Piccolo commentario dell’Epistola di Paolo ai Romani

Jean Koechlin

Le citazioni bibliche di questo commentario fanno riferimento alla versione Giovanni Luzzi


Romani

Capitolo 1, versetti da 1 a 17

Le epistole sono delle lettere, indirizzate dagli apostoli ad assemblee o a credenti, nelle quali troviamo esposte le verità cristiane. Quella ai Romani, benché scritta dopo altre, è stata giustamente collocata per prima. Il suo soggetto è infatti l’evangelo perché, prima di ricevere un insegnamento cristiano, è necessario innanzi tutto diventare cristiani. Caro lettore, le viene offerta questa occasione, se ancora non l’ha colta: essere di Cristo.

Si racconta che un evangelista, il quale teneva una serie di riunioni in una città, si limitò ogni sera a leggere i primi sei capitoli di questa epistola senza aggiungervi nemmeno una parola. E, ogni sera, si ebbero molte conversioni. Questo è il potere della sola Parola di Dio e l’autorità dell’evangelo, «potenza di Dio per la salvezza d’ogni credente» (v. 16).

Questa lettera è stata scritta molto tempo prima del drammatico viaggio raccontato alla fine degli Atti. Paolo non aveva ancora visto credenti di Roma. Ma, condizione indispensabile per un servizio utile, è pieno d’amore per loro e, prima di tutto, per Colui che sta per annunciare: Gesù Cristo. Il suo Nome riempie questi primi versetti. Non è Egli infatti la sostanza dell’Evangelo, il fondamento di ogni relazione tra Dio e l’uomo? D’altra parte, il fatto che Paolo voleva annunciare l’Evangelo a quelli che tuttavia avevano già la fede (v. 15, 8) ci conferma che questa buona notizia dell’Evangelo non si limita al perdono dei peccati. Contiene tutta la verità in Cristo.




Romani

Capitolo 1, versetti da 18 a 32

Prima di spiegare come Dio giustifica il peccatore, l’apostolo dimostra che tutti gli uomini sono colpevoli davanti a Dio. Si penserà forse che i pagani siano scusabili, in quanto non possiedono la Parola scritta. Ma essi hanno sotto gli occhi un altro libro sempre aperto: la Creazione (Salmo 19:1). Ma la maggioranza di loro non ha voluto riconoscere né onorare il suo Autore e ha trascurato di rendergli grazie, che è un dovere di ogni Sua creatura. Allora, sono stati abbandonati a Satana per praticare le peggiori abominazioni.

Non è certo bello il ritratto che Dio fa qui dell’uomo naturale; ma questo ritratto è il mio ed il vostro! Qualcuno obietterà con indignazione: Io non ho commesso gli orribili peccati menzionati in questi versetti. Ebbene! consideriamo i v. 30 e 31 ed esaminiamoci. Non abbiamo veramente nessuna somiglianza con questo membro della famiglia umana? Inoltre, Dio dichiara colpevoli non solo quelli che si danno personalmente a tali vizi, ma anche tutti quelli che «approvano chi li commette». Leggere un romanzo che racconta cose immorali, compiacersi in descrizioni torbide e corrotte, significa porsi sotto lo stesso «giudizio» (v. 32; Salmo 50:18).




Romani

Capitolo 2, versetti da 1 a 16

Un uomo, per quanto sia caduto in basso, troverà sempre qualcuno più miserabile di lui, col quale potrà paragonarsi sentendosi migliore! Chi ha la passione del gioco, disprezzerà il bevitore e questi guarderà un bandito con senso di superiorità. In realtà, tutti i vizi sono in germe nel nostro cuore. Quando giudichiamo gli altri (v. 1), diamo prova di saper riconoscere molto bene il male; mostriamo dunque di avere una coscienza. Ma essa condanna anche noi quando, a nostra volta, pratichiamo cose simili. Tutti gli uomini hanno una coscienza (Genesi 3:22); nella sua bontà, Dio se ne serve per spingerli al pentimento (v. 4), ma non li autorizza affatto ad usarla per giudicare il loro prossimo. Uno solo ha il diritto di giudicare: Gesù Cristo (v. 16; Giovanni 5:22; Atti 10:42). Un giorno Egli metterà in luce «i segreti degli uomini», tutti i loro atti e le intenzioni inconfessabili, nascoste con tanta cura (Matteo 10:26). Confessategli senza indugio i vostri segreti più vergognosi. La vostra coscienza non è una voce ostile ma un’amica che vi dice: parla di questo al Signore; ci penserà Lui.




Romani

Capitolo 2, versetti da 17 a 29

Questi capitoli ci fanno pensare alla seduta d’un tribunale. Uno dopo l’altro, gli accusati compaiono davanti al Giudice supremo. Dopo la condanna del barbaro (cap. 1), poi quella dell’uomo morale e civilizzato (inizio del cap. 2), è il Giudeo ad essere chiamato alla sbarra. Egli si presenta a testa alta. Il suo nome di Giudeo, la legge di Mosè sulla quale fa affidamento, il vero Dio che pretende di conoscere e di servire (v. 17), tutto questo stabilirà certamente la sua superiorità sugli altri accusati e lo farà assolvere… Invece no. Cosa gli risponde il supremo Magistrato? Io non ti giudicherò né dai titoli (v. 17), né dalla tua conoscenza (v. 18), né dalle tue parole (v. 21), ma dalle tue azioni. «Tu che insegni agli altri… tu che predichi… tu che dici»…; ciò che m’interessa è quello che fai ed anche quello che non fai (Matteo 23:3). Invece di scusarti, i tuoi privilegi aggravano la tua colpa.

Il peccato dei pagani è chiamato ingiustizia (cap. 1:18): un cammino senza legge e senza freni secondo i capricci della propria volontà (1 Giovanni 3:4). Il peccato dei Giudei è chiamato trasgressione (v. 23), ossia disubbidienza ai comandamenti divini conosciuti. E quanto più responsabili sono oggi i cristiani che possiedono tutta la Parola di Dio!




Romani

Capitolo 3, versetti da 1 a 18

Chi ha ragione? Dio che condanna o l’accusato che si difende? «Sia Dio riconosciuto verace, ma ogni uomo bugiardo!» (v. 4), esclama l’apostolo. La Parola di Dio non è annullata col pretesto che non è stata creduta dai Giudei, i suoi depositari (v. 3; Ebrei 4:2). Con la massima incongruenza, essi si gloriavano d’avere la legge (cap. 2:17), mentre questa rendeva testimonianza contro di loro. Sono paragonabili ad un criminale che, proclamando la sua innocenza, rimette egli stesso alla polizia il corpo del reato che conferma la sua colpa. Così lo Spirito di Dio, simile al procuratore in un tribunale, fa leggere davanti a questo accusato giudeo tutta una serie di versetti irrefutabili tratti dalle Sue Scritture (v. 10-18).

Ma l’accusato potrebbe avanzare un altro argomento: Io non nego la mia ingiustizia, ma questa mette in risalto la giustizia di Dio; in fondo è utile. Terribile malafede! Se fosse così, Dio dovrebbe rinunciare a giudicare il mondo (v. 6), anzi essergli grato della sua malvagità perché questa evidenzia la Sua santità! Ma allora Dio smetterebbe di essere giusto e rinnegherebbe Se stesso (2 Timoteo 2:13). Prima del verdetto finale, Dio respinge gli ultimi ragionamenti dietro ai quali la sua creatura cerca sempre di trincerarsi.




Romani

Capitolo 3, versetti da 19 a 31

Dinanzi al tribunale di Dio ogni bocca è ora chiusa. Gli accusati, senza alcuna eccezione, sono riconosciuti colpevoli, condannati dalla legge alla pena di morte (v. 19). «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio». È per questo che la terribile sentenza «per certo morrai», già annunciata da Dio prima della caduta dell’uomo (Genesi 2:17), viene confermata: «Il salario del peccato è la morte» (cap. 6:23). Per l’incredulo, Gentile o Giudeo, questo giudizio è definitivo e il tribunale davanti al quale tutti compariranno un giorno rappresenta una spaventosa realtà (Apocalisse 20:11). Ma ecco l’avvocato, cioè Cristo, intervenire in favore di coloro che, Giudei o Gentili, l’hanno scelto per fede. Egli non cerca di minimizzare gli errori commessi, come fanno gli avvocati davanti ai tribunali degli uomini; al contrario, Egli li difende dicendo: La sentenza è giusta, ma è già stata eseguita; il debito è saldato; una morte, la mia, ha pagato il terribile debito dei loro peccati.

Sì, la giustizia di Dio è soddisfatta perché un crimine non può essere messo in conto una seconda volta. E se Dio è giusto condannando il peccato, è altrettanto giusto giustificando il peccatore «che ha fede in Gesù» (v. 26).




Romani

Capitolo 4, versetti da 1 a 12

Se una scala è troppo corta per raggiungere un oggetto posto in alto, un uomo che salga sul piolo più elevato non è più facilitato ad impossessarsene di quelli che sono sotto di lui. «Non v’è distinzione» abbiamo letto (cap. 3:22); il Giudeo, come il Greco, non raggiunge la gloria di Dio. Nessuno vi accede con la scala della propria giustizia: sarà sempre insufficiente. La prova è data dal fatto che persino Abramo (v. 3) e Davide (v. 6), che incontestabilmente avrebbero avuto il diritto di stare in cima a questa scala delle opere, non se ne sono serviti per essere giustificati davanti a Dio. E se loro non l’hanno fatto, chi potrebbe pretendere di farlo? Per dimostrare meglio che la salvezza per grazia non ha alcun rapporto con le pretese carnali e «il vanto» del popolo giudeo (cap. 3:27), i v. 9 e 10 ricordano che il patriarca Abramo ha ricevuto la giustizia per fede prima del segno della circoncisione (Genesi 15:6; 17:24). Nel momento in cui Dio l’ha giustificato, egli era ancora simile ai pagani.

Per essere salvati, bisogna cominciare col riconoscersi colpevoli, ossia dichiararsi d’accordo con la sentenza divina pronunciata nel capitolo precedente. Dio giustifica «l’empio», e lui solo può farlo (v. 5; confr. Matteo 9:12).




Romani

Capitolo 4, versetti da 13 a 25

Se Dio è potente di effettuare ciò che ha promesso (v. 21), l’uomo, da parte sua, è totalmente impotente ad adempiere i suoi obblighi. Per questo le promesse fatte ad Abramo (e al cristiano) non comportano nessuna condizione; basta crederle. Tutte le circostanze sembravano contraddire ciò che Dio aveva assicurato ad Abramo. Ma lui «non vacillò per incredulità… essendo pienamente convinto» (v. 20,21). Da dove gli veniva questa fede incrollabile? Dal fatto che conosceva Colui che gli aveva fatto le promesse e gli accordava una totale fiducia. La firma di una persona che rispettiamo ha per noi più valore di quella d’uno sconosciuto e garantisce i suoi impegni. La fede crede alle promesse perché crede a Dio che le ha fatte (v. 17 e 3; confr. 2 Timoteo 1:12). Essa s’impossessa delle grandi verità affermate mediante la sua Parola: la morte del Signore Gesù per espiare i nostri errori, la sua resurrezione per darci una giustizia (v. 25).

Caro amico, arrivato a questo punto della tua lettura, puoi dire con tutti i credenti: «Io possiedo questa fede che dà la salvezza. È per i miei peccati che Gesù è stato dato; è per la mia giustificazione che Dio l’ha risuscitato»?




Romani

Capitolo 5, versetti da 1 a 11

Assolto, giustificato, il credente lascia esplodere la sua gioia (v. 1). La pace con Dio è ormai la sua parte inestimabile. È riconciliato col Giudice supremo a motivo dell’atto stesso che avrebbe dovuto attirare la Sua ira per sempre: l’uccisione e la morte del suo Figlio (v. 10)! In verità, l’amore di Dio non assomiglia a nessun altro. È davvero «il suo proprio amore», i cui motivi sono tutti in Lui stesso. Ha amato dei poveri esseri che non avevano niente di piacevole, prima ancora che facessero il minimo passo verso di Lui, quando erano ancora senza forza, empi (v. 6), peccatori (v. 8) e nemici (v. 10; 1 Giovanni 4:10 e 19). È quest’amore che ora è versato nel nostro cuore.

Di fronte al mondo che si gloria di privilegi presenti e passeggeri, il credente, lungi dall’essere confuso (v. 5), può valersi del suo ineffabile avvenire: la gloria di Dio (v. 2). Ed inoltre, cosa paradossale!, egli può trovare della gioia nelle tribolazioni presenti. Queste infatti producono preziosi frutti (v. 3, 4) che rendono la sua speranza ancora più viva e fervente. «E non soltanto questo…» (v. 11): abbiamo il diritto di gloriarci nei doni, ma soprattutto in Colui che ce li dispensa che è Dio stesso, divenuto il nostro Dio e Padre per mezzo del Signore Gesù Cristo.




Romani

Capitolo 5, versetti da 12 a 21

Per un credente convertito sul letto di morte, l’epistola avrebbe potuto terminare col v. 11. La questione dei suoi peccati è stata regolata; è pronto per la gloria di Dio. Ma per chi continua a vivere sulla terra, si pone ormai un doloroso problema: egli ha ancora in sé la vecchia natura, «il peccato», che riesce a produrre solo dei frutti corrotti. Rischia dunque di perdere la salvezza? Ciò che segue, dal cap. 5:12 al cap. 8, ci dice come vi ha provveduto Dio: Egli ha condannato non solo le mie azioni, ma anche la cattiva volontà che le ha fatte nascere, il «vecchio uomo», (cap. 6:6), simile al peccatore Adamo, suo antenato. Immaginiamo che un tipografo poco coscienzioso, componendo il cliché d’un libro, abbia lasciato passare gravi errori che falsano completamente il pensiero dell’autore. Questi errori si riprodurranno, al momento della tiratura, in ogni esemplare. La rilegatura più bella non cambierà niente. Per avere un testo fedele, lo scrittore dovrà procedere ad una nuova edizione, che parta da un altro cliché.

Il primo Adamo è come questo cattivo cliché: da lui sono provenuti tanti uomini, altrettanto peccatori! Ma Dio non ha cercato di migliorare la discendenza di Adamo. Ha suscitato un uomo nuovo, Cristo, e ci ha dato la sua vita.




Romani

Capitolo 6, versetti da 1 a 14

È troppo facile! — dicono alcuni. Dato che la grazia abbonda e le nostre ingiustizie non servono che a farla brillare di più, approfittiamone per lasciarci andare a tutti i capricci della nostra volontà carnale (v. 1 e 15). Ma possiamo immaginare il figlio prodigo, che dopo aver visto l’accoglienza riservatagli dal padre, desideri tornare nel paese lontano dicendo: «Intanto ora so che sarò sempre ricevuto a casa ogni volta che vorrò tornarci»? No, un simile ragionamento non è mai quello d’un vero figlio di Dio. Prima di tutto perché sa che la grazia è costata al suo Salvatore e teme di rattristarlo. Poi, perché il peccato deve aver perso ogni attrazione per lui. La mia morte con Cristo (v. 6) toglie al peccato ogni forza ed ogni autorità su di me. Infatti, un «cadavere» non può più essere sedotto dai piaceri e dalle tentazioni. Ed è una liberazione meravigliosa!

Il cap. 3 v. 13 a 18 constatava che tutte le membra dell’uomo, la lingua, i piedi, gli occhi…, erano degli «strumenti d’iniquità» al servizio del peccato (v. 13). Ebbene! al momento della conversione, queste stesse membra cambiano proprietario. Diventano degli «strumenti di giustizia» a disposizione di Colui che ha tutti i diritti su di me.




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Capitolo 6, versetti da 15 a 23

Non c’è nulla di più importante per l’uomo della sua libertà. Eppure questa è una completa illusione. «La libera volontà non è altro che la schiavitù del diavolo» (J.N.D.). Tuttavia, l’uomo se ne rende conto solo dopo la conversione. È cercando di volare che l’uccello prigioniero si rende conto che gli hanno tarpato le ali. «Chi commette il peccato è schiavo del peccato», insegnava il Signore Gesù. Ma aggiungeva: «Se dunque il Figliuolo vi farà liberi, sarete veramente liberi» (Giovanni 8:34,36). Liberi… non di fare la nostra volontà: significherebbe rimetterci sotto la vecchia schiavitù! Ci basti aver compiuto, nel tempo già trascorso, la volontà dell’uomo peccatore (e per quale frutto? v. 21; 1 Pietro 4:3), aver lavorato per Satana, l’impostore pronto a negoziare un tragico salario: la morte, che Cristo ha subito al nostro posto (v. 23). Se siamo liberi, è per servire Dio ed ubbidirgli di cuore (v. 17; 2 Corinzi 10:5), come quel giovane schiavo, riscattato un giorno a un padrone crudele da un viaggiatore compassionevole, che invece d’andare a vivere la sua vita, chiese di non lasciare il suo benefattore; tutto il suo desiderio era di servirlo da quel momento in poi!




Romani

Capitolo 7, versetti da 1 a 11

La legge non solo reprime i misfatti che ho commesso, ma giudica anche la mia natura peccatrice, per esempio la mia incapacità ad amare Dio ed il mio prossimo come essa prescrive. Il peccato mi pone dunque inesorabilmente sotto la condanna della legge di Dio… Ebbene! ne sono liberato nello stesso modo in cui sono stato liberato dal peccato: per mezzo della morte (cioè la mia morte con Cristo; v. 4). Quando un colpevole è deceduto, la giustizia umana non può più metterlo in prigione.

La legge è dunque una cosa cattiva, dal momento che Dio ha dovuto proteggermi contro il suo rigore? «Così non sia!» esclama nuovamente l’apostolo (v. 7). Se in un museo prendo in mano un oggetto esposto, forse non sono cosciente di commettere un’infrazione. Invece sono pienamente responsabile se esiste un cartello: Vietato toccare. Ma, allo stesso tempo, questa scritta suggerirà a molti visitatori la voglia di avanzare la mano verso gli oggetti esposti, poiché la nostra natura ci spinge ad infrangere ogni regola per affermare la nostra indipendenza. Così, per la legge, Dio mi coglie in flagrante per la mia disobbedienza e mette in evidenza la cupidigia che è in me, per meglio convincermi di peccato.




Romani

Capitolo 7, versetti da 12 a 25

Questi versetti sono stati paragonati ai vani sforzi d’un uomo impantanato in una palude. Ognuno dei suoi movimenti per liberarsi ha il solo effetto di farlo sprofondare di più. Vedendosi perduto, finisce per gridare aiuto. Moralmente questo dramma illustra la storia di molti figli di Dio durante il periodo che segue la loro conversione. L’apostolo si mette al posto d’un simile credente (se non fosse tale, da un lato non dovrebbe affrontare queste lotte, dall’altro non troverebbe il suo piacere nella legge di Dio; v. 22), e ci dipinge la sua disperazione. «Ahimè! — esclama quest’uomo — invece di migliorare mi sento ogni giorno più cattivo. Ho scoperto che ero sotto il peccato (cap. 3:9), che questo regnava su di me (cap. 5:21), mi signoreggiava (cap. 6:14), mi teneva prigioniero (cap. 7:23), e che abita in me (v. 17,20), come un virus insidioso che ha preso possesso dei miei centri vitali. Chi mi libererà da questo corpo di morte? Io mi riconosco incapace, senza forza,… sono dunque pronto a confidare in un Altro. E Gesù mi prende per mano».

Penosa ma necessaria esperienza! Dal momento stesso in cui non mi aspetto più niente da me, posso aspettarmi tutto da Cristo.




Romani

Capitolo 8, versetti da 1 a 11

Una meravigliosa pace segue i tormenti del cap. 7. Ho imparato che ora non c’è più condanna per me: sono in Cristo Gesù, posizione di perfetta sicurezza. «Misero uomo», senza forza per compiere il bene, ho scoperto una potenza chiamata «la legge dello Spirito di vita» che mi affranca, mi libera, dalla «legge del peccato», cioè dal suo dominio. Queste sono le due grandi verità che colgo per fede.

Il più abile scultore che dispone del miglior utensile, non potrà cesellare niente in un legno tarlato. Dio è questo saggio artigiano e la legge il buon utensile (cap. 7:12). Ma la legge è stata resa debole ed inefficace a causa della nostra «carne», rosa dal peccato (v. 3,7). Eravamo «nella carne» (v. 9), obbligati ad agire secondo la sua volontà. Ora siamo in Cristo Gesù, e camminiamo «secondo lo Spirito» (v. 4).

È vero che non siamo più «nella carne», ma la carne è ancora in noi. Ma, dopo che abbiamo creduto, lo Spirito di Dio stesso è venuto ad abitare in noi come vero padrone della casa. La carne, «il vecchio uomo», antico proprietario, non è presente che come inquilino indesiderato, chiuso in una camera. Non ha più alcun diritto… ma bisogna stare attenti a non aprirgli la porta.




Romani

Capitolo 8, versetti da 12 a 21

Così noi non siamo più debitori verso la carne, questo creditore insaziabile e crudele (v. 12). Siamo infatti divenuti figli di Dio, e il nostro Padre non ammette che siamo assoggettati. Ha pagato Lui stesso tutto il nostro debito perché fossimo liberi, dipendenti solo da Lui. Un tempo lo schiavo romano poteva essere affrancato ed anche, eccezionalmente, adottato dal suo padrone con tutti i diritti all’eredità. Pallida immagine di ciò che Dio ha fatto per dei poveri esseri decaduti, contaminati e in rivolta contro di Lui. Non solo ha accordato loro perdono, giustizia, piena libertà, ma ne ha fatto dei membri della sua stessa famiglia. E sono suggellati dallo Spirito, per mezzo del quale anche i figli conoscono la loro relazione col Padre. «Papà» (Abba in ebraico) è spesso la prima parola indistinta che pronuncia un bambino (v. 15,16; 1 Giovanni 2:13 alla fine).

Oltre ad offrirgli questa certezza, lo Spirito c’insegna a far morire (cioè a non lasciare che si realizzino) le azioni della carne (v. 13). Ed è lasciandoci condurre da Lui che ci faremo conoscere come figli di Dio (v. 14; confr. Matteo 5:44,45), nell’attesa di essere rivelati come tali a tutta la creazione (v. 19).




Romani

Capitolo 8, versetti da 22 a 30

Su questa terra, infangata dal peccato, regnano l’ingiustizia, la sofferenza e la paura. L’uomo ha assoggettato tutta la creazione al servizio della sua vanità (v. 20), della sua corruzione (v. 21). I sospiri di tutti gli oppressi salgono verso il gran Giudice (Lamentazioni 3:34-36). Noi stessi sospiriamo nel «corpo della nostra umiliazione» (Filippesi 3:21). Sentiamo il peso del peccato che ci circonda e che dobbiamo continuamente giudicare in noi stessi (v. 13). La nostra infermità è grande: non sappiamo né come pregare né che cosa domandare. Così lo Spirito ha anche la funzione d’intercedere in nostro favore in un linguaggio che Dio comprende (v. 27). Noi non sappiamo che cosa è bene per noi, ma il v. 28 afferma che tutto quello che succede è stato preparato da Dio e, alla fine, s’inserisce nel «suo proponimento», di cui Cristo è il centro. Poiché è per dare al suo Figlio dei compagni nella gloria che Dio ha preconosciuto, predestinato, chiamato, giustificato, glorificato questi esseri, un tempo miserabili e perduti, che Egli prepara attualmente per la loro celeste vocazione (v. 29). Sublime catena dei consigli divini che unisce l’eternità passata all’eternità futura e che dà un senso al momento presente.




Romani

Capitolo 8, versetti da 31 a 39

Un tale spiegamento dei consigli eterni di Dio lascia il riscattato senza parole. Ogni domanda che poteva ancora porsi ha trovato la sua perfetta risposta! Dio è per lui; quale nemico si azzarderebbe ancora a toccarlo? Dio lo giustifica: chi oserebbe ormai accusarlo? Il solo che potrebbe condannarlo, Cristo, è diventato il suo supremo intercessore! E che cosa potrebbe rifiutarci un Dio che ci ha fatto, nel suo Figlio, il più grande di tutti i doni? Ci donerà «Tutte le cose con Lui». Sì, anche le prove, se è necessario (v. 28). Sembrerebbe che queste tendano piuttosto a separarci dall’amore di Cristo, producendo in noi mormorii o scoraggiamento. Al contrario! «Tutte le cose» ci permettono di sperimentare quest’amore, come non avremmo potuto fare in altro modo. Qualunque sia la forma della prova, tribolazione, distretta, persecuzione…, in ognuna la grazia perfetta del Signore si esprime in un modo particolare: sostegno, consolazione, tenerezza, perfetta simpatia… Ad ogni sofferenza viene a rispondere una forma personale del suo amore. E quando non ci saranno più la terra e le sue pene, resteremo per l’eternità gli oggetti dell’amore di Dio.




Romani

Capitolo 9, versetti da 1 a 18

I capitoli da 1 a 8 ci ricordano la storia del figlio prodigo: il suo peccato aveva abbondato, ma la grazia ha sovrabbondato. Rivestito della veste di giustizia, non è divenuto un mercenario nella casa di suo padre, ma gode d’ora in poi con lui d’una piena e libera relazione (Luca 15:11-32). Dal capitolo 9 al capitolo 11, sarà considerato il fratello maggiore, ossia il popolo giudaico, i suoi privilegi naturali ed anche la sua gelosia. Come il padre della parabola, l’apostolo vorrebbe far capire ad Israele che cos’è la grazia sovrana. Essa è libera e non legata a privilegi ereditari. Non tutti i discendenti d’Abramo erano d’altronde figli della promessa. Esaù, per esempio, essendo profano, benché fratello gemello di Giacobbe, non ha potuto ereditare la benedizione. E Dio ha pronunciato a suo riguardo questa terribile frase: «Ho odiato Esaù». Possiamo forse dubitare che il Suo amore non abbia prima fatto tutto il possibile verso Esaù come verso il suo popolo Israele? Basti pensare alle lacrime del Signore Gesù su Gerusalemme colpevole (Luca 19:41), dolore al quale l’apostolo fa un’eco straziante nei v. 2 e 3. Ripetiamolo: non sono i diritti di nascita che assicurano a qualcuno la salvezza per grazia. Figli di genitori cristiani, questo messaggio è rivolto anche a voi nel modo più solenne.




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Capitolo 9, versetti da 19 a 33

Nella loro audace incredulità, gli uomini si permettono di giudicare Dio col proprio metro: Visto che in definitiva Egli farà tutto ciò che ha voluto, dicono alcuni, di che cosa ci può ritenere responsabili? (v. 19). Uno ha un bel da fare, aggiungono altri; se è predestinato, prima o poi sarà salvato; se invece non è eletto, tutti i suoi sforzi non cambieranno la sua sorte finale. E, da questo errato punto di partenza, scaturiscono altre domande come queste: Non è ingiusto aver scelto gli uni invece degli altri? Conoscendo in anticipo la sorte dei perduti, perché li ha creati? Come può un Dio buono destinare la sua creatura all’infelicità?… Questo capitolo ci informa che Dio non ha destinato nessun vaso a ira (v. 21). Anzi, li ha sopportati, e li sopporta ancora, «con molta longanimità» (v. 22). Ma sono i peccatori che si preparano da soli alla perdizione eterna.

Una cosa è certa, possiamo rispondere a tutti i ragionatori: Dio vi ha chiamati, voi che avete la Sua Parola fra le mani. Ha voluto fare anche di voi un «vaso di misericordia». Solo il vostro rifiuto può impedire al suo disegno d’amore di realizzarsi (leggere 1 Timoteo 2:4).




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Capitolo 10, versetti da 1 a 13

L’amore dell’apostolo per il suo popolo si manifestava nel modo migliore: per mezzo delle preghiere (v. 1). È anche il nostro primo dovere nei confronti di coloro che ci stanno vicini e non sono ancora convertiti. Paolo sapeva per esperienza che si può essere zelanti per Dio anche sbagliando completamente strada. Quante imprese, spesso generose e sincere, sono destinate al fallimento perché sono «senza conoscenza»! E questo è ancora più vero se si considerano gli inutili sforzi fatti da tante persone per guadagnare il cielo, quando basterebbe afferrare la Parola che è «presso di te» (v. 8). È come se un uomo caduto in un precipizio persistesse nel voler risalire coi propri mezzi, invece di fidarsi della corda che i soccorritori gli hanno gettato a portata di mano.

I v. 9 e 10 ci ricordano che la fede del cuore e la confessione con la bocca sono inseparabili. Si può dubitare della realtà d’una conversione che non ha il coraggio di dichiararsi.

Al cap. 3:22 non c’era differenza davanti al peccato; tutti erano colpevoli. Qui non c’è differenza per quanto riguarda la salvezza (v. 12); tutti possono ottenerla! Il Signore è abbastanza ricco per rispondere ai bisogni di tutti quelli che l’invocano.




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Capitolo 10, versetti da 14 a 21

«La fede viene dall’udire e l’udire si ha per mezzo della parola di Cristo» (v. 17). È dunque indispensabile che questa Parola efficace sia proclamata attraverso il mondo. «Quanto sono belli… i piedi del messaggero di buone novelle», scriveva già il profeta (Isaia 52:7). Là si alludeva a Cristo solo. Ora si tratta di «coloro che annunciano la pace», perché i riscattati a loro volta diventano dei predicatori. Sì, se ogni riscattato volesse essere, nel luogo in cui il Signore lo manda, un messaggero pieno di fervore, gli appelli dell’evangelo risuonerebbero fino agli estremi confini del mondo (v. 18). E il v. 15 ci mostra in che modo i credenti devono predicare: Non solo con le loro parole, ma anche con la bellezza del loro cammino, «calzati i piedi della prontezza che dà l’Evangelo della pace» (Efesini 6:15).

Ahimè! la triste domanda: «Chi ha creduto…?» (v. 16; Isaia 53:1) evidenzia che molti cuori resteranno chiusi. Era il caso d’Israele, nonostante gli avvertimenti di tutto l’Antico Testamento: Mosè (v. 19), Davide (v. 18), Isaia (v. 15,16,20,21), cioè la Legge, i Salmi ed i Profeti. Ma stiamo attenti a non essere anche noi disubbidienti e contraddicenti (v. 21).




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Capitolo 11, versetti da 1 a 15

Malgrado la sua incredulità, Israele non è stato definitivamente rigettato. L’apostolo stesso era un testimone di ciò che la grazia poteva ancora compiere in favore del Giudeo ribelle (v. 1). Già ai tempi d’Elia, quel profeta si sbagliava pensando che l’intero popolo avesse abbandonato l’Eterno. Nel suo scoraggiamento, il povero Elia era giunto fino al punto di parlare «a Dio contro Israele» (v. 2,3). Ma che grazia nella «voce divina» (v. 4)! Da sempre il Signore si è riservato un residuo fedele che rifiuta di piegarsi di fronte agli idoli del mondo. Tutti noi ne facciamo parte nel tempo presente (v. 5). Il v. 9 ci offre un esempio di ciò che possono essere questi idoli citando i piaceri della tavola che diventano una trappola per gli increduli e, aggiunge il Salmo 69:22, «quando si credon sicuri» è per loro un tranello.

Dopo tanti appelli, Israele è stato infine accecato a vantaggio delle nazioni. Ma il desiderio ardente dell’apostolo restava lo stesso: che la gelosia del popolo giudaico nei confronti dei nuovi beneficiari della salvezza (gelosia di cui lui stesso aveva tanto sofferto: Atti 13:45; 17:5; 22:21,22) incitasse questo popolo a ricercare la grazia che, fino a quel momento, aveva disprezzato (v. 14; cap. 10:19).

Che al vedere le nostre benedizioni possano avere invidia tutti coloro che ci circondano!




Romani

Capitolo 11, versetti da 16 a 36

Per illustrare la posizione d’Israele e quella delle altre nazioni, l’apostolo si serve dell’immagine d’un ulivo domestico che rappresenta il popolo giudaico. Una parte dei suoi rami è stata troncata «per la loro incredulità» (v. 20) e al loro posto sono stati innestati dei rami provenienti dall’ulivo selvatico che raffigura le altre nazioni. Ora, tutti sanno che un agricoltore fa esattamente il contrario: innesta nell’albero selvatico un ramo «domestico» della specie che intende ottenere. L’introduzione «contro natura» (v. 24) dei Gentili sul tronco d’Israele sottolinea dunque l’immensa grazia che ha posto noi (che non siamo Giudei) al beneficio delle promesse fatte ad Abramo. Provarne orgoglio sarebbe la più grande assurdità (v. 20).

Dopo il rapimento dei credenti, verrà il momento in cui la cristianità infedele verrà a sua volta giudicata; dopo di che, tutto il rimanente fedele d’Israele sarà salvato dal suo grande Liberatore (v. 26).

Così, le nazioni non avevano alcun diritto d’origine; Israele aveva perso il suo; tutti erano nello stesso irrimediabile stato, senza altra risorsa che la misericordia divina. E l’apostolo si ferma con adorazione di fronte a questi consigli insondabili di Dio, questa «profondità della ricchezza e della sapienza e della conoscenza di Dio» (v. 33).




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Capitolo 12, versetti da 1 a 8

Fin qui abbiamo visto ciò che Dio ha fatto per noi. I capitoli da 12 a 15 descrivono ciò che Egli si aspetta ora da parte nostra. Il Signore si è acquistato tutti i diritti sulla nostra vita. Presentiamogli ciò che Gli appartiene, i nostri corpi, come un sacrificio «vivente» (in contrasto con le vittime «morte» del culto giudaico) affinché Egli agisca per mezzo di essi. Ma, prima di servire, è necessario che la nostra intelligenza rinnovata giunga a discernere la volontà del Signore (leggere Colossesi 1:9,10). Nonostante ciò che a volte sembra, essa è sempre buona, accettevole e perfetta (pesiamo queste parole) per il solo fatto che si tratta della Sua volontà (v. 2; Giovanni 4:34). È necessario anche controllare i nostri pensieri e giudicarli, in modo che restino dei pensieri d’umiltà e non di personale soddisfazione, dei pensieri sani e non perversi.

I versetti da 6 a 8 enumerano alcuni doni della grazia: profezia, servizio nell’assemblea, insegnamento, esortazione, amministrazione, guida del gregge… Tutte queste attività, direte voi, non mi riguardano: sono per dei cristiani che abbiano l’età adatta e l’esperienza. Ebbene! l’ultima elencata, in ogni caso, è per voi, chiunque siate e qualunque sia la vostra età: «Chi fa opere pietose (cioè opere dettate dal timore di Dio) le faccia con allegrezza» (2 Corinzi 9:7).




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Capitolo 12, versetti da 9 a 21

Nei versetti da 1 a 8 si trattava del nostro servizio per Dio; i versetti da 9 a 16 enumerano principalmente i nostri doveri nei confronti dei nostri fratelli, mentre dal versetto 17 al versetto 21 è considerata la nostra responsabilità nei riguardi di tutti gli uomini. Ognuna di queste esortazioni deve essere meditata e trova la sua applicazione nella nostra vita quotidiana. Infatti, l’autorità della Parola si estende sia alla nostra vita di famiglia che al nostro lavoro, sia durante la settimana che alla domenica, sia nei giorni di gioia che nei giorni di tristezza (v. 15). Non esiste nessuna circostanza nella quale non possiamo e non dobbiamo comportarci da cristiani.

Il versetto 11 ci esorta all’attività. Tuttavia i diversi servizi posti davanti a noi, benevolenza, ospitalità (v. 13) ecc… devono riassumersi tutti nell’espressione «servendo il Signore» (e non la nostra reputazione).

Compiacersi in ciò che è umile e con gli umili (v. 16), sopportare con pazienza le ingiustizie e gli oltraggi (v. 17 a 20), sono cose contrarie alla nostra natura. Ma è così che si manifesterà la vita di Cristo in noi come si è manifestata in Lui (1 Pietro 2:22,23). Fare del bene è la sola risposta al male che ci sia permessa, ed è anche l’unico modo per vincerlo.




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Capitolo 13, versetti da 1 a 14

Essere sottomessi alle autorità significa esserlo a Dio che le ha costituite, a meno che non ci vengano richieste cose che sono in evidente contraddizione con la volontà del Signore (confr. Atti 4:19; 5:29). Il cristiano, che utilizza i servizi pubblici assicurati dallo Stato, deve comportarsi da buon cittadino, pagare le tasse (v. 7), rispettare le leggi e gli ordinamenti: polizia, dogana, ecc…

«Non abbiate… debito con alcuno» (v. 8) è un’esortazione da non dimenticare ai nostri giorni, in cui avere dei debiti è entrato nelle abitudini! Un solo debito dobbiamo avere: l’amore, dal quale non ci si può sdebitare, perché risponde all’amore infinito di Dio per noi. Del resto, il termine amore riassume tutte le istruzioni di questo capitolo: amore per il Signore (1 Pietro 2:13), per i nostri fratelli, per tutti gli uomini.

Un motivo essenziale per essere fedeli e rianimare i nostri cuori è dato dal fatto che «viene la mattina» (Isaia 21:12). Finché dura la notte morale di questo mondo, il credente è invitato a rivestire «le armi della luce» (v. 12; Efesini 6:13…), a rivestirsi del Signore Gesù Cristo stesso (v. 14), cioè a renderlo visibile, come un abito senza macchia. Risvegliamoci, amici; non è il momento di dormire. Il Signore viene!




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Capitolo 14, versetti da 1 a 18

Il libro degli Atti ci ha mostrato come i cristiani usciti dal giudaesimo stentassero a liberarsi dalle forme della loro religione. Ancora oggi, nella cristianità, sono numerosi coloro che attribuiscono importanza alle pratiche esteriori: astensione dalla carne, rispetto delle festività… Se si tratta di veri credenti non ho il diritto di dubitare che agiscano «per il Signore» (v. 6), verso il quale sono responsabili. Generalmente, la disposizione a giudicare gli altri è sempre la prova che conosco male il mio cuore. Infatti, se sono veramente convinto dell’orrore di me stesso e dal sentimento della grazia di Dio che mi sopporta, ogni spirito di superiorità scompare dai miei pensieri. D’altronde, posso io ergermi giudice dal momento che comparirò presto dinanzi al tribunale di Dio (v. 10) pur essendo già giustificato? Non solo non devo giudicare i moventi del comportamento altrui, ma devo vegliare per non scandalizzare gli altri col mio. Sono esortato ad astenermi da ciò che potrebbe distruggere (il contrario di edificare) un altro credente. Per questo il v. 15 mi offre l’argomento decisivo: questo fratello è «colui per il quale Cristo è morto».




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Capitolo 14, versetti da 19 a 23
Capitolo 15, versetti da 1 a 13

Questi versetti continuano il soggetto dei nostri rapporti con gli altri credenti. Oltre all’avvertimento di non scandalizzarli, troviamo alcune esplicite raccomandazioni:

  1. Ricercare «le cose che contribuiscono alla pace e alla mutua edificazione» (v. 19). Ora, le critiche tendono al risultato opposto.
  2. Sopportare, essenzialmente con la preghiera, le debolezze dei deboli (il che non significa affatto essere indulgenti verso i peccati), ricordandoci che anche noi abbiamo un grande bisogno di sopportazione da parte dei nostri fratelli per le nostre debolezze.
  3. Non ricercare ciò che ci fa piacere, ma ciò che farà del bene al nostro prossimo. Seguiremo così le orme del perfetto Modello (v. 2,3).
  4. Sforzarsi d’avere un medesimo sentimento perché la comunione nel servizio dell’adorazione non sia turbata (v. 5,6) e «accogliere» gli altri con la stessa grazia che ci ha accolti (v. 7).

 

Sottolineiamo gli attributi dati in questo capitolo 15 all’«Iddio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo» (v. 6). Egli è «l’Iddio della pazienza e della consolazione» (v. 5) e ce le dispensa mediante la sua Parola (v. 4). È anche «l’Iddio della speranza» e vuole che in questa abbondiamo (v. 13). Infine il v. 33 lo designa come l’Iddio della pace che vuole stare con tutti noi.




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Capitolo 15, versetti da 14 a 33

L’apostolo è sicuro che ci sono «buone cose» nei cristiani di Roma (v. 14). Presumere il bene nei nostri fratelli, significa confidare in Cristo che è in loro. Significa anche stimolarli a mantenersi a quel livello.

Con toccante umiltà, Paolo non annuncia la sua visita ai Romani come se le sue esortazioni fossero loro necessarie, ma al contrario riconoscendo la loro capacità di esortarsi l’uno con l’altro (v. 14). E nemmeno come se loro dovessero avere l’onore della sua presenza, bensì mettendo in rilievo il suo personale desiderio di gioire della loro presenza (v. 24 alla fine). Infine, il grande apostolo scrive ai suoi fratelli di Roma di aver bisogno delle loro preghiere (v. 30).

Spinto dallo zelo per l’evangelo, Paolo aveva spesso cercato di recarsi a Roma (v. 22). Ma Dio, nella sua saggezza, non glielo aveva permesso, perché questa capitale del mondo antico non doveva diventare il centro della sua opera. Bisognava che la chiesa di Roma non potesse vantarsi, in seguito, d’esser stata fondata da un apostolo per elevarsi al di sopra delle altre assemblee, come non ha mancato, purtroppo, di fare più tardi. La vera Chiesa è la capitale celeste ed eterna della gloria e delle vie di Dio.




Romani

Capitolo 16, versetti da 1 a 16

Il capitolo 12 insegnava quali dovevano essere la consacrazione ed il servizio cristiani: il capitolo 16 ce ne mostra la pratica nei cari credenti di Roma ai quali l’apostolo indirizza i suoi saluti. Abbiamo qui, come qualcuno ha scritto, «una pagina-esempio del libro dell’eternità. Non vi è un solo atto del servizio che rendiamo al nostro Signore, che non sia messo per iscritto nel suo libro; e non solo la sostanza dell’atto, ma anche il modo in cui è fatto» (C.H.M.). È così che al v. 12, Trifena, Trifosa e la cara Perside non sono menzionate insieme, perché se le prime due si affaticavano nel Signore, la terza si era «molto affaticata», e i loro servizi non sono confusi. Tutto è apprezzato e registrato da Colui che sa tutto nei minimi particolari.

Paolo, da parte sua, non dimentica ciò che è stato fatto per lui (fine del v. 2 e 4). Ritroviamo qui i suoi «compagni d’opera» Prisca e Aquila (Atti 18). L’assemblea si riuniva semplicemente in casa loro (che contrasto con le ricche basiliche edificate in seguito a Roma!).

I saluti in Cristo contribuiscono a rafforzare i legami della comunione fraterna. Non dovremmo mai trascurare di trasmettere i saluti che siamo stati incaricati di porgere.




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Capitolo 16, versetti da 17 a 27

I motivi di gioia che Paolo trovava nei credenti di Roma (v. 19) non gli facevano perdere di vista i pericoli ai quali erano esposti. Prima di chiudere la sua epistola, li mette in guardia contro i falsi dottori, riconoscibili per il fatto che cercano di piacere a se stessi, servendo le loro ambizioni e la loro cupidigia (il loro proprio ventre: v. 18; Filippesi 3:19). Il rimedio non consiste nel discutere con «quei tali» né nello studiare i loro errori, ma nell’allontanarsi da loro, essendo semplici per quel che concerne il male (v. 17 a 19; Proverbi 19:27). Tuttavia, queste manifestazioni del male non ci lasciano insensibili. Così, per incoraggiarci, lo Spirito afferma che presto il Dio della pace triterà Satana sotto i nostri piedi (v. 20).

Molti parenti di Paolo si trovano fra i primi cristiani (v. 11, 21), frutto senza dubbio delle sue preghiere (cap. 9:3; 10:1). Che questo stimoli la nostra intercessione per i nostri cari non ancora convertiti!

Ciò che Dio si aspetta dalla nostra fede è l’ubbidienza (v. 19 e fine del 26), e ciò che la nostra fede può aspettarsi da Lui, mediante «Gesù Cristo» è la potenza (v. 25), la saggezza (v. 27) e la grazia (v. 20,24). Insieme all’apostolo diamogli gloria, esprimendogli la nostra riconoscenza e, soprattutto, viviamo per piacergli.

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