo cuore, Paolo ha potuto annunciare Cristo e la salvezza. Ciò che noi troviamo qui è l’Evangelo nella sua più semplice espressione. «Certa è quest’affermazione e degna di essere pienamente accettata». Vi sono molte «affermazioni certe» nelle epistole a Timoteo e a Tito; ma qui l’apostolo aggiunge «e degna d’essere pienamente accettata», per mostrare il suo risultato meraviglioso per ogni anima che lo riceve. Ritorneremo su questo al capitolo 4 v. 9.

La semplice verità che è alla base di ogni relazione fra l’uomo peccatore e il Dio Salvatore è espressa qui nel modo più solenne: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori». Dio fatto uomo nella persona di Gesù, venuto quaggiù per salvare non dei peccatori ma i peccatori, per compiere cioè un’opera di portata universale, offerta a tutti e da cui nessun peccatore, neanche il più indegno, è escluso. Lo scopo di Dio nel venire nel mondo era di salvare i peccatori; al capitolo 2 v. 4, vediamo che è anche la sua volontà. Da parte di Dio non vi è dunque nessun ostacolo, ed Egli lavora instancabilmente per questo fine; ma l’uomo, cosa terribile, misconosce lo scopo di Dio e si oppone nel modo più esplicito alla Sua volontà. In mezzo a questa. rivolta contro di Lui, solo la grazia sovrabbondante può piegare l’uomo e fare di un Saulo da Tarso l’agente per presentare la salvezza ad altri.

Abbiamo visto, al versetto 2, il lato di Dio nell’Evangelo; qui, al versetto 15, vediamo il lato di Cristo, il suo abbassamento per compiere questa gloriosa opera: la salvezza. Ora, questa salvezza non solo è la liberazione dal peccato e dal giogo di Satana, ma è l’introduzione dell’uomo nelle relazioni eterne col Dio di gloria. Troviamo, in tutta la sua semplicità, la liberazione dal peccato, quando l’apostolo ci parla di una cosa certa e degna d’essere pienamente accettata; le nuove relazioni le troviamo nella proclamazione dell’Evangelo di gloria al versetto 11.

Paolo si definisce «il primo dei peccatori». Paolo, prima della conversione, si era messo a capo di un’armata di cui Satana era, senza ch’egli potesse immaginarlo, il capo occulto, con lo scopo di estirpare da questo mondo il popolo di Dio e il nome stesso del Signore, per il trionfo della religione ebraica. Con tutta la sua energia fisica, con tutta la sua coscienza religiosa, Saulo voleva annientare e togliere dal mondo il nome di Cristo, perché era completamente incredulo alla sua resurrezione. Si, questo triste posto di preminenza egli l’occupava alla testa dei nemici di Cristo, e ciò gli fa dire, parlando dei peccatori, «dei quali io sono il primo».

Molti oratori evangelisti hanno l’abitudine, quando raccontano la loro conversione, di esagerare il quadro della loro propria miseria (il che faceva dire a Spurgeon che queste confessioni pubbliche gli davano l’idea del campanello che annunciava il passaggio del carro delle spazzature!); essi proclamano: «Io sono il primo dei peccatori». Ma ben pochi di coloro che parlano così ne sono realmente convinti! Questa parola è troppo sovente per loro un mezzo di inorgoglirsi e un occasione di occupare i loro ascoltatori della propria umiltà. Infatti quest’affermazione nella bocca d’un altro dell’apostolo non è vera. Però ciò che l’apostolo diceva qui di se stesso, come nei tre discorsi di Atti, era una meravigliosa realtà ed aveva lo scopo di spiegare l’immensa portata della missione affidatagli. Se in questo stato di tremenda rivolta contro Cristo era stata fatta misericordia a Saulo da Tarso, era, come egli dice, «affinché Gesù Cristo dimostrasse in me, per primo, tutta la sua pazienza, e io servissi di esempio a quanti in seguito avrebbero creduto in lui per avere vita eterna».

Dio sceglieva Saulo da Tarso come un esempio delle Sue vie verso coloro che sarebbero venuti alla conoscenza per mezzo del suo ministero. Se poteva agire così nei riguardi di un bestemmiatore e di un persecutore, c’è forse un solo uomo che possa dire: Gesù Cristo non avrà pazienza verso di me? No, perché Gesù Cristo aveva dimostrato tutta la sua pazienza verso Paolo. Così, come la salvezza era per tutti i peccatori, la pazienza era per tutti; e questa pazienza aveva un immenso valore. Bisognava ora credere in Lui, per ottenere la vita eterna. Arrivati a questa parola finale che introduce l’anima nel possesso di una felicità senza fine, un inno di lode s’innalza dal cuore dell’apostolo e sale fino all’altezza del terzo cielo.

Quest’inno è indirizzato al Dio Sovrano dal quale discende il dono supremo della vita eterna per tutti coloro che credono. La loro anima è, per mezzo della vita eterna, messa in diretto rapporto con Lui. Egli è il Re dei secoli, il solo di fronte al quale il tempo e l’eternità non hanno limiti e sono da Lui dominati. Egli è l’incorruttibile, il solo che sia al disopra di tutto ciò che è destinato alla corruzione e che non può essere intaccato da essa, come lo sono stati invece la creazione, gli uomini e persino gli angeli. È l’invisibile, Colui che è al di sopra di tutte le cose visibili e che nessun occhio può vedere. Egli è il solo Dio!

È attorno ad un tale Dio che saliranno eternamente i nostri omaggi e la nostra lode! Non si tratta qui del Dio Salvatore, né di Cristo Gesù, venuto per salvare i peccatori. Mancherebbe qualcosa alla sua gloria se Egli non fosse esaltato anche in un altro modo. È il Dio che, dalla gloria inaccessibile, si è degnato di abbassare lo sguardo sulla sua creatura caduta, per darle la vita eterna, una vita capace di conoscerlo e di comprenderlo, una vita che corrisponde alla sua propria natura! A Lui sia onore e gloria nei secoli dei secoli! Amen.

È degno di nota che al capitolo 6 v. 15-16 di questa stessa epistola si ritrovi un passo che ha una portata analoga a questo; non se ne trovano altrove di simili. Però l’espressione della lode spontanea davanti al mistero della grazia ritorna più di una volta nelle epistole; così in Romani 11:33-36, Ebrei 13:21, Efesini 3:20-21.

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Vers. 18-20: — «Ti affido questo incarico, Timoteo, figlio mio, in armonia con le profezie che sono state in precedenza fatte a tuo riguardo, perché tu combatta in virtù di esse la buona battaglia, conservando la fede e una buona coscienza; alla quale alcuni hanno rinunziato, e così, hanno fatto naufragio quanto alla fede. Tra questi sono Imeneo e Alessandro, che ho consegnati a Satana affinché imparino a non bestemmiare».

L’apostolo riprende adesso il soggetto dell’«incarico», della missione che era stata affidata a Timoteo e di cui è parlato nei versetti 3 e 5 di questo capitolo. Esso fa parte del soggetto stesso dell’epistola; dopo aver concluso, come abbiamo visto, con un canto di trionfo e un amen, il magnifico esposto che va dal versetto 5 al versetto 17, abbiamo i dettagli di questa missione nei capitoli che seguono.

Al capitolo 1 v. 3 e 4, l’apostolo aveva parlato del pericolo immediato che minacciava i santi di Efeso e contro il quale Timoteo doveva far fronte con l’autorità che gli era conferita. Questo pericolo consisteva soltanto nell’attività di «alcuni». Ma prima di tutto Paolo fa risaltare, al suo fedele discepolo e figlio nella fede, l’importanza che ha agli occhi di Dio l’incarico affidatogli (1 Timoteo 4:14; 2 Timoteo 1:6). Erano state fatte, precedentemente, delle profezie sul dono che doveva ricevere questo fedele collaboratore dell’apostolo. Egli l’aveva dunque ricevuto per profezia, ma gli era stato comunicato per l’imposizione delle mani di Paolo. Questo dono era stato accompagnato dall’imposizione delle mani degli anziani, che rappresenta la loro identificazione (vedere Numeri 8:10) con Timoteo nel suo servizio, e la loro approvazione; ma non gli avevano comunicato nulla. Apparteneva, evidentemente, all’autorità apostolica, e a nessun’altro, il potere di trasmettere occasionalmente un dono — dono di grazia (carisma) o dono dello Spirito per abitare nel credente — dono che, del resto, era il più spesso mandato direttamente dall’alto dal Signore. Ma non vediamo mai gli anziani comunicare un tal dono.

Le profezie, fatte precedentemente riguardo a Timoteo, annunciavano che questi era designato da Dio per «combattere la buona battaglia», una lotta necessaria, destinata a mantenere la sana dottrina nella casa di Dio e a sventare le astuzie del nemico. Questa vittoria poteva avere buon esito soltanto se Timoteo serbava la fede, cioè lo stato d’animo che è fermamente unito all’insieme dell’insegnamento di Dio nella sua Parola. La fede non è più sincera (v. 5) quando la coscienza non è più buona e cerca di sottrarsi, in un modo o in un altro, al controllo di Dio. Vi è dell’inganno nel cuore. Questo stato è il più pericoloso; l’anima si abitua ad evitare la luce della presenza del Signore e della sua Parola.

Soffocare una buona coscienza conduce presto o tardi l’anima ad abbandonare la fede. Tutte le eresie hanno la sorgente in un cattivo stato della coscienza che, fuggendo l’occasione d’incontrare Dio, è lasciata a se stessa ed abbandona così la verità come Dio l’ha insegnata nella sua Parola. Imeneo e Alessandro erano arrivati a quel punto. Non ci è detto che cosa insegnassero, ma la Parola si preoccupa di dirci che erano dei bestemmiatori; senz’altro bestemmiatori contro Cristo, forse in rapporto con la legge, dal momento che Paolo ci dice, descrivendo il suo stato d’inimicizia contro Cristo, che egli stesso era un «bestemmiatore» (v. 13). Al capitolo 4 v. 1 della nostra epistola, l’apostolo ci dice: «Alcuni apostateranno dalla fede», cioè rigetteranno completamente la dottrina cristiana. Qui, non essendo ancora il male arrivato al suo culmine, il fatto era che invece di usare la loro attività per mantenere la fede, avevano fatto personalmente naufragio e, non avendo più bussola per dirigersi, avevano perduto ogni sentimento del valore, della dignità, della santità del Signore.

È possibile che si tratti dello stesso Imeneo che si ritrova in 2 Timoteo 2:17, associato a Fileto nel sostenere una dottrina che chiudeva il cielo ai riscattati e li stabiliva definitivamente sulla terra. Potremmo anche supporre, ma senza altre prove, che Alessandro in 2 Timoteo 4:14 sia diventato il nemico accanito dell’apostolo. L’atto di darlo in mano a Satana aveva avuto luogo effettivamente nel nostro capitolo. In 1 Corinzi 5:5 era l’intenzione di Paolo il farlo, ma non ebbe bisogno di metterlo ad effetto. Quest’atto d’autorità apostolica non è da paragonare con quello dell’assemblea, il cui dovere era di togliere il malvagio di mezzo a se stessa.

I due uomini citati qui, essendo stati abbandonati nelle mani di Satana, erano ormai fuori dell’assemblea; privati del suo controllo e della sua influenza di cui avevano fino allora goduto, erano diventati a causa di questo preda del nemico che ormai non aveva altro scopo che di separarli per sempre da Cristo, senza speranza di ritorno. Eppure anche là, sotto questa terribile condanna, Dio aveva un’intenzione di grazia. La miseria, probabilmente morale e fisica nella quale erano sprofondati, poteva insegnare loro a «non bestemmiare» più, rendendo così possibile un ristabilimento.

2. Capitolo 2

2.1 La preghiera per tutti gli uomini

Vers. 1-7: — «Esorto dunque, prima di ogni altra cosa, che si facciano suppliche, preghiere, intercessioni, ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che sono costituiti in autorità, affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta in tutta pietà e dignità. Questo è buono e gradito davanti a Dio, nostro Salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità. Infatti c’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo, che ha dato sé stesso come prezzo di riscatto per tutti; questa è la testimonianza resa a suo tempo, e della quale io fui costituito predicatore e apostolo (io dico il vero, non mento), per istruire gli stranieri nella fede e nella verità».

Entriamo qui nel nocciolo di questa epistola che è l’edificazione e l’ordine della casa di Dio basata sulla dottrina che è secondo pietà. Non è forse stupendo che la prima esortazione indirizzata agli appartenenti alla casa di Dio sia la preghiera? Infatti il suo ordine è anche legato ai rapporti abituali dei santi con Dio per mezzo di essa. La preghiera stessa ha diversi caratteri:

  1. «Le supplicazioni». Sono le preghiere insistenti che salgono a Dio da cuori che sentono profondamente l’importanza vitale di ciò che chiedono.
  2. «Le preghiere». Sono una forma più abituale e riflettono i desideri, i bisogni, le preoccupazioni giornaliere del cuore.
  3. «Le intercessioni». Sono più intime. Esse provengono da una relazione personale di prossimità e di fiducia con Dio. Ritroviamo questo stesso termine al capitolo 4 vers. 5 tradotto con «preghiera».
  4. L’ultima forma della preghiera consiste in «ringraziamenti», perché colui che si rivolge a Dio attraverso la fede sa di avere le cose che ha richiesto.

 

Queste richieste s’indirizzano a Dio per tutti gli uomini. Nessuno è escluso. Si vede qui quale ruolo deve occupare l’Evangelo nella casa di Dio. Non è forse, infatti, il primo carattere dell’Evangelo quello d’indirizzarsi a tutti, per mezzo della bocca di coloro che fanno parte di questa casa e che il Signore manda per questo scopo? Il Signore ha affidato l’evangelizzazione ai doni che Egli stesso ha suscitato, ma tutta la Chiesa partecipa, con le preghiere e in molti altri modi, a tutta l’opera preziosa che il Dio Salvatore compie nel mondo per mezzo dello Spirito Santo. Quale vasto campo di attività per le nostre anime!

Qui sono usate tutte le forme d’intercessione. Se vi sono molte altre buone opere, ogni preghiera indirizzata a Dio per la salvezza delle anime è una «buona opera». Quante volte preghiamo, durante la giornata, avendo questo scopo davanti a noi? In quale misura realizziamo questa parola: «non cessate mai di pregare», quando si tratta di «pregare per tutti gli uomini»?

«Per i re e per tutti quelli che sono costituiti in autorità», dice l’apostolo. Le autorità del mondo sono raramente oggetto di preghiera nelle assemblee, e tuttavia tali autorità sono poste qui in primo piano quando è fatta menzione di tutti gli uomini. Non è forse per loro mezzo che noi possiamo, per intervento divino in grazia, avere una vita tranquilla e quieta, nella quale possiamo far conoscere al mondo ciò che sono la «pietà» verso Dio e «la dignità» (o «l’onestà») verso gli uomini? Queste qualità potranno meglio svilupparsi in un’atmosfera tranquilla; in tempi di persecuzioni, questa testimonianza serena è intralciata o perduta. La fede e la fedeltà che possono andare fino alla morte, sono allora messe alla prova con le tribolazioni. Dio, che dirige lo spirito degli uomini come vuole (e di uomini che sono spesso simili a bestie feroci), può reprimere i loro istinti più crudeli per dare la pace al suo popolo e favorire il diffondersi normale dell’Evangelo in un’atmosfera di tranquillità.

È da notare che la raccomandazione di pregare per coloro che sono costituiti in autorità è fatta ai cristiani sotto l’imperatore Nerone, il più odioso e crudele nemico dei santi, colui sotto il quale tanti testimoni di Cristo, e lo stesso Paolo, hanno subito il martirio. Neppure una parola di rimprovero contro quest’uomo dalla bocca dell’apostolo, che non lo nomina nemmeno. Egli non protesta contro la sua violenza, di cui al momento opportuno Dio si è servito per riempire di certezza il cuore dei suoi diletti (Apocalisse 2:8-10) e dare loro un incoraggiamento con la ricompensa della corona della vita, preservandoli, almeno per quel tempo, dai pericoli del declino.

Ma non è soltanto in vista di godere della pace o di rendere testimonianza al mondo dell’ordine che regna nella casa di Dio che i cristiani sono esortati a pregare per tutti gli uomini. L’apostolo aggiunge: «Questo è buono e gradito davanti a Dio, nostro Salvatore». È anche in vista di ottenere la Sua approvazione che i santi fanno queste richieste. «Dio nostro Salvatore» vuole così. Egli è colui che ha cominciato a manifestarsi a noi come tale; noi apparteniamo a Lui; Egli è tutto per noi. Noi abbiamo dunque tutta la libertà di fare tali richieste. Quando chiediamo la salvezza del più terribile dei peccatori, sappiamo che richiediamo una cosa perfettamente gradita a Dio. Egli vuole che tutti gli uomini siano salvati. Non si tratta qui dei suoi piani e del suo fermo proposito, ma delle sue vie d’amore verso tutti gli uomini che odono l’Evangelo. Egli vuole. L’abbiamo già detto: il solo ostacolo alla salvezza di tutti gli uomini non è dalla parte di Dio ma proviene, nell’uomo, da una volontà che respinge risolutamente quella di Dio e vi si oppone (Luca 13:34; Giovanni 5:40). Dio vuole non soltanto che tutti siano salvati ma che arrivino alla conoscenza della verità. Conoscere la verità è conoscere Cristo, conoscere la Parola che lo rivela, conoscere ciò che Dio è, conoscere ciò che noi siamo. Questa conoscenza ci costringe a gettarci nelle sue braccia come dei poveri esseri perduti, e a trovare in Lui la nostra sola risorsa come Dio Salvatore.

Questa verità, infatti, era già conosciuta, in una certa misura, sotto la legge che proclama un solo Dio. È a questo Dio che il peccatore deve venire; ma in che modo venire a Lui? L’uomo peccatore è incapace d’avvicinarsi a Dio! Ma qui interviene la verità cristiana, che proclama che vi è «un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo». Egli è venuto quaggiù come uomo per rendere Dio accessibile a tutti. Giobbe diceva che questo arbitro non c’era: «Non c’è fra noi un arbitro (o mediatore), che posi la mano su tutti e due!» (Giobbe 9:33). Ma Giobbe deve imparare che questo arbitre esiste: «Ma se, presso di lui, c’è un angelo,» dice Eliu, «un interprete, uno solo tra i mille, che mostri all’uomo il suo dovere, Dio ha pietà di lui e dice: “Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto (o una propiziazione)” (Giobbe 33:23-24). Il mediatore è venuto nella persona di Cristo, Cristo Gesù uomo che ha preso in mano la causa dei peccatori ed ha trovato una propiziazione, essendosi «dato come prezzo di riscatto per tutti».

Era il solo che potesse far fronte alle condizioni richieste per riconciliarci con Dio, perché:

  1. è diventato uomo per rendere il «solo Dio» accessibile a tutti;
  2. è diventato uomo per darsi in riscatto per tutti: è la propiziazione;
  3. ha dato la sua vita come prezzo di riscatto per molti (Matteo 20:28): è l’espiazione.

 

Quanto alla propiziazione, essa è fatta per tutti. Tutti possono avvicinarsi a Dio. Cristo ha pagato un riscatto, una somma intera, totale, uguale in numero e in valore al debito che si doveva pagare. Tutti possono venire e valersene. Dio ha accettato il riscatto, e al peccatore non rimane altro che venire e credere. Quanto all’espiazione, essa è la parte soltanto dei molti che hanno creduto. In questo caso, il riscatto è considerato come pagato per ogni credente individualmente, e questo lo assimila all’espiazione e alla sostituzione.

Questa verità (v. 4) Dio l’aveva confidata all’apostolo (v. 7), che Egli aveva stabilito per farla annunciare. Essa è in seguito appoggiata e sostenuta dalla condotta della Chiesa in questo mondo (3:15). Era arrivato il momento di rendere questa testimonianza in mezzo alle nazioni, e Paolo era stato stabilito come predicatore, apostolo e dottore per proclamare che queste cose potevano essere acquistate con la fede, e che la verità (tutti i pensieri di Dio) era adesso stata rivelata in Cristo.

2.2 La donna cristiana

Vers. 8-15: — «Io voglio dunque che gli uomini preghino in ogni luogo, alzando mani pure, senza ira e senza dispute. Allo stesso modo, le donne si vestano in modo decoroso, con pudore e modestia: non di trecce e d’oro o di perle o di vesti lussuose, ma di opere buone, come si addice a donne che fanno professione di pietà. La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d’insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio. Infatti Adamo fu formato per primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione; tuttavia sarà salvata partorendo [figli], se persevererà (o meglio: se perseverano) nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia».

Dicendo: «Io voglio dunque», l’apostolo riprende ciò che ha detto, in modo generale, al primo versetto. Non domanda più che si facciano supplicazioni ma specifica chi deve farle, cioè gli uomini, non le donne. Queste ultime non possono manifestarsi pubblicamente. La loro attitudine è tutt’altra. La preghiera non è l’esercizio di un dono ma un’attitudine; è l’espressione di uno stato d’animo di fronte a Dio, la quale può essere esercitata in presenza di tutti, ma soltanto dagli uomini. Queste parole «in ogni luogo» fanno pensare che qui si tratti di preghiera in pubblico, e (dato che il soggetto di questa epistola è l’ordine divino della casa di Dio quando era ancora, come ai tempi dell’apostolo, nella sua pienezza originale) che si tratti di preghiere in qualsiasi luogo in cui la «casa di Dio» si riunisce. È ovvio che qui non è parlato della casa, focolare e rifugio della famiglia, dove le preghiere tanto dell’uomo che della donna hanno piena libertà d’esercitarsi, pur mantenendo la donna, in questo come in ogni altra cosa, la posizione di sottomissione che Dio le ha assegnata nei riguardi di suo marito.

L’apostolo aggiunge: «Alzando mani pure, senza ira e senza dispute». Queste parole indicano che vi sono certi stati d’animo che sono incompatibili con la preghiera nella casa di Dio che è la Chiesa del Dio vivente. La santità di Dio non potrebbe ammettere tali preghiere, perché tutto ciò che è in contraddizione con la purezza, la pace e la fede nel cuore, rende inadatti alla preghiera, e non può trovare accesso davanti a Lui.

L’apostolo continua poi col ruolo delle donne nella casa di Dio. Il pudore e la modestia debbono essere mostrati anche con abiti decenti e non con ornamenti lussuosi ricercati dalle donne del mondo. La tenuta della donna cristiana la fa riconoscere subito, e questa testimonianza può essere più importante delle parole. A questa attitudine, per così dire passiva, si aggiunge la testimonianza attiva delle «buone opere». Esse possono essere fatte verso Cristo, verso i santi, o verso tutti gli uomini, e sono esclusivamente prodotte dall’«uomo nuovo», cioè dai membri della famiglia di Dio. Qualsiasi opera compiuta dall’uomo non convertito non può essere che una «cattiva opera» o, se è buona, un’«opera morta».

L’abbigliamento modesto e le buone opere si addicono dunque «a donne che fanno professione di pietà». È qui che si può afferrare uno dei lati del grande soggetto di quest’epistola: la professione cristiana, che non è affatto separata dalla realtà della vita divina nell’anima. La realtà di questa professione deve mostrarsi nella donna con il suo abbigliamento e con la sua attività. Troviamo in 1 Pietro 3:1-6 delle esortazioni simili.

Al versetto 11 abbiamo altre raccomandazioni indirizzate alla donna cristiana a cui è richiesto di fare dei progressi nella conoscenza della Parola: «La donna impari in silenzio con ogni sottomissione». Molte donne cristiane vengono meno a quest’ordine, anteponendo molta attività esteriore all’attitudine silenziosa di una Maria, seduta ai piedi di Gesù per ascoltarlo e imparare con ogni sottomissione. Ah! quanto poche sono le cose che realizziamo mentre il male, che terminerà con l’apostasia finale, guadagna terreno e si estende come una lebbra nella casa di Dio! Donne cristiane «parlano» ovunque, sono orgogliose d’insegnare, anziché esserne umiliate per la colpevole usurpazione e per la disobbedienza positiva al comandamento del Signore. Per la donna sottomessa alla Parola di Dio questa è una grave violazione all’ordine prescritto per la casa di Dio. Parliamo qui, evidentemente, della donna cristiana, o perlomeno della donna professante il cristianesimo e, di conseguenza, responsabile di sottomettersi alla Parola; la donna del mondo non si può pretendere che si attenga a una regola divina che essa ignora e non può seguire.

La donna «deve stare in silenzio»; è il suo dovere. L’apostolo ne dà due ragioni perentorie. La prima è la preminenza di Adamo su Eva: è stato «formato per primo». La donna è venuta in seguito, tratta da lui e formata come un aiuto convenevole perché, disse l’Eterno Dio, «non è bene che l’uomo sia solo». Così la donna è diventata ossa delle ossa e carne della carne d’Adamo. La seconda ragione è che non è stato Adamo ad essere ingannato, ma Eva, la quale è caduta in trasgressione. Anziché essere un aiuto per l’uomo, essa è stata lo strumento di Satana per sedurlo e condurlo alla disubbidienza.

«Tuttavia» — aggiunge l’apostolo — la donna (non le donne credenti) «sarà salvata partorendo». Vi è salvezza per lei, per quanto ella porti, nel travaglio e nei dolori del parto (*), una conseguenza perpetua del suo errore. Ma i dolori del parto non sono una sentenza pronunciata sulla vita della donna. Mettendo al mondo una creatura, questa vita, invece di essere condannata, è piuttosto preservata (**). Ma vi sono delle promesse per le donne cristiane (da ciò questa parola: «se perseverano» al plurale): una vita di perseveranza nella fede, che si avvale delle promesse di Dio; nell’amore, che è il carattere stesso di Dio, mostrato nella nostra vita pratica; nella santità che è la separazione per Dio da qualsiasi mescolanza col carattere del mondo; una vita che presenta i caratteri preziosi della modestia dipinta in questo passo; ecco una garanzia data da Dio stesso che la donna cristiana sarà preservata in mezzo ai pericoli del parto. Se le donne cristiane non perseverano in queste cose, può esservi contro di loro una disciplina che le priva dei vantaggi che Dio accorda loro in vista dei pericoli del parto.

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(*) Il dolore del parto fa parte del castigo di Dio, ma non il parto stesso. (Nota BibbiaWeb)
(**) Si può anche capire questo versetto così: la salvezza, nella persona di Gesù Cristo, è venuta dalla donna; Cristo è la progenie della donna che ha vinto il serpente (vedere Genesi 3:15 e Galati 4:4). (Nota BibbiaWeb).

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3. Capitolo 3

3.1 I vescovi e i diaconi

Vers. 1-7: — «Certa è quest’affermazione: se uno aspira all’incarico di vescovo, desidera un’attività lodevole. Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola moglie, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino né violento, ma sia mite, non litigioso, non attaccato al denaro, che governi bene la propria famiglia e tenga i figli sottomessi e pienamente rispettosi (perché se uno non sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di Dio?), che non sia convertito di recente, affinché non diventi presuntuoso e cada nella condanna inflitta al diavolo. Bisogna inoltre che abbia una buona testimonianza da quelli di fuori, perché non cada in discredito e nel laccio del diavolo».

Mentre il capitolo 2 trattava in modo generale della condotta degli uomini e delle donne nella casa di Dio, il capitolo 3 entra nei particolari dell’organizzazione propriamente detta di questa casa. Non dobbiamo dimenticare che Timoteo non aveva, come Tito, la missione speciale di stabilire degli anziani, ma quella di vegliare sull’ordine e sulla dottrina che riguardava la condotta di coloro che componevano la casa. Innanzitutto, l’apostolo non insegna tanto, a Timoteo, come deve comportarsi lui, ma come bisogna (1 Timoteo 3:15) che si conducano i diversi elementi che costituiscono la casa; Timoteo stesso, facendone parte, aveva anche lui, come vedremo, dal momento che possedeva un dono, certi doveri e certe responsabilità in quella cerchia.

È incontestabile che colui che aspira alla sorveglianza della casa di Dio «desidera un’attività lodevole» (v. 1). Il sorvegliante o vescovo (episcopo) è esattamente la persona dell’anziano (presbitero). In Atti 20:28, nella stessa assemblea d’Efeso in cui l’apostolo, secondo la nostra epistola, lasciava Timoteo, convoca gli «anziani» e li chiama «vescovi». Qui, «colui che aspira all’incarico di vescovo (sorvegliante), desidera un’attività lodevole», un’opera che ha l’approvazione di Dio, un’opera fatta per Dio e per Cristo e compiuta nell’interesse dei santi (*). Però essa ha questo carattere soltanto quando risponde alle qualità descritte. Potremmo aspirare a tale posizione per ambizione o per orgoglio, come troviamo in questo passo; ma in tal caso, dato che una tale aspirazione ha per scopo la soddisfazione della carne, l’opera non è buona, ma cattiva.

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(*) Può essere utile notare che il greco ha due termini per designare le buone opere, mentre le nostre versioni ne hanno uno solo. Il primo, «ergon agathon», designa tutte le cose buone che dipendono dallo stato morale del cuore purificato dal Signore: amore per i fratelli, simpatia, tatto, ecc… Il secondo, «ergon kalon», è un atto degno di lode e visibile agli occhi degl’uomini: elemosine, visite, cure ai malati, ecc… Citiamo per i lettori ai quali il soggetto interessa tutti i passi dove si trovano questi due termini:

  • «Ergon agathon»: Atti 9:36; 2 Corinzi 9:8; Efesini 2:10; Colossesi 1:10; 2 Tessalonicesi 2:17; 1 Timoteo 2:10 e 5:10; 2 Timoteo 2:21; 3:17; Tito 1:16 e 3:1; Ebrei 13:21; 1 Tessalonicesi 5:15.
  • «Ergon kalon»: Matteo 5:16; 26:10; Marco 14:6; Giovanni 10:32; 1 Timoteo 3:1, 5:10 e 25; 6:18; Tito 2:7 e 14; 3:8; 3:14; Ebrei 10:24; 1 Pietro 2:12.

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L’epistola a Timoteo menziona quattordici requisiti dell’anziano. Questa cifra, cifra di doppia pienezza, sembra insistere sulle qualità morali richieste all’anziano quando la casa di Dio è in ordine. L’apostolo ritornerà più tardi (5:17) su altre qualità del sorvegliante, che sono pure menzionate in Tito 1:6-9.

La parola «irreprensibile» è, come in Tito, la prima della lista, perché riassume tutte le altre qualità. Troviamo poi «marito di una sola moglie», che Tito non menziona. Questa frase fa allusione a un’usanza, comune in mezzo ai pagani (tollerata dalla legge di Mosè, ma non sanzionata dalla volontà divina), che non impediva l’introduzione del nuovo convertito nell’assemblea cristiana, ma lo squalificava in modo assoluto dall’amministrazione della stessa. È riportato abbastanza spesso nelle Scritture lo scompiglio introdotto nella condotta della famiglia dalla presenza di due mogli, per capire il divieto dell’apostolo. L’epistola a Timoteo mette un accento particolare sul fatto che il sorvegliante deve «governare bene la propria famiglia», «tenere i figli sottomessi e pienamente rispettosi» e aggiunge: «se uno non sa governare la propria famiglia, come potrà aver cura della chiesa di Dio?». Se in questo ambito piccolo e ristretto non so mostrare le mie attitudini d’amministratore, come potrò mostrarle nell’assemblea? Questo passo manifesta pure l’immensa importanza che ha per Dio la sua casa quaggiù. Essa è la testimonianza di tutte le virtù cristiane dinanzi ad un mondo che le ignora. Ed è così che mette in luce l’ordine, la disciplina, la dipendenza, la sottomissione, l’ubbidienza, l’umiltà, ma soprattutto la verità divina.

Bisogna dunque che il sorvegliante, o anziano, tenga innanzi tutto la propria famiglia nella disciplina del Signore. Si trova spesso una negligenza di tali principi elementari della Parola laddove, contrariamente alla Parola, gli anziani sono stabiliti dalla congregazione. Capita, fra l’altro, che vengano scelti come anziani delle persone non sposate o senza figli le quali, di conseguenza, non hanno mai avuto l’occasione di dimostrare se erano accreditate o no da Dio per questa carica!

L’apostolo aggiunge due caratteri indispensabili al sorvegliante.

  1. Il sorvegliante non deve essere novizio (o convertito da poco tempo), perché non ha avuto sufficienti occasioni d’esercitare davanti a Dio il giudizio su se stesso e non ha abbastanza esperienza di quel che può fare la carne nel cristiano, per non inorgoglirsi dell’eminente posizione che occupa nella casa di Dio. Ora, l’orgoglio è il peccato del diavolo, che aspirò ad essere uguale a Dio e trascinò l’uomo nello stesso cammino.
  2. Il sorvegliante deve avere «una buona testimonianza da quelli di fuori». Non basta che sia circondato dalla stima e dall’affetto dei suoi fratelli. Bisogna che il mondo, abituato a sparlare dei cristiani come di gente che fa il male, sia confuso in presenza della loro buona coscienza e della loro buona condotta e si trovi costretto, malgrado il suo odio, a rendere loro buona testimonianza.

 

Oltre alle qualità enumerate in primo luogo, abbiamo dunque visto che l’anziano non può essere un nuovo convertito e deve avere una buona testimonianza da parte del mondo, altrimenti cadrebbe nel laccio del diavolo che cerca di gettare l’obbrobrio sul nome di Cristo, screditandolo a causa della condotta dei suoi (2 Timoteo 2:26) quando questa non è accompagnata da una buona coscienza.

***

Vers. 8-13: — «Allo stesso modo i diaconi devono essere dignitosi, non doppi nel parlare, non propensi a troppo vino, non avidi di illeciti guadagni; uomini che custodiscano il mistero della fede in una coscienza pura. Anche questi siano prima provati; poi svolgano il loro servizio se sono irreprensibili. Allo stesso modo siano le donne dignitose, non maldicenti, sobrie, fedeli in ogni cosa. I diaconi siano mariti di una sola moglie, e governino bene i loro figli e le loro famiglie. Perché quelli che hanno svolto bene il compito di diaconi, si acquistano un grado onorabile e una grande franchezza nella fede che è in Cristo Gesù».

È degno di nota il fatto che nell’epistola a Tito, delegato dall’apostolo a stabilire gli anziani, non è fatta alcuna menzione dei servitori dell’assemblea, o diaconi. La ragione di ciò è semplice. In Atti 6, vediamo i servitori scelti non da un delegato degli apostoli, ma dai fratelli, ed in seguito stabiliti dai dodici. Dunque, essi non rientravano nella missione affidata a Tito. Nella prima epistola a Timoteo si tratta non tanto dell’elezione degli anziani quanto dei requisiti di coloro che hanno incarichi nella casa di Dio, dove servitori uomini o donne (diaconesse) devono trovare largamente posto.

Queste qualità hanno rapporto soprattutto con la loro personalità morale. I servitori devono essere dignitosi. Il servitore deve essere conosciuto come rappresentante, nel suo servizio, della dignità del suo Capo, e compenetrato egli stesso della propria responsabilità a questo riguardo. Non deve essere doppio in parole, perché fa parte di un insieme destinato a testimoniare la verità e a sostenerla. Non deve essere dedito a troppo vino, che gli farebbe perdere l’attenzione continua che deve dedicare nel suo servizio. Non deve essere avido di illeciti guadagni, perché è illecito convertire il servizio del Signore in un mezzo di guadagno. Deve infine ritenere «il mistero della fede in una coscienza pura».

Un mistero è sempre una cosa prima nascosta, poi rivelata. Il mistero della fede è l’insieme delle verità che costituiscono il Cristianesimo, e che sono state pienamente messe in luce dalla morte e dalla risurrezione di Cristo. Tutte le verità relative alla posizione celeste del cristiano, rivelate per la prima volta a Maria di Magdala; tutte le verità dipendenti da un Cristo glorioso e seduto alla destra di Dio, quelle, cioè, affidate a Paolo concernenti la Chiesa, la sua unione in un solo corpo con Cristo, «capo» glorioso nel cielo, la sua dignità di Sposa di Cristo e la speranza della venuta del Signore; tutte queste, ed altre ancora, costituiscono il «mistero della fede».

Spesso i cristiani che occupano degli umili posti, diciamo, di servizio, nella casa di Dio, sono lontani da ciò che è richiesto qui dai servitori. Così non era di Stefano, né di Filippo, che erano fra i «sette» scelti per il servizio dei fratelli di Gerusalemme (Atti 6:3-6). Tutti e due avevano acquistato nel loro servizio «un grado onorabile e una grande franchezza nella fede che è in Cristo Gesù»; il primo, rendendo testimonianza di tutto l’insegnamento dato allo Spirito Santo inviato dal cielo, il secondo, annunziando con potenza nel mondo l’evangelo della salvezza. Così, la predicazione dell’insieme della rivelazione divina fu affidata a due servitori che avevano acquistato un buon grado nelle umili funzioni che erano state loro affidate.

Non è, in fondo, soltanto la conoscenza delle verità celesti e del mistero della Chiesa che è loro richiesta, ma il ritenerla «in pura coscienza». Bisogna che una vita irreprensibile davanti a Dio corrisponda a questa conoscenza, e che essa non sia una pura questione intellettuale. Ci vuole uno stato morale che raccomandi la verità che si presenta.

I servitori, come i sorveglianti, devono essere «prima provati». Non si tratta qui, penso, di un certo periodo d’iniziazione dopo il quale i diaconi o gli anziani potevano essere revocati, ma di una minuziosa e pratica inchiesta al momento in cui entravano nel loro servizio, affinché tutte le loro qualità corrispondessero al quadro che la Parola ci fa di chi ha degli incarichi nella casa di Dio. Dopo questa «inchiesta», i servitori potevano entrare nel loro servizio.

L’apostolo passa poi ai caratteri richiesti alle donne. Non dice le «loro mogli» (*), perché non tutte le mogli dei diaconi potevano essere delle «diaconesse», e forse include in questo termine anche le mogli degli anziani. In paragone all’uomo, a loro è domandato poco, e si tratta soprattutto di cose nelle quali una moglie è più che altri in pericolo di cadere. La loro «serietà» deve accordarsi con quella dei loro mariti. Quanto sovente il disaccordo fra marito e moglie, riguardo alla serietà da manifestare nella vita quotidiana, ha danneggiato la testimonianza che era stata loro richiesta!

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(*) Le traduzioni Diodati e Nuova Diodati di questo versetto sono inesatte. (Nota BibbiaWeb)
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La maldicenza è diventata nelle donne la conseguenza della loro tendenza a vane chiacchiere, ma può dipendere anche dal fatto che, essendo forse presenti alle confidenze che i loro mariti ricevono, esse non sanno imporsi la riservatezza necessaria nel servizio che condividono con i loro mariti. La sobrietà può anche riguardare alimenti verso i quali le donne potrebbero avere una certa golosità, ma soprattutto è il ritegno che impedisce loro di lasciarsi andare alle proprie suggestioni. Infine, esse devono essere «fedeli in ogni cosa»; debbono mostrare nel loro servizio una rigida fedeltà, non approfittando di nulla per se stesse e non favoreggiando l’uno a detrimento dell’altro.

Dopo aver parlato delle donne, l’apostolo ritorna ai servitori nei loro rapporti con la famiglia. Il loro dovere nell’interno della casa è lo stesso di quello degli anziani. Bisogna che l’ordine della casa di Dio sia rappresentato nel dominio ristretto delle dimore private. Per quanto secondario sia, in apparenza, l’ufficio del diacono, esso ha una grande importanza nella testimonianza. Vediamo in Atti 6 l’importanza che gli apostoli attribuivano a questo servizio. Bisogna che questi uomini abbiano «buona testimonianza» e che siano «pieni di Spirito Santo e di sapienza». Saranno così dei servitori come lo furono Stefano e Filippo. Se servono bene «si acquistano un grado onorabile (in altre parole, salgono di grado) e una grande franchezza nella fede che è in Cristo Gesù».

3.2 La chiesa del Dio vivente e il mistero della pietà

Vers. 14-16: — «Ti scrivo queste cose sperando di venir presto da te, affinché tu sappia, nel caso che dovessi tardare, come bisogna comportarsi nella casa di Dio, che è la chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità. Senza dubbio, grande è il mistero della pietà: Colui che è stato manifestato in carne (*), è stato giustificato nello Spirito, è apparso agli angeli, è stato predicato fra le nazioni, è stato creduto nel mondo, è stato elevato in gloria».

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(*) I migliori manoscritti dicono: Dio è stato manifestato in carne (vedere la traduzione Nuova Diodati).
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Dopo aver mostrato quali debbono essere i caratteri morali e la condotta dei sorveglianti, dei servitori e delle diaconesse nella casa di Dio, i cui principi sono diametralmente opposti a quelli del mondo, il pensiero dell’apostolo ritorna al suo caro figlio Timoteo. Sebbene Timoteo fosse chiamato a sorvegliare sull’ordine della casa di Dio, fino al ritorno dell’apostolo, in mezzo a coloro che sono chiamati ad osservare questo ordine, anche lui doveva sapere come condursi in questa casa. Il capitolo seguente ci presenterà particolarmente la condotta individuale di Timoteo.

Vi fu un momento, descritto nei primi capitoli degli Atti, in cui, in seguito all’effusione dello Spirito Santo alla Pentecoste, non vi era differenza fra «i materiali» con cui Dio edificava la sua casa e quelli coi quali l’uomo la costruiva, avendo Dio affidati questi materiali alla responsabilità dell’uomo. Questo momento durò poco. All’inizio, la fede vivente e la professione erano inseparabili. Tutti i membri della famiglia cristiana avevano parte al privilegio della casa di Dio nella Chiesa del Dio vivente. Ma non appena fu affidata alla responsabilità di coloro che ne facevano parte, un poco alla volta si manifestò il declino, ed essa cominciò a guastarsi in mille maniere. Gli esempi di Anania e Saffira, che mentirono allo Spirito Santo, e in seguito i mormorii, le divisioni, le sette, l’impurità, il legalismo, le cattive dottrine, furono gli elementi di questo declino. Più tardi vennero «i lupi rapaci», «le dottrine perverse» e gradualmente, già in embrione al tempo degli apostoli, lo stato citato nella seconda epistola a Timoteo, in quella di Giuda e nella seconda epistola di Pietro, stato che abbiamo oggi sotto gli occhi ancor più clamoroso, e che porterà all’apostasia finale, rappresentata dalla «grande prostituta» dell’Apocalisse.

Nella prima epistola a Timoteo e in quella a Tito, la forza per combattere il male, come pure la fedeltà cristiana, si trovano ancora nella maggior parte dei cristiani, e coloro che si oppongono alla sana dottrina nell’assemblea non sono che un esiguo numero (1 Timoteo 1:3; 4:1). L’apostolo può insegnare al suo fedele discepolo «come bisogna comportarsi nella casa di Dio», e questa espressione caratterizza tutto il contenuto della prima epistola a Timoteo.

Non bisogna pensare che, dal momento che il male ha invaso tutto e che la casa di Dio è diventata «una grande casa» (2 Timoteo 2:20), il cristiano non possa realizzare ciò che la casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, deve essere, malgrado l’abbandono generale della verità che la caratterizza oggi. Il consiglio di Dio è immutabile; ciò che ha decretato, lo stabilirà per sempre. Chi potrà distruggere l’unità della Chiesa, il corpo di Cristo? Chi potrà impedire alla Chiesa d’essere la Sposa di Cristo? Se l’unità della Chiesa non è visibile in questo mondo, essa può essere manifestata dai due o tre riuniti alla tavola del Signore. Se la Chiesa, che è la Sposa di Cristo, gli è diventata infedele, questi stessi due o tre possono realizzare per la fede questa parola: «Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni». Se la Chiesa, abitazione di Dio per lo Spirito, è in rovina, alcuni possono realizzare il suo buon ordine, come Dio l’ha stabilito, e continuare a rendere testimonianza alla verità di cui essa è la colonna e la base.

In questa maniera, le esortazioni contenute qui sono realizzabili come nei più bei giorni della Chiesa. Applichiamole dunque a noi, seriamente. Rispondiamo al voto dell’apostolo che desidera che sappiamo come condurci in questa casa. Grazie a Dio, essa esiste, lo Spirito di Dio vi abita, la verità vi si trova, la Parola di Dio vi è predicata, e coloro che mantengono queste verità sono felici e provano cosa significa avere la potenza di Dio come soccorso alla loro estrema debolezza. Distogliamo i nostri sguardi da ciò che l’uomo ne ha fatto e contempliamola con gli occhi di Dio, vediamo come Egli la stabilirà quando tutti i suoi consigli riguardo ad essa saranno realizzati.

Impariamo per mezzo della Parola di Dio come dobbiamo comportarci in essa. Seguiamo scrupolosamente, coscienziosamente, ciascuna delle sue istruzioni; anche se fossimo due o tre per metterle in pratica, resteremo ancora, simili a Filadelfia (Apocalisse 3:10), la testimonianza dinanzi al mondo di ciò che è questa casa.

 

  • Essa è la «casa di Dio». La casa di Dio rappresenta la Chiesa costruita e stabilita quaggiù; non si tratta qui, come abbiamo accennato all’inizio, del corpo di Cristo e della sua posizione celeste unita al suo Capo glorioso nel cielo. La casa di Dio è stabilita affinché il mondo che la circonda comprenda ciò che Dio è, vedendo che il suo funzionamento è secondo i pensieri di Dio.
  • Essa è «la Chiesa del Dio vivente». È di questa Chiesa formata da pietre viventi che il Figlio di Dio è «la pietra angolare». È là che la potenza della vita divina agisce per mezzo dello Spirito Santo. È là che Egli abita. Cristo, che costruisce questa Chiesa, l’ha fatta in virtù della sua risurrezione dai morti, come Figlio del Dio vivente.
  • Essa è la «colonna e sostegno della verità». Questa casa ha una testimonianza pubblica da rendere dinanzi al mondo. Questa testimonianza è la verità tutta intera. Queste due cose dunque, la presenza del Dio vivente, nella persona di Cristo, per mezzo dello Spirito Santo, e la verità, sono ciò che la caratterizzano. Notiamo ancora una volta che si tratta qui della Chiesa così come Dio l’ha stabilita quaggiù per rendere testimonianza di fronte al mondo e non della chiesa corrotta e travestita quale l’uomo l’ha fatta. Dio ha dato questa missione alla sua Chiesa, e questa missione sussiste. Egli vuole, per mezzo di essa, far conoscere i suoi pensieri nel mondo. Questa casa dunque, e nessun altro posto, è il luogo in cui la verità è proclamata e la sua «professione» mantenuta. Tutto ciò che il Nemico ha fatto per minare la verità non serve ad altro che a metterla in luce.

 

La verità è il pensiero di Dio su ogni cosa, su ciò che è Egli stesso, su ciò che è l’uomo, su ciò che sono il cielo, la terra, l’inferno, Satana e il mondo. Questa verità ci è pienamente rivelata nella persona di Cristo, per mezzo della sua Parola e del suo Spirito. Ed è per questo che Cristo, la Parola e lo Spirito sono chiamati «verità»; ma la verità si riassume in questa Persona, proclamata e rivelata (vedere Giovanni 14:6; 17:17; 1 Giovanni 5:7). Il mondo deve vedere nella Chiesa, e per mezzo della Chiesa, tutto ciò che essa conosce di Cristo, tutto ciò che fa di lei la sua testimone.

La Chiesa è la colonna sulla quale il nome di Cristo, la verità, è scritto, per farlo conoscere al mondo intero. Che vasta missione! In questo consiste la testimonianza della Chiesa. Anche nel caso in cui la Parola fosse interamente sconosciuta, la Chiesa dovrebbe, per mezzo di tutta la sua condotta, fare risplendere Cristo agli occhi di tutti. La Chiesa è il sostegno della verità, il piedistallo sul quale la verità è appoggiata, la base sulla quale Dio l’ha posta.

Come è per la Chiesa del Dio vivente, così è anche per l’individuo. Se Cristo abita per la fede nei nostri cuori, noi diventiamo individualmente i suoi testimoni nel mondo, una lettera di Cristo, conosciuta e letta da tutti gli uomini. Come diceva un fratello, colui che si avvicina a questa casa deve vedere Cristo alla finestra! L’apostolo, parlando di se stesso, dice: «Rendendo pubblica la verità, raccomandiamo noi stessi alla coscienza di ogni uomo davanti a Dio» (2 Corinzi 4:2).

Dopo aver parlato della verità, concentrata nella persona di Cristo, nella sua Parola e nel suo Spirito, proclamata dalla Chiesa, l’apostolo parla d’un soggetto che si lega intimamente al precedente, cioè quello della pietà, delle relazioni dell’anima con Dio, e mostra qui ciò che produce tali relazioni e le mantiene. Perché non è tutto appartenere a questa casa di Dio, colonna e sostegno della verità; bisogna anche che in coloro che compongono questa casa vi sia la pietà, cioè il rapporto personale della loro anima con Dio. Come questi rapporti possono prodursi e mantenersi? È qui il mistero (*) o il «segreto» della pietà. Notate che, nel Nuovo Testamento, un mistero non è mai una cosa nascosta, ma al contrario un segreto pienamente rivelato.

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(*) Coloro che desiderassero studiare questo soggetto «il mistero», ne troveranno tutti gli elementi nei passi seguenti Matteo 13:11; Romani 11:25; 16:25; 1 Corinzi 2:7; 4:1; 13:2; 15:51; Efesini 1:9; 3:3; 4:9; 5:32; 6:19; Colossesi 1:26-27; 2:2; 4:3; 2 Tessalonicesi 2:7; 1 Timoteo 3:9 e 16; Apocalisse 1:20; 10:7; 17:5 e 7.
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La pietà è un insieme di due sentimenti che crescono nell’anima, man mano che le sue relazioni con Dio diventano abituali e più intime (perciò il cristiano è tenuto ad «esercitarvisi» – vedere 4:7). Il primo di questi due sentimenti è il timore di Dio (*). L’anima, non appena è ammessa nella piena luce della Sua presenza, impara a odiare il male perché Dio lo odia e ad amare il bene perché Dio lo ama. Questo timore, lungi dal farci fuggire la presenza di Dio, ci avvicina a Lui e ci riempie di fiducia (il secondo sentimento), perché sappiamo che soltanto Lui è capace di condurci e mantenerci fino alla fine, lungo questa via. Tutte le benedizioni della nostra marcia cristiana dipendono dalla pietà; di qui l’importanza di conoscere il segreto e il modo col quale essa può essere prodotta e accresciuta nei suoi.

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(*) Notare in Ebrei 5:7 l’identificazione della pietà col timore di Dio (la parola greca usata in questo versetto ha il doppio significato di pietà e di timore: parag. le versioni Nuova Riveduta e Nuova Diodati).
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Questo segreto consiste nell’essere occupati di un solo oggetto, di Dio «venuto in carne», cioè Cristo uomo.

La dottrina che è secondo pietà (6:3) contiene molte cose e dobbiamo riprometterci di non trascurarne nessuna; ma la pietà stessa non ha che un oggetto: l’uomo Cristo Gesù, conosciuto personalmente; essa proviene da questa conoscenza.

Abbiamo già visto ciò che è «il mistero della fede» (3:9). Nonostante la sua immensa importanza e la sua ricchezza, quello non è chiamato grande, come il mistero della pietà. Il primo è composto di tutte le verità che sono la conseguenza della redenzione, ma il mistero della pietà non è un insieme di dottrine: è la rivelazione d’una Persona, la rivelazione di Dio, in altri tempi Dio invisibile, reso visibile nella persona di un uomo.

Questa parola «la pietà» si trova, in un modo quasi esclusivo, nella seconda epistola di Pietro e nelle epistole pastorali, ma, soprattutto, nell’epistola che stiamo studiando. La pietà non può formarsi che su quanto è stato rivelato della persona di Cristo.

Dio, luce e amore, è stato «manifestato in carne», cioè in un uomo.

Dio, manifestato in questo modo, è stato «giustificato nello Spirito». Innanzi tutto, l’assenza in Lui di ogni peccato è stata dimostrata durante la sua vita dalla potenza dello Spirito Santo; in seguito, Egli è stato giustificato, secondo questo stesso Spirito, nella risurrezione dai morti. Per conoscere Dio, imparare la sua giustizia, vederlo, sentirlo, credere in Lui, ho bisogno di Cristo uomo. È su quest’uomo che sono basate tutte le relazioni fra Dio e gli uomini.

«È apparso agli angeli». Dio è stato visto dagli angeli quando si è manifestato in carne. Dal momento che Egli è venuto quaggiù come piccolo fanciullo, nella mangiatoia, essi lo vedono. Steso nel sepolcro, gli angeli lo contemplano. Sono i primi alla sua nascita, i primi alla sua resurrezione.

«È stato predicato fra le nazioni». Dio venuto in carne è il soggetto della testimonianza dei credenti non solo fra i Giudei ma nel mondo intero.

Ed «è stato creduto nel mondo», è diventato un oggetto di fede, non più di vista, in questo mondo.

«È stato elevato in gloria». Venuto come uomo quaggiù, è salito come uomo nella gloria. Ed ora è là che la pietà lo vede, lo conosce, si intrattiene con Lui, cerca di essergli gradita, si rivolge a Lui. Tutti i sentimenti della pietà stanno attorno a Lui che è il centro.

Quindi il segreto della pietà e delle relazioni dell’anima con Dio, basate sul timore di Dio e sulla fiducia in Lui, le troviamo nella conoscenza della persona di Cristo. Nella seconda epistola ai Tessalonicesi 2:7, si trova, terribile contrasto, «il mistero dell’empietà» che è la negazione di Gesù Cristo venuto in carne, al quale Satana sostituirà l’Anticristo (1 Giovanni 4:12).

Nei tre primi capitoli della nostra epistola abbiamo trovato: nel capitolo 1 v. 15, l’opera di Cristo per i credenti; nel capitolo 2 v. 4, la sua opera per tutti gli uomini; nel capitolo 3 v. 15, la sua Persona come verità; nel capitolo 3 v. 16, la sua Persona come base unica di tutta la pietà.

4. Capitolo 4

4.1 I falsi dottori e le apostasie a venire

Vers. 1-5: — «Ma lo Spirito dice esplicitamente che nei tempi futuri alcuni apostateranno dalla fede, dando retta a spiriti seduttori e a dottrine di demòni, sviati dall’ipocrisia di uomini bugiardi, segnati da un marchio nella propria coscienza (o meglio: cauterizzati, resi insensibili nella propria coscienza). Essi vieteranno il matrimonio e ordineranno di astenersi da cibi che Dio ha creati perché quelli che credono e hanno ben conosciuto la verità ne usino con rendimento di grazie. Infatti tutto quel che Dio ha creato è buono; e nulla è da respingere, se usato con rendimento di grazie; perché è santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera».

Questi versetti sono la controparte dei versetti 15 e 16 del capitolo precedente. Ci fanno intravedere ciò che accadrà negli ultimi tempi in questa casa stabilita come colonna e sostegno della verità. Questo passo non descrive l’ultima fase dell’apostasia, che ci è rivelata nel mistero dell’iniquità di 2 Tessalonicesi 2:7-12; la rovina della Chiesa responsabile, già iniziata, come abbiamo visto, al tempo degli apostoli, andrà accentuandosi sempre più, e questo passo non ci dà l’ultimo periodo, ma ci descrive ciò che vediamo delinearsi sempre più chiaramente in mezzo alla cristianità professante.

È per questo che l’apostolo parla qui, in modo generale, degli «ultimi tempi» e di «alcuni» che «apostateranno dalla fede». Quest’abbandono completo delle verità non è dunque ancora diventato generale, ma era «esplicitamente» annunziato già al tempo degli apostoli. Non è necessario cercare questa profezia «dello Spirito» in un passo speciale della Parola; la troviamo qui espressa per bocca degli apostoli.

Benché si tratti solo di alcuni, la loro condizione è spaventosa. «Apostateranno dalla fede». Con questo termine la Parola descrive l’abbandono pubblico d’un insieme di dottrine affidate alla fede e ricevute da essa. Ciò implica, contrariamente a quanto altri hanno detto, qualcosa di molto più grave che la proibizione di sposarsi e la prescrizione di astenersi dal mangiare carne. È, in primo luogo, l’attaccamento a «spiriti seduttori» e a «dottrine di demoni». Gli spiriti dei demoni si sostituiscono allo Spirito di Dio, pur professando di dipenderne, e si impongono alle anime per far loro abbandonare Cristo. Coloro che insegnano a queste sventurate vittime proferiscono, con ipocrisia, delle menzogne. Hanno «un’apparenza» di pietà, per mantenere e assoggettare le anime a Satana. Su questa strada di menzogna la loro coscienza non li arresta né li intralcia, perché essa è «cauterizzata», priva di qualsiasi sentimento del bene e del male, di ciò che è giusto e di ciò che non lo è. Troviamo qui una progressione nel male. Al capitolo 1 v. 19, questi falsi dottori avevano semplicemente «rinunziato a una buona coscienza»; qui l’hanno distrutta e ridotta definitivamente al silenzio, il che li rende assolutamente insensibili a qualsiasi appello che questa coscienza avrebbe potuto indirizzare loro. Che cosa terribile! Quando la coscienza ha perduto ogni sensibilità ed è definitivamente indurita, non vi è più speranza, poiché lo Spirito non può più condurre un peccatore davanti a Dio.

Tutte le manifestazioni spiritistiche, presentate sotto una forma religiosa, non sono forse oggi il commento vivente di queste parole?

E aggiungete ancora certe prescrizioni ascetiche provenienti da errori gnostici, che non hanno tardato ad infiltrarsi, anche se in parte, nel cattolicesimo, e tuttora sussistono. Gli gnostici insegnavano che vi erano due principi divini, uno cattivo, residente nel corpo, e uno buono, nell’anima. Solo praticando l’ascetismo si poteva essere affrancati dal primo! Conosciamo l’abisso di corruzione che hanno provocato tali pratiche eretiche. Riprendendo il soggetto dell’astensione dal mangiare carne, l’apostolo fa notare che coloro «che hanno ben conosciuto la verità», della quale la Chiesa del Dio vivente è la base e la colonna, non possono lasciarsi ingannare da queste menzogne. Come potrebbe esserci peccato nel nutrirsi di creature di Dio, quando lo si fa con azioni di grazie? «Tutto quel che Dio ha creato è buono» (cfr. pure 1 Corinzi 10:25-26) perché diventa per il fedele, quando ne mangia, un’occasione d’esprimere a Dio la propria riconoscenza. Nessuna creatura è da rigettare, perché ce lo dice la Parola di Dio. Se la legge dichiarava certe creature pure ed altre impure, la Parola di Dio, sotto il regime della libertà della grazia, insegna a non considerare impuro ciò che Dio ha purificato; quindi possiamo mangiare di tutto, quadrupedi, rettili della terra e uccelli del cielo (Atti 10:12-15).

Tutte queste cose sono doni di Dio; noi rendiamo grazie, prendendoli, e così siamo messi in rapporto, per mezzo della preghiera, con Dio che ce li ha dati. Questa parola «preghiera», tradotta «intercessione» al capitolo 2 v. 1 si riferisce piuttosto ai rapporti personali d’intimità con Dio. La Parola ci dà questi alimenti, la preghiera li riceve come messi da parte per noi e noi ne rendiamo grazie. Vediamo in questi alimenti uno dei numerosissimi atti della bontà di Dio che ci consente di far uso di queste creature. È, del resto, ciò che Dio aveva detto a Noè dopo il diluvio (Genesi 9:3).

4.2 Come Timoteo debba esercitare il suo ministero con fedeltà e diligenza

Vers. 6-8: — «Esponendo queste cose ai fratelli, tu sarai un buon servitore di Cristo Gesù, nutrito con le parole della fede e della buona dottrina che hai imparata. Ma rifiuta le favole profane e da vecchie; esèrcitati invece alla pietà, perché l’esercizio fisico è utile a poca cosa, mentre la pietà è utile a ogni cosa, avendo la promessa della vita presente e di quella futura».

Timoteo doveva proporre queste cose ai fratelli. Vediamo qui le funzioni di servitore di Gesù Cristo che egli aveva: doveva mettere in guardia i fratelli contro gli insegnamenti satanici e quelle persone che volevano ricondurli alla legge, dicendo: «Non toccare, non assaggiare, non maneggiare» (Colossesi 2:21). Così facendo era un buon servitore (diakonos) nella Chiesa del Dio vivente; non però con un titolo ufficiale, come i diaconi e le diaconesse, ma con un servizio generale, grazie al dono che gli era stato conferito per profezia. «Nutrito con le parole della fede e della buona dottrina che hai imparata (o seguita da presso)»: era il suo nutrimento, e per questo era un buon servitore. La buona dottrina e la fede che la riceve non debbono mai essere separate, e si vede quale scopo vitale ha l’insegnamento della verità presentata in questa maniera. Ciò contraddice, nel modo più categorico, le tendenze attuali della cristianità professante che separa lo studio della Parola dalla fede, e che predica la pratica cristiana senza la dottrina sulla quale è basata e stabilita, e senza la conoscenza della persona di Cristo, solo segreto di questa pratica. Questa dottrina era stata affidata a Timoteo (*).

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(*) I seguenti sono tutti passi che nelle epistole pastorali si riferiscono alla dottrina e all’insegnamento: 1 Timoteo 1:10; 4:1,6,11,13,16; 5:7; 6:1,2,3; 2 Timoteo 2:2; 3:10,16; 4:3; Tito 1:9; 2:1,7,10.
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Insegnando la buona dottrina, Timoteo doveva rigettare «le favole profane e da vecchie», che non solo non dovevano essere considerate, ma che pure bisognava risolutamente rifiutare e respingere perché corrompevano la preziosa verità di Dio. Timoteo, nel suo insegnamento, doveva mostrare l’immenso ruolo della pietà pratica, dei rapporti di timore e di fiducia dell’anima con Dio, nella dottrina cristiana. Ma anche lui doveva esercitarsi a praticare abitualmente i rapporti di comunione della sua anima con Dio. La carne sollecita a coltivare dei rapporti col mondo e con le cose visibili e non favorisce le relazioni col Signore.

È la stessa cosa per «l’esercizio fisico». Non penso che si tratti qui di torture volontarie come qualcuno ha detto, ma di esercizi fisici utili non soltanto alla salute ma anche all’equilibrio dello spirito. Queste cose non sono dunque proibite al cristiano, ma la loro utilità è ristretta, contrariamente all’opinione che prevale oggi nel mondo. La pietà è invece utile ad ogni cosa. Essa ha una promessa: può condurci a tralasciare l’esercizio corporale affinché non perdiamo nulla della relazioni della nostra anima con Dio; ma soprattutto ci garantisce che Dio ha cura della vita presente dei credenti. È una promessa; non permetterà che la loro vita sia raccorciata per mancanza d’esercizio corporale. Paolo prigioniero è un esempio di questo principio. Ancora più di questo, la pietà, l’esercizio spirituale, ha anche la promessa di una vita che è al di là della vita presente e apre degli orizzonti mille volte più preziosi della vita passeggera di quaggiù. Come vedremo, Timoteo era chiamato ad afferrare questa vita (6:12).

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Vers. 9-10: — «Certa è quest’affermazione e degna di essere pienamente accettata (infatti per questo fatichiamo e combattiamo): abbiamo riposto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il Salvatore di tutti gli uomini, soprattutto dei credenti».

«Certa è quest’affermazione e degna di essere pienamente accettata». Abbiamo visto questa stessa espressione al capitolo 1:15 in rapporto all’opera di Cristo e alla salvezza che è la parte della fede. Una tale verità è di certezza assoluta e deve essere pienamente accettata. L’apostolo collega qui la stessa certezza alla pietà, che è utile a tutte le cose. La fede e la pietà hanno la stessa importanza riguardo alle loro conseguenze eterne: la prima, la salvezza per mezzo di Cristo, la seconda, la vita futura. Era perché la pietà fosse realizzata dai cristiani che Paolo lavorava e sopportava l’obbrobrio. Egli era (1:16) d’esempio a coloro che avrebbero creduto in Cristo per la vita eterna; qui, è d’esempio a coloro che hanno messo la loro speranza nel Dio vivente. Attraverso tutte le sue sofferenze egli pensava a mantenere i rapporti benedetti dell’anima con Dio, sia per sé, sia per i suoi fratelli, e sapeva che questo Dio, Salvatore di tutti gli uomini e specialmente dei credenti, non avrebbe mancato di conservare la sua vita attraverso tutti i pericoli che la minacciavano. Come è il Creatore, è anche il Salvatore di tutti gli uomini, senza distinzione del loro stato morale; ma, come l’apostolo dimostra, lo è particolarmente per i credenti, perché il mondo non ha né la promessa della vita presente né quella della vita futura.

Desidero aggiungere ancora qualche parola sul soggetto così importante della pietà. Abbiamo già detto: essa è il mantenimento abituale delle relazioni dell’anima con Dio. La pietà è menzionata e raccomandata soltanto nelle tre epistole pastorali e nella seconda epistola di Pietro. Questa parola si ritrova nove volte nella prima epistola a Timoteo, due volte nella seconda epistola a Timoteo, due volte in quella a Tito, quattro volte nella seconda epistola di Pietro. Dio insiste, per mezzo dello Spirito Santo, perché vuole occuparci del pericolo del declino della Chiesa, poi del suo avvenuto declino, infine della rovina che precede la sua apostasia finale. In tutti questi casi, la salvaguardia si trova nelle relazioni individuali dell’anima con Dio. Nella prima epistola a Timoteo, in cui la casa di Dio non è ancora in rovina, la pietà è menzionata come salvaguardia per il mantenimento di questa casa e degli individui che la compongono. In Tito 1:1 la conoscenza della verità deve produrre la pietà. In 2 Timoteo 3:5, quando la rovina è ormai completa, la pietà non è più che una formula senza potenza. Nella seconda epistola di Pietro, che presagisce i tempi della fine, essa è un dono di Dio che il fedele deve ritenere come cosa preziosa (*).

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(*) Questi i passi che si riferiscono alla pietà: 1 Timoteo 2:2; 3:16; 4:7,8; 6:3,5,6,11; 2 Timoteo 3:5,12; Tito 1:1; 2:12; 2 Pietro 1:3,6; 3:11.
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Vers. 11-16: — «Ordina queste cose e insegnale. Nessuno disprezzi la tua giovane età; ma sii di esempio ai credenti, nel parlare, nel comportamento, nell’amore, nella fede, nella purezza. Àpplicati, finché io venga, alla lettura, all’esortazione, all’insegnamento. Non trascurare il carisma che è in te e che ti fu dato mediante la parola profetica insieme all’imposizione delle mani dal collegio degli anziani. Òccupati di queste cose e dèdicati interamente ad esse perché il tuo progresso sia manifesto a tutti. Bada a te stesso e all’insegnamento; persevera in queste cose perché, facendo così, salverai te stesso e quelli che ti ascoltano».

«Ordina queste cose e insegnale». Ordinare era il vero compito affidato a Timoteo. Ed era per questo che l’apostolo lo aveva pregato di restare ad Efeso (1:3); ma gli era stato ricordato (1:5) che lo scopo dell’incarico era l’amore! Questo incarico gli era stato affidato per profezia (1:18). Ciò nonostante, la sua stessa missione era subordinata all’autorità dell’apostolo, del quale era delegato, e che gli dice, al capitolo 6:14: «Ti ordino di osservare questo comandamento».

Nei versetti che abbiamo letto troviamo, come abbiamo notato più sopra, le raccomandazioni personali dell’apostolo a Timoteo. Il punto principale di queste raccomandazioni è, in tutta questa epistola, la dottrina, o l’insegnamento. Quest’ultimo è menzionato tre volte nei versetti già citati. Timoteo doveva insegnare le cose che l’apostolo gli aveva affidate; doveva attendere all’insegnamento, quanto alla sua azione pubblica (v. 13), doveva impegnarvisi per se stesso (v. 16).

Ma questo passo implica molti altri punti, e le esortazioni che contiene sono molto preziose perché s’indirizzano a tutti quelli che sono impegnati nell’opera del Signore.

La giovane età di Timoteo, nell’adempimento di così gravi e importanti funzioni, soprattutto nell’insegnamento fra i santi, poteva esporlo al disprezzo dei malintenzionati. Il modo di ottenere il rispetto era d’essere un modello per tutti, d’essere alla testa dei fedeli come oggetto da imitarsi. Tale era lo stato dell’apostolo stesso quando diceva: «Siate miei imitatori, fratelli, e guardate quelli che camminano secondo l’esempio che avete in noi» (Filippesi 3:17). E qui: «Sii di esempio ai credenti, nel parlare, nel comportamento». Due cose troppo sovente dissociate nella vita del cristiano e che dovrebbero, invece, essere il riflesso l’una dell’altra! Riguardo allo stato interiore, esso doveva innanzitutto manifestarsi con «l’amore». È «lo scopo di questo incarico» (1:5), il grande scopo, il vero risultato della sua attività; ma l’amore è inseparabile dalla «fede», questa energia dell’anima che afferra le promesse di Dio. Infine Timoteo doveva distinguersi per la «purezza», nei pensieri, nelle parole e nella condotta.

Ma riprendiamo ancora una volta, su questo soggetto, il significato della parola fede in quest’epistola. Essa può essere, come abbiamo detto, e come lo è generalmente altrove, l’energia dell’anima, prodotta per grazia, che afferra Cristo come oggetto di salvezza (1:5,16; 3:9,13; 4:6). Questa fede è spesso abbinata all’amore (1:14; 2:15; 4:12; 6:11).

In altri passi, la fede è considerata come l’insieme della dottrina cristiana ricevuta per fede (1:4,18; 2:7).

Infine, in altri ancora, lo stato dell’anima e l’insieme della dottrina cristiana che non possono separarsi l’uno dall’altro (1:19; 5:12; 6:10,21).

Nell’assenza dell’apostolo, Timoteo doveva coltivare tutto ciò che poteva far progredire la vita spirituale dei santi e che aveva per scopo il progresso della casa di Dio: la lettura, l’esortazione, l’insegnamento. Con la lettura in pubblico bisognava, innanzi tutto, mettere le anime in rapporto diretto con la Parola, al di fuori di ogni altra azione. A quel tempo, un gran numero di fedeli non possedeva le Scritture e non sapeva leggere; «la lettura» era, dunque, e rimane ancora oggi molto importante perché non ammette alcuna possibilità di confusione, come potrebbero farlo un’esortazione e un insegnamento non corretti. Gli operai del Signore hanno abbastanza a cuore, nei nostri giorni, questa raccomandazione dell’apostolo? Notate che qui si tratta unicamente della lettura pubblica nell’assemblea. Siamo noi abbastanza convinti che la potenza della Parola, anche senza ingerenza di un dono particolare, può condurre da sola le anime in contatto diretto col Signore?

L’autore di queste righe, che aveva fatto un giorno, davanti all’assemblea, una lettura prolungata delle Scritture, senza farla seguire da alcuna parola, si sentì dire da un fratello: «Tu non ci hai mai dato un’esortazione così efficace!». Voglia Dio che prendiamo più spesso esempio dal Signore, nella scena di Luca 4:16-21, nella sinagoga di Nazareth! Certo, l’esortazione e l’insegnamento non dovevano mancare nel ministero di Timoteo ed era la ragione per cui egli aveva ricevuto un dono di grazia; egli non doveva «trascurarlo» (v. 14), e doveva più tardi «ravvivarlo», allorquando lo scoraggiamento stava impadronendosi di lui (2 Timoteo 1:6). Abbiamo visto che questo dono era stato annunciato per profezia, comunicato per imposizione delle mani dell’apostolo e accompagnato dall’imposizione delle mani del collegio degli anziani. Quest’ultimo atto non conferiva, ne comunicava qualcosa di nuovo a Timoteo; esso era, come sempre nella Scrittura, il segno dell’identificazione degli altri, l’espressione della benedizione implorata sulla sua missione. Il dono di grazia (o carisma), ed anche lo Spirito, erano comunicati solo eccezionalmente per mezzo dell’imposizione delle mani degli apostoli, ma soltanto da loro (Atti 8:17). Tutto ciò contraddice le interpretazioni ecclesiastiche sui doni, sugli incarichi, sull’ordinazione, sull’imposizione delle mani e su tante altre pratiche clericali di cui un po’ di ubbidienza alla Parola avrebbe presto fatto giustizia (*).

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(*) Ci sia permesso, per sostenere ciò che diciamo, di trascrivere il commento di un teologo pio e rispettabile su questo passo. Mai tante falsità sono state accumulate in più breve spazio: «Era Paolo stesso che aveva scelto Timoteo per suo compagno d’opera, che l’aveva introdotto nel suo incarico (Atti 16:1-3). Però, aveva voluto che questo incarico fosse confermato per mezzo dell’imposizione delle mani degli anziani, probabilmente a Listra stessa da dove partì il giovane discepolo. I rappresentanti della Chiesa, d’accordo con l’apostolo (2 Timoteo 1:6), riconoscendo in Timoteo il dono di grazia per il ministero, consacrarono questo dono interamente al servizio del Signore ed implorarono su di lui, per mezzo di questo atto, lo Spirito e la benedizione di Dio. Paolo stesso, chiamato direttamente dal Signore, ricevette ad Antiochia l’imposizione delle mani per la sua prima missione fra i pagani (Atti 13:3). Donde risulta chiaramente che se l’istituzione del ministero evangelico riposa sull’autorità di Gesù Cristo che l’ha stabilita (Efesini 4:11) e se i doni che ci rendono atti vengono da Dio solo, l’incarico è conferito dall’assemblea. In generale, tutto il Nuovo Testamento prova che ogni governo ed ogni autorità nella Chiesa riposano nelle mani dell’assemblea stessa!».
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Le raccomandazioni a Timoteo si fanno sempre più pressanti: «Ordina queste cose»; «insegnale»; «occupati» di esse; «dedicati interamente ad esse». Le due ultime dovevano avere come risultato che i progressi di Timoteo fossero evidenti a tutti. Infatti, non è possibile che gli operai del Signore facciano dei progressi notevoli nella conoscenza delle cose di Dio se non se ne occupano in modo preminente ed esclusivo. Bisogna che il dono sia curato con estrema diligenza, che il credente che lo possiede sia occupato d’una cosa sola, con il cuore non diviso fra il Signore e le cose del mondo. «Bada a te stesso e all’insegnamento». Non si potrebbe essere occupati dell’insegnamento per gli altri senza essere attenti per se stessi alle cose che si predicano e s’insegnano. Timoteo doveva vegliare su se stesso, affinché il suo stato morale corrispondesse al suo insegnamento. Così, la posizione privilegiata di Timoteo comportava un’immensa responsabilità. Ma avrebbe dovuto occuparsi di queste cose con uno zelo temporaneo? No! Doveva perseverare, ed è questo il punto più difficile nella realizzazione di ogni attività cristiana. Così facendo, Timoteo salvava se stesso, cioè raggiungeva l’entrata finale nella gloria, dopo aver mostrato il cammino a coloro ai quali era rivolto il suo ministero.

Questo capitolo è, dunque, pieno di esortazioni rivolte a Timoteo stesso affinché fosse fedele in ogni cosa, perché dalla sua fedeltà dipendevano le benedizioni future di coloro ai quali era mandato.

5. Capitolo 5

5.1 Il modo d’esortare

Vers. 1-2: — «Non riprendere con asprezza l’uomo anziano, ma esortalo come si esorta un padre; i giovani, come fratelli; le donne anziane, come madri; le giovani, come sorelle, in tutta purezza».

Abbiamo esaminato, dal versetto 6 del capitolo precedente, le istruzioni speciali date dall’apostolo a Timoteo. Queste istruzioni continuano fino alla fine dell’epistola. Le riassumerò in poche parole.

Paolo esorta Timoteo a tenere sinceramente conto delle cose che gli raccomanda. Così, nel capitolo 4 v. 6, Timoteo deve proporre ai fratelli le cose che trattano la libertà d’usare gli alimenti che Dio ha creato per i suoi, santificandoli per mezzo della Sua Parola e per mezzo della preghiera. Al versetto 11, deve ordinare e insegnare le cose che trattano della pietà. Al versetto 15, deve curarsi di queste cose e darsi ad esse interamente. Queste cose sono una condotta irreprensibile e l’esercizio del dono che gli è stato affidato. Al versetto 16, deve perseverare nella sorveglianza di se stesso e nell’insegnamento. Al capitolo 5 v. 21, deve mantenere l’ordine e la disciplina nella casa di Dio. Al capitolo 6 v. 2, deve insegnare le cose relative ai rapporti degli schiavi con i loro padroni. Infine, al capitolo 6 v. 11, deve fuggire gli interessi terreni e tutte le cose che potrebbero distoglierlo dalla marcia della fede.

Di che serietà Timoteo doveva dare prova per seguire tutte le direttive che riceveva dall’apostolo sulla condotta che lui stesso doveva tenere nella casa di Dio!

Benché le sue funzioni nella Chiesa del Dio vivente fossero quelle d’insegnare e di riprendere, come giovane egli doveva aver rispetto dell’uomo anziano (benché sia la stessa parola nella lingua originale, in base al contesto, non si tratta qui d’un uomo con l’incarico d’anziano). L’età avanzata è accompagnata dall’incapacità di sopportare delle parole aspre senza esserne schiacciato, soprattutto se la riprensione è giustificata. Può accadere che, pur con le migliori intenzioni, un giovane, dotato per condurre l’assemblea, produca un male considerevole riprendendo senza riguardo una persona anziana. Ho visto un giovane fratello dare il colpo di morte ad un vecchio, riprendendolo aspramente riguardo ad errori di condotta che pure esigevano una legittima riprensione. L’esortazione deve essere rispettosa e corretta, ma non rude. Le stesse attenzioni sono dovute verso i giovani e le donne anziane. L’amore che considera gli uni come fratelli, le altre come madri, toglie tutto il carattere pungente all’esortazione. Riguardo alle giovani donne, l’apostolo aggiunge queste parole: «in tutta purezza». Facilmente i sentimenti della carne possono essere in gioco in un giovane che l’obbligo d’esercitare la disciplina mette in contatto con l’elemento femminile. Una vita trascorsa in comunione col Signore, nella santità e nella purezza, è una garanzia sufficiente contro ogni bramosia della carne. Queste raccomandazioni così dettagliate dovrebbero, in ogni tempo, essere oggetto di meditazione per tutti quelli che il Signore chiama al suo servizio, specialmente se sono giovani!

5.2 Le vedove nella chiesa

Vers. 3-6: — «Onora le vedove che sono veramente vedove. Ma se una vedova ha figli o nipoti, imparino essi per primi a fare il loro dovere verso la propria famiglia e a rendere il contraccambio ai loro genitori, perché questo è gradito davanti a Dio. La vedova che è veramente tale e sola al mondo, ha posto la sua speranza in Dio, e persevera in suppliche e preghiere notte e giorno; ma quella che si abbandona ai piaceri, benché viva, è morta».

Questi versetti, fino alla fine del versetto 16, trattano delle vedove nell’assemblea. Degne di ogni riguardo, dell’assistenza dell’assemblea sotto forma sia di cure rispettose che di aiuto materiale (*), sono quelle veramente vedove (vedere ancora i versetti 5 e 16), che non soltanto hanno perduto il marito, ma che sono senza figli e senza nipoti. Nel caso che ne abbiano, un dovere incombe su di loro: mostrarsi pii verso la propria famiglia e «rendere il contraccambio ai loro genitori». Una tale prescrizione non è un ordine legale, perché ciò che invita a seguirla è che «questo è gradito davanti a Dio». È la stessa cosa al capitolo 2 v. 3, riguardo ai nostri rapporti con tutti gli uomini e con le autorità. Così la «pietà», cioè il timore di Dio e il desiderio di piacergli, si mostrano non soltanto nelle cure verso l’assemblea, ma anche nei rapporti di famiglia, e sono alla base dell’ordine nella casa di Dio, anche quando si tratta di cure materiali.

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(*) Questo stesso termine, tradotto con «onorare», «onore», è usato al versetto 17 in rapporto con gli anziani ed anche in altri passi (vedere Atti 28:10; Matteo 15:4-5). [Si tratta di rispetto, di aiuto materiale, di cure di ogni genere], ma non significa per niente uno stipendio regolare, un salario fisso.
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Al versetto 5, l’apostolo fa un ritratto del carattere della vera vedova, così come Dio la considera e l’apprezza. Non avendo quaggiù nessuno su cui appoggiarsi, ella «ha posto la sua speranza in Dio». Non spera niente dagli uomini; è completamente fiduciosa in Dio. Quale sicurezza! Quale tesoro! Dio è ricco per rimediare alla sua povertà. Così, dipendendo da Lui soltanto, ella è in rapporto continuo con Lui e «persevera in suppliche e preghiere notte e giorno», realizzando quella prima raccomandazione alla preghiera del capitolo 2 v. 1. L’immensa benedizione di una posizione senza speranza nell’uomo deriva dal fatto che ella è costretta ad abbandonarsi giorno e notte sulle risorse inesauribili che sono in Dio.

Ma, in contrasto con la vera vedova, la vedova «che si abbandona ai piaceri, benché viva, è morta». Secondo il mondo, la sua vita è assicurata e facile; ella è vivente agli occhi del mondo, ma è morta per il cielo. Che triste spettacolo!

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Vers. 7-8: — «Anche queste cose ordina, perché siano irreprensibili. Se uno non provvede ai suoi, e in primo luogo a quelli di casa sua, ha rinnegato la fede, ed è peggiore di un incredulo».

Timoteo doveva ordinare queste cose, perché l’apostolo desiderava che le vedove, così degne d’affetto per la loro situazione, non incorressero in nessun rimprovero. Desiderava anche che i figli o i nipoti delle vedove non fossero esposti all’accusa d’avere «rinnegato la fede» (cioè l’insieme della dottrina cristiana, ricevuta per fede e basata sull’amore) e di essere peggiori degli increduli, i quali, spesso, non sono insensibili ai legami di famiglia. Ciò che è detto qui è di estrema serietà, ma ci mostra l’importanza che ha, agli occhi di Dio, l’abnegazione dei suoi figli nelle cose materiali. La famiglia ha per Dio un significato particolare. Non dimentichiamo però che i doveri più elementari della famiglia non possono essere chiamati in causa quando si tratta di seguire il Signore [Matteo 10:37; Luca 9:59]! Solo che qua, i doveri sono in rapporto con la condotta del cristiano nell’assemblea che è la casa di Dio.

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Vers. 9-10: — «La vedova sia iscritta nel catalogo quando abbia non meno di sessant’anni, quando è stata moglie di un solo marito, quando è conosciuta per le sue opere buone: per aver allevato figli, esercitato l’ospitalità, lavato i piedi ai santi, soccorso gli afflitti, concorso a ogni opera buona(*)».

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(*) Vedere la nota del capitolo 3 versetto 1.
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Troviamo, in questi passi, altre prescrizioni riguardo alle vedove, in vista del buon ordine nella casa di Dio. La vedova non doveva essere iscritta nel catalogo delle vedove affidate alle cure dell’assemblea se non aveva età avanzata, il che escludeva che potessero rimaritarsi. Ella non doveva essersi sposata due volte, il che avrebbe indicato che era occupata delle cose terrene e della soddisfazione dei suoi desideri (v. 11). Bisognava che avesse la testimonianza d’essere stata attiva nelle buone opere, con l’approvazione di Dio; ciò doveva caratterizzare le sante donne (2:10), le donne secondo Dio. Queste buone opere sono qui elencate dettagliatamente. Consistono:

  • nell’educazione dei figli (verso i quali la donna ha tutta la libertà d’insegnare): — è la famiglia;
  • nell’ospitalità: — sono le buone opere verso gli estranei;
  • nei servizi più umili verso i santi;
  • nei soccorsi prodigati ai perseguitati;
  • in qualsiasi opera di carità, perché ve ne sono molte che l’apostolo non enumera.

 

Questi servizi, quest’abnegazione di se stessa, questo dono delle proprie risorse agli altri, caratterizzano la donna secondo Dio che ha imparato a vivere per il prossimo.

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Vers. 11-13: — «Ma rifiuta le vedove più giovani, perché, quando vengono afferrate dal desiderio, abbandonato Cristo, vogliono risposarsi, rendendosi colpevoli perché hanno abbandonato l’impegno precedente. Inoltre imparano anche a essere oziose, andando attorno per le case; e non soltanto a essere oziose, ma anche pettegole e curiose, parlando di cose delle quali non si deve parlare».

Questi versetti, fino al versetto 16, ci dipingono un quadro opposto a quello delle «vere vedove»; quello delle vedove che Timoteo, sostituendo l’apostolo nell’amministrazione della casa di Dio, doveva rifiutare come oggetto di cure particolari da parte dell’assemblea. Si tratta delle vedove giovani. Vi sono in esse dei desideri; desideri della carne, desideri di stabilirsi sulla terra e di godere gioie terrestri, alle quali esse si abbandonano e che costituiscono l’«abbandonare Cristo» (o l’elevarsi contro Cristo), perché hanno rotta (o trascurato, rigettato) la prima fede. Questa prima fede le aveva attaccate a Cristo e, di conseguenza, separate da tutto ciò che il mondo poteva loro offrire. Vedremo, al capitolo 6, che è la stessa cosa per quelli che amano il denaro: essi «si sono sviati dalla fede»; la «prima fede» aveva forse caratterizzato queste donne quando avevano ricevuto la prova della loro vedovanza come dispensata direttamente da Cristo ed erano state convinte che Egli voleva attaccarle a Lui solo. Abbandonata la prima fede, queste giovani vedove, non avendo più un cuore intero per le buone opere e per il servizio del Signore, dovevano riempire con qualcosa il vuoto che si era prodotto nel loro cuore. Mancando loro l’attività per Cristo e per i santi, esse si creano un’attività fittizia per mezzo della quale cercano di popolare il deserto della loro esistenza. Andando di casa in casa, si danno ai pettegolezzi, immischiandosi nelle circostanze del prossimo, riferendo cose che dovrebbero tacere. Questo quadro è severo ma rispecchia la verità, che Dio non nasconde mai.

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Vers. 14-16: — «Voglio dunque che le vedove giovani si risposino, abbiano figli, governino la casa, non diano agli avversari alcuna occasione di maldicenza; infatti già alcune si sono sviate per andare dietro a Satana. Se qualche credente ha con sé delle vedove, le soccorra. Non ne sia gravata la chiesa, perché possa soccorrere quelle che sono veramente vedove».

Vediamo, dunque, che una giovane vedova, risposandosi, può fare la sua propria volontà e abbandonare Cristo e gli interessi celesti per le cose della terra, ma anche che ella può, con lo stesso atto, fare la volontà di Dio e quindi non perdere la comunione col Signore. Se la posizione di giovane vedova vieta l’iscrizione nel catalogo per ottenere le cure dell’assemblea, che non ammette né le giovani vedove né le vedove che hanno avuto più di un marito, queste sono, pur non di meno, nel cammino della volontà di Dio se si sposano non per piacere a se stesse ma in sottomissione a tale volontà. Il rimedio indicato al versetto 14 è pratico e secondo Dio.

È notevole vedere come Dio, quando si tratta dell’ordine nella Sua casa, indica minuziosamente ciò che può evitare qualsiasi disordine. L’apostolo qui esprime la volontà del Signore come Suo mandatario: per le giovani vedove ci vuole il matrimonio, i figli, il governo della propria casa; senza ciò, il governo della casa di Dio ne soffrirà. La giovane vedova evita così, come al capitolo 3 v. 7, l’insidia del diavolo poiché, se dà occasione di maldicenza, il diavolo se ne servirà per rovinare la testimonianza e impadronirsi delle anime che gli hanno fornito l’occasione con una cattiva coscienza. Già alcune si sono «sviate per andare dietro a Satana». Era la conseguenza fatale dell’aver «abbandonato Cristo».

Al versetto 16 troviamo un’ultima raccomandazione riguardo alle vedove, indirizzata ai fedeli, uomini o donne. Debbono essere assistite in vista degli interessi dell’assemblea. Bisognava che i carichi dell’assemblea fossero diminuiti, non perché essa si liberasse d’un peso, ma affinché i soccorsi verso quelle che erano «veramente vedove» (e abbiamo visto cosa la Parola intenda con questo termine) potessero essere più abbondanti.

5.3 Le relazioni con gli anziani

Vers. 17-21: — «Gli anziani che tengono bene la presidenza, siano reputati degni di doppio onore, specialmente quelli che si affaticano nella predicazione e nell’insegnamento; infatti la Scrittura dice: “Non mettere la museruola al bue che trebbia”; e: “L’operaio è degno del suo salario”. Non ricevere accuse contro un anziano, se non vi sono due o tre testimoni. Quelli che peccano, riprendili in presenza di tutti, perché anche gli altri abbiano timore. Ti scongiuro, davanti a Dio, a Cristo Gesù e agli angeli eletti, di osservare queste cose senza pregiudizi, e di non fare nulla con parzialità».

L’apostolo ritorna ora agli anziani nelle istruzioni che dà a Timoteo. C’è un onore da rendere loro; si tratta di rispetto, di aiuto materiale, di cure di ogni genere. Questa parola «onore» è impiegata come verbo per le cure che meritano le vedove, al versetto 3 del nostro capitolo, e come sostantivo per gli onori resi dagli schiavi ai loro padroni.

Ecco come gli anziani dovrebbero adempiere ai loro incarichi: «tenere bene la presidenza» (questa stessa parola è tradotta, al capitolo 3 v. 4, con «governare bene» quando si tratta di governare la propria casa). E questo modo con cui gli anziani adempivano alle loro funzioni di sorveglianti doveva essere riconosciuto degno di «un doppio onore»; non di un doppio stipendio, perché non vi è diritto a un salario né per gli incarichi, né per i doni. Al capitolo 6 v. 1, questa stessa parola significa tutto il rispetto che gli schiavi devono ai loro padroni, sia in sottomissione, sia in abnegazione, sia in servizi resi. Qui, il doppio onore è soprattutto reso agli anziani quando adempiono contemporaneamente due incarichi: la sorveglianza e il servizio della Parola e della dottrina, doppia funzione che non era nelle possibilità di tutti gli anziani, sebbene tutti dovessero essere capaci d’insegnare e di convincere i contraddittori (Tito 1:9).

L’apostolo cita (v. 18) Deuteronomio 25:4, per appoggiare la sua raccomandazione (il passo è anche menzionato in 1 Corinzi 9:9) per mostrare che dando una simile prescrizione Dio parla «proprio per noi». Cita in seguito la parola di Gesù stesso ai suoi discepoli: «L’operaio è degno della sua mercede» (Luca 10:7), il che pone gli scritti del Nuovo Testamento al livello degli scritti dell’Antico Testamento.

Timoteo doveva avere molte riserve riguardo alle accuse portate contro un anziano. Un incarico in vista porta facilmente alla gelosia e di conseguenza ai cattivi propositi e alla calunnia. Bisognava essere premuniti contro tutto ciò e seguire le prescrizioni della Parola: «Ogni parola sarà confermata dalla bocca di due o tre testimoni» (Deuteronomio 19:15; Matteo 18:16; 2 Corinzi 13:1).

Ma, d’altra parte, dato che ognuno è fallibile, non bisognava fare delle parzialità in favore di coloro che erano in vista. Era così che Paolo si era comportato con Pietro che si chiama egli stesso «anziano»(1 Pietro 5:1): l’aveva rimproverato davanti a tutti (Galati 2:14; 1 Timoteo 5:20).

Il caso di un anziano che peccava era doppiamente serio, perché egli poteva, con la sua influenza e la sua autorità, trascinare altri nello stesso cammino. In altri tempi, Barnaba era stato trascinato in questo modo nella simulazione. Bisognava che la riprensione fosse pubblica, affinché altri anziani non fossero tentati d’imitare il peccato. Paolo scongiurava Timoteo ad osservare queste cose, perché la casa di Dio, e del Signore Gesù Cristo, che ne è il Capo, è offerta in esempio agli «angeli eletti», i quali devono poter vedere Cristo nell’assemblea dei santi. Che esortazione importante per colui che è chiamato ad un servizio nella casa di Dio!

5.4 Precetti vari per avere del discernimento

Vers. 22-25: — «Non imporre con troppa fretta le mani a nessuno, e non partecipare ai peccati altrui; consèrvati puro. Non continuare a bere acqua soltanto, ma prendi un po’ di vino a causa del tuo stomaco e delle tue frequenti indisposizioni. I peccati di alcune persone sono manifesti prima ancora del giudizio; di altre, invece, si conosceranno in seguito. Così pure, anche le opere buone sono manifeste; e quelle che non lo sono, non possono rimanere nascoste».

Timoteo è esortato ora a non imporre precipitosamente le mani ad alcuno. L’imposizione delle mani, quando non era fatta dall’apostolo stesso che aveva le qualità per farlo, non conferiva né un dono di grazia, né il dono dello Spirito Santo (2 Timoteo 1:6; Atti 8:17). Al capitolo 4:14, gli anziani non avevano conferito nulla a Timoteo per mezzo di questo atto. L’imposizione delle loro mani esprimeva la benedizione, la sanzione, l’identificazione pubblica con ciò che era stato conferito a Timoteo dall’apostolo. Imponendo le mani, probabilmente agli anziani, per quanto qui non sia detto, riguardo a una missione o un servizio qualsiasi, Timoteo si dichiarava solidale con loro, s’identificava col loro servizio o la loro missione, metteva la sua approvazione sul loro incarico, la loro chiamata, la loro opera. Se peccavano, egli si esponeva anche a essere coinvolto nei peccati che avrebbero potuto commettere nell’esercizio delle loro funzioni. Evitando quest’insidia tesa sui suoi passi, Timoteo rimaneva puro. Non doveva dare la più piccola occasione di essere ripreso, come avrebbe meritato per un’eventuale precipitazione, perché si sarebbe contaminato partecipando così al peccato altrui.

La raccomandazione del versetto 23, di bere un po’ di vino, mi sembra che si leghi a ciò che precede, cioè che la precipitazione poteva provenire dall’eccitazione della carne. Timoteo avrebbe potuto credere di doversi astenere in modo assoluto da tutte le bevande eccitanti. L’apostolo mostra la sua preoccupazione per la salute del suo caro figlio nella fede, ma inoltre sapeva quanto la coscienza delicata e magari un po’ malaticcia o eccessiva di Timoteo (vedi 2 Timoteo 1:6) poteva allarmarsi facilmente dei pericoli ai quali le sue funzioni l’esponevano. Questi minuziosi particolari sono molto commoventi e mostrano, allo stesso tempo, la sollecitudine dell’apostolo per il suo amato compagno di lavoro e la sollecitudine che ha avuto il Signore per i1 suo caro discepolo nel permettere che fosse citato nello scritto ispirato dell’apostolo.

Avendo parlato dei peccati altrui, Paolo menziona due caratteri di questi peccati. Ve ne sono che «sono manifesti prima ancora del giudizio». Li conosciamo, proclamano in anticipo il giudizio di questi uomini, di modo che nessuno può ignorarli. Altri peccati sono nascosti adesso, ma tengono dietro a questi uomini. Essi li ritroveranno nel gran giorno del giudizio. Non erano soltanto i peccati manifesti che dovevano mettere in guardia Timoteo riguardo all’imposizione delle mani, ma anche la possibilità dei peccati che si sarebbero conosciuti più tardi, affinché egli non fosse coperto di vergogna quando il Signore apparirà (1 Giovanni 2:28). Si trattava dunque, per Timoteo, di non imporre le mani ad un uomo che pecca segretamente. Il mezzo per riconoscere tale uomo sono le buone opere. Esse sono manifeste in anticipo, e quelle che non lo sono attualmente lo saranno più tardi. Donde la necessità di non usare alcuna precipitazione nella sanzione da dare a uno che vuol mettersi al servizio del Signore.

6. Capitolo 6

6.1 Doveri dei servi

Vers. 1-2: — «Tutti quelli che sono sotto il giogo della schiavitù, stimino i loro padroni degni di ogni onore, perché il nome di Dio e la dottrina non vengano bestemmiati. Quelli che hanno padroni credenti, non li disprezzino perché sono fratelli, ma li servano con maggiore impegno, perché quelli che beneficiano del loro servizio sono fedeli e amati. Insegna queste cose e raccomandale».

Questi versetti contengono le istruzioni per i servi. L’apostolo, innanzitutto, tratta dei loro rapporti coi padroni increduli. Parlando a tutti i servi, si indirizza infatti soltanto a coloro che fanno parte della casa di Dio. Li riconosce in una posizione di dipendenza e di inferiorità rispetto agli uomini liberi; eppure, lungi dall’insorgere contro i loro padroni, anche se la loro condotta era tirannica, dovevano stimarli degni di ogni onore. Abbiamo visto più sopra (5:17) ciò che questa parola significa. Questa raccomandazione ha una grande portata. Non si tratta qui di obbligarli ad una soggezione forzata sotto un giogo subìto con impazienza; ma il servo cristiano riconosce al suo padrone, qualunque egli sia, ogni dignità, e gli rende moralmente ed effettivamente ogni servizio. Con quale scopo? Affinché il nome di Dio, di cui questi servi erano i portatori, e la dottrina, segno distintivo della «casa» della fede di cui facevano parte, non fossero biasimati da questi padroni increduli. Da quel momento, questi servi cristiani erano posti da Dio presso tali padroni per fare conoscere loro il Suo nome e la dottrina di Cristo, affidata, perché se ne renda testimonianza, alla casa di Dio quaggiù; dottrina sulla quale è fondata tutta la vita pratica del cristiano.

L’apostolo si rivolge in seguito ai servi che hanno dei padroni credenti. C’è il pericolo di essere portati a comportarsi verso di loro in modo differente che verso padroni increduli, ad esempio disprezzandoli. Un tale sentimento carnale andrebbe contro l’autorità stabilita da Dio e contraddirebbe tutti i principi della sana dottrina. Il servo, anziché elevarsi al livello del suo padrone cristiano o di abbassarlo al suo livello, deve essere felice di servirlo e amarlo, poiché un tale padrone è un fedele, quanto alla sua testimonianza verso il Signore, e un diletto, nel cuore di Dio e nel mezzo della famiglia cristiana.

Incombeva a Timoteo di dare questa esortazione, come pure l’insegnamento che essa comportava, perché l’una e l’altra facevano parte del dono di questo caro «figlio» in fede dell’apostolo Paolo (4:13).

6.2 Esortazioni e raccomandazioni generali

Vers. 3-5: — «Se qualcuno insegna una dottrina diversa e non si attiene alle sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e alla dottrina che è conforme alla pietà, è un orgoglioso e non sa nulla; ma si fissa su questioni e dispute di parole, dalle quali nascono invidia, contese, maldicenza, cattivi sospetti, acerbe discussioni di persone corrotte di mente e prive della verità, le quali considerano la pietà come una fonte di guadagno».

Ecco, dunque, ciò che Timoteo doveva insegnare nell’esortare i servi. Colui che insegna in altro modo e non si attiene alle sane parole di Cristo, come pure alla sua dottrina, è orgoglioso e ignorante. La sana dottrina ha in vista la pietà, ed ha lo scopo di produrre delle relazioni di timore e di fiducia fra l’anima e Dio; tutto ciò che non ha questo carattere non può essere la dottrina di Gesù Cristo. Essa deve condurci sempre a coltivare le nostre relazioni con Dio, a gioirne e a valorizzare il suo carattere dinanzi al mondo. Se non si segue questo cammino, si è orgogliosi e si ignora lo scopo e i pensieri di Dio; si disputa sulle parole, segno di un triste declino nella casa di Dio, e il risultato non può essere né la pace, né l’amore, ma delle tristi querele, da cui nascono i cattivi sentimenti che riempiono il cuore di amarezza e di odio. È lo stato di spiriti completamente estranei alla verità e che cercano di trarre un profitto materiale da questa apparenza di pietà, che si danno a dispute religiose che non hanno niente a che vedere con la dottrina della pietà. L’odio, la scontentezza prodotti da queste dispute, la dimenticanza completa di relazioni con Dio, caratterizzano questi uomini.

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Vers. 6-8: — «La pietà, con animo contento del proprio stato, è un grande guadagno. Infatti non abbiamo portato nulla nel mondo, e neppure possiamo portarne via nulla; ma avendo di che nutrirci e di che coprirci, saremo di questo contenti».

Quale contrasto tra l’uomo dei versetti 3 a 5 e il credente fedele dei versetti 6 a 8! Vi è, infatti, un grande guadagno in queste due cose: la pietà che ha la promessa della vita presente e della vita a venire (4:8), e l’animo contento del proprio stato, che non cerca guadagno nelle cose di quaggiù. Il cristiano d’animo contento sa benissimo che non porterà via nulla delle cose delle quali può essergli dato di godere per un momento; starà attento, dunque, a non mettervi il cuore. Questo cristiano è semplice. Avendo tutto il suo interesse nelle cose future che gli sono promesse, è ampiamente soddisfatto che Dio gli assicuri quaggiù il nutrimento e il vestire, e ne gioisce con azioni di grazie. Qualsiasi altra cosa per lui è piuttosto un ostacolo, perché sa che non può portare via nulla da questo mondo, dove non ha portato niente (Salmo 49:17; Ecclesiaste 5:15); se si attaccasse a qualche cosa, sarebbero dei legami che un giorno dovrebbe spezzare. Godendo delle cose eterne, nelle quali la pietà si compiace, e sapendo che il possesso delle cose visibili dividerebbe il suo cuore fra questi due centri, la terra e il cielo, la sua pietà preferisce le cose invisibili che durano sempre, perché delle prime nulla resterà e nulla si porterà nell’eternità.

Il guadagno reale della pietà non è quello a cui gli uomini ambiscono, perdendosi in vane dispute e discussioni religiose con le quali pensano di acquistarsi reputazione, guadagno e profitto; la vera pietà introduce sempre più l’anima del fedele nella gioia delle sue relazioni con Dio, e troverà il suo coronamento quando godrà di queste relazioni senza alcuna nube, nel cielo.

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Vers. 9-10: — «Invece quelli che vogliono arricchire cadono vittime di tentazioni, di inganni e di molti desideri insensati e funesti, che affondano gli uomini nella rovina e nella perdizione. Infatti l’amore del denaro è radice di ogni specie di mali; e alcuni che vi si sono dati, si sono sviati dalla fede e si sono procurati molti dolori».

In generale, coloro che cercano di conquistare la ricchezza cadono in ogni genere di male. (Parlerà più tardi di coloro che sono ricchi secondo la dispensazione del governo di Dio al versetto 17). Questo desiderio e questa ricerca di guadagno gettano l’uomo nella rovina e nella perdizione. Possiamo parlare dettagliatamente di tutte le miserie che sono, per il mondo e il cristiano, la conseguenza dell’amore del denaro:

  1. la tentazione e l’insidia nella quale cadono;
  2. diversi desideri insensati e perniciosi, potendosi concedere la soddisfazione delle bramosie della loro carne;
  3. la rovina materiale e morale, poi la perdizione eterna.

 

L’uomo ha creduto di soddisfarsi con le ricchezze ed ecco che è inghiottito, lontano da Dio, nell’abisso!

Alcuni di coloro che appartengono alla casa di Dio hanno, purtroppo, ambito questa parte. La conseguenza è stata per loro più ancora che la rovina materiale. Si sono trafitti di molti dolori, dolori incessanti, per la minaccia di perdere tutto, per le preoccupazioni continue. Ma ancor più, si sono sviati dalla fede. Questo stato non è il naufragio della fede (1:19), né l’apostasia della fede (4:1), o il rifiuto della prima fede (5:12); è uno stato meno grave dei precedenti, ma che getta l’anima del cristiano in una miseria senza nome. Essi si sono allontanati, sviati, staccati dalla fede per non ritrovarla mai più. Questa ha perduto per loro tutto il suo sapore, tutto il suo interesse (si tratta qui dell’insieme delle verità che la costituiscono), perché l’hanno sostituita con l’interesse per le cose più attraenti, anche se più vuote, di questo mondo.

La fede è la felicità, la salvaguardia, la delizia di coloro che sono rimasti fedeli e che sono i portatori della testimonianza di Dio quaggiù. Ma gli altri, quando saranno sul punto di lasciare questo mondo per comparire davanti a Dio, saranno trovati «vestiti»? Dove sarà la loro corona? Sarà data ad altri! Chi fra noi cristiani oserebbe augurare il benessere materiale in cambio della gioia, della sicurezza e della pace che danno il possesso delle cose celesti?

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Vers. 11-12: — «Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose, e ricerca la giustizia, la pietà, la fede, l’amore, la costanza e la mansuetudine. Combatti il buon combattimento della fede, afferra la vita eterna alla quale sei stato chiamato e in vista della quale hai fatto quella bella confessione di fede in presenza di molti testimoni».

L’apostolo ritorna ora al suo caro Timoteo. «Ma tu, uomo di Dio» — gli dice. Questo appellativo, così sovente usato nell’Antico Testamento, è sempre applicato ad uomini che hanno ricevuto una missione speciale da Dio. Tali furono i profeti Elia ed Eliseo e il vecchio profeta di 1 Re 13; tale fu anche Mosè, profeta legislatore, e Davide, il re profeta. Tutti ricevono, assieme al titolo di profeta, anche quello di uomo di Dio (cfr. 2 Pietro 1:21).

Nel Nuovo Testamento, questo titolo si ritrova solo due volte: qui e in 2 Timoteo 3:17, dove si applica prima a Timoteo, poi a colui che, nutrito della Parola, è incaricato, come Timoteo, di una missione speciale in questo mondo. Vediamo l’importanza della missione di quest’ultimo, perché essa gli era stata affidata con una solennità particolare, come dimostrano queste due epistole. Timoteo doveva vegliare sulla dottrina, insegnando come bisognava condursi nella chiesa del Dio vivente; ma egli stesso, in primo luogo, doveva condursi in modo da essere di modello agli altri. È così che, rappresentando Dio di fronte ai suoi fratelli, Timoteo doveva mostrare un carattere che lo facesse accreditare nel suo incarico. Doveva fuggire le cose di cui l’apostolo aveva parlato e procacciare:

  1. La giustizia, quella giustizia pratica che rinnega il peccato e gli impedisce d’introdursi nelle nostre vie.
  2. La pietà, i rapporti d’intimità con Dio, basati sul timore e la fiducia, rapporti impossibili senza la giustizia.
  3. La fede, potenza spirituale per la quale ammettiamo come vera ogni parola uscita dalla bocca di Dio, e per mezzo della quale afferriamo le cose invisibili.
  4. L’amore, il carattere stesso di Dio, conosciuto in Gesù Cristo e manifestato da coloro che sono partecipi della natura divina.
  5. La costanza, che fa attraversare e sopportare tutte le difficoltà in vista dello scopo glorioso da raggiungere.
  6. La mansuetudine, uno spirito benigno e pacifico che è di gran prezzo davanti a Dio (1 Pietro 3:4).

 

A tutte queste cose Paolo aggiunge due pressanti raccomandazioni. La prima è: «Combatti il buon combattimento della fede». Si tratta qui della lotta nello stadio (1 Corinzi 9:25), al quale si è chiamati per riportare il premio. È di questo «combattimento» che l’apostolo parlava al momento di terminare la sua carriera: «Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede» (2 Timoteo 4:7).

La seconda raccomandazione, che si collega alla prima, è: «Afferra la vita eterna». La vita eterna non è qui la vita che abbiamo possedendo Cristo, «il vero Dio e la vita eterna», quella vita divina che ci è comunicata per mezzo della fede in Lui e che ci introduce, già da quaggiù, nella comunione del Padre e del Figlio; essa ci è presentata, in questo passo, come la gioia finale e definitiva di tutte le benedizioni celesti, ricompensa del «buon combattimento della fede». Tuttavia, non è come in Filippesi 3:12 una meta non ancora raggiunta che il cristiano persegue e che cerca di afferrare. L’apostolo vuole che, durante lo svolgimento stesso del combattimento, questa meta sia afferrata come una grande ed assoluta realtà: il possesso e la gioia attuale, per fede, di tutte le cose che appartengono alla vita eterna. Che grazia quando la vita eterna è stata afferrata in questo modo!

È per tali benedizioni che Timoteo era stato chiamato. L’apostolo ci fa risalire all’inizio della carriera del suo caro figlio nella fede. Non appena questa prospettiva di una vita avente un solo scopo e un solo oggetto, quello che l’apostolo stesso s’era imposto (2 Timoteo 4:7), era stata posta dinanzi a lui, egli aveva reso testimonianza e «fatto quella bella confessione di fede in presenza di molti testimoni». La sua confessione riguardava la vita eterna, afferrata come il tutto della chiamata cristiana. La chiamata faceva di Timoteo il campione di questa verità. I numerosi testimoni non sono gente del mondo, ma quelli che facevano parte dell’assemblea del Dio vivente, nella quale il suo ministero doveva svolgersi con l’insegnamento e le esortazioni.

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Vers. 13-16: — «Al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose, e di Cristo Gesù che rese testimonianza davanti a Ponzio Pilato con quella bella confessione di fede, ti ordino di osservare questo comandamento da uomo senza macchia, irreprensibile, fino all’apparizione del nostro Signore Gesù Cristo, la quale sarà a suo tempo manifestata dal beato e unico sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità e che abita una luce inaccessibile; che nessun uomo ha visto né può vedere; a lui siano onore e potenza eterna. Amen».

Questi versetti sono come un riassunto dello scopo di tutta l’epistola. «Io ti ordino», dice l’apostolo. Timoteo aveva ricevuto da lui un incarico e doveva attenervisi. Essendo stato stabilito per rappresentare l’apostolo durante la sua assenza, doveva dare ordini lui stesso (1:3,5,18; 4:11; 5:7; 6:17). Paolo ordinava a Timoteo molte cose e lo faceva nel modo più solenne, dinanzi al Dio Creatore che egli invocava come Colui che ha chiamato tutto all’esistenza quando non vi era ancora nulla, Colui che si è fatto conoscere a esseri infimi come noi per mezzo di un atto che ha mostrato tutto il suo compiacimento negli uomini. Non è forse un motivo supremo per obbedire? Ma ciò che l’apostolo ordinava lo faceva anche nel cospetto di Gesù Cristo che rese testimonianza «davanti a Ponzio Pilato». Poteva non essere importante per il governatore romano che Gesù fosse Re dei Giudei, e Pilato lo dimostra sia dicendo «Sono io forse Giudeo?», sia scrivendo «Gesù il nazareno, il Re dei Giudei» come motivo d’accusa sulla croce (Giovanni 18:35). Ma Pilato, amico di Cesare, non è indifferente al fatto che oltre all’imperatore vi sia un altro uomo che abbia delle pretese di regnare. Rigettato dai Giudei, come Re, il Signore davanti a Pilato attribuisce al suo regno tutt’altra dimensione quando dice: «Il mio regno non è di questo mondo», perché ha per dominio esclusivo una sfera interamente celeste. E aggiunge: «Ora il mio regno non è di qui». Avrebbe rivendicato più tardi, quaggiù, una sovranità più vasta di quella di Re dei Giudei, ed è ciò che inquieta Pilato e gli fa dire: «Ma dunque, sei tu Re?». A questa domanda Gesù risponde: «Tu lo dici; io sono Re». Rende così testimonianza alla verità, mantenendo ad ogni prezzo il carattere della sua sovranità; e aggiunge: «Io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità». Infatti, dichiarare la sua sovranità per nascita (Matteo 2:1-2) dinanzi a Pilato, amico di Cesare, una sovranità che sorpassava di molto i limiti giudaici, significava firmare egli stesso la propria condanna a morte. Questa confessione è la «bella confessione davanti a Ponzio Pilato» del nostro passo.

Questa bella confessione, il Signore doveva farla per essere fedele alla verità di cui era venuto a rendere testimonianza in questo mondo. La sua sovranità vi partecipava, e se avesse esitato un istante davanti alla necessità di fare questa confessione, non avrebbe potuto aggiungere: «Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». La confessione che egli era Re si legava dunque intimamente al fatto che egli era venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità.

La bella confessione di Timoteo davanti a molti testimoni cristiani non metteva la sua vita in pericolo. Non era nemmeno la testimonianza alla verità, era la bella confessione delle immense benedizioni della fedeltà, benedizioni afferrate da Timoteo nella testimonianza cristiana alla quale dedicava la sua carriera. La bella confessione di Cristo davanti a Ponzio Pilato era la testimonianza alla verità (di cui la sovranità attuale e futura di Cristo, ben più importante della sovranità giudaica, faceva parte), perché «la grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo». Nulla poteva distogliere il Signore dalla confessione della verità tutt’intera, neppure la morte.

Ma quale immenso privilegio per Timoteo essere associato al Signore Gesù confessando di avere afferrato una meta che nessuno poteva strappargli, come Gesù aveva confessato interamente la verità che la morte stessa non poteva fargli abbandonare!

Al versetto 14, l’apostolo ordina a Timoteo «di osservare questo comandamento», vale a dire ciò che gli aveva ordinato: «fuggi» «ricerca» «combatti» «afferra». Era stato chiamato a realizzare queste cose davanti a testimoni fedeli e davanti al mondo, e doveva serbarle «da uomo senza macchia e irreprensibile». L’apostolo aggiunge al versetto 20: «O Timoteo, custodisci il deposito». È il riassunto del contenuto di tutta l’epistola. L’apostolo aveva già detto, a proposito della sua condotta riguardo agli anziani: «Ti scongiuro… di osservare queste cose senza pregiudizi» (5:21).

Il comandamento Timoteo doveva osservarlo «da uomo senza macchia», senza alcuna falsificazione, e da «irreprensibile», senza che nessuno avesse occasione di riprenderlo o di accusarlo, e innanzi tutto per ricevere l’approvazione del nostro Signore Gesù Cristo fino alla sua «apparizione». È sempre parlato dell’apparizione e non della venuta del Signore quando si tratta della responsabilità del servizio. Ed è per questo che si può parlare «d’amare la Sua apparizione» anche se è sempre accompagnata dalla vendetta sul mondo (2 Tessalonicesi 1:8), La ragione di questo è che se la venuta del Signore è il «giorno di grazia», la sua apparizione è il «giorno delle corone», delle ricompense per i servitori di Cristo.

Quest’apparizione sarà mostrata al tempo stabilito dal beato e unico Sovrano, già chiamato il «beato Dio» (1:11). Allora, il solo Sovrano, Re dei re e Signore dei signori, manifesterà questa gloria. Di chi parla l’apostolo? Di Dio, certamente, ma è impossibile separare Dio da Cristo; Dio è tutto questo quando «manifesta» l’apparizione di Cristo; Cristo sarà tutto questo, quando apparirà come Re dei re e Signore dei signori. È la seconda volta in questa epistola (cfr. 1:17) che la lode suprema s’innalza a Dio nei luoghi eterni. Nel primo caso, per la venuta in questo mondo di Cristo uomo come Salvatore; nel secondo, per la sua apparizione come Signore e uomo vittorioso. Qui, sale a Colui che «solo possiede l’immortalità e che abita una luce inaccessibile; che nessun uomo ha veduto né può vedere; a lui siano onore e potenza eterna. Amen». È dunque proprio del Dio eterno, inaccessibile, invisibile, che qui è parlato, ma noi lo conosciamo nel suo figlio Gesù Cristo: Egli è «il vero Dio e la vita eterna».

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Vers. 17-19: — «Ai ricchi in questo mondo ordina di non essere d’animo orgoglioso, di non riporre la loro speranza nell’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che ci fornisce abbondantemente di ogni cosa perché ne godiamo; di far del bene, d’arricchirsi di opere buone, di essere generosi nel donare, pronti a dare, così da mettersi da parte un tesoro ben fondato per l’avvenire, per ottenere la vera vita».

Resta ancora un ordine da aggiungere riguardo a coloro ai quali, in mezzo ai suoi, Dio ha elargito dei beni di questo mondo. Si tratta della loro situazione «in questo mondo», situazione che non ha niente a che fare, o piuttosto che è in contrasto, con quella del mondo futuro (vers. 13-16).

Questa non deve esaltarli ai loro propri occhi, perché l’orgoglio per la ricchezza che si ha è una delle tendenze più frequenti fra gli uomini. Bisogna che i cristiani non si lascino trascinare a basarsi sull’incertezza delle ricchezze che possono svanire in un momento; essi devono confidare in Colui che li ha riccamente favoriti dando loro di godere di queste cose. Impieghino, dunque, le loro ricchezze per fare del bene, in buone opere, in prontezza nel dare con liberalità. Tale è lo scopo della ricchezza che è loro dispensata; essa deve sviluppare, nella testimonianza di chi le possiede, delle virtù che non potrebbero mostrarsi se non dove Dio dà dei beni terrestri.

«Così da mettersi da parte un tesoro ben fondato per l’avvenire». Si tratta di abbandonare le cose visibili anche se sono il frutto della bontà di Dio, date ai suoi affinché acquistino «un tesoro ben fondato per l’avvenire» ed afferrino «la vera vita». Tale doveva essere il comportamento dei ricchi. Timoteo, che non possedeva nessuno dei loro vantaggi, si offriva loro ad esempio avendo egli stesso «afferrata la vita eterna».

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Vers. 20-21: — «O Timoteo, custodisci il deposito; evita i discorsi vuoti e profani e le obiezioni di quella che falsamente si chiama scienza; alcuni di quelli che la professano si sono allontanati dalla fede. La grazia sia con voi».

Timoteo è esortato a custodire il deposito che gli è stato affidato. D’altra parte, vediamo che Paolo confida ciò che ha al Signore, il quale ha la potenza di custodirlo. In Lui è la vita, la potenza per sostenerla e per custodire nel cielo l’eredità di gloria che ci è destinata. Paolo sapeva in chi aveva creduto. Egli non aveva messo la sua fiducia nell’opera, ma in Cristo, che conosceva bene (2 Timoteo 1:12). Qui, è Timoteo che custodisce il deposito che il Signore gli ha affidato. Questo deposito è l’amministrazione della casa di Dio per mezzo della Parola, della dottrina, dell’esempio che egli stesso doveva dare. Il suo compito non era di discutere; doveva schivare le profane vacuità di parole e le opposizioni alla dottrina di Cristo dei ciarlatani che pretendevano di averne conoscenza. E già qualcuno, che professava di possederla, si era allontanato dalla dottrina cristiana.

L’ultima parola dell’apostolo a Timoteo, come a tutti i credenti, è: «Grazia», favore divino per il suo figlio in fede; ed è stata anche quella la sua prima parola (1:2)!