La seconda epistola di Paolo a Timoteo

Henri Rossier

Introduzione

La seconda epistola a Timoteo, ultimo scritto dell’apostolo Paolo, è di un’importanza speciale per i giorni in cui viviamo. Paolo, imprigionato per la seconda volta a Roma, sapeva che il tempo della «sua partenza» era giunto. In che stato lasciava la Chiesa, la Casa di Dio, di cui egli come saggio architetto aveva posto il fondamento? Questa Chiesa responsabile era ancora nella sua condizione primitiva? Era ancora simile alla descrizione che ne faceva a Timoteo, suo figlio in fede, nella prima epistola quando gli dava istruzioni su come bisogna comportarsi? No! Il bell’inizio di un tempo era stato sostituito da un’indifferenza quasi generale. Le false dottrine, l’opposizione alla verità, affioravano sempre più. L’avvenire era oscuro, e non offriva alcuna speranza al miglioramento; anzi, l’apostolo preannuncia che il male si sarebbe aggravato e che la storia della Chiesa responsabile sarebbe andata degenerando in quella di un cristianesimo professante senza vita. Il declino, già constatato al principio della sua storia, non si sarebbe fermato. Col sopraggiungere dei tempi profetici a venire, il suo stato sarebbe arrivato fino alla più completa decadenza morale. All’inizio del suo ministero, l’apostolo aveva già dichiarato che l’ultima forma del male sarebbe stato l’apostasia, il rinnegamento stesso del cristianesimo, dopo il rapimento della Chiesa, al sopraggiungere dell’Anticristo (2 Tessalonicesi 2:3-12). Poi, prima ancora della sua prima prigionia, aveva annunciato agli anziani di Efeso che dopo la sua partenza sarebbero entrati tra loro dei lupi rapaci che non avrebbero risparmiato il gregge (Atti 20:29). La condizione morale descritta nell’epistola che stiamo affrontando non era altro che la sensazione e il preludio di uno stato morale che andava peggiorando man mano che i tempi della fine si avvicinavano.

Dinanzi a questo stato di cose, quale doveva essere il comportamento del credente chiamato ad attraversarlo? Domanda importante e seria che l’apostolo rivolge a Timoteo, come anche a qualsiasi altro credente desideroso di glorificare il suo Maestro nel tempo attuale. Questo comportamento diventa necessariamente sempre più individuale, per quanto i fedeli siano chiamati a raggrupparsi per servire il Signore in mezzo ad uno stato di cose che non può più essere riformato.

Nondimeno, ci consola molto il fatto che esistono per il credente delle risorse che sono a sua disposizione per attraversare tempi in cui potrebbe correre il rischio di perdere coraggio non trovando una via d’uscita. Queste risorse, come vedremo, sono perfette e tali da rendere il fedele capace di riportare individualmente la vittoria nella lotta e di glorificare Dio come nei più bei tempi della storia della Chiesa. Per questo incontreremo continuamente, in questa epistola, il rimedio indicato di volta in volta man mano che il male è messo in risalto. Vi sono così tanti pericoli, che il testimone di Cristo, conscio della sua propria debolezza, ha bisogno di essere incoraggiato, consolato, esortato, per assolvere bene il proprio compito; e arrivato alla fine della corsa riceverà la corona promessa alla fedeltà, dopo aver riportato la vittoria. È ciò che ci viene presentato nelle continue esortazioni rivolte a Timoteo in questa lettera. Per quanto riguarda l’apostolo Paolo, egli si presenta come esempio al suo caro figlio, prendendo personalmente esempio dalle sofferenze del suo Maestro e Signore. Egli si distingue per una forte fede personale in presenza della rovina della Chiesa che altro non è ormai che «una grande casa», invece di essere «la casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità» (2 Timoteo 2:20; 1 Timoteo 3:15). La rovina non fa tremare affatto la sua fede anche se gli procura un’infinità di sofferenze.

Ecco, in poche parole, il contenuto di questa preziosa epistola, ultima eredità lasciata dall’apostolo a quelli che stavano per succedergli nella sua carriera cristiana, e quindi anche a noi.

Come sempre, le risorse che ci son presentate si riassumono in un solo nome, Gesù Cristo, come ce lo rivela la sua Parola. Con una tale guida e con una tale provvista di forza, il credente è più che vincitore. Tra le sofferenze e gli ostacoli, possiede una speranza ed una potenza che la rovina della casa di Dio non può colpire, perché queste benedizioni sono basate sulla persona divina e immutabile di Colui che è risuscitato d’infra i morti; sulle sue promesse, e sulla Parola che ci lo rivela.

1. Capitolo 1

1.1 Indirizzo e saluto

Vers. 1-2. — «Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, secondo la promessa della vita che è in Cristo Gesù, a Timoteo, mio caro figlio, grazia, misericordia, pace da Dio Padre e da Cristo Gesù nostro Signore».

Sembra che l’espressione «per volontà di Dio», che si trova anche nelle epistole ai Corinzi, agli Efesini e ai Colossesi, acquisti in questo passo una forza particolare per le circostanze che l’apostolo attraversava. La sua propria volontà è completamente messa da parte e vi trova lo spunto per avere una totale fiducia in un tempo in cui si cercava di mettere addirittura in discussione il suo apostolato. Ma egli si appoggia su questa certezza: sia egli apostolo in libertà o in catene, in prigionia mitigata o severa come era allora, resta fermo il fatto che era «apostolo per volontà di Dio». Un tempo il suo apostolato si era mostrato nei viaggi, nella predicazione tra le folle, nelle campagne e nelle città; poi in prigione, per iscritto o rivolgendosi oralmente ai suoi compatrioti o ai suoi giudici; in un tempo di prosperità spirituale per la Chiesa, o, come qui, in un tempo di declino, nulla poteva cambiare il grande fatto che egli era apostolo per volontà di Dio e che Dio guidava secondo la Sua volontà tutte le circostanze della sua vita. Se il suo apostolato non fosse stato per volontà di Dio, in che condizioni morali ci troveremmo noi oggi, privi della parola di questo apostolo per insegnarci il cammino gradito a Dio nel momento in cui la testimonianza affidata alla Chiesa sta per fallire? Tutta la potenza della sua missione esisteva ancora nell’epoca descritta in questa seconda epistola a Timoteo; a maggior ragione essa deve esistere nei giorni in cui viviamo noi, dal momento che l’attività stessa dell’apostolo è posta sotto i nostri occhi in questa parola infallibile uscita dalla sua penna per mezzo dello Spirito di Dio.

In linea di massima, l’apostolato di Paolo si proponeva di portare il nome di Cristo «davanti ai Gentili, ai re, e ai figli d’Israele» (Atti 9:15); così Paolo è chiamato «apostolo di Gesù Cristo». Questo unico nome caratterizzava l’intero soggetto della sua missione. In rapporto con questo nome, Paolo portava l’Evangelo di Dio davanti agli uomini, Evangelo che aveva come contenuto la rovina irrimediabile del vecchio uomo, una nuova natura comunicata all’uomo per la fede in Cristo, una vita nuova per mezzo dello Spirito Santo in Cristo risuscitato, la glorificazione, la pace, la libertà, la gloria, e tutto questo in pieno contrasto con Israele e la legge. Il suo apostolato, inoltre, a differenza di quello degli altri apostoli, aveva come scopo speciale la Chiesa, costituita «corpo unico», col suo Capo glorioso nel cielo, per mezzo della discesa dello Spirito Santo; la Chiesa edificata da Cristo; la Chiesa come casa di Dio affidata alla responsabilità dell’uomo.

Nondimeno, nel passo che abbiamo letto, Paolo non ci parla, come in altre epistole, del soggetto del suo apostolato, ma risale il più lontano possibile, nell’eternità passata, per mostrarcene il carattere. Questo apostolato è «secondo la promessa della vita che è in Cristo Gesù», vita che l’apostolo possedeva. Il carattere del suo apostolato non era più dunque né la potenza, né i doni miracolosi, ma il possesso di una vita che era dai tempi eterni, di una vita per l’eternità. Quando tutto è scosso, questo fondamento non può esserlo; esso dava una sicurezza assoluta all’apostolo. Questa promessa della vita è molto anteriore alle promesse di cui Abramo era il depositario. Essa è in Cristo Gesù, e solo in Lui possiamo trovare questa vita. Questo significa che tutti gli uomini sono sotto la sentenza della morte e che questa sentenza è abolita in Cristo. Chiunque ha ricevuto il Cristo per fede possiede questa vita, dono supremo di Dio; e non c’è nessuna incertezza; si tratta di una promessa alla quale Dio è fedele. Ma la parola «promessa» non implica una cosa futura, ma una cosa compiuta, attuale ed eterna, come vedremo al versetto 10. La vita promessa ci appartiene. È Cristo in noi e noi in Lui. Essa rendeva il carattere dell’apostolato di Paolo assolutamente stabile e incrollabile, anche se stava andando in rovina una gran parte di tutto quello che aveva edificato.

«A Timoteo, mio caro figlio», è un’espressione di particolare tenerezza, molto più intima di «mio legittimo figlio nella fede» di 1 Timoteo 1:2, e di «mio figlio legittimo secondo la fede che ci è comune» di Tito 1:4. Timoteo, giovane di carattere tenero, ma soggetto allo scoraggiamento, aveva bisogno di questo segno di particolare affetto, anche per essere capace di ricevere le esortazioni che l’apostolo gli rivolgeva molto più insistentemente che nella prima epistola. I pericoli legati alla posizione di Timoteo (non parliamo della sua missione perché non c’è nessuna prova che l’apostolo gli inviasse questa epistola ad Efeso) si erano considerevolmente acuiti nell’intervallo tra le due epistole; erano trascorsi diversi anni, e Paolo stesso si rendeva conto, durante questa seconda prigionia a Roma, che il tempo della sua dipartita era giunto. «Io sto per essere offerto in libazione», diceva (4:6). La libazione era quella che si faceva insieme al sacrificio (Esodo 29:40).

1.2 Affetto di Paolo per Timoteo

Vers. 3-4. — «Ringrazio Dio, che servo come già i miei antenati con pura coscienza, ricordandomi regolarmente di te nelle mie preghiere giorno e notte; ripenso alle tue lacrime e desidero intensamente vederti per essere riempito di gioia».

Qui Paolo dice: «Ringrazio Dio». Non parla né del Padre, né del Figlio, ma del Dio di Israele che i suoi antenati avevano servito. Questo va più lontano, indubbiamente, del servizio delle «dodici tribù» di cui parla in Atti 26:7. Alla vigilia del suo martirio i suoi pensieri vanno alla fede dei suoi antenati. Egli che aveva dovuto tanto combattere per far trionfare l’Evangelo sul giudaismo, ora può dire ciò che la religione della legge aveva potuto presentare di accettevole a Dio: la fede. La fede che accetta e crede la rivelazione di Dio era una fede che salvava. Abraamo credette a Dio; e gli antenati di Paolo erano dei veri figli di Abraamo. L’apostolo ne condivideva la fede, anche se una rivelazione completamente nuova era venuta ad aggiungersi. Paolo poteva servire Dio «con pura coscienza», il che non era possibile per i suoi antenati sotto la legge. Occorreva l’aspersione del sangue di Cristo per purificare il cuore «da una cattiva coscienza» (Ebrei 10:22), il sangue di un sacrificio diverso dai sacrifici levitici, per non aver più nessuna coscienza di peccato (Ebrei 10:2). La legge poteva farlo soltanto in figura (Esodo 29:21), ma mai nella realtà. Adesso l’apostolo, nel momento in cui lascia la scena di questo mondo, può dare uno sguardo indietro e ricordarsi con gioia che i suoi antenati avevano un posto nelle benedizioni future, e che egli andava a incontrarli nel riposo celeste dove lo avevano preceduto.

Paolo era riconoscente a Dio del ricordo costante che aveva di Timoteo nelle sue supplicazioni; anche il ricordo era un dono della grazia di Dio! Indubbiamente, il grande amore di Paolo per il suo figlio in fede gli impediva di dimenticarlo; ed egli era anche convinto che Dio stesso si interessava dello stato di Timoteo, che ne conosceva i bisogni, i pericoli, i timori, e che teneva costantemente conto delle preghiere che il suo apostolo gli rivolgeva notte e giorno a questo riguardo.

Aveva anche un grande desiderio, quello di riveder Timoteo, e anch’esso faceva parte delle sue supplicazioni, tanto più che si ricordava delle sue lacrime quando si era dovuto separare da lui al momento della seconda cattura, a cui seguì questo secondo imprigionamento. Che grande dispiacere avrà dovuto provare Timoteo anche solo al pensiero che il suo padre nella fede, fedele servitore di Cristo, andava verso il supplizio! Ma tutte le raccomandazioni di Paolo in questa epistola ci danno la prova che Dio gli avrebbe effettivamente accordato di rivederlo. In mezzo a queste cupe e dolorose prospettive, il Signore preparava per il suo fedele apostolo questo incontro che doveva arrecargli una gioia profonda.

***

Vers. 5. — «Ricordo infatti la fede sincera che è in te, la quale abitò prima in tua nonna Loide e in tua madre Eunice, e, sono convinto, abita pure in te»

Ricordandosi di Timoteo, della sua tenerezza, delle prove d’amore che ne aveva ricevuto, l’apostolo si ricorda nello stesso tempo delle donne di fede ch’egli aveva avuto nella sua famiglia; e questo ricordo aveva certo molto più valore di quello dei suoi stessi antenati. Paolo era stato colpito della fede «sincera» riscontrata in Timoteo quando lo conobbe a Listra (Atti 16:1-3); e quella fede da allora non aveva subito variazioni, ma aveva trovato in questa famiglia, nella madre e nella nonna, un ambiente favorevole al suo sviluppo. La pietà era in quelle donne e abitava anche in lui, l’apostolo ne era persuaso, nel momento stesso del loro incontro, perché allora Timoteo era già discepolo. Questo ricordo era per Paolo di grande conforto, ora che giungeva alla fine della sua carriera.

Nel momento in cui il servizio e la nostra testimonianza sono terminati, in cui non ci sono più le energie e le possibilità di dedicarsi completamente all’opera, è prezioso fissare lo sguardo sul passato e sulle affezioni naturali. Ne troviamo l’esempio perfetto alla croce del Signore, dove sentiamo queste parole dalla sua bocca: «Donna, ecco tuo figlio», e ancora: «Ecco tua madre»; mentre, durante l’esercizio del suo ministero, diceva: «Che c’è fra me e te, o donna?» oppure: «Chi è mia madre, e chi sono i miei fratelli?». Non che il servizio raffreddi il cuore e gli affetti, ma proprio perché essi son tanto dolci, toglierebbero qualcosa al compito che ci è affidato se ci lasciassimo trattenere dalla dolcezza delle relazioni naturali; è detto nei Proverbi: «Figlio mio, mangia il miele perché è buono», ma anche: «Mangiare troppo miele, non è bene» (Proverbi 24:13; 25:27)

1.3 Il ministero di Paolo e Timoteo legato al consiglio di Dio. Ma ci sono sofferenze nel ministero

Vers. 6. — «Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il carisma di Dio che è in te mediante l’imposizione delle mie mani».

È in virtù della «fede sincera» che è in lui che l’apostolo esorta Timoteo a ravvivare il dono della grazia che egli possiede, vale a dire a non lasciarlo spegnere. Un dono può spegnersi per mancanza di uso. Il dono di Timoteo aveva per scopo l’esposizione della Parola, l’esortazione, l’insegnamento (1 Timoteo 4:13); gli era stato conferito per combattere gli insegnamenti satanici che cominciavano a introdursi nella Chiesa (1 Timoteo 4:1). Aveva altri aspetti, senza dubbio, ma tutto sommato, corrispondeva a quello di pastore e di dottore di Efesini 4:11. Al capitolo 4:14 della prima epistola, Timoteo è esortato a «non trascurarlo»; e poteva capitare, per una certa timidezza di carattere che lo avrebbe indotto a cedere dinanzi a coloro che avrebbero approfittato della sua giovinezza per disprezzarlo e far valere sé stessi.

Dobbiamo ritenere molto prezioso un dono che Dio ci ha dato, sempre badando bene a non esaltare noi stessi. Una vera umiltà caratterizzerà colui che si rende conto che il suo dono proviene unicamente da Dio. L’umiltà di Timoteo lo induceva a trascurare il dono piuttosto che a farsene vanto; anche questo costituisce un pericolo. Così, può trovarsi da un lato l’orgoglio della carne che si attribuisce il dono, dall’altro un certo timore carnale che impedisce di farlo valere, e di esercitarlo, poiché la sfiducia in se stessi e l’eccessiva timidezza sono ancora «l’io». Stimarci meno di niente, delle nullità, ci potrebbe indurre a stimare il dono poca cosa, invece di stimarlo molto, come tutto ciò che viene da Cristo.

Timoteo, però, correva un altro rischio. Dinanzi al triste stato della Chiesa, al disprezzo a cui era esposto l’apostolo Paolo, al poco risultato che avevano avuto le sue esortazioni e i suoi insegnamenti, al male che andava aumentando al punto che i servitori del Signore erano attaccati ed esposti all’obbrobrio, poteva sembrare che l’esercizio di un dono fosse ormai inutile. Per questi motivi, ecco l’esortazione dell’apostolo a ravvivarlo.

Quali che siano le circostanze, la nostra responsabilità verso ciò che Dio ci ha affidato rimane piena e totale, e dobbiamo assolvere il nostro compito guardando attentamente a Lui senza tener conto dello stato di rovina della Chiesa e della testimonianza. Se si tratta dell’insegnamento, insegniamo; se si tratta delle cure del gregge, esercitiamo il pastorato senza preoccuparci del numero grande o esiguo delle pecore. Lo spirito di timidità (v. 7) non è lo Spirito Santo, ma è semplicemente la carne; ed è pericoloso, anche se meno dalla fiducia in sé stessi. Esso paralizza la nostra energia spirituale, mentre la fiducia in sé sostituisce l’energia della carne a quella dello Spirito di Dio.

***

Vers. 7. — «Dio infatti ci ha dato uno spirito non di timidezza, ma di forza, d’amore e di autocontrollo».

Timoteo doveva dunque ravvivare il suo dono, perché Dio, dice l’apostolo, non ci ha dato uno spirito di timidità. La timidità e lo Spirito sono incompatibili. La timidità è titubante davanti al compito proprio dove ci vorrebbe la risolutezza, il coraggio, la fede e l’audacia che sormonta gli ostacoli e che non si spaventa della tempesta sul mare perché il Signore è con noi nella barca, potente di far scendere una gran calma nel momento in cui le onde minacciano di inghiottirci.

Parlando dello spirito di timidità, l’apostolo riconduce i pensieri di Timoteo al dono dello Spirito Santo, alla benedizione iniziale della Pentecoste. La potenza dello Spirito che possediamo resta la stessa e non cambia mai, nemmeno nei tempi più tristi della Chiesa. Allo Spirito possiamo mettere degli impedimenti, contristarlo, di modo che sia obbligato a restare inattivo, ma esso non è affatto indebolito. Nulla gli impedirà di riempire il vaso in cui è stato versato. Il suo silenzio deriva dalla nostra mondanità e dal fatto che conserviamo nei nostri cuori degli idoli coi quali lo Spirito Santo non può convivere, in noi che siamo il suo tempio.

Ciò che caratterizza lo Spirito Santo di cui noi siamo «i vasi», non è soltanto la potenza, è anche l’amore. Le anime non sono attirate a Cristo per mezzo della potenza soltanto; ciò che le attira è l’amore. La potenza può far precipitare Satana dal cielo a guisa di folgore, può sottoporsi gli spiriti malvagi, convincere quelli che contraddicono; l’amore agisce come una calamita. È lui che dice: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi»; è lui che ci apre il cielo e vi scrive i nostri nomi per sempre, che ci rivela il cuore del Padre e quello del Figlio; e ci dice: Coraggio, non temere, non piangere…

Timoteo doveva anche ricordarsi che lo Spirito dato da Dio è uno Spirito di autocontrollo o di correzione o di sobrio buon senso. Dopo esser diventati i recipienti dello Spirito Santo, abbiamo bisogno di una direzione. Nel tempo di rovina della Chiesa, non avremo più le manifestazioni sorprendenti di potenza, o doni miracolosi, che al principio caratterizzavano il ministero degli apostoli e dei primi discepoli; oggi la potenza è volta a resistere contro l’irruzione sempre crescente del male, a tener ferma la verità, a vincere nuotando contro la corrente che trascina rapidamente la cristianità verso l’apostasia finale. Non si tratta neppure di esaltazione mistica, che in fondo non è altro che l’adorazione di se stessi; ma di uno Spirito che pesa con calma le circostanze sotto lo sguardo del Signore, che giudica equamente secondo le circostanze, che non pretende a grandi cose (vedere Geremia 45:4 — sarebbe rinnegare la rovina generale e umiliante di cui siamo tutti responsabili) e agisce in un cerchio ristretto che un sobrio buon senso ci traccia attorno. Questo spirito non trema, non si lascia intimidire di fronte ai risultati della sua azione; procede con calma nel sentiero che Dio gli ha tracciato, senza esibizionismo, senza strepito, ma sviluppando i suoi caratteri di forza e di amore.

Questi tre caratteri dello Spirito li troviamo trattati in tutta la prima epistola ai Corinzi: al capitolo 12 lo Spirito di forza, al capitolo 13 lo Spirito di amore, al capitolo 14 lo Spirito di correzione. Quest’ultimo ha come risultato di fare di noi non dei bambini, ma «quanto al ragionare, uomini compiuti» (1 Corinzi 14:20). Non espone i figli di Dio ad esser presi per pazzi dai non credenti (v. 23); esige che qualcuno interpreti se un fratello parla in altra lingua (v. 13), e si oppone ad ogni azione delle donne nelle riunioni dell’assemblea (v. 35).

***

Vers. 8. — «Non aver dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore, né di me, suo carcerato; ma soffri anche tu per il vangelo, sorretto dalla potenza di Dio».

Come abbiamo già notato, questa epistola contiene molti concetti di cui dovremo occuparci man mano che procediamo. Eccoli:

  1. La descrizione del male che caratterizza la casa di Dio al tempo della fine.
  2. Le risorse che i fedeli possiedono per camminare in un modo degno di Dio glorificandolo in mezzo a questo male.
  3. Le esperienze personali dell’apostolo in un tale stato di cose.
  4. Le esortazioni a Timoteo per condursi personalmente in un modo degno di Dio. Queste esortazioni, cominciate dal vers. 6, continuano al vers. 8.

Negli ultimi giorni della vita dell’apostolo la testimonianza cristiana era esposta agli assalti del nemico per corromperla. All’inizio essa si conservava pura, anche se era oggetto di persecuzione e di odio, poiché diversamente non sarebbe stata la «testimonianza di Dio». Ma da allora è iniziato il suo declino a causa della infedeltà dell’insieme della famiglia di Dio. Al tempo della seconda epistola a Timoteo, questa testimonianza era, in apparenza, già rovinata, e lo Spirito si serve della sua condizione di allora per descriverci profeticamente quel che essa è oggi e quel che sarà alla fine dei giorni. L’apostolo, messo in una posizione di spicco in questa testimonianza, era incarcerato; l’Evangelo era disprezzato e i credenti perseguitati, contrariamente a quanto accadeva al principio, quando la fedeltà dei testimoni produceva preziosi risultati.

Vedendo svanire ogni speranza dal punto di vista umano, si capisce come la vergogna della testimonianza crisitiana avrebbe potuto opprimere il cuore di Timoteo, per quanto fosse fedele come il suo caro padre in fede. Si resti pure umiliati quanto alla nostra testimonianza, ma mai quanto alla testimonianza del nostro Signore! Questa è la nostra consolazione e l’unica risorsa in un tempo di declino; non si tratta di appoggiarci sulla nostra testimonianza, ma su quella infallibile del Signore. Questa non può mai sprofondare, anche se noi ci affliggiamo con ragione sulle rovine di ciò che è stato affidato alla nostra responsabilità. Il Signore manterrà fino alla fine la sua testimonianza e le verità che la costituiscono, in un modo o nell’altro, fino alla sua venuta. Timoteo, vedendo in prigione il portatore eminente di questa testimonianza avrebbe potuto aver vergogna. No! dice l’apostolo. Paolo non si trovava là in una condizione vergognosa; non era il carcerato degli uomini, ma il carcerato del Signore. Egli lo teneva là per la Sua propria testimonianza. La Sua Parola fu completata proprio da Paolo carcerato; e in Paolo carcerato Dio si è glorificato dinanzi al mondo. Paolo carcerato è rimasto solo quando tutti l’hanno abbandonato; a questo riguardo, come sotto tanti altri aspetti, è stato simile al suo Maestro; è stato il suo rappresentante davanti al mondo.

Timoteo, se poteva essere esortato a non avere vergogna, aveva sotto gli occhi l’esempio dell’apostolo che dice al versetto 12: «Non me ne vergogno». Inoltre, al versetto 16, Onesiforo è citato come un fratello fedele che non si è vergognato delle catene dell’apostolo. Questo gli sarà messo in conto nel giorno delle ricompense. Più tardi, nelle esortazioni rivolte a Timoteo (cap. 2:15), l’apostolo lo esorta ancora, come aveva fatto riguardo alla timidezza, a non aver vergogna nell’esercizio del suo ministero, e non pensare né a sé, né agli uomini, ma unicamente a Dio per essere approvato da Lui. Questo non doveva forse bastargli?

«Ma soffri anche tu per il vangelo, sorretto dalla potenza di Dio». In un tempo di declino, come quello che il grande apostolo dei Gentili e il fedele Timoteo attraversavano, la testimonianza della Chiesa di Cristo era screditata, per colpa di coloro che ne erano i portatori, e gli occhi della fede dovevano volgersi sulla testimonianza del Signore che, non potendo essere annientata, si adattava alle tristi circostanze della Chiesa per raggiungere il suo scopo. Ma non soltanto la testimonianza della Chiesa di Cristo era screditata ma anche l’Evangelo (la buona novella presentata agli uomini come apportatrice di salvezza) che, invece di essere esaltato, era rigettato, e coperto d’obbrobrio nella persona di quelli che lo portavano. Timoteo doveva soffrire anche lui per l’Evangelo. Non era forse stato lo stesso per Gesù Cristo? Era forse stato ricevuto con gli onori e la riconoscenza dovuti alla salvezza che portava? No, anzi era stato rigettato, oltraggiato, crocifisso! I fedeli dovevano partecipare a queste sofferenze che erano all’ordine del giorno, e il Signore le aveva annunciate ai suoi discepoli prima di lasciarli. Indubbiamente, vi erano stati dei tempi in cui i fedeli, ben uniti e stretti insieme, avevano combattuto come un esercito disciplinato, in uno stesso spirito, con un medesimo animo e una medesima fede per il trionfo dell’Evangelo. Ora Satana sembrava avere il sopravvento, e i cristiani dovevano adattarsi a quelle circostanze e partecipare a quelle sofferenze speciali; ma ci voleva una potenza più grande del passato, la potenza di Dio, per sopportare quelle sofferenze e per sostenere e far trionfare, malgrado tutto, l’Evangelo nel mondo.

***

Vers. 9 e 10. — «Egli ci ha salvati e ci ha rivolto una santa chiamata, non a motivo delle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la grazia che ci è stata fatta in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma che è stata ora manifestata con l’apparizione del Salvatore nostro Cristo Gesù, il quale ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l’immortalità mediante il vangelo, in vista del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e dottore».

Questa potenza di Dio non è diminuita a motivo della nostra infedeltà; si è mostrata nella nostra salvezza, ci ha rivolto una santa chiamata ad esser santi e irreprensibili davanti a Lui nell’amore, e sarà pienamente realizzata quando saremo con Cristo e simili a lui nella gloria, anche se fin da adesso ci separa dal mondo per Dio (Efesini 1:4). La rovina non può colpire questa salvezza né questa chiamata. Quel che Dio ha dato, l’ha dato dall’eternità e per l’eternità. La stessa potenza di Dio che ci chiama a soffrire in mezzo alla rovina, ci ha stabiliti per sempre in mezzo alle cose immutabili!

Notate che in questo passo, nonostante che tutto sia caratterizzato dalla debolezza, anche nell’animo di un fedele testimone come Timoteo, l’apostolo insiste sulla forza, quella della Trinità con noi: la forza dello Spirito per togliere la timidezza (v. 7); la potenza di Dio per farci partecipare alle sofferenze dell’Evangelo (v. 8); la potenza di Cristo per conservare intatto ciò che l’apostolo gli ha affidato (v. 12). Non una parola sulla nostra propria forza, poiché non ne abbiamo. Anzi, essa si compie nella debolezza (2 Corinzi 12:9), ed era questa l’esperienza che Timoteo doveva fare come l’aveva già fatta l’apostolo prima di lui.

La menzione di questa potenza di Dio induce l’apostolo a esporre ciò che essa ha fatto per noi. Che descrizione meravigliosa! Prima di tutto, come abbiamo già visto, per mezzo d’essa abbiamo la salvezza e la santa chiamata; la salvezza abbraccia tutta l’opera della grazia a nostro favore, dal perdono dei peccati fino all’entrata nel cielo; la santa chiamata ci fa pensare alla nostra perfetta conformità con Cristo nella gloria: santi e irreprensibili dinanzi a Lui nell’amore. La grazia di Dio non ha nulla a che fare con la nostra attività né con le nostre opere, ma dipende unicamente dal proposito eterno di Dio. Ci è stata fatta in Cristo Gesù avanti i secoli (v. 9); è stata manifestata con l’apparizione del Salvatore nostro Cristo Gesù (v. 10); è in Lui (Cap. 2:1); da essa possiamo attingere ogni giorno e ogni momento la forza di cui abbiamo bisogno, perché è inesauribile.

È un immenso privilegio che questa grazia sia manifestata ora con la prima apparizione del nostro Salvatore Gesù Cristo, e ne conosciamo i risultati immutabili fin da quaggiù. Essi sono di due tipi:

  1. La morte, salario del peccato, è annullata. Questo non vuol dire soltanto che il diavolo, detentore del potere della morte, è stato reso impotente alla croce, ma che la morte è stata annullata per mezzo della risurrezione di Cristo. Egli non ha potuto essere ritenuto dalla morte, in cui è entrato volontariamente, ma è risuscitato dai morti e si è seduto, uomo glorificato, alla destra di Dio. Per Lui la morte non esiste più. Ma perché vi è entrato e ne è uscito? Perché la potenza della morte su di noi potesse per sempre essere annientata.
  2. Ma la grazia manifestata con l’apparizione di Cristo non solo ha annullato la morte; ha anche prodotto in luce la vita e l’immortalità (o l’incorruttibilità) mediante l’Evangelo. La vita era la luce degli uomini (Giovanni 1:5). Essa aveva noi in vista. Ora risplende agli occhi degli uomini nella risurrezione di Cristo. Senza questa risurrezione la vita sarebbe rimasta nascosta. Indubbiamente poteva produrre i suoi effetti, ciò è stato dimostrato da tutta la carriera di Cristo quaggiù: le sue parole erano Spirito e vita quando erano ricevute per la fede; inoltre, quando risuscitava i morti, il Signore comunicava loro la vita, ma una vita destinata ad essere di nuovo interrotta dalla morte. Nella sua persona la vita risplendeva, una vita che né la morte, né la corruzione potevano colpire. Ora è adempiuta la «promessa della vita» del versetto 1. Cristo ha lasciato la sua vita umana (era per questo che l’aveva presa), e lasciandola ha fatto risplendere una vita che la corruzione non potrà mai intaccare. L’incorruttibilità è stata finora manifestata soltanto nella Sua persona, come era scritto: «non permetterai che il tuo Santo veda la corruzione» (Salmo 16:10 — versione Nuova Diodati), poiché bisogna che in ogni cosa Egli abbia il primato. Quanto a noi, per mezzo della sua opera, possediamo già la vita eterna per le nostre anime, ma non l’incorruttibilità per i nostri corpi; alla sua venuta, la rivestiremo. Allora essergli simili sarà una realtà. Il Signore ha fatto risplendere queste cose per mezzo dell’Evangelo, poiché esso ci porta questa vita e questa speranza.

***

Vers. 11. — «…in vista del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e dottore».

La prigione e le catene non cambiavano nulla a questa missione. In questa epistola vediamo Paolo esercitare il suo apostolato senza ostacolo alcuno. Inoltre, il credente è istruito sulle verità immutabili dell’Evangelo, che nessuna rovina può raggiungere: la vita eterna, la grazia data in Cristo prima dei tempi, l’annullamento della morte, la manifestazione della vita e dell’incorruttibilità.

***

Vers. 12. — «È anche per questo motivo che soffro queste cose; ma non me ne vergogno, perché so in chi ho creduto, e sono convinto che egli ha il potere di custodire il mio deposito (cioè «quel che gli ho affidato») fino a quel giorno».

L’Evangelo annunzia in questo modo la fine delle conseguenze del peccato, cioè della morte, e l’introduzione di una cosa completamente nuova: la vita, che non potrà essere attaccata dalla corruzione che regna nel mondo; è in vista di un tale Evangelo che l’apostolo aveva ricevuto la sua missione fra le nazioni, missione universale, poiché non aveva soltanto in vista il popolo giudeo. Paolo aveva una tale convinzione dell’importanza di questa missione che non indietreggiava nemmeno davanti alle sofferenze rese mille volte più cocenti dall’abbandono di molti di coloro che avevano ricevuto quel beato messaggio. E non si vergognava, ma alzava il capo con fierezza, poiché sapeva in chi aveva creduto. Egli conosceva la persona di Colui nel quale aveva posto la sua fiducia; ed è proprio la conoscenza di questa persona, e non solo delle sue opere, che eleva l’anima nostra al di sopra delle difficoltà, dei pericoli, degli ostacoli del cammino.

Troviamo una verità simile nel Salmo 27. La contemplazione della presenza dell’Eterno eleva il capo del credente al di sopra dei suoi nemici. Conoscendo questa Persona, Paolo si sente al sicuro perché vive dove risiede la potenza. Se noi avessimo fiducia nell’opera che ci è stata affidata, per preziosa che sia, saremmo abbattuti e delusi vedendola rovinata e forse distrutta fra le nostre mani. Persino il grande apostolo dovette assistere a questa rovina negli ultimi giorni della sua carriera. Si sarebbe scoraggiato se non avesse conosciuto la persona in cui si era mostrata la realtà di questo Evangelo della vita e dell’incorruttibilità. Questo gli dava una perfetta sicurezza. Cristo aveva la potenza di custodire ciò che Paolo gli aveva affidato, e Paolo aveva piena fiducia in Lui. L’apostolo affidava alla Sua custodia l’anima sua e il suo corpo, il risultato della sua opera e l’avvenire della testimonianza, e tutto ciò che il Signore aveva affidato alla sua responsabilità. Egli solo aveva la potenza di custodire intatto il deposito che, lasciato fra le sue mani d’uomo, sarebbe stato irrimediabilmente perduto. Egli lo avrebbe salvaguardato «fino al quel giorno», fino al giorno della sua apparizione in gloria con tutti i suoi riscattati. Quel giorno sarà anche quello delle ricompense (vedere vers. 18).

***

Vers. 13. — «Prendi come modello le sane parole che hai udite da me con la fede e l’amore che si hanno in Cristo Gesù».

Dopo aver esposto il suo Evangelo e la sua dottrina, l’apostolo rivolge istruzioni ed esortazioni al suo caro Timoteo. La prima esortazione era d’attenersi al «modello» delle sane parole che aveva udito da lui. In un tempo in cui la Parola ispirata non era ancora completata e tutti quelli che ne erano i portatori erano ancora sulla scena, l’insegnamento divino dato da quest’uomo di Dio doveva essere conservato intatto dal suo fedele discepolo. Egli doveva avere per sé l’insieme delle verità che aveva udite, perché vi è più garanzia a ritenere la verità nei termini in cui è stata comunicata. Queste sane parole erano parola di Dio, di cui Timoteo doveva conservare la forma; erano delle parole ispirate, comunicate oralmente, come si vede in 1 Tessalonicesi 2:13. «La sana dottrina» e il «sano insegnamento» non sono altro che la Parola ispirata (vedere 1 Timoteo 1:10; 2 Timoteo 4:3; Tito 1:9; 2:1). Siccome Timoteo doveva comunicare ad altri tali parole, non correva il rischio di alterarle se le ricordava continuamente a se stesso. Era anche ciò che l’apostolo faceva (1 Corinzi 2:12-13). Non erano delle parole aride, delle verità teologiche, poiché Timoteo doveva conservare quel modello «con la fede e l’amore che si hanno in Cristo Gesù». È così che queste cose erano state comunicate dall’apostolo, e così dovevano essere conservate. L’intelligenza naturale non vi entrava affatto; la fede e l’amore che è in Cristo Gesù le comunicavano al cuore ed all’anima, e davano loro tutta la realtà divina.

***

Vers. 14. — «Custodisci il buon deposito per mezzo dello Spirito Santo che abita in noi».

Questo era già stato raccomandato a Timoteo nella sua prima epistola (Cap. 6:20). Un deposito gli era stato affidato; doveva custodirlo fedelmente. Era il buon deposito, le sane parole; non v’era un altro deposito che avesse un tale valore, che meritasse quel nome. La responsabilità di custodirlo è del credente.

Si tratta di non trascurare nessuna di quelle sane parole, non dimenticarle, non lasciarne cadere nessuna a terra come inutile; non introdurvi alcun elemento eterogeneo che possa alterare il suo valore o diminuirne il pregio; essere convinti della perfezione divina di ciò che Dio ci ha affidato; essere occupati, come Timoteo, a farne risaltare il valore di fronte agli altri (non parlo qui dell’esercizio di un dono); stimare quel deposito come il tesoro più prezioso. Ma come possiamo enumerare tutte le sue perfezioni quando lo contempliamo e ce ne nutriamo?

Coloro che lasciano questo deposito fra la polvere, che preferiscono nutrirsi della parola umana piuttosto che di quelle «sane parole», non possono dire di custodirlo solo perché ne hanno un esemplare nella loro casa e lo leggono superficialmente con occhio distratto. Ah, quanti cristiani sono colpevoli, come il malvagio servitore, di nascondere quel tesoro! Forse diranno: Per quanto mi sforzi di capire queste cose, per me sono lettera morta; un sermone mi edifica di più. Volete sapere quel che vi manca? Vi manca di sapere come potete custodire quel deposito: l’apostolo ve lo dice qui: «Per mezzo dello Spirito Santo che abita in noi». Non dice a Timoteo: Per mezzo dello Spirito che abita in te, ma in noi. Si potrebbe credere che Timoteo, uomo di Dio, fosse, in virtù della sua posizione, più qualificato d’altri per custodire il buon deposito. Invece no. Lo Spirito Santo abitava in lui come in ogni altro cristiano; ed ognuno, dal più umile al più intelligente, è tenuto a custodirlo per mezzo dello Spirito. È soltanto lui che insegna la Parola, la fa comprendere e mettere in pratica. Sovente sono i più intelligenti che custodiscono meno quel buon deposito, poiché la loro intelligenza umana si sostituisce allo Spirito di Dio che solo può far comprendere e ritenere le «sane parole» nella fede e nell’amore. Questa parola della grazia «può edificarci e darci l’eredità di tutti i santificati» (Atti 20:32).

Ritroveremo al capitolo seguente altre esortazioni che ci fanno vedere come Dio, man mano che la rovina si aggrava, si rivolga sempre più all’attività individuale. Ma gli ultimi versetti del nostro capitolo ci presenteranno prima una nuova forma di male che aveva invaso la Chiesa.

***

Vers. 15-18. — «Tu sai questo: che tutti quelli che sono in Asia mi hanno abbandonato, tra i quali Figello ed Ermogene. Conceda il Signore misericordia alla famiglia di Onesiforo, perché egli mi ha molte volte confortato e non si è vergognato della mia catena; anzi, quando è venuto a Roma, mi ha cercato con premura e mi ha trovato. Gli conceda il Signore di trovare misericordia presso di lui in quel giorno. Tu sai pure molto bene quanti servizi mi abbia reso a Efeso».

L’apostolo, sapendo di essere incaricato della difesa dell’Evangelo, in questi versetti parla dell’abbandono subito da parte di tutti i suoi collaboratori dell’Asia(*), al momento in cui si temeva per la sua seconda prigionia. Almeno è così che capisco le parole «tutti quelli». Essi temevano di compromettersi schierandosi dalla sua parte. Timoteo lo sapeva; vedremo più avanti (3:1) che lo sviluppo del male nella Chiesa non si sarebbe fermato lì, ma ciò che accadeva in Asia dimostrava sempre più che «tutti cercano i loro propri interessi, e non quelli di Cristo Gesù» (Filippesi 2:21). Fra quelli che si erano allontanati dall’apostolo vi erano Figello ed Ermogene. Vedremo nel corso di questa epistola, quale dimensione avesse preso l’abbandono in cui l’apostolo era lasciato.

_____________________
(*) L’Asia era una provincia dell’Impero Romano che si trova nella Turchia attuale. Efeso ne era la capitale. Le sette chiese dell’Apocalisse ne facevano parte.
¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯

Negli ultimi giorni della sua vita la testimonianza era giunta a questo punto! In questa assemblea di Efeso, dove la posizione celeste della Chiesa come corpo di Cristo era stata insegnata, compresa, realizzata in pratica, come in tutto il territorio dipendente da quella città, nel luogo stesso in cui l’apostolo prigioniero aveva inviato la sua epistola (agli Efesini), non si trovava più nessuno che simpatizzasse con lui. Uno solo aveva fatto eccezione, Onesiforo. Onesiforo aveva avuto la gioia di poterlo «molte volte confortare»; a Roma aveva dovuto cercarlo «con premura» per trovarlo, poiché non era più come ai tempi della prima prigionia quando non c’erano impedimenti. Quel che Dio stesso aveva tante volte fatto verso il suo fedele servitore (vedere 2 Corinzi 1), lo fa ora per mezzo di Onesiforo. Che immenso privilegio per lui! Onesiforo non aveva avuto vergogna di vedere l’apostolo trattato come un volgare malfattore; la sua catena era per lui come un titolo nobiliare. Né lui né l’apostolo ne avevano vergogna, poiché se essa faceva risaltare ciò che la testimonianza era divenuta, era nello stesso tempo la prova dell’onnipotenza di Dio che se ne serviva per spandere il suo Evangelo nel mondo intero.

Quando Onesiforo era venuto a Roma, non si era risparmiato per cercare l’apostolo, e l’aveva trovato. Forse altri avevano intrapreso questa ricerca senza raggiungere lo scopo, magari soddisfatti di mostrare agli occhi delle chiese o dell’apostolo che avevano compiuto il loro dovere. Non era facile trovare l’apostolo in quella grande città e nella fredda prigione dove era rinchiuso (vedere cap. 4:13), e i risultati vani di quella ricerca potevano essere altrettanti motivi per interrompere le indagini. Ma al di sopra dei motivi addotti vi era un Dio che vedeva e sapeva ciò che v’era nei cuori. Così l’apostolo implora la misericordia del Signore sulla famiglia d’Onesiforo (cap. 4:19) in quel tempo, e su Onesiforo stesso nel tempo futuro, nel giorno in cui saranno distribuite le ricompense; Onesiforo troverà allora «misericordia» da parte del sovrano Donatore, dal quale dipende ogni grazia, come è scritto: «Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta» (Matteo 5:7) e ancora: «Aspettando la misericordia del nostro Signore Gesù Cristo, a vita eterna» (Giuda 21). È a quel «giorno» che l’apostolo guarda al versetto 12. In quel giorno gli sarà reso ciò che egli ha affidato al Signore, e ciò che il Signore ha conservato per il suo caro servitore. Al capitolo 4:8 si comprende che si tratta della sua apparizione, del giorno in cui sarà considerato il soggetto della nostra responsabilità come testimoni di Cristo. In quel giorno sarà data la corona di giustizia (capitolo 4:8), la ricompensa decretata al giusto. Il nome delle diverse corone è ciò che caratterizza gli atti compiuti da quelli che le ricevono, e anche il carattere di Colui che le dà. Coloro che amano la sua apparizione sono quelli che agiscono e si comportano onorandolo, in vista del giorno in cui saranno posti nella piena luce della sua presenza e in cui tutto sarà manifestato senza che nulla rimanga nascosto. Allora, ciascuno dei suoi riceverà secondo quel che avrà fatto.

Timoteo stesso poteva rendere testimonianza ad Onesiforo dei servigi che egli aveva resi nell’assemblea d’Efeso ove Timoteo aveva lavorato così a lungo per mantenere l’ordine nella casa di Dio. Ma i servizi di Onesiforo non dovevano aspettare «quel giorno» per essere riconosciuti; lo erano già allora da ogni anima fedele e preoccupata del servizio e della testimonianza di Cristo. Oggi è la stessa cosa.

I versetti 16 e 18 ci mostrano l’aiuto e il soccorso che il Signore mette sulla via dei suoi servitori in una carriera irta di tanti pericoli e sofferenze. Non fu anche così del Servitore perfetto? Il Salmo dice: «Si disseta al torrente lungo il cammino» (110:7). Ah! Per bere, ha dovuto abbassare il capo! Non fu forse la stessa cosa del suo fedele servitore Paolo? Egli approfittava con gioia della consolazione e del refrigerio che riceveva in seno alla sua condizione umiliante, ma sapeva che un giorno avrebbe alzato il capo.

2. Capitolo 2

2.1 Esortazioni e risorse per la vita personale

Vers. 1-2. — «Tu dunque, figlio mio, fortìficati nella grazia che è in Cristo Gesù, e le cose che hai udite da me in presenza di molti testimoni, affidale a uomini fedeli, che siano capaci di insegnarle anche ad altri».

Man mano che andiamo avanti in questo studio constatiamo sempre più che, nello stato di crisi della Chiesa responsabile, la testimonianza è soprattutto individuale. Da ciò deriva l’esortazione spesso ripetuta di fortificarsi c di farsi animo. L’attività nel servizio non poteva esercitarsi efficacemente a meno che Timoteo «si fortificasse nella grazia», vale a dire crescesse nella grazia attingendovi le forze necessarie. Poiché questa grazia «è in Cristo Gesù», egli non poteva crescere in essa se non conoscendo sempre meglio la sua persona adorabile. Ora, questa conoscenza della Sua persona era essa stessa alla base dell’attività di Timoteo per formare dei servitori utili nell’opera. Il suo dovere non era la sorveglianza dell’ordine nella casa di Dio, come nella prima epistola. La storia della Chiesa ci insegna che, essendo la rovina sempre aumentata, dopo la scomparsa dell’ultimo apostolo si ritenne di rimediare alla rilassatezza generale con delle proibizioni legali; ma qui nulla di simile: bisognava fortificarsi nella grazia. È il mezzo più sicuro per resistere all’invasione del male, poiché per conoscerla bisogna conoscere Cristo che ne è la sorgente e l’espressione più perfetta. «La grazia e la verità», è scritto in Giovanni 1, «sono venute per mezzo di Gesù Cristo». Vedremo nel corso di questi capitoli, che, in un tempo di declino, mantenere la verità, è tanto importante quanto appoggiarsi sulla grazia (vedere capitolo 2:15,18,25) poiché l’Avversario attaccherà sempre la «verità» (cap. 3:7,8; 4:4).

Una risorsa fondamentale è così indicata al servitore di Cristo per il tempo della fine. Non sono più i carichi nella Chiesa, che solo gli apostoli e i loro delegati aveva il diritto di stabilire per mantenere l’ordine, ma la parola di Dio è pienamente sufficiente per raggiungere questo scopo. Le cose che Timoteo aveva udite dall’apostolo, doveva affidarle ad uomini fedeli; e questi, bene ammaestrati nella Parola, sarebbero stati capaci di istruire anche gli altri. Timoteo stesso, come intermediario, non essendo ispirato per comunicarle, aveva bisogno di controllo nel suo insegnamento; per questo è scritto: «Le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni». Era una garanzia che egli non avrebbe alterato le parole dell’apostolo. Queste cose le abbiamo ora nella Parola scritta che, come abbiamo visto prima, non era allora ancora completata e aveva bisogno di una trasmissione orale per essere comunicata. Anche oggi il servitore di Dio, deve trasmettere ad altri l’insegnamento divino benché le condizioni siano differenti: ma tutto ciò non ha a che vedere con un clero ufficiale o con scuole di teologia.

***

Vers. 3-6. — «Sopporta anche tu le sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù. Uno che va alla guerra non s’immischia in faccende della vita civile, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato. Allo stesso modo quando uno lotta come atleta non riceve la corona, se non ha lottato secondo le regole. Il lavoratore che fatica dev’essere il primo ad avere la sua parte dei frutti».

Il lavoro che il fedele Timoteo doveva svolgere non era esente da sofferenze. Ecco il perché di questa nuova esortazione. Timoteo doveva prendere la sua parte di sofferenze. Doveva considerarle non solo come una necessità, ma come un privilegio. Già menzionate due volte nel capitolo precedente, le sofferenze lo sono ancora tre volte nel nostro capitolo. Se Timoteo voleva essere «un buon soldato di Gesù Cristo», aveva un motivo per parteciparvi volontariamente. Un soldato che entra al servizio del capo dell’esercito ed è stato arruolato da lui, non si impaccerà mai delle faccende della vita. Non si porterà dietro un bagaglio inutile e non si lascerà arrestare dagli ostacoli; egli appartiene al suo capo ed ha un solo pensiero: «piacere a colui che lo ha arruolato». Tale, difatti, dev’essere il nostro primo scopo: piacere a Lui che s’è acquistato ogni diritto su noi prendendoci al suo servizio; il quale poi non è l’adempimento di un dovere legale, ma un servizio di dipendenza e d’amore. Il buon soldato è qui rappresentato come colui che si prefigge unicamente di essere approvato dal suo capo, di soddisfarlo in ogni senso, riconoscendo che ha ogni diritto. Non è ancora il combattimento, perché spetta al capitano di stabilirne il momento, ma sono le relazioni di dipendenza e d’amore tra il soldato e il suo capo senza le quali non c’è possibilità di vittoria, e che devono prendere il posto di ogni altra affezione. Ecco cosa vuol dire, secondo la Parola, essere un buon soldato.

L’apostolo dà a Timoteo un altro esempio di quel che deve essere l’impegno nel servizio. È il combattimento nello stadio, di cui è parlato in 1 Timoteo 6:12. Che si tratti della corsa o della lotta, bisogna che i pensieri siano occupati solo dello scopo da raggiungere e del premio da riportare. L’oggetto dello sforzo non è la ricompensa propriamente detta, ma la vittoria. Questo scopo da raggiungere è un Cristo celeste (Filippesi 3:12-14). C’è da essere coronato. Ma questo non può aver luogo se non è esclusa ogni volontà personale. Ci sono delle leggi e dei regolamenti da osservare; non sta a noi stabilire la forma e la modalità della nostra lotta. Il disattendere anche in parte a queste leggi ci squalifica per ottenere il premio; perderemmo così la proclamazione pubblica d’aver raggiunto lo scopo.

L’apostolo ci dà poi come terzo esempio quello dell’agricoltore. Per lui la cosa fondamentale è il lavoro; non risparmia sforzi né fatiche. Quelli che si son lasciati prendere dalla pigrizia spirituale non avranno mai il godimento dei frutti. Cristo stesso, il nostro modello, sarà saziato «del frutto del travaglio dell’anima sua».

Abbiamo così tre potenti motivi per sopportare le sofferenze come servitori di Cristo:

  • il desiderio di essergli graditi, che deriva da una vera e profonda affezione per lui;
  • lo scopo da raggiungere,
  • e il godimento eterno dei frutti del nostro lavoro.

Che possiamo dar prova fino alla fine di un cuore libero da ogni impedimento in un servizio gioioso, nell’obbedienza alle regole che il Signore ci ha prescritte, nella pazienza per ottenere infine il frutto del nostro lavoro!

***

Vers. 7. — «Considera quel che dico, perché il Signore ti darà intelligenza in ogni cosa».

Timoteo doveva applicare tutte queste cose a se stesso dopo averle insegnate ad altri, e Paolo esprime la sua fiducia nel Signore che gli darà intelligenza in ogni cosa. Quest’intelligenza è data, come vedremo in seguito, a colui che ha il Signore come centro della sua vita. Benché abbia fiducia nel suo discepolo, Paolo non conta sulla sua intelligenza ma sul Signore che gliela darà. Egli dice: «In ogni cosa» perché il cammino e la testimonianza cristiana sono strettamente collegati tra loro. Ci vuole l’intelligenza della Parola per onorare il Signore nella vita pratica; ma ci vuole anche la realizzazione della vita pratica per comprendere gli insegnamenti della Parola.

***

Vers. 8-10. — «Ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, della stirpe di Davide, secondo il mio vangelo, per il quale io soffro fino ad essere incatenato come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata. Ecco perché sopporto ogni cosa per amor degli eletti, affinché anch’essi conseguano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna».

L’apostolo dice ora ciò che è alla base di ogni vera intelligenza: «Ricordarsi di Gesù Cristo». In Lui si concentrano tutti i pensieri, tutta la sapienza di Dio. I due caratteri di Cristo, menzionati qui, e di cui Timoteo deve ricordarsi, sono un Cristo risorto dai morti e un Cristo della stirpe di Davide. Questi due caratteri erano il soggetto dell’Evangelo predicato da Paolo e compendiavano la Bibbia intera.

Come Figlio di Davide, il Signore adempie le promesse di Dio, prima verso il suo popolo, poi verso le nazioni e verso la Chiesa, in ciò che concerne la parte che essa avrà nel regno di Cristo sulla terra, poiché alla Chiesa dice: «Io sono la radice e la discendenza di Davide» (Apocalisse 22:16). È nel vero Isacco, la «radice» di Davide, che le nazioni saranno benedette, ed è nel vero Salomone, la «discendenza» di Davide, che sarà stabilito il regno in sapienza, giustizia e pace, il regno milleniale di Cristo. La radice di Davide, risalendo ad Abramo, ci parla della grazia. Davide stesso, uscito da questa radice, è il re di grazia. La progenie di Davide, rappresentata da Salomone, ci parla di giustizia, di pace, di potenza e di gloria, in rapporto con il regno di Cristo sulla terra insieme alla sua Sposa, la nuova Gerusalemme. Così l’Evangelo dell’apostolo non era estraneo a tutte le promesse di Dio concernenti l’istituzione futura nel regno di Cristo quaggiù.

Ma vi è un carattere di Cristo ancora più importante di cui Timoteo doveva ricordarsi prima di tutto: l’Evangelo di Paolo era basato su un Cristo risuscitato dai morti. La risurrezione, verità capitale del cristianesimo, era il punto di partenza di tutto il ministero dell’apostolo. Come la discendenza di Davide apriva una prospettiva su tutte le benedizioni terrestri, così la risurrezione l’apriva al cielo, sulle relazioni celesti col Padre e col Figlio, sul godimento eterno della gloria. Ma l’apostolo aggiunge: «Risorto dai morti». La risurrezione non poteva aver luogo senza la morte che ha messo fine a tutto l’antico stato di cose introdotto dal peccato. Senza la morte, non è possibile né salvezza, né liberazione; ma d’altra parte, senza la risurrezione, Cristo sarebbe morto invano. La risurrezione ha introdotto il nuovo stato di cose glorioso. È per mezzo della risurrezione, come abbiamo visto al capitolo 1:10, che Cristo ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l’incorruttibilità mediante il vangelo. La risurrezione è la grande, incommensurabile verità dell’Evangelo; tanto grande, che Paolo era pronto a sopportare qualsiasi cosa per annunziare quest’Evangelo al mondo intero, pronto ad essere considerato e trattato come un malfattore pur di esserne il messaggero.

Satana aveva spiegato tutta la sua astuzia e tutta la sua potenza per ostacolare questa buona novella e renderla inefficace. Il mezzo migliore era quello di rendere impotente il portatore. Era così riuscito ad incatenarlo, ma la Parola, uscendo dalla sua prigione, non poteva essere incatenata come lui. Anzi, la catena dell’apostolo era il mezzo meraviglioso nelle mani di Dio per spandere la sua Parola nel mondo intero.

L’apostolo sopportava ogni cosa pur di far conoscere questo Evangelo. Non reputava nessuna sofferenza troppo grande affinché gli eletti fossero partecipi della salvezza che è in Cristo Gesù, vale a dire della liberazione dal giogo di Satana, della giustificazione per fede, della introduzione nel favore di Dio come figli diletti, e infine della gloria che l’apostolo chiama la gloria eterna. Non vi è nulla di passeggero in queste benedizioni che la grazia ci ha acquistate. Esse durano per l’eternità!

***

Vers. 11-13. — «Certa è quest’affermazione: se siamo morti con lui, con lui anche vivremo; se abbiamo costanza, con lui anche regneremo; se lo rinnegheremo anch’egli ci rinnegherà; se siamo infedeli, egli rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso».

«Certa è quest’affermazione». Quante volte troviamo quest’espressione nella prima epistola a Timoteo ed in quella di Tito! Nel versetto di 1 Timoteo 1:15, l’espressione «Certa è quest’affermazione e degna di essere pienamente accettata» afferma le verità evangeliche. Qui si tratta della verità cristiana. È l’affermazione di un avvenire glorioso perfettamente garantito per il cristiano, che deriva dalla sua associazione con Cristo nella sua morte e nella sua partecipazione alle sue sofferenze quaggiù. Le cose annunziate nell’Evangelo ci sono assicurate come lo sono a Cristo stesso. Egli è morto e risuscitato (vers. 8); se siamo morti con Lui, avendo accettato per fede che il giudizio è stato eseguito su Cristo ma doveva cadere su noi, condivideremo anche la sua vita, poiché Cristo è risuscitato. Questo fa dire all’apostolo: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Galati 2:20). Ma il passo che stiamo considerando va più lontano ancora; considera la nostra vita con Lui, la nostra gloria con Lui, il nostro regno con Lui, come una cosa futura, ma tanto certa, tanto immutabile per noi quanto lo è per lui.

«Se soffriamo» (e al versetto 10 si vede per chi l’apostolo soffriva: per Cristo, per l’Evangelo, per gli eletti) vi sarà una risposta, come per tutti quelli che seguiranno lo stesso sentiero di devozione: regneremo con Lui.

Al versetto 13 l’apostolo presenta il lato opposto di questa gloriosa prospettiva: «Se lo rinnegheremo anch’egli ci rinnegherà». Se non facesse così, rinnegherebbe il suo carattere di giustizia e l’immutabilità della sua propria natura. È di grande importanza mantenere rigorosamente questo principio. Esso è enunciato in questa epistola dove, come vedremo, la casa di Dio ha preso l’aspetto di una gran casa composta di elementi viventi e di elementi che hanno solo l’apparenza di vivere. Questi elementi formano un tutto unico esteriormente riconosciuto da Dio, e questo obbliga l’apostolo a dire: «Se lo rinnegheremo, anch’egli ci rinnegherà». Rinnegarlo, vuol dire dichiarare espressamente di non conoscerlo, ed è appunto ciò verso cui tende rapidamente la cristianità attuale. Sono costoro che il Signore rinnegherà. «In verità», dirà Egli, «non vi conosco» (Matteo 25:12). Così li rinnegherà; la loro sorte sarà fissata per sempre; secondo l’immutabilità della sua natura.

E non dimentichiamo che questo principio non dovrebbe risparmiare nemmeno un figlio di Dio, come l’apostolo Pietro. Il Signore aveva detto: «Chi mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio» (Luca 12:9). Pietro lo rinnegò tre volte; anche se era stato avvertito; non c’è più rimedio per lui? Sì, ne resta ancora uno: la grazia sovrana che aveva scelto questo povero discepolo e che si eleva al di sopra del giudizio. I pianti amari del pentimento di Pietro hanno fatto agire questa grazia quando già l’intercessione dell’Avvocato l’aveva preceduta. Da quel momento era possibile la riabilitazione, e sappiamo come ebbe luogo. Come tali fatti debbono renderci seri e farci camminare nel timore continuo di dispiacergli!

Ma c’è ancora un’altra affermazione. «Se siamo infedeli, egli rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso». L’immutabile fedeltà di Cristo va di pari passo con la sua immutabile giustizia. Se incontra l’infedeltà, la mancanza di fede, in quelli che fanno professione di appartenergli, rinnegherà forse il suo proprio carattere rigettandoli? No; Egli rimane fedele e non può venir meno alla sua promessa basata sulla grazia. Certamente, Egli non tratta con leggerezza le nostre infedeltà. Commettendole, ci siamo contaminati e dobbiamo essere purificati confessandole a Dio. Allora troviamo il Dio delle promesse che non può venir meno alla sua fedeltà verso di noi, poiché è a Cristo che Egli ha fatto queste promesse per noi. Ma c’è di più: se fosse giusto verso di noi, ci condannerebbe; ma Egli è giusto verso Cristo, e per questo la sua fedeltà e la sua giustizia s’accordano nel perdonarci i nostri peccati e purificarci da ogni iniquità, affinché la nostra comunione con Lui sia ristabilita (1 Giovanni 1:9). Però, la nostra infedeltà deve essere seguita dalla confessione; e chi dice confessione dice «umiliazione» per ritrovare la preziosa comunione perduta. Così, Cristo è coerente con se stesso rinnegando chi lo rinnega, e rimanendo fedele al suo carattere.

2.2 Come condursi con chi si allontana dalla fede e dalla purità cristiana

Vers. 14-18. — «Ricorda loro queste cose, scongiurandoli davanti a Dio che non facciano dispute di parole; esse non servono a niente e conducono alla rovina chi le ascolta. Sfòrzati di presentare te stesso davanti a Dio come un uomo approvato, un operaio che non abbia di che vergognarsi, che dispensi rettamente la parola della verità. Ma evita le chiacchiere profane, perché quelli che le fanno avanzano sempre più nell’empietà e la loro parola andrà rodendo come fa la cancrena; tra questi sono Imeneo e Fileto, uomini che hanno deviato dalla verità, dicendo che la risurrezione è già avvenuta, e sovvertono la fede di alcuni».

«Ricorda loro queste cose». Questa è la seconda raccomandazione dell’apostolo a Timoteo riguardo alla sua missione. Troviamo la prima all’inizio di questo capitolo. Occorreva innanzi tutto che Timoteo si impegnasse a far sì che la Parola potesse essere comunicata ad altri, e ogni servitore di Dio, chiamato ad insegnare, deve avere a cuore anche questo. In seguito egli doveva «ricordare» ad altri ciò di cui egli stesso doveva ricordarsi (versetto 8), cioè tutto l’Evangelo, impostato sulla morte e sulla risurrezione di Cristo, e l’adempimento delle promesse di Dio in Lui. Se era esortato ad investigare per sé tutte queste cose, e a sopportare le sofferenze dell’Evangelo che predicava, come faceva Paolo, bisognava pure che egli ricordasse queste cose a coloro che le avevano un tempo ricevute, ma correvano il rischio di perderle in dispute sterili. Timoteo doveva insorgere contro questi mali in un periodo di decadenza in cui le verità relative alla salvezza erano abbandonate per delle dispute di parole, come è poi ancora avvenuto nel mondo cristiano dopo la morte degli apostoli. Ahimè! oggi il male è grandemente peggiorato e tutto ci fa presagire che la venuta dell’uomo del peccato e l’apostasia finale non tarderanno a realizzarsi. Tuttavia, ancora oggi, le dispute di parole sono frequenti fra i cristiani, specialmente fra quelli che si sono lasciati vincere dalla mondanità; e siccome mancano della pietà e delle basi morali necessarie per tener testa e reagire contro questa forma di male, non solo esercitano un ministero senza alcun profitto per le anime, ma vanno ancora più lontano e sconvolgono la mente di quelli che li ascoltano.

L’opera di Timoteo doveva essere in netto contrasto con quella di quei cosiddetti dottori, e abbiamo qui un bel quadro del ministero cristiano in un periodo di decadenza. Grazie a Dio, anche se è raro incontrarlo, un tale ministero esiste. Il carattere fondamentale che lo fa riconoscere è la ricerca dell’approvazione di Dio, non avendo nessun valore, per un vero servitore, l’approvazione degli uomini. Cosciente dell’approvazione del suo Maestro, un tale servitore cammina indipendente degli uomini, non pensando a se stesso; sapendo che il suo Dio è con lui, l’unica arma nelle sue mani è la parola di verità. Però questa parola deve essere «tagliata rettamente». Spesso le peggiori eresie derivano da qualche dottrina scritturale fatta uscire dal suo contesto o da qualche verità che non è presentata nel suo equilibrio con altre; si può dire che tutte le sette della cristianità hanno per origine questo falso principio.

I versetti 16 a 18 insistono sul fatto che Timoteo doveva evitare i discorsi vani e profani. Anche se non correva il rischio di condividerli, non doveva avere niente a che fare con essi e doveva ammonire quelli che vi si abbandonavano, i quali invece di lasciarsi correggere dalla loro cattiva via, sarebbero progredite nell’empietà e sarebbero stati come una cancrena rodente, causa di morte per l’anima di quelli che li ascoltavano. Imeneo e Fileto (spesso i falsi dottori vanno a due a due: 1 Timoteo 1:20; 2 Timoteo 3:8, sostenendosi l’un l’altro nell’empietà e rendendosi così ancor più pericolosi) erano in questa condizione. Prendendo spunto dalla verità che siamo risuscitati con Cristo, insegnavano che la risurrezione era già avvenuta; di conseguenza il cristiano non doveva aspettare una risurrezione del corpo che lo introducesse nel cielo. Era chiamato a trovare il suo Paradiso quaggiù e, a motivo di questa sua risurrezione, era introdotto in uno stato di perfezione sulla terra. Molte false dottrine erano comprese in quella, e le vediamo pullulare ai giorni nostri. La fede di alcuni era sovvertita e la cancrena minacciava di estendersi in modo generale. Per mezzo di queste false dottrine Satana cerca di rapire ai figli di Dio il loro carattere celeste. È così che in 1 Corinzi 15:12 la dottrina che non c’è risurrezione dei morti ci tiene sulla terra ed ha per conseguenza che neppure Cristo è risuscitato. La verità fondamentale del cristianesimo era così attaccata e annientata; e Satana, che non era riuscito a incatenare la Parola, cercava di distruggerla per mezzo di quei falsi dottori. Ai nostri giorni questo male mortale si estende sempre più, aggiungendo alle sette nuove sette e corrompendo sempre più ciò che è già così fortemente inquinato. Beati quelli che in mezzo a un tale disordine evitano di ascoltare discorsi vani e restano nella semplicità della fede e di una sana dottrina insegnata dallo Spirito di Dio!

***

Vers. 19. — «Tuttavia il solido fondamento di Dio rimane fermo, portando questo sigillo: “Il Signore conosce quelli che sono suoi”, e “Si ritragga dall’iniquità chiunque pronunzia il nome del Signore”».

Queste dottrine che sovvertono la fede sono portate avanti, in questa epistola, da pochi. Ma è venuto il tempo in cui, come è predetto al capitolo 3, l’intera cristianità professante è trascinata da questa corrente e pare che stiamo avvicinandoci a questo periodo che durerà un tempo stabilito non appena il Signore avrà rapito la sua Chiesa. Nel frattempo, il credente ha delle risorse perfettamente sufficienti man mano che il male aumenta e si estende, ed ha inoltre il mezzo di sfuggire alla sua influenza pur mantenendo intatta la testimonianza del Signore.

«Tuttavia il solido fondamento di Dio rimane fermo». Sì, rimane fermo di fronte alla potenza del male scatenato da Satana per sovvertire la fede. Nulla può abbattere e neppure scuotere questo fondamento. È munito di un sigillo che, come una medaglia, ha un diritto e un rovescio. Sul diritto è riprodotto il pensiero di Dio; sul rovescio, la responsabilità dell’uomo cui incombe di attenersi a questo pensiero.

«Il solido fondamento» è in contrasto con l’edificio affidato alla responsabilità dell’uomo e di cui l’apostolo Paolo con tanta sapienza aveva posto il fondamento. Mentre egli viveva ancora, già questo edificio si screpolava e minacciava di cadere in rovina. Era quello che già Davide proclamava riguardo all’avvenire della casa di Israele: «Quando le fondamenta sono rovinate, che cosa può fare il giusto?». La risposta è la stessa che in 2 Timoteo: «L’Eterno è nel suo tempio santo; l’Eterno ha il suo trono nei cieli; i suoi occhi vedono, le sue pupille scrutano i figli degli uomini. L’Eterno scruta il giusto e l’empio» (Salmo 11:3-6). Dio fa distinzione fra i giusti e gli empi; il suo occhio riposa sui primi. «Il Signore conosce quelli che sono suoi». Non uno sarà perduto; i suoi consigli sono garantiti sicuramente; nulla potrà cambiarli o alterarli. Ciò che offusca la nostra vista è la professione esteriore cristiana, che dà l’illusione della vita, ma non può offuscare la vista di colui che scruta i cuori e le reni. Noi possiamo lasciarci ingannare, ma Dio no: Egli sa scoprire l’oro fra le scorie e farlo brillare in tutto il suo splendore mettendolo nel crogiolo. Ciò che Dio ha fondato non potrà mai essere demolito. Sicurezza beata per le nostre anime! Di fronte al crollo graduale dell’edificio anche un Timoteo avrebbe potuto perdersi d’animo e chiedersi: Che rimarrà, alla fine, della casa di Dio? Ciò che rimarrà sarà tutto quel che Dio stesso ha fondato! Egli non cambia; il luogo della sua abitazione non può essere distrutto. Questo fondamento rimane, perché essendo divino è immutabile. Dio ha sigillato questo fondamento, nessuno potrà mai scuoterlo.

Quindi su questo sigillo vediamo da un lato ciò che Dio è per i suoi; Egli li conosce perché sono edificati da lui. Tutto quel che gli uomini hanno edificato può essere demolito o bruciato, ma ciò che Dio ha edificato rimane. Qui ci troviamo dunque davanti alla Chiesa come Dio l’edifica, e davanti alla Chiesa responsabile e suscettibile di essere abbattuta per la parte che è affidata alla responsabilità e all’opera dell’uomo. Quanto è importante di fronte alla confusione che gli uomini hanno fatto fra queste due cose, comprenderne la differenza e attaccarsi a quanto Dio ha stabilito, a quanto riconosce, a quanto nessuna forza umana o satanica può riuscire a distruggere!

Ma questo non annulla affatto la responsabilità dell’uomo, né di quelli che sono stati edificati sul fondamento divino. Ecco ciò che si trova sul rovescio del sigillo: «Si ritragga dall’iniquità chiunque pronunzia il nome del Signore». Vi sono due sorta di professanti; possono appartenere al corteo delle vergini savie o a quello delle vergini stolte. Essere professanti con la vita e professanti senza vita. Per appartenere al Signore, la professione è indispensabile quanto lo è la fede: «Se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato» (Romani 10:9). Per essere edificati sul solido fondamento, questa professione deve avere un carattere che la professione senza vita non ha mai: ritrarsi dall’iniquità, vale a dire dal male, quando si nomina il nome del Signore e si dichiara di appartenergli, di conoscerlo e di portare il suo nome in questo mondo. Vi è una separazione fra la professione con la vita e quella esteriore e vana. Bisogna ritrarsi dal male. Non si tratta di dover scusare il male né tantomeno di correggerlo. Questo espediente è adottato da cristiani che restano legati alle dottrine corrotte della cristianità sapendo benissimo che è un terreno contaminato, e che vorrebbero (almeno i più coscienziosi fra loro) conservare, come Lot, un po’ di polvere di quella terra riprovata. Ma «ritrarsi dall’iniquità» vuol dire non portar nulla con sé. Il caso di Abramo ha dimostrato che anche i legami più legittimi sono un ostacolo, quando Dio ha detto: «Esci».

Il credente ha un dovere individuale; la responsabilità della separazione dall’iniquità non è collettiva; prima bisogna che ogni singolo sia sensibile a questo problema ed è allora che una testimonianza collettiva può formarsi. Ma, direte voi, che cos’è dunque l’iniquità da cui bisogna ritrarsi? È tutto ciò che si allontana dalla verità (versetto 18) ed è in contraddizione col carattere del nostro Dio. La santità e la giustizia pratiche consistono nel non avere alcuna comunione con queste cose. Dobbiamo ritrarci da ogni male e particolarmente, come in questo passo, dalle false dottrine che specialmente oggi caratterizzano la casa di Dio, divenuta una grande casa.

In mezzo alla confusione esistente, il credente è felice di lasciare tutto nelle mani del Signore. Non deve angosciarsi, né volere modificare lo stato di cose che esiste nella cristianità, poiché la rovina è irrimediabile, ma ognuno deve individualmente ritrarsi dall’iniquità. Solo che si può ritrarsi di due modi: sia dall’iniquità, sia dal terreno di Dio. La mondanità conduce alla seconda possibilità e questa separazione non può essere che la non-separazione dall’iniquità, poiché a questi, Dio dichiara: «se si tira indietro, l’anima mia non lo gradisce» Ebrei 10:38.

***

Vers. 20-21. — «In una grande casa non ci sono soltanto vasi d’oro e d’argento, ma anche vasi di legno e di terra; e gli uni sono destinati a un uso nobile e gli altri a un uso ignobile. Se dunque uno si conserva puro da quelle cose, sarà un vaso nobile, santificato, utile al servizio del padrone, preparato per ogni opera buona».

L’apostolo non si limita soltanto ad esortare quelli che uniscono la professione alla fede a camminare individualmente in un sentiero di separazione dal male; li esorta anche a purificarsi dai vasi a disonore che si trovano purtroppo nella casa stessa ove Dio abita per mezzo del suo Spirito. Questa casa di Dio, primitivamente edificata come Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità, era divenuta fin da quel tempo una grande casa. Prima di piccole dimensioni, essa non conteneva che vasi preziosi; ma, man mano che si ingrandì, si trovò a contenere, oltre ai vasi d’oro e d’argento, anche dei vasi di legno e di terra. Tale è attualmente la condizione della casa di Dio: accanto ai vasi ad onore, ne contiene altri a disonore. Questo triste stato è dovuto soprattutto al fatto che essa si è messa in opposizione col carattere che Dio voleva che mantenesse; perciò in questi capitoli si insiste tanto sull’abbandono della verità. Infatti, nei versetti precedenti abbiamo visto che quei vasi a disonore sono anzitutto dei falsi dottori. Ognuno deve purificarsi da costoro, poiché si tratta, come anche al capitolo 3:6, dell’impegno individuale a purificarsi.

Notate che l’apostolo non dice di ritrarsi dalla casa, ma dall’iniquità; e poi non dice di purificarsi dalla casa uscendone, ma di purificarsi dai vasi a disonore non avendo alcuna comunione con loro. Separandoci da coloro che contaminano la casa con un insegnamento antiscritturale, saremo approvati da Dio e capaci di servirlo. Così Paolo agì ad Efeso separando i discepoli (Atti 19:9). Quest’atto di purificarsi dai vasi a disonore rende quelli che lo compiono capaci d’essere dei vasi ad onore, poiché il valore del vaso agli occhi di Dio consiste in queste due cose: «ritrarsi» e «purificarsi» per Lui. Agendo in questo modo si è un vaso ad onore, santificato, messo a parte per Dio, utile al Maestro, adatto al suo servizio poiché la carriera di un servitore utile deve incominciare dalla purificazione, preparato per ogni buona opera. Infatti, il terreno dove le buone opere possono fiorire per Dio è un terreno di separazione. Questo è di somma importanza: non vi è potenza nel servizio, non vi sono opere gradite da Dio, se non ci si è purificati, rifiutando ogni comunione con i vasi a disonore che contaminano la casa di Dio.

Tutto questo è la conseguenza della raccomandazione rivolta a Timoteo al versetto 15. Egli doveva studiarsi di presentarsi nella sua opera approvato da Dio e difensore della verità. Ciò che Dio aveva fondato rimaneva stabile in eterno, ma anche la responsabilità del servitore rimaneva immutata; egli doveva purificarsi dai cattivi operai.

***

Vers. 22. — «Fuggi le passioni giovanili e ricerca la giustizia, la fede, l’amore, la pace con quelli che invocano il Signore con un cuore puro».

Le cose fin qui enumerate non bastavano. Timoteo doveva esercitare una rigorosa sorveglianza su tutte le tendenze del suo proprio cuore; doveva fuggirle. Il cuore dei giovani è incline agli appetiti carnali; e qui l’apostolo parla di quella parte della famiglia di Dio a cui apparteneva Timoteo, e che non sono né i padri, né i figlioletti, ma i giovani chiamati ad entrare, con la potenza della Parola di Dio, nella lotta contro Satana (1 Giovanni 2:14-17).

Ora, questa lotta e questa vittoria possono essere compromesse e anche distrutte dalle concupiscenze, chiamate qui «passioni giovanili», che ci riportano nel mondo. Essi sono «la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita». Il cristiano deve fuggire il male per essere in grado di procacciare il bene. Che bel quadro è questo di un credente che sta per raggiungere la statura di uomo fatto! Avendo fuggito il male che lo adesca, può occuparsi interamente delle cose migliori: la giustizia pratica, che rinnega il peccato; la fede, che si affeziona alla persona di Cristo; l’amore, che abbraccia tutti quelli che sono nati da Dio; la pace, quella di un cuore che si è appropriato dell’opera di Cristo in modo da non avere più alcuna questione fra sé e Dio, e che è in grado di portare la pace e spanderla attorno a sé.

In questo sentiero il credente non si troverà mai solo; in questa «grande casa» da cui non è chiamato ad uscire, circondato da vasi a disonore da cui deve purificarsi (poiché il cristiano non può contemporaneamente onorare il Signore e camminare con coloro che lo disonorano) egli incontrerà delle anime che procacciano le stesse virtù e con le quali potrà radunarsi per invocare insieme, di cuor puro, il Signore. Nel Salmo 51 versetti 7 e 10 troviamo che cos’è un cuor puro; nel Salmo 32 versetti 2 e 5 troviamo che cos’è una coscienza pura e come la si ottiene. Ora, con coloro che non invocano il nome del Signore con labbra di vana professione, ma che per fede sono in rapporto con le realtà eterne, con coloro che hanno per scopo e per movente il Signore solo e la Sua gloria, il credente troverà delle benedizioni che compenseranno tutte le sofferenze che la rovina di cui è testimone gli cagionano. Le sue risorse saranno preziose, come se la rovina non esistesse; la sua testimonianza gradita a Dio, come nei tempi più benedetti della Chiesa. Perciò la Parola di Dio ha cura di mostrarci da quali segni un credente fedele può essere riconosciuto in un tempo come quello che attraversiamo e che questa epistola ci descrive: dove dominano l’incredulità e la corruzione, egli si separa. In rapporto con gli individui, si purifica; con le concupiscenze, le fugge; con il bene, lo procaccia; i credenti veri e sinceri egli li ricerca, si unisce a loro, e rende culto a Dio, con loro. Al principio non era necessario raccomandare queste cose; tutti i credenti invocavano insieme il Signore. Ma al tempo in cui Paolo scrive questa lettera, tutto era già cambiato; per offrire un culto gradito a Dio il credente era tenuto a purificarsi dai vasi a disonore e a ritirarsi dall’iniquità.

***

Vers. 23-26. — «Evita inoltre le dispute stolte e insensate, sapendo che generano contese. Il servo del Signore non deve litigare, ma deve essere mite con tutti, capace di insegnare, paziente. Deve istruire con mansuetudine gli oppositori nella speranza che Dio conceda loro di ravvedersi per riconoscere la verità, in modo che, rientrati in sé stessi, escano dal laccio del diavolo, che li aveva presi prigionieri, perché facessero la sua volontà (cioè la volontà di Dio)».

Al versetto 16, Timoteo doveva evitare nel suo ministero i discorsi vani e profani che caratterizzano i tempi di decadenza nella casa di Dio, poiché per mezzo d’essi Satana riesce a sovvertire la fede. Troviamo qui un secondo pericolo per mezzo del quale il Nemico riesce ad introdurre il disordine nella casa di Dio. Non è che Timoteo corresse il rischio di lasciarsi trascinare, ma doveva evitare di trovarsi sul loro sentiero ed avere contatto con quelli che sollevavano delle questioni stolte e scempie di gente che difendeva le proprie opinioni, la loro propria volontà, invece d’essere sottomessi a quella di Dio. Tali discorsi non soltanto sono sterili, ma generano contese nelle quali il carattere del servitore di Dio è compromesso; ed è a ciò che tende lo sforzo del nemico per screditare la verità. Il servitore del Signore deve guardarsi da questo laccio seguendo giornalmente il modello di un vero servitore di cui ha dato l’esempio il divino Maestro.

Il servizio è qui soprattutto l’insegnamento, carattere speciale del dono di Timoteo. Senza quelle qualità morali, l’insegnamento non avrà alcun effetto: esse sono, prima di tutto, la dolcezza verso tutti, anche verso gli oppositori, di fronte ai quali Timoteo avrebbe potuto essere tentato di adoperare la sua autorità. Ma bisognava nello stesso tempo che la sua capacità d’insegnare si imponesse con l’insegnamento stesso, poiché il Nemico trionferebbe se riuscisse a chiudergli la bocca. Doveva avere pazienza. Anche un dottore secondo Dio potrebbe uscire dai limiti se si trovasse davanti ad un’opposizione che sa essere ingiustificata e contraria alla volontà di Dio. E poi doveva approfittare dell’opposizione stessa per raddrizzare con dolcezza le vedute erronee degli oppositori. Che bel quadro! E quanto è difficile realizzarlo quando si è chiamati dal Signore all’insegnamento della Parola! Ma seguendo questo cammino ogni contesa potrà essere evitata.

«Nella speranza che Dio conceda loro di ravvedersi». Noi guastiamo sovente l’opera nostra presso le anime perché, sapendo di presentare la verità, vorremmo obbligare a riceverla; non è altro che un atto della nostra propria volontà. Queste funzioni esigono molta pazienza e dipendenza. Bisogna lasciare agire Dio. Noi non sappiamo né se, né quando Egli agirà nel cuore degli avversari per produrvi il pentimento. Con il pentimento ci si risveglia, si aprono gli occhi per vedere il laccio del diavolo nel quale si era presi, e si rientra nel sentiero di Dio e nell’obbedienza alla sua volontà. In 1 Timoteo 3:7 il cristiano stesso, se è da poco convertito, è in pericolo di cadere in questo laccio; qui vi è caduto e vi si è addormentato a tal punto da opporsi alla verità e alla volontà di Dio presentata da uno dei suoi servitori.

3. Capitolo 3

3.1 Corruzione estrema degli ultimi tempi

Vers. 1-5. — «Or sappi questo: negli ultimi giorni verranno tempi difficili; perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, irreligiosi, insensibili, sleali, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene, traditori, sconsiderati, orgogliosi, amanti del piacere anziché di Dio, aventi l’apparenza della pietà, mentre ne hanno rinnegato la potenza. Anche da costoro allontànati!».

Come Timoteo era stato avvertito nella prima epistola (4:1) dell’apostasia degli ultimi tempi, è adesso avvertito in questo capitolo della rovina morale che caratterizza i giorni della fine. Questi tempi difficili non sono ancora lo sconvolgimento e il crollo finale di cui parlano i profeti e che farà posto al regno di giustizia e di pace del Cristo, ma è lo stato morale che avranno, alla fine, quelli che portano il nome di Cristo, e professano ora di appartenergli. Oggi ci incombe, più che a Timoteo, di non chiudere gli occhi sullo scompiglio che sta preparandosi. Molti secoli sono trascorsi da allora. Se chiudiamo gli occhi corriamo il rischio di dire «pace e sicurezza» e portare come Lot le conseguenze dell’infedeltà generale.

La professione del cristianesimo degenererà sempre più, in modo da produrre l’orribile quadro dello stato morale del paganesimo antico da cui era uscita la Chiesa cristiana (vedere Romani 1). Ecco perché l’apostolo non definisce nemmeno più «cristiani» quelle persone, ma «uomini».

È una cosa molto seria quando è Dio che fa l’elenco di ciò che il cuore dell’uomo contiene e di quello che ne esce! Vi sono molte di queste liste diverse nella Scrittura (Matteo 15:19; Marco 7:21; Galati 5:19; Colossesi 3:5-9, 1 Timoteo 1:9; Tito 3:3), ma è raro di incontrarne quando si tratta delle manifestazioni dello Spirito nel cuore dei cristiani (vedere Galati 5:22-23; Colossesi 3:12-15!). Nel passo che ci occupa, abbiamo soprattutto il riscontro di Romani 1:24-31, dove la condizione morale del paganesimo è descritta in tal modo da far arrossire i più incalliti. Ma nel nostro passo in cui l’apostolo descrive lo stato degli uomini che professano il cristianesimo in tempi difficili si trova, cosa orribile, che questo stato è ancora peggiore che fra i pagani, ed eccone il perché: essi hanno «l’apparenza della pietà» me ne hanno rinnegata «la potenza». Questo termine «l’apparenza» o «la forma» (morfosis) si trova anche in Romani 2:20 dove è tradotto con «formula». È piuttosto il potere formativo della pietà. Costoro posseggono la verità, potenza per la quale la pietà è formata.

Quando la casa che è la Chiesa di Dio vivente è in ordine, vi si trova un segreto per produrre la pietà (1 Timoteo 3:15-16). Questo segreto è la conoscenza della verità, della verità che si trova interamente nella rivelazione della persona di Cristo, che è la potenza della pietà. Ma qui vi sono persone che posseggono «la forma della pietà», o piuttosto la sua formula; la verità sanno qual è; portano il nome di Cristo; ma che ne fanno? Si servono forse di questa conoscenza per vivere nella separazione dal male e rendere a Cristo una testimonianza fedele? Costoro non solo ignorano la potenza della verità, non solo non ne fanno uso, ma hanno rinnegato la sua potenza; negano che possa produrre la separazione dal male. Era lo stesso, benché ad un grado molto minore, dei pagani (in Romani 1:18-20); possedevano la verità del Dio creatore, «pur vivendo nell’iniquità». Nella casa di Dio il segreto della pietà era professato, conosciuto e realizzato; qui è conosciuto questo segreto che si riassume nella rivelazione della persona di Cristo, ma è rinnegato e non gli si attribuisce la potenza di produrre la pietà!

Riprendendo questo elenco, che dal punto di vista numerico è paragonabile a quello di Romani 1, si è colpiti dall’aggravante che c’è in quanto il cristianesimo è conosciuto e praticato esteriormente, lasciando quindi le anime senza alcuna scusa. In Romani 1, i pagani con la loro coscienza naturale conoscevano il bene e il male. La giusta sentenza di Dio non era loro dunque sconosciuta: sapevano che «quelli che fanno tali cose sono degni di morte», e le loro proprie leggi testimoniavano contro a loro, poiché pronunciavano un giudizio, almeno parziale, su coloro che commettevano quelle cose. Ma nel nostro passo c’è qualcosa di più della voce della coscienza per condannare il falso professante del cristianesimo; vi è la conoscenza della grazia di Dio e dei rapporti che essa stabilisce fra Dio e l’uomo; vi è lo sprezzo dei rapporti del Padre con il Figlio di cui si porta il nome; vi è l’abbandono di ogni impegno a mantenere queste relazioni condannando il vecchio uomo e ciò che da lui proviene; vi è un’esistenza volontariamente asservita a tutti gli elementi della vecchia natura peccatrice a cui molti si abbandonano, completamente indifferenti al giudizio di Dio che costoro subiranno quando sarà troppo tardi!

Considerando questo elenco vi troviamo un raggruppamento delle caratteristiche del cristiano solo di nome, che si dà a tutto ciò che caratterizza il vecchio uomo, mentre il cristiano vero lo considera come crocifisso con Cristo. In primo luogo l’egoismo, vizio capitale dell’uomo senza Dio, che non avendo trovato, come il credente, un centro d’affetto al di fuori di sé (in Cristo), fa di se stesso il centro. Dall’egoismo esce l’avarizia che accumula dei beni per sé; la vanagloria che esalta l’io a detrimento degli altri; l’orgoglio che si eleva al disopra del prossimo. Ne derivano l’insubordinazione e la disubbidienza verso coloro che Dio ha stabilito perché siano onorati, comandamento al quale è aggiunta una «promessa», per sottolinearne l’importanza; l’ingratitudine verso coloro a cui dobbiamo riconoscenza; il disprezzo delle relazioni familiari; il rigettamento, infine, delle affezioni naturali che si trovano a volte persino nei bruti, senza intelligenza, ma che mancano in queste persone. Ecco allora lo spirito di vendetta, che perseguita il prossimo, senza tener conto degli impegni da cui si è vincolati; la calunnia che è usata per rovinare il prossimo; il rifiuto di esercitare un qualche controllo sulle proprie passioni. Da ciò la crudeltà che bandisce ogni sentimento di compassione, e si compiace senza motivo a far soffrire; il tradimento che si riveste di un’apparente condiscendenza per ingannare più facilmente la vittima, per abbandonarla ai suoi nemici; la temerarietà, la presunzione di saper affrontare pericoli inutili per essere esaltati agli occhi degli altri. E le voluttà che si impadroniscono dell’essere umano facendogli abbandonare persino il favore di Dio, allo scopo di godere momentaneamente delle delizie del peccato. Tutto si compendia, come abbiamo visto, in quella cosa orribile che è «l’apparenza della pietà».

Timoteo è esortato a allontanarsi da costoro. In loro non c’era nulla che potesse avere attrazione per il fedele; nulla a cui il vero cristiano potesse associarsi per piacere a Dio, o che potesse tentare di migliorare: il male era definitivo. Costoro non sono corrotti a metà, ma in loro tutto è dell’uomo vecchio; tutto è già giudicato e condannato senza rimedio. Un simile stato di cose non è forse il cristianesimo rovesciato?Nel cap. 1 vers. 15, l’apostolo era solo; tutti l’abbandonano; qui Timoteo, solo, deve schivare tutti quelli. Ma Dio gli farà dei compagni con cui invocare il Signore. Questo non vuol dire che il cristiano debba vivere da eremita nella cristianità professante, ma che deve tenersi separato da coloro che mettono in pratica simili principi e li insegnano.

Dio voglia disporre che noi tutti abbiamo questo a cuore. Non che dobbiamo isolarci in mezzo ad una professione che sfocerà nell’apostasia finale; no di certo; ma poiché troveremo fino alla venuta del Signore quelli che lo invocano di cuore puro, dobbiamo unirci a loro, avendo rotto ogni relazione con una professione senza vita, con quello spirito che, di fatto, rinnega la verità cristiana.

***

Vers. 6-7. — «Poiché nel numero di costoro ci sono quelli che si insinuano nelle case e circuiscono donnette cariche di peccati, agitate da varie passioni, le quali cercano sempre d’imparare e non possono mai giungere alla conoscenza della verità».

L’apostolo nota qui una classe speciale di professanti da cui bisogna distogliersi. Sono quelli che esercitano delle funzioni ecclesiastiche; la loro immunità clericale li mette in condizione di introdursi nelle case, di «volgere in dissolutezza la grazia del nostro Dio» (Giuda 4), cercando di convincere delle donne senza carattere, cariche di peccati, e trascinate lontano dalle vie di Dio da varie concupiscenze, di cui queste persone si servono come esca per attirarle a sé. Vediamo dove porta la mancanza del timore di Dio: alla corruzione morale. L’apostolo aggiunge, alla descrizione di queste donne impure, che esse «cercano sempre d’imparare e non possono mai giungere alla conoscenza della verità». Ciò che è ancora peggio della corruzione è pretendere di interessarsi delle cose di Dio e poi farsi istruire da tali conduttori! Mai la conoscenza della verità può uscire dagli insegnamenti sospetti di questa gente. L’anima rimane sterile, la verità resta completamente nascosta. Credendo di imparare qualcosa, queste donne ignoravano quale fosse il loro vero stato dinanzi a Dio, e correvano ad occhi chiusi verso l’abisso. Ignoravano Dio stesso, pur con la pretesa di imparare a conoscerlo.

***

Vers. 8-9. — «E come Iannè e Iambrè si opposero a Mosè, così anche costoro si oppongono alla verità: uomini dalla mente corrotta, che non hanno dato buona prova quanto alla fede. Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini».

La Parola, descrivendo questi uomini corrotti della fine, non si limita a presentarci dei dottori che si servono del loro insegnamento per favorire la corruzione morale nelle donne e soddisfare così le loro proprie passioni carnali; un’altra corruzione li caratterizza: quella della mente. La loro intelligenza è pervertita; sono dottori immorali, ma anche nemici della verità, alla quale resistono; e le resistono «copiandola», e ciò è il colmo dell’iniquità. Si atteggiano a profeti e conduttori come Mosè, e pretendendo, come un tempo i maghi di Faraone (Esodo 7:8-13 e 20-22; 8:5-7), di avere la sua stessa potenza miracolosa, usano, per accreditare se stessi, una potenza occulta di menzogna che colpisce le persone estranee alla vita di Dio. Si rivestono così dell’abito del profeta per «opporsi alla verità» e renderla senza effetto sulle anime. Questa è, riguardo all’insegnamento, la seconda grande astuzia di Satana in questa epistola. Al capitolo 2:18 si trattava di dottrine che sovvertivano la fede spogliando il credente della prospettiva celeste e abbassandolo al godimento della vita terrena. Qui c’è un’aperta opposizione alla verità, con una mescolanza della potenza menzognera di Satana con la potenza di Dio. L’avversario imita la forma esteriore delle cose divine. Nell’opera dei maghi manca completamente la vera potenza. Essi poterono cambiare le loro verghe in serpenti, ma quella di Mosè li inghiottì; cambiarono l’acqua in sangue, fecero salire le rane sul paese d’Egitto, ma non ebbero poi la potenza per toglierle. Inoltre, non riuscirono a produrre né zanzare né mosche velenose. Quando si trattò di creare la benché minima cosa, furono assolutamente impotenti. Allora dissero: «Questo è il dito di Dio» (Esodo 8:19), e tutta la loro attività si arrestò. Questi uomini sono «riprovati quanto alla fede» (versione Nuova Diodati); non v’è alcuna speranza per loro. Dio li rigetta. Sono perduti, corrotti di costumi, corrotti di mente, avversari della verità.

Ma l’apostolo dice: «Non andranno più oltre». È ciò che accadde ai maghi dell’Egitto. Dovettero riconoscere il dito di Dio, ma era troppo tardi. E come la loro follia fu manifesta a tutti, per l’incapacità di creare o di far cessare le piaghe, sarà lo stesso di questi falsi dottori corrotti: verrà il momento in cui la loro impostura sarà conosciuta e manifesta agli occhi di tutti.

3.2 La risorsa divina è la Scrittura

Vers. 10-13. — «Tu invece hai seguito da vicino il mio insegnamento, la mia condotta, i miei propositi, la mia fede, la mia pazienza, il mio amore, la mia costanza, le mie persecuzioni, le mie sofferenze, quello che mi accadde ad Antiochia, a Iconio e a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportate; e il Signore mi ha liberato da tutte. Del resto, tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati. Ma gli uomini malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, ingannando gli altri ed essendo ingannati»

Dopo aver fatto questo quadro oscuro del male, l’apostolo si rivolge al fedele Timoteo. «Ma tu,… tu invece», gli dice; egli ripete tre volte questa parola (cap. 3:10-14; 4:5). L’apostolo fa così risaltare il contrasto fra il vero discepolo e quei riprovati. Che felice condizione è quella di un fedele testimone come Timoteo! Dio stesso gli rende testimonianza, per bocca dell’apostolo, che egli ha pienamente capito ciò che gli è stato insegnato e ha seguito l’esempio di Paolo. Ed eccoci di nuovo in presenza di una lista, lista di una vita secondo Dio, d’un servizio e di una testimonianza che gli sono graditi. Percorriamo la lista precedente per distogliercene con orrore, e guardiamo a questa, per imitarla fedelmente: «Tu hai tenuto dietro» (Diodati: «hai ben compresa» — Vedere anche 1 Timoteo 4:6, dove la stessa parola è tradotta: «imparata» nelle Nuova Riveduta). Che bella ed incoraggiante testimonianza è resa a Timoteo! Egli aveva seguito da presso, capito e tenuto dietro a ciò che l’apostolo aveva insegnato, e anche alla condotta di Paolo che illustrava questo insegnamento.

Ma qual era il suo insegnamento, la «sua dottrina»? Come in Galati 2:20, era la fine del vecchio uomo e una vita nuova in Cristo. È particolarmente di questa dottrina che egli parla qui, offrendo un contrasto assoluto con tutto ciò che precede in questo capitolo. Da questo insegnamento conseguiva una condotta. Egli viveva nel giudizio completo del vecchio uomo e nella potenza del nuovo uomo. Il suo scopo era di vivere Cristo e di raggiungerlo. La sua fede s’elevava al di sopra delle difficoltà, la sua pazienza (o meglio: la sua perseveranza, Colossesi 1:2), gliele faceva attraversare con coraggio e sopportare; il suo amore dominava tutto e lo spingeva nel servizio dell’evangelo perché era l’amore di Cristo. Ma c’era qualcosa di più, di cui tutta questa epistola ci dà una testimonianza. L’apostolo aveva attraversato delle persecuzioni e delle sofferenze di ogni sorta, e in quelle sofferenze per l’evangelo aveva mostrato la costanza (o la pazienza) che sopporta ogni cosa. Ad Antiochia di Pisidia, lui e Barnaba avevano subito le persecuzione (Atti 13:50); ad Iconio, poco mancò che fossero lapidati, avendo Giudei e pagani contro di loro (Atti 14); a Listra, Paolo era stato realmente lapidato (Atti 14:19)… Alla fine della sua carriera rivede le sue prime tappe, tristi ricordi per gli altri, ma benedetti ricordi per lui perché, fin dai primi passi del suo ministero presso i pagani, aveva sofferto per Cristo senza interruzione, e il Signore lo aveva liberato da tutte quelle prove. Se non gli era mancato l’aiuto al principio, gli mancherà ora, alla fine? Ecco qual era la risorsa dell’apostolo. In questa certezza trionfante stava il segreto della sua forza. Non s’aspettava nulla da sé, nulla dalle circostanze, nulla dagli uomini. L’onnipotenza del Signore, in grazia, gli bastava. Del resto, «tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati» (vers. 12).

La vera pietà, in contrasto con la forma di pietà del versetto 5, s’attacca al Signore Gesù. È impossibile che questa vera pietà eviti lo sprezzo e l’odio del mondo, e possiamo sovente domandarci con umiliazione se a questo ci espone abitualmente la nostra testimonianza.

Gli uomini descritti al principio di questo capitolo come «malvagi e impostori» andranno di male in peggio. L’apostolo li ha mostrati come seduttori e sedotti essi stessi, come opposti al bene e progredendo in questa opposizione mescolata di inganni. Il male crescerà di più in più in questi due sensi, fino alla vigilia del giudizio. È lo stesso al capitolo 2:16: i discorsi vani e profani conducono sempre più avanti nell’empietà. Tale è il risultato della mancanza di pietà nella vita dell’uomo; si peggiora sempre. Mentre la vera pietà che ha trovato il suo tutto nel Signore, non incontra che persecuzioni, ma riceve anche in questo mondo molto più di tutto di ciò che ha perduto per Lui, e nel secolo futuro la vita eterna (Marco 10:28-30).

***

Vers. 14 e 15. — «Tu, invece, persevera nelle cose che hai imparate e di cui hai acquistato la certezza, sapendo da chi le hai imparate, e che fin da bambino hai avuto conoscenza delle sacre Scritture, le quali possono darti la sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede in Cristo Gesù».

Al versetto 10, Paolo incoraggiava Timoteo esprimendogli la sua soddisfazione nel vedere che egli aveva seguito esattamente l’esempio che l’apostolo gli aveva dato. Che gioia e che consolazione vedere il suo caro figlio percorrere lo stesso sentiero di fedeltà, d’abnegazione, di sofferenza, di testimonianza. Qui, al versetto 14, l’apostolo esorta Timoteo a perseverare e dimorare nelle cose che ha imparate, mentre i malvagi vanno di male in peggio. Quando si tratta della verità divina, non vi è da raggiungere nessuno sviluppo; essa resta immutabile. Possiamo crescere nella sua conoscenza, ma essa stessa ha un carattere eterno; a noi basta «dimorare» in essa. Timoteo aveva già imparato queste cose davanti a molti testimoni ed era capace di insegnarle ad altri (in contrasto con quelli che «imparano sempre») poiché era stato pienamente convinto di quelle cose sapendo da «chi le aveva imparate». Questo è di grande importanza. Timoteo le aveva ricevute direttamente dalla bocca dell’apostolo ispirato; e noi pure le riceviamo direttamente dagli scritti ispirati di questo stesso apostolo. Non è che Dio non ci insegni per mezzo dei suoi servitori, sebbene non ispirati, ma dobbiamo controllare il loro insegnamento con la Parola stessa; se non lo facciamo, diventiamo facilmente preda di dottrine errate che eviteremo se invece di mettere la nostra fiducia nell’uomo che ce le presenta le passiamo al vaglio della Parola.

Dio non solo aveva avuto cura di mettere Timoteo in rapporto col portatore ispirato della sua Parola, ma lo aveva, fin dall’infanzia, nutrito delle «sacre Scritture» (Giovanni 7:15). Queste sacre Scritture sono tutto il contenuto dell’Antico Testamento. Come ci è insegnato nei Proverbi (4:1-9), egli poteva attingervi la sapienza «a salvezza», cioè essere preservato, salvato degli innumerevoli tranelli messi sui passi del credente, in questi tempi pericolosi della fine. Ma occorre che le cose imparate nella Parola siano state ricevute per la fede. Cristo è l’oggetto della pietà (vers. 12) come è l’oggetto della fede (vers. 15). Quest’ultimo versetto si basa sull’Antico Testamento (così come un bambino può leggere) e afferma che esso è sufficiente per rendere «savio a salvezza» chi vi entra in contatto per la fede che è in Cristo Gesù.

***

Vers. 16 e 17. — «Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona».

Vi sono molti mezzi adoperati da Dio, come l’educazione cristiana, il contatto coi suoi servitori, la conoscenza delle sacre lettere, cioè della Bibbia, per preparare fin dall’infanzia l’uomo di Dio al suo servizio; ma la risorsa suprema per tutta la sua vita, e sempre più fondamentale man mano che la decadenza e la rovina si aggravano, è la Scrittura, tutta la Scrittura. Timoteo aveva afferrato per fede la verità che ha Cristo per oggetto. Le Scritture che contengono questa verità potevano fornirgli tutti gli elementi per il suo ministero rendendolo compiuto per ogni buona opera.

Notate che il termine adoperato qui non è la «la Parola», ma la Scrittura. Questa osservazione riduce al nulla l’idea razionalista che la Parola di Dio sia «contenuta» nella Scrittura e che ciò che è ispirato sia la Parola, non la Scrittura. Nella Bibbia questo termine «la Scrittura», (o «le Scritture»), ha lo stesso significato, lo stesso valore, lo stesso senso, la stessa potenza, la stessa ispirazione divina di «la Parola», o «la Parola di Dio». Leggete Romani 3:10; 4:3; 10:11; Luca 24:27,45,46; Giovanni 5:47; 6:45; 10:35; 2 Pietro 3:16. Quest’ultimo passo, come quello che esaminiamo adesso, considera specialmente le Scritture dal punto di vista della completa rivelazione del Nuovo Testamento. Paolo stesso qualifica i suoi propri scritti come Scritture profetiche (Romani 16:26).

Al versetto 16, l’apostolo incomincia dunque con lo stabilire l’ispirazione divina di ogni Scrittura, e abbiamo visto ciò che la Parola stessa intende dire con questo vocabolo. L’apostolo non ci presenta qui il compito della Scrittura ispirata per portare la luce divina nell’anima, per convincere di peccato, per far conoscere la salvezza a dei peccatori perduti; essa mette in risalto la risorsa suprema e assoluta che la Scrittura offre all’«uomo di Dio», in un tempo in cui la Chiesa, la Casa di Dio, è in rovina, affinché egli sia perfettamente compiuto per glorificare Dio in tutto il suo cammino.

Vediamo in dettaglio quel che ci è presentato in questo passo. Prima di tutto non c’è una sola parte della Scrittura (ogni) che non sia utile. Poi essa è utile:

  1. ad insegnare, vale a dire a stabilire la dottrina nella mente di colui che è messo in rapporto con la Parola;
  2. a riprendere, cioè a parlare alla coscienza, a colpirla, in modo che il credente abbia una base ferma per i suoi rapporti con Dio;
  3. a correggere: la Scrittura esercita una disciplina educatrice, come ci è mostrato nei Proverbi;
  4. ad educare alla giustizia. Troviamo di nuovo qui il grande soggetto dei Proverbi. Si tratta di farci conoscere e seguire un sentiero da cui il peccato sia escluso, un cammino al riparo da cadute, e caratterizzato dalla giustizia pratica quaggiù.

Nell’ultimo versetto troviamo le conseguenze dell’insegnamento delle Scritture per l’uomo di Dio, vale a dire per il credente chiamato a rappresentare Dio in questo mondo (*): egli sarà completo «e ben preparato per ogni opera buona». Prima di applicarli agli altri, l’uomo di Dio comincia ad applicarli a se stesso gli insegnamenti della Parola; è una verità capitale per l’esercizio del suo ministero. Senza questa applicazione individuale nessun risultato può essere ottenuto. La Parola ci forma perché noi siamo dei modelli, le manifestazioni viventi (1 Timoteo 1:16) dei suoi risultati, quando siamo chiamati ad esercitare il ministero.

_____________________
(*) Vedere lo studio sulla Prima Epistola a Timoteo cap. 6 vers. 11.
¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯

Tale è la suprema risorsa nei tempi difficili, e notiamolo, è con essa che questa lettera finisce propriamente. L’ultimo capitolo svilupperà ancora le forme di male in quelli che avrebbero dovuto assistere l’apostolo, le esortazioni a Timoteo di mantenersi testimone fedele, il modo in cui Paolo considera la fine della propria testimonianza, ma non ci parlerà più di risorse poiché egli ha stabilito la risorsa suprema nei versetti 16 e 17 di questo capitolo.

4. Capitolo 4

4.1 Supplica di Paolo: Timoteo deve insegnare la sana dottrina, come l’apostolo l’aveva fatto sino alla fine

Vers. 1-2. — «Ti scongiuro, davanti a Dio e a Cristo Gesù che deve giudicare i vivi e i morti, per la sua apparizione e il suo regno: predica la parola, insisti in ogni occasione favorevole e sfavorevole, convinci, rimprovera, esorta con ogni tipo di insegnamento e pazienza (Nuova Diodati: esorta con ogni pazienza e dottrina».

Questo scongiuro ci dimostra quanto stia a cuore all’apostolo il soggetto che tratta. È la parte culminante delle esortazioni rivolte a Timoteo; nessun’altra è importante come questa. Lo scongiuro è fatto in presenza di Dio e di Gesù Cristo, e contiene il pensiero dell’immensa solennità di questa pazienza. Il Signore ci è qui presentato sotto due aspetti:

  1. Come Giudice, giudicherà vivi e morti. Questo prossimo giudizio è il motivo urgente della supplica di Paolo. Infatti, dalla formazione della Chiesa, il Signore ha comandato ai suoi discepoli di «annunziare al popolo e di testimoniare che egli è colui che è stato da Dio costituito giudice dei vivi e dei morti» (Atti 10:42).
  2. Come distributore di ricompense ai suoi servitori, l’apostolo ce lo mostra qui al tempo della sua apparizione e del suo regno (tornerà su questo argomento al versetto 8). È soprattutto la ricompensa dei suoi servitori alla sua apparizione, che occupa qui il pensiero di Paolo. Quando Egli regnerà, tutti i suoi nemici saranno stati messi sotto i suoi piedi, e non sarà più necessario combattere per l’evangelo, poiché la vittoria sarà prima riportata da Cristo su tutto ciò che si è opposto ai suoi disegni di grazia (1 Corinzi 15:25).

Per cosa l’apostolo scongiura Timoteo? Mentre, al capitolo 3:14, Timoteo era esortato a «dimorare» (o «perseverare») nelle cose imparate, qui è scongiurato a predicarle ad annunziarle fuori. Timoteo aveva cominciato col ricevere queste verità per se stesso. E siccome ora il vaso era colmo, e a questo scopo era stato riempito, doveva vuotarsi a profitto degli altri. Il tempo stringeva, la venuta del Signore era vicina. Occorreva insistere a tempo e fuori di tempo, senza aspettare come in Efesini 5:16 e Colossesi 4:5, delle occasioni per afferrarla. Bisognava riprendere (1 Timoteo 5:20), toccare la coscienza, provocare il pentimento in quelli che, fino allora, erano stati indifferenti. Occorreva sgridare quelli che s’erano lasciati trascinare dalla corrente del mondo. Bisognava esortare quelli che si perdevano di coraggio o diventavano timidi in presenza del traboccare del male. Questo lavoro esigeva grande pazienza, dolcezza ed anche fermezza, unico mezzo per convincere senza sollevare opposizioni. Timoteo doveva inoltre appoggiarsi esclusivamente sulla dottrina, contenuta in quella Scrittura ispirata di cui l’apostolo aveva parlato.

***

Vers. 3-4. — «Infatti verrà il tempo che non sopporteranno più la sana dottrina, ma, per prurito di udire, si cercheranno maestri in gran numero secondo le proprie voglie, e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole».

L’ora era solenne, il tempo stringeva, poiché stava per giungere un’epoca in cui le anime non avrebbero più sopportato il sano insegnamento della Parola di Dio (1:13), in cui ogni predicazione sarebbe risultata senza alcun effetto. Inoltre, si sarebbero accumulati dei dottori secondo le loro proprie concupiscenze andando dietro alle immaginazioni dei loro cuori. Al capitolo 2:18 erano i falsi dottori che trascinavano quelle persone dietro i loro errori mortali; qui sono essi stessi che, facendo un passo di più nel male, vogliono quei dottori, li scelgono, se li stabiliscono secondo le concupiscenze dei loro propri cuori. Di conseguenza, le loro orecchie non avrebbero più potuto sopportare la verità, dal momento che questa non ha più nessun gusto per loro, e si sarebbero volti a delle favole di invenzione umana (poiché bisogna pur credere a qualche cosa), le quali avrebbero sostituito la Scrittura. Come potremmo disconoscere che oggi quell’epoca non è più futura, ma è già venuta?

***

Vers. 5. — «Ma tu sii vigilante in ogni cosa, sopporta le sofferenze, svolgi il compito di evangelista, adempi fedelmente il tuo servizio».

In contrasto con questa gente, Timoteo doveva manifestare tutti i caratteri di un vero testimone, da cui le parole: «Ma tu», che abbiamo già incontrato con la stessa intenzione al capitolo 3:10 e 14.

«Sii vigilante in ogni cosa». Questa epistola ci ha già mostrato più di una volta che tale è la parte di un cristiano fedele, in un tempo in cui la casa di Dio è diventata una gran casa contenente gli elementi più disparati. I pericoli che corrono i figli di Dio in mezzo a questo stato di cose, l’indifferenza crescente verso la verità, la defezione di coloro sulla cui fedeltà si era creduto di poter contare, le calunnie destinate a rovinare moralmente i veri testimoni, gli assalti contro la Parola di Dio, lo stato delle chiese trascinate nella corrente del mondo… tante erano le cause di sofferenza per l’apostolo; e dovrebbero esserlo per noi che siamo giunti alla fine dei secoli. Timoteo è esortato a sopportare queste afflizioni. Non lo aveva forse fatto il Signore? E l’apostolo non aveva forse seguito fedelmente questo divino modello? (1:8,12; 2:2,9,12; 3:11; 4:5).

«Svolgi il compito di evangelista». Non dobbiamo concludere che non era propriamente il dono di Timoteo, ma l’evangelizzazione doveva essere menzionata, anche se la funzione assegnata a Timoteo era di condurre la casa di Dio. Lo stato di questa casa esigeva che la predicazione rivestisse il carattere dell’evangelizzazione. Vi era in quell’ambiente un gran numero di anime, oggi sono la maggior parte, del tutto estranee alla grazia e che dovevano essere condotte a Cristo per mezzo dell’evangelo. Occorreva convincere quelli che del cristianesimo avevano solo più una professione senza vita.

«Adempi fedelmente il tuo servizio». Vedremo (v. 7) che l’apostolo l’aveva compiuto; e desiderava che il suo figlio nella fede facesse lo stesso. Non dobbiamo forse noi pure prendere a cuore quest’esortazione, noi che siamo così vicini al tempo in cui non sarà più possibile a quei professanti tornare indietro, poiché un accecamento mandato da Dio come castigo impedirà loro di prevedere la rovina improvvisa che cadrà loro addosso. In quel tempo, sarà detto: «Chi è ingiusto continui a praticare l’ingiustizia» (Apocalisse 22:11).

***

Vers. 6-8. — «Quanto a me, io sto per essere offerto in libazione, e il tempo della mia partenza è giunto. Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede. Ormai mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti quelli che avranno amato la sua apparizione».

Al momento della sua dipartita, l’apostolo ripassa tutta la sua carriera. La riassume in tre punti:

  1. «Ho combattuto il buon combattimento». Non si tratta qui della vittoria da riportare sul Nemico, come in Efesini 6 e in tanti altri passi, ma del combattimento di cui gli angeli e gli uomini sono spettatori. È il combattimento dell’atleta del capitolo 2:5; il buon combattimento della fede e per la fede di 1 Timoteo 1:18 e 6:12, Giuda 3, 1 Corinzi 9:25. Si trattava di dimostrare a tutti che cosa fosse la fede che ci porta alla vittoria finale sul mondo, superando tutti gli ostacoli. È lo stesso combattimento di Filippesi 1:16-30, la difesa dell’evangelo che i Filippesi avevano sostenuta.
  2. «Ho finito la corsa». La nostra corsa ha un gran nuvolo di testimoni; ci circondano e l’hanno essi stessi terminata (Ebrei 12:1). Era ciò che l’apostolo desiderava per sé parlando agli anziani di Efeso (Atti 20:24), e ciò che egli realizza qui. Era giunto al termine della carriera, toccando già con la mano la vita eterna (afferrandola, come è detto in 1 Timoteo 6:12).
  3. «Ho conservato la fede»; si trattava del «buon deposito» che era stato affidato a Timoteo (1 Timoteo 6:20) e che l’apostolo esorta a serbare, e di cui poteva dire che egli stesso aveva serbato. La «fede» è l’insieme delle verità benedette affidate al fedele, e di cui nessuna doveva essere abbandonata, né trascurata. Quanto è importante oggi «conservare la fede»!

Così tutta la vita cristiana — di cui i giochi olimpici erano il simbolo — la lotta per la fede, la corsa della fede, la difesa della fede, era stata adempiuta fedelmente dall’apostolo fino al termine della sua carriera.

Ed ora che tutto ciò era terminato, vi era ancora davanti a lui la corona di giustizia, riserbata a tutti quelli che come lui conserveranno la fede. Questa corona è incorruttibile (1 Corinzi 9:24-26). È il giusto giudice che la dà, Colui il cui carattere è la giustizia. Egli presiederà alla cerimonia e distribuirà le ricompense «in quel giorno», giorno dell’apparizione del Signore che l’apostolo attendeva (2 Timoteo 1:12, 18; 2 Tessalonicesi 1:10). La venuta (parousia) del Signore in grazia per rapire i suoi non manifesterà la fedeltà dei servitori; è alla sua apparizione che sarà messo in piena luce e ricompensato ciò che essi avranno fatto e sofferto per lui. Allora l’apostolo non sarà solo. Tutti quelli che desiderano essere approvati dal Signore, dopo aver riportato la vittoria, tutti quelli che non temono di affrontare le difficoltà purché alla distribuzione dei premi il Signore esprima loro la sua soddisfazione, tutti questi amano la sua apparizione. Per loro, lo scopo del combattimento e il movente della corsa non è la ricompensa, ma la gloria e la soddisfazione di Colui che ha ordinato tutto questo.

Qui termina il soggetto principale di questa epistola che potrebbe esser così intitolata: Le diverse responsabilità e le risorse del fedele in mezzo alle rovine della cristianità professante.

4.2 L’apostolo chiamo Timoteo a sé. Notizie personali e saluti

Vers. 9-13. — «Cerca di venir presto da me, perché Dema, avendo amato questo mondo, mi ha lasciato e se n’è andato a Tessalonica. Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Solo Luca è con me. Prendi Marco e conducilo con te; poiché mi è molto utile per il ministero. Tichico l’ho mandato a Efeso. Quando verrai porta il mantello che ho lasciato a Troas da Carpo, e i libri, specialmente le pergamene».

Torniamo ora alle circostanze dell’apostolo, che ci rappresentano chiaramente l’ultima fase della Chiesa responsabile, mostrata in succinto e vista in anticipo, come profeticamente, negli ultimi avvenimenti della vita di Paolo.

Se tutti quelli dell’Asia si erano allontanati da lui al momento della sua cattura e della sua seconda carcerazione, quanto gli era ancor più doloroso vedersi abbandonato da Dema, suo collaboratore nell’opera (Colossesi 4:14; Filemone 24) insieme a Luca che resta ora l’unico suo compagno. Ma ecco la causa di quell’abbandono: Dema aveva amato il presente secolo, cioè questo mondo. Forse ambiva nel mondo qualche posizione che le sue relazioni con Paolo avrebbero potuto compromettere; non sappiamo, ma è certo che, abbandonando l’apostolo, egli era in assoluta contraddizione con lo scopo dell’opera di Cristo per i suoi (Galati 1:4). Dema aveva lasciato Roma all’epoca di questo ultimo imprigionamento di Paolo e se n’era andato a Tessalonica. La persecuzione menzionata in 2 Tessalonicesi era allora senza dubbio cessata. Quali erano i motivi di Crescente e di Tito? Una cosa sembra certa, che non era stato l’apostolo a mandarli, come per Tichico (vers. 12). Questi motivi non ci sono noti; forse erano in rapporto con l’opera del Signore. È ciò che si può arguire dal silenzio di Paolo; ma per noi una seria lezione scaturisce da questi fatti. Possiamo avere validi motivi che ci spingono, per ciò che riguarda la nostra attività cristiana; ma diffidiamo dei motivi che ci fanno evitare il pericolo e delle difficoltà quando si tratta dell’opera. Non era forse di prima necessità, un motivo prevalente su tutti gli altri, stare al fianco dell’apostolo davanti al tribunale? Non era forse la stessa cosa per i discepoli al tempo della condanna del loro Signore? Si possono avere dei motivi molto plausibili d’attività nell’opera e tuttavia non essere all’altezza di una reale devozione per Cristo. L’atteggiamento di Maria, che non la metteva affatto in rilievo, era superiore a quello di Marta; eppure, chi avrebbe potuto dire che Marta non dovesse servire il Signore in quel modo?

«Solo Luca è con me». Dal giorno in cui aveva unito la sua sorte a quella dell’apostolo (Atti 16:10), sembra che Luca non l’abbia più lasciato; servizio disinteressato, dimostrato dal fatto che Luca non parla mai di se stesso, mentre è l’apostolo che parla di lui (Colossesi 4:14; Filemone 24). Quanto la defezione di Dema sarà stata dolorosa anche per Luca! Ma con che onore fu ricompensata la sua fedeltà quando a lui, che non era un apostolo, fu affidata la redazione ispirata di due dei libri principali del Nuovo Testamento: un’Evangelo e gli Atti degli apostoli!

«Prendi Marco e conducilo con te; poiché mi è molto utile per il ministero». Che commovente raccomandazione! Marco, un tempo trascinato da Barnaba lontano dall’apostolo, è di nuovo richiamato dall’apostolo stesso. Ed ora, riabilitato e ristorato, ritrova pubblicamente la comunione con Paolo e di conseguenza col Signore (Atti 15:35-38). Ma già i Colossesi avevano ricevuto ordini a suo riguardo che lo riabilitavano presso l’assemblea (Colossesi 4:10). Anche questo fatto ci dà un ammaestramento molto utile. Un atto, giudicato da tutti e che getta una luce sfavorevole sopra un fratello, non deve portare un giudizio durevole sul suo carattere. Paolo ce ne dà la prova nel modo in cui apprezza Marco. La sua attitudine al servizio non era stata messa in discussione dal fatto che questo servizio era stato prima disatteso.

C’erano delle partenze che non potevano incorrere in alcuna disapprovazione: quella di Tichico, per esempio. Se l’apostolo lo aveva mandato ad Efeso, era per i bisogni di un servizio approvato dal Signore. Tichico entra in scena dopo il tumulto di Efeso (Atti 20:4); è della provincia d’Asia, fratello diletto, fedele servitore, mandato dall’apostolo per confortare l’assemblea di Efeso, dove Paolo aveva tanto sofferto (Efesini 6:21-22); fu mandato pure ai Colossesi (4:7-9) per consolare i loro cuori; e ancora mandato dall’apostolo in (Tito 3:12). Tichico era dunque un fratello particolarmente dotato per portare dei fedeli messaggi, per incoraggiare, per raffermare. Potremmo chiamarlo il consolatore delle assemblee. Preziosa funzione, soprattutto in un tempo di declino!

Come in tutte le altre «Scritture», l’apostolo era ispirato anche quando parlava del suo mantello, dei libri, delle pergamene. Questa semplicità è molto notevole in uno scritto come questo. Egli aveva bisogno di tutelarsi dal freddo, e questo ci dice qualcosa del rigore della sua seconda prigionia; gli occorrevano un materiale durevole per scrivere; «i libri», erano delle porzioni della Parola (Daniele 9:2). Le circostanze della sua vita di ogni giorno erano così dirette dallo Spirito Santo.

***

Vers. 14-18. — «Alessandro, il ramaio, mi ha procurato molti mali. Il Signore gli renderà secondo le sue opere. Guàrdati anche tu da lui, perché egli si è opposto violentemente alle nostre parole. Nella mia prima difesa nessuno si è trovato al mio fianco, ma tutti mi hanno abbandonato; ciò non venga loro imputato! Il Signore però mi ha assistito e mi ha reso forte, affinché per mezzo mio il messaggio fosse proclamato e lo ascoltassero tutti i pagani; e sono stato liberato dalle fauci del leone. Il Signore mi libererà da ogni azione malvagia e mi salverà nel suo regno celeste. A lui sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen».

È possibile, benché non sia affatto provato, che questo Alessandro, il fabbro di rame, sia quello menzionato in 1 Timoteo 1:20 insieme a Imeneo per aver pronunziato delle bestemmie. La sua grande malvagità verso l’apostolo potrebbe derivare dal fatto che questi l’aveva «consegnato a Satana», e anche a causa della sentenza finale e terribile da lui pronunciata: «Il Signore gli renderà secondo le sue opere», poiché quell’uomo non s’era pentito. Timoteo è pure esortato a guardarsi da lui perché aveva grandemente contrastato alle parole di Paolo, che erano «la parola della predicazione», di cui egli dice che era veramente la Parola di Dio (1 Tessalonicesi 2:13). Se questi due Alessandro sono un unico personaggio il passo acquista una particolare solennità. Altri pensano, ma è meno probabile, che questo Alessandro sia quello di Atti 19:33.

Paolo, liberato all’inizio della sua prima prigionia, poi ripreso, ricondotto a Roma e imprigionato, era comparso davanti al tribunale per una prima difesa nella quale nessuno gli era stato vicino, ma tutti lo avevano abbandonato. Non era forse accaduto lo stesso al suo Signore e Maestro? (vedere Matteo 26:56; Marco 14:50). E quale contrasto con l’inizio della carriera di Gesù, quando i suoi discepoli avevano lasciato ogni cosa per seguirlo (Luca 5:11)!

L’abbandono in cui l’apostolo fu lasciato ci addolora, ma mi domando se quello del Signore ci commuove nella stessa misura; sarà così solo se realizziamo la perfezione della sua umanità, della sua santità e del suo amore divino. Quanto a Paolo, così simile al suo Salvatore, nessuno era stato al suo fianco per difendere la sua causa, per rendersi garante del suo carattere, delle sue intenzioni, della sua condotta. Ma che contrasto fra quel che domanda per i suoi fratelli, tanto codardi nella loro condotta, e ciò che proferisce contro Alessandro! «Ciò non venga loro imputato!» Paolo intercede per loro, come fece il Signore per il popolo, come fece Stefano per quelli che lo lapidavano. Non è questo il trionfo della grazia?

Nondimeno, in questa prima difesa Paolo non era solo. «Il Signore però mi ha assistito (Nuova Diodati: mi è stato vicino) e mi ha reso forte», egli dice. Se il suo cuore soffriva di essere umanamente solo, la sua forza aumentava perché il Signore, sorgente di ogni misericordia e di ogni forza, era con lui. «Beati quelli che trovano in te la loro forza… lungo il cammino aumenta la loro forza» (Salmo 84:5,7). Il Signore adempiva i suoi disegni di grazia fino alla fine e onorava il suo apostolo facendo di lui lo strumento di questi disegni. Il «messaggio era proclamato» (o meglio, secondo la Nuova Diodati: «la predicazione era portata a compimento») per mezzo suo. Egli era d’esempio al suo caro Timoteo, al quale aveva detto: «Adempi fedelmente il tuo servizio» (v. 5). Non restava ormai più nulla da aggiungere alla sua predicazione. Migliaia d’altri l’avrebbero ripresa, dopo la sua morte, ma non v’era più alcun soggetto nuovo da presentare; tutto quello che venne aggiunto più tardi, non soltanto non ha alcun valore, ma è in opposizione col pensiero di Dio (ovviamente non facciamo qui allusione agli scritti che compongono il Nuovo Testamento la cui stesura non era ancora completa al tempo della 2a epistola a Timoteo). Occorreva inoltre, come il Signore aveva detto al suo servitore, che tutte le nazioni udissero la predicazione del Vangelo (Atti 26:17-18).

L’apostolo aggiunge: «E sono stato liberato dalle fauci del leone». Il leone ruggente che si aggirava attorno a lui fu questa volta ridotto al silenzio, per tornare subito dopo a compiere la sua opera micidiale sul corpo dell’apostolo diletto che seguiva così, sino alla fine, le orme del suo Maestro (Salmo 22:21); ma Satana non poté impedire nemmeno per un solo istante che la predicazione fosse pienamente compiuta.

Questo ritorno del Nemico, di cui la Parola non ci parla, non aveva alcuna influenza sulla fiducia e sulla gioia trionfante dell’apostolo. Egli sapeva che, se il Signore non lo liberava dal martirio, lo avrebbe liberato sino alla fine «da ogni azione malvagia» e lo avrebbe salvato nel suo regno celeste. In tal modo la sua attività glorificò Dio sino all’ultimo momento, e se egli fu tolto da questo mondo, lo fu per godere eternamente del regno celeste (*) che il Signore avrebbe stabilito alla sua apparizione con tutti i santi. «A lui sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen!» dice l’apostolo pensando alla gloria futura di Cristo per il cui regno sarà conservato.

_____________________
(*) Il «regno celeste» si riferisce alla parte celeste del millennio, come anche Ebrei 12:28 che parla di un «regno che non può essere scosso», ovvero è immutabile, eterno (n.d.t.).
¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯¯

***

Vers. 19-22. — «Saluta Prisca e Aquila e la famiglia di Onesiforo. Erasto è rimasto a Corinto; Trofimo l’ho lasciato ammalato a Mileto. Cerca di venire prima dell’inverno. Ti salutano Eubulo, Pudente, Lino, Claudia e tutti i fratelli. Il Signore sia con il tuo spirito. La grazia sia con voi».

Timoteo doveva salutare Prisca (o Priscilla) ed Aquila. Questi cari compagni dell’apostolo erano ritornati ad Efeso, dove Timoteo poteva vederli, cacciati da Roma da qualche nuovo editto (Atti 18:1-3,26; 1 Corinzi 16:19; Romani 16:3; 2 Timoteo 4:19). Sembra che Onesiforo non fosse ritornato nella sua famiglia. Erasto, quando Paolo fu nuovamente preso, rimase a Corinto, ma non è per questo biasimato. Paolo aveva lasciato Trofimo (Atti 20:4; 21:29) malato a Mileto, e questo comprova che la seconda epistola a Timoteo è stata scritta dopo la prima prigionia di Paolo e al tempo di una sua seconda carcerazione. Questo fatto mostra pure che la potenza miracolosa degli apostoli era esercitata al servizio del Signore e non per i loro interessi particolari. La raccomandazione di venire prima dell’inverno è commovente e fa pensare al mantello lasciato in Troade. Eubulo, Pudente, Lino e Claudia sono nominati solo qui. Tutto quello che è stato detto sul loro conto da molti commentatori non merita di essere preso in considerazione.

«La grazia sia con voi».

Rispondi

Scopri di più da BibbiaWeb

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading