Portare più frutto

di Georges André
Pubblicato con il permesso di Edizioni Il Messaggero Cristiano

Introduzione

Il tema di cui intendiamo occuparci non è severo come può sembrare a prima vista, ma è utile e molto attuale. Spesso ci poniamo delle domande sulle circostanze difficili della nostra vita: “Perché Dio ha permesso tale avvenimento? Perché sono stato bocciato agli esami? Perché ho problemi sul lavoro? Perché mio figlio è malato? Perché questo lutto?”

A simili domande vengono date principalmente due tipi di risposte:

  1. Quella del fatalismo, tipica dell’Islam: era scritto così, non si può far altro che accettare e sottomettersi. E’ inevitabile.
  2. Quella cristiana: “Cosa mi vuole insegnare Dio?” Non si tratta di una rassegnazione passiva, ma di un’accettazione attiva di ciò che Dio permette nella vita dei Suoi, allo scopo di produrre frutto per la Sua gloria e per il loro bene.

La disciplina è un aspetto dell’opera che Dio intraprende con ognuno dei Suoi figli. Il risultato dovrebbe essere il conseguimento di una grazia finalizzata alla Sua gloria: “Il SIGNORE compirà in mio favore l’opera sua” (Salmo 138:8). “Egli eseguirà quel che di me ha decretato” (Giobbe 23:14). L’apostolo Paolo diceva: “Colui che ha cominciato in voi un’opera buona, la condurrà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù” (Filippesi 1:6). Anche Ebrei 13:21 lo conferma: “Dio… operi in voi ciò che è gradito davanti a Lui, per mezzo di Gesù Cristo”.

Romani 8:28 ci dice che “tutte le cose”, non soltanto quelle piacevoli e facili, “cooperano al bene di quelli che amano Dio”. In Giovanni 15:1-2 il Signore ci parla del Padre come di un vignaiuolo che “pota” il tralcio che dà frutto, affinché ne dia di più. Sono i frutti di Filippesi 1:11, i “frutti di giustizia che si hanno per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”.

Qui non si tratta di servizio né dei risultati di un’attività intrapresa per il Signore, ma del frutto morale e spirituale che è prodotto dalla vita di Dio in noi, sotto l’azione dello Spirito Santo.

Ebrei 12:5-13 presenta il tema di cui ora ci occuperemo. Vale la pena leggere questo brano nella sua interezza:

«Avete dimenticato l’esortazione rivolta a voi come figli : Figlio mio, non disprezzare la disciplina del Signore, e non ti perdere d’animo quando sei da lui ripreso; perché il Signore corregge quelli che egli ama, e punisce tutti coloro che riconosce come figli. Sopportate queste cose per la vostra correzione. Dio vi tratta come figli; infatti, qual è il figlio che il padre non corregga? Ma se siete esclusi da quella correzione di cui tutti hanno avuto la loro parte, allora siete bastardi e non figli. Inoltre abbiamo avuto per correttori i nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo forse molto di più al Padre degli spiriti per avere la vita? Essi infatti ci correggevano per pochi giorni come sembrava loro opportuno; ma egli lo fa per il nostro bene, affinché siamo partecipi della sua santità. È vero che qualunque correzione sul momento non sembra recar gioia, ma tristezza; in seguito tuttavia produce un frutto di pace e di giustizia in coloro che sono stati addestrati per mezzo di essa”.

CAPITOLO 1: Che cos’è la disciplina?

Il termine disciplina proviene dal greco “paidéia”, che deriva da “pais” (figlio) (nella nostra lingua lo troviamo, per esempio, all’inizio delle parole pedagogo e pediatria).

È possibile distinguere nella Parola tre accezioni di questo termine:

a. Allevare, educare

L’apostolo Paolo in Atti 22:3 ricorda di essere stato allevato ai piedi di Gamaliele.

In Tito 2:12 troviamo la grazia che ci “insegna”. Il suo effetto non consiste in un insegnamento intellettuale, ma in una formazione pratica per la vita: “Ci insegna a rinunciare all’empietà e alle passioni mondane, per vivere in questo mondo moderatamente, giustamente e in modo santo”. Che pedagogia!

In 2 Timoteo 2:25 quello che conta è di “istruire” con mansuetudine gli oppositori. Non si tratta soltanto di un insegnamento dogmatico, ma di tutto ciò che l’educazione implica  affinché colui che si oppone al pensiero di Dio sia ricondotto a “fare la Sua volontà”.

Infine, in 2 Timoteo 3:16 troviamo che la Scrittura è utile, tra le altre cose, a “educare” alla giustizia.

In Efesini 6:4 ritroviamo lo stesso termine, dove i genitori sono esortati ad “allevare” (non a lasciarli crescere!) i propri figli “nella disciplina e nell’istruzione del Signore”. È questo il significato comune del termine disciplina, che non implica soltanto educazione, ma anche correzione.

b. Correggere

E’ un aspetto che ricorre molto frequente nel libro dei Proverbi (3:11-12; 29:15; 20:30, ecc): non soltanto insegnamento, ma anche rimprovero, correzione e, se necessario, la “verga”. Una tale correzione, “sul momento”, può comportare anche dolore, pena, “tristezza” (Ebrei 12:11).

Il Padre deve “potare” il tralcio, eliminare i getti guasti e improduttivi, perché dia più frutto. L’amore del Padre, e non la Sua ira (vedi Ebrei 12:7), è il movente di una tale disciplina. Ebrei 12:6 lo sottolinea: “Il Signore corregge quelli che egli ama”. Il Padre forma i Suoi figli, non perché diventino figli, ma perché sono già Suoi. Non dimentichiamo che questa disciplina paterna si rivolge ad ognuno di noi: “tutti hanno avuto la loro parte ” (v. 8).

Qual è il Suo scopo? È il v. 10 a dircelo: “Il nostro bene, affinché siamo partecipi della Sua santità”. Il Signore non ci chiede di raggiungere una nostra forma di santità, ma ci chiama a riprodurre, nella nostra vita, la santità di cui Egli stesso ci ha resi partecipi.

I padri che disciplinano i figli si fanno “rispettare” da loro. Permettere ai bambini di fare tutto ciò che vogliono non li indurrà a quel rispetto che i figli devono avere per i loro genitori. La disciplina del “Padre degli spiriti” produce la “sottomissione” (v. 9). Essa induce a dire, come il Signore Gesù in Matteo 11:26: “Si, Padre…”. O, come Egli stesso dirà nell’ora più dolorosa della Sua vita: “Sia fatta la tua volontà” (Matteo 26:42). È anche l’insegnamento di Romani 12:2: “Affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà”.

Quando il figlio di Dio si trova sotto la disciplina del Padre celeste, ha davanti a sé due pericoli:

Uno è di disprezzare la disciplina, di non tenerne conto, di pensare che essa passerà presto e affrontarla con una sorta di stoicismo, oppure di accettarla con una rassegnazione passiva, con fatalismo. “Figlio mio, non disprezzare la disciplina del Signore” (v. 5).

L’altro pericolo è di scoraggiarsi, “perdersi d’animo” (v. 5). Proverbi 24:10 dice: “Se ti scoraggi nel giorno dell’avversità, la tua forza è poca”. Come diceva un predicatore, possiamo perderci nella selva dei “perché?”. Potremmo anche pensare, come si legge in Isaia 40:27: “Al mio diritto non bada il mio Dio”, come dire che il Signore ci dimentica ed è indifferente.

Quali sono le soluzioni? Innanzitutto pregare il Signore di liberarci da pensieri di scoraggiamento. Poi, ricercare nella Sua Parola le promesse che ci fa in vista di momenti difficili. Infine, porre attenzione alle numerose esortazioni della Scrittura che si riferiscono alla prova. Eccone alcune:

– Daniele 10:19: «“Non temere, o uomo molto amato! La pace sia con te. Coraggio! Sii forte!” Alle sue parole, riprese forza”».

– Isaia 7:4: “Guarda di startene calmo e tranquillo, non temere e non ti si avvilisca il cuore”.

– Marco 6:50: “Coraggio, sono io; non abbiate paura!” Sono le parole che il Signore rivolse ai discepoli che si affannavano a remare nella tempesta.

– Ebrei 13:5 (da Giosuè 1:5 e Salmo 118:6): «Dio stesso ha detto: “Io non ti lascerò e non ti abbandonerò”. Così noi possiamo dire con piena fiducia: “Il Signore è il mio aiuto; non temerò. Che cosa potrà farmi l’uomo?”».

– Salmo 94:19: “Quando ero turbato da grandi preoccupazioni, il tuo conforto ha alleviato l’anima mia”.

Se invece non vogliamo accettare la prova come proveniente dalla mano del Padre celeste, proveremo delusione e amarezza.

La Parola riconosce che la disciplina, “al momento”, è, o meglio sembra essere, un motivo di tristezza. In seguito, però, produce un frutto di pace e di giustizia in coloro che sono stati addestrati per mezzo di essa (Ebrei 12:11). E’ importante essere “addestrati” a ricercare quello che il Signore vuole dirci attraverso la prova, perché impariamo a capire le cose da togliere nella nostra vita, le cose da abbandonare o da giudicare, e anche le cose da fare e che abbiamo trascurato. 1 Corinzi 10:13 ci dice: “Dio è fedele… con la tentazione vi darà anche la via di uscirne, affinché la possiate sopportare”. Ma vuole che noi prendiamo le cose sul serio, analizzandole alla Sua presenza e alla Sua luce.

Come rispondono i nostri cuori al cuore di un Padre che affligge, con l’amorevole scopo di vederci produrre del frutto? Sappiamo esprimergli la nostra riconoscenza per il risultato che persegue?

Se la prova ci rimane incomprensibile, possiamo in ogni caso abbandonarci alla Sua grazia: “Sotto di te stanno le braccia eterne” (Deuteronomio 33:27).

Il frutto di pace, prodotto dalla disciplina, rende capaci di aiutare gli altri che sono nella prova: “Perciò, rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia vacillanti” (Ebrei 12:12, con riferimento a Isaia 35:3). Dopo aver fatto l’esperienza della fedeltà e dell’amore del Padre celeste, preoccupiamoci di essere in aiuto a coloro che potrebbero essere scoraggiati quando attraversano la sofferenza: “Confortate gli scoraggiati” (1 Tessalonicesi 5:14; 2 Corinzi 1:4).

c. Castigare

Il verbo “paideuo”, in alcuni passi si spinge più in là della semplice istruzione. Per esempio, in 1 Corinzi 11:32 è scritto che “quando siamo giudicati, siamo corretti dal Signore, per non essere condannati con il mondo”. In questo caso, la disciplina assume il carattere di castigo, se in noi c’è un male, più o meno grave, che non abbiamo giudicato né abbandonato. Questo castigo ci sarebbe stato risparmiato se avessimo riconosciuto la nostra colpa e ne avessimo giudicato le cause. Ma è sempre l’amore del Signore che castiga, affinché non veniamo condannati.

Il pensiero del giudizio di sé spinge Davide a dire, alla fine del Salmo 139: “Esaminami, o Dio, e conosci il mio cuore… Vedi se c’è in me qualche via iniqua” (v. 23-24). All’inizio aveva detto: “Tu mi conosci…” (v. 2-3); e la conclusione è: “Esaminami”, vale a dire scrutami fin nell’intimo del mio cuore. L’esperienza è talvolta dolorosa, come quella di Giobbe che dice ai suoi amici: “Sarà un bene per voi quando egli vi scruterà a fondo?” (13:9). Ma una tale prova indurrà ad essere guidati “per la via eterna” (Salmo 139:24).

In Apocalisse 3:19, come ultima esortazione alla chiesa di Laodicea che si è allontanata dal Signore, Egli dice: “Tutti quelli che amo, io li riprendo e li correggo; sii dunque zelante e ravvediti”.

Non ogni prova è un castigo. Le vie di Dio, quando disciplina, hanno anche in vista la formazione o la correzione, ma sempre con l’intento di fare del bene e di rendere più reale la vita spirituale nei Suoi figli.

Altre prove, invece, sono soltanto “per la gloria di Dio”, come nel caso dell’uomo cieco fin dalla nascita (Giovanni 9:3) e di Lazzaro (Giovanni 11:4).

Molto spesso una grande testimonianza è resa alla gloria del Signore da coloro che attraversano grandi sofferenze.

d. Con quale scopo? “Per farti, alla fine, del bene”

Il cap. 8 del Deuteronomio, in particolare i v. 2-6 e 14-17, illustra, nella storia di Israele, tutto il valore della disciplina. Queste cose sono state scritte per servirci da avvertimento, afferma 1 Corinzi 10:11. È dunque importante tenerle in considerazione. L’Eterno dice al Suo popolo: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare… nel deserto”.

Ci sono delle tappe nella vita (un anniversario, una fine d’anno, un giorno particolare) in cui siamo chiamati a considerare il cammino che abbiamo dovuto percorrere. Una duplice esperienza può aver segnato la strada percorsa: da un lato, le situazioni che Dio ha permesso per umiliarci e metterci alla prova, per sapere quello che avevamo nel cuore; dall’altro, tutte le sollecitudini della bontà divina: “Ti ha nutrito di manna… il tuo vestito non ti si è logorato addosso, e il tuo piede non si è gonfiato… ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima”.

Questa disciplina paterna e i benefici del Suo amore hanno scopi precisi:

  • affinché non avvenga che il tuo cuore si insuperbisca (v. 14)
  • che tu non dimentichi il Signore, il tuo Dio (v. 14)
  • che tu non dica in cuor tuo: “La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno procurato queste ricchezze” (v. 17).

Un altro scopo della prova è sottolineato al v. 3: “Egli ti ha fatto provare la fame… per insegnarti che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del SIGNORE”. Aver fame implica un’insoddisfazione, un bisogno, una scontentezza, che Dio permette per indurci a comprendere che solo le realtà spirituali sono in grado di placare questa “fame”. È l’esperienza descritta in 2 Corinzi 4:16-18 : “Non ci scoraggiamo… mentre abbiamo lo sguardo intento non alle che si vedono; poiché le cose che si vedono sono per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne”.

La conclusione di tutto il capitolo è quella del titolo che gli abbiamo dato: “Per farti, alla fine, del bene” (v. 16). L’umiliazione, la prova, la fame, non hanno avuto altro scopo che quello di portare a compimento l’opera che Dio aveva iniziato nei cuori. Il salmista lo poteva affermare: “È stato un bene per me l’afflizione subita” (Salmo 119:71). “Dio agisce in mio favore (oppure: conduce tutto a buon fine per me)” (Salmo 57:2).

La “verga” del Pastore, per ricondurre la pecora che si smarrisce, non è forse nella Sua mano uno strumento di consolazione?

Illustreremo questa disciplina attraverso alcuni esempi biblici:

– Giobbe: la disciplina per conoscere il proprio cuore.

– Elia, Giona e Giovanni (detto Marco): la disciplina e la reintegrazione.

– Eli, Elimelec, Naomi e Abramo: la disciplina nella famiglia

– I Recabiti (Geremia 35): La disciplina personale, trattata in 1 Corinzi 9:24-27 e 1 Corinzi 1: 31-32.

– L’apostolo Paolo: la disciplina preventiva, in relazione con il ministero.

CAPITOLO 2: Giobbe. La disciplina per conoscere il proprio cuore

Uno degli scopi del lungo cammino nel deserto era di condurre il popolo a “sapere quello che aveva nel cuore” (Deuteronomio 8:2), quel cuore che Dio soltanto sonda a fondo: “Il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno; che potrà conoscerlo? «Io, il SIGNORE, che investigo il cuore, che metto alla prova le reni, per retribuire ciascuno secondo le sue vie»” (Geremia 17:9-10). Davide, il salmista, pregava Dio di sondare il suo cuore, di conoscere i suoi pensieri, affinché l’eventuale via iniqua in cui poteva essersi incamminato lasciasse il posto alla via eterna (Salmo 139).

È l’esperienza fatta da Ezechia quando, all’apice della sua carriera, “Dio lo abbandonò per metterlo alla prova e conoscere tutto quello che egli aveva nel cuore” (2 Cronache 32:31). Anche la storia di Giobbe è molto significativa. La Parola di Dio dedica un libro intero per far capire a lui e a tutti noi l’importanza di giudicare se stessi e di abbandonarsi alla grazia di Dio (42:6).

Precisiamo che la disciplina che Giobbe dovette attraversare non era un castigo, come i suoi amici a torto credevano. Dio se ne è servito per mettere in evidenza il sentimento di propria giustizia che si celava nel suo cuore; ed era quello l’unico mezzo per condurlo alla vera benedizione. Parlando di Giobbe, Giacomo 5:11 dice: “Conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è pieno di compassione e misericordia”.

a. Giobbe benedetto

La Parola afferma e ripete che Giobbe era un uomo integro e retto, che temeva Dio e fuggiva il male. Dio stesso lo definisce “mio servo” (v. 8). Egli era benedetto nella sua famiglia: i sette figli e le tre figlie sembra che godessero di una buona reciproca armonia. Aveva successo nelle sue imprese: il bestiame si moltiplicava, i campi rendevano bene. La sua condotta era esemplare: si prendeva cura dell’orfano e della vedova, e praticava l’ospitalità. Era una persona stimata da tutti (29:7 e seguito).

Cosa mancava dunque a questo patriarca? Anche durante la prova Giobbe non attribuisce a Dio nulla che possa suonare blasfemo, non pecca in alcun modo con le sue labbra; mantiene “la sua integrità”, ma di questa sua integrità aveva un’eccessiva consapevolezza: “Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni” (27:6)! E ancora: “Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c’è iniquità in me” (33:9).

Dei suoi figli, Giobbe diceva: “Può darsi che i miei figli abbiano peccato e abbiano rinnegato Dio in cuor loro” (1:5). Non lo sfiorava nemmeno il pensiero che lui stesso poteva aver parlato contro Dio!

In che modo dunque l’Eterno intende agire per indurre Giobbe a riconoscere l’intimo del suo cuore? È il tema di tutti i 39 capitoli del libro, molto più numerosi di quelli scritti per raccontare la vita di Abramo o di Giuseppe!

b. Giobbe messo alla prova (da 1:13 a 2:1-13)

Le prove piombano su Giobbe. È spogliato dei suoi beni e profondamente colpito negli affetti per la morte di tutti i suoi dieci figli. Ma il suo atteggiamento e le sue parole sono ammirevoli: “Il SIGNORE ha dato, il SIGNORE ha tolto; sia benedetto il nome del SIGNORE” (1:20). Viene poi colpito nel corpo; la malattia, “un’ulcera maligna dalla pianta dei piedi alla sommità del capo”, lo tormenta (2:7). Satana si serve di sua moglie per spingerlo a maledire Dio, ma lui resiste e non pecca con le sue labbra.

Non si tratta di un susseguirsi tragico di disgrazie casuali, di un accumularsi di circostanze sfortunate. No, la Parola ci mostra che è Dio che guida ogni cosa. È Lui che attira l’attenzione di Satana su Giobbe, e che mette dei limiti all’agire del nemico (1 Corinzi 10:13)! Giobbe, nonostante le debolezze che emergeranno dal suo essere interiore, glorifica Dio di fronte a Satana. In 1 Corinzi 4:9, gli apostoli sono dati “in spettacolo” anche agli angeli, quale testimonianza della loro fede per la gloria di Dio. La stessa cosa si può dire dei tre giovani Ebrei, amici di Daniele, che per essere rimasti fedeli a Dio vennero gettati nella fornace infuocata (Daniele 3).

Satana è l’“accusatore dei fratelli” (Apocalisse 12:10), è il nostro “avversario” (1 Pietro 5:8). Provocò Dio contro Giobbe (1:9-11; 2:4-5), “incitò” Davide a fare il censimento del popolo (1 Cronache 21:1), “si oppose” a Giosuè, il sommo sacerdote di Zaccaria 3:1, chiese al Signore di “vagliare” Simon Pietro “come si vaglia il grano” (Luca 22:31). Tuttavia, Satana non può fare nulla che non sia Dio a permetterglelo; infatti Satana scompare presto dalla scena, lasciando il credente solo di fronte a Dio fino alla fine della prova: così fu per Giobbe (cap. 42), per Davide nell’aia di Ornan, per Giosuè rivestito di abiti magnifici, e per Pietro che alla fine fu dal Signore riabilitato.

Ma quando prende posto nel cuore, Satana non lascia la sua preda, come ha fatto con Giuda (Giovanni 13:27) o con Anania (Atti 5:3). Dio ha inviato a Paolo “un angelo di Satana per schiaffeggiarlo”, ma nonostante ciò e per effetto della grazia divina, la sua comunione con Dio si è mantenuta per tutto il corso della sua vita (2 Corinzi 12:7).

La reazione di Giobbe di fronte alla prova è ammirevole, ma la sua storia non poteva finire lì. Dio intendeva benedirlo il doppio, rivelarsi a lui personalmente, manifestare la Sua grazia e donare del vero riposo a quell’anima inquieta (3:25-26). Giobbe è un uomo d’eccezione, un’anima solitaria di cui Dio si occupa nella Sua grazia sovrana, al di fuori del popolo eletto, per formarlo e condurlo più vicino a Sé.

c. I tre amici

La moglie di Giobbe lo incita a maledire Dio. I suoi amici si accordano “per venire a confortarlo e a consolarlo” (2:11), ma nonostante le loro buone intenzioni finiscono per spingerlo all’esasperazione. Non entrano affatto nel piano di Dio e si ostinano a difendere le loro errate supposizioni.

Come questo esempio deve renderci prudenti quando facciamo visita a degli amici credenti nella prova! Spesso siamo pronti a giudicare, invece di essere cauti nell’esprimere un giudizio sulla disciplina esercitata da Dio. Quanto abbiamo bisogno di essere guidati dallo Spirito Santo, un passo dopo l’altro, parola dopo parola. Impariamo per prima cosa ad ascoltare e poi, confidando nell’aiuto del Signore, apriamo la Sua Parola per portare incoraggiamento.

Gli amici vengono a “confortare” Giobbe, ma lo spingono ad occuparsi di se stesso, a trovare in sé e nella sua vita delle motivazioni che giustifichino quella prova. È una trappola. Come faranno in seguito i fratelli e le sorelle di Giobbe, cerchiamo piuttosto di “simpatizzare” con chi soffre, di confortarlo e consolarlo (42:11), e aiutarlo a rivolgere i suoi pensieri e il suo cuore verso Dio. Eliu ha fatto così.

Per sette giorni e sette notti, di fronte a un simile dramma, i suoi amici rimangono muti, dopo aver versato molte lacrime, essersi stracciati i mantelli e cosparso il capo di polvere. “Essi vedevano che il suo dolore era molto grande” (2:13).

Dinanzi a questo silenzio che celava dei rimproveri, Giobbe non ne può più ed esplode (cap. 3): Perché? Perché? Non contesta le circostanze; le accetta dalla mano di Dio. Ma si rivolta contro i motivi di questa prova che non comprende e trova ingiusta. Da questo derivano il suo tormento e i suoi “perché”.

Ventinove capitoli ci descrivono un patriarca e i suoi amici che discutono e contestano. I tre ripetono: Dio ti castiga perché hai peccato, e Giobbe risponde: Io sono puro, non ho commesso iniquità. Spinto all’esasperazione accusa Dio di essere ingiusto e di provare quasi piacere a farlo soffrire: “… alle mie iniquità altre ne aggiungi” (14:17).

Con l’andar dei giorni il tono della discussione sale e si intensifica, mettendo in luce quell’autocompiacimento e quell’orgoglio che c’era nell’intimo del cuore di Giobbe. Egli ricorderà tutte le sue buone azioni (v. 29) e come ha saputo evitare il male. Ritenendo che Dio lo castighi a torto, chiede di potergli parlare: “Gli renderò conto di tutti i miei passi, a Lui mi avvicinerò come un principe!” (31:37).

Dopo la descrizione di questa interminabile disputa, apparentemente inutile, una sola conclusione si impone: “Qui finiscono i discorsi di Giobbe” (31:40). Ecco il primo passo per rialzarsi dopo una caduta: tacere.

d. Eliu

Durante le lunghe conversazioni di Giobbe e dei suoi amici, Eliu, molto più giovane, era rimasto in ascolto (32:11-12). Gli aspetti del suo carattere sono la pazienza, la modestia, l’umiltà. Quando prende la parola non contesta, non adula, non è parziale, ma è animato da un sentimento di rettitudine. Non ha un atteggiamento di sufficienza, ma sa porsi al livello del misero che soffre (32:6-7). Che bell’immagine del Salvatore, Uomo tra gli uomini, che si abbassa per venire in mezzo a noi “come colui che serve” (Luca 22:27)!

Eliu mostra grazia, ma anche verità. Dice con franchezza a Giobbe quali sono le sue colpe: ritenersi giusto (33:9) e accusare Dio (33:10-11, 34:5). Ma non concentra i pensieri del patriarca su se stesso; lo pone davanti al Signore.

Eliu sottolinea la grandezza di Dio (32:12) che non deve render conto dei propri atti (v. 13), che non è ingiusto, ma vuole la vera felicità dei Suoi figli (v. 14-30).

Giobbe deve dunque tacere, smettere di discutere e di contestare, e riflettere. Eliu lo avverte che è fuori strada, che il Signore permette la disciplina per mostrare “all’uomo il suo dovere” (33:23), il dovere di giudicare se stessi, unica via per ottenere la benedizione e conoscere la grazia di Dio. Egli è consapevole che “Dio soltanto lo farà cedere; non l’uomo!” (32:13).

Eliu sottolinea nuovamente lo scopo di quella disciplina: indurre il credente a riconoscere le proprie trasgressioni e ad abbandonare il male (36:9-10). Due sono le possibilità: o ascoltare e sottomettersi Dio (v. 11), e ottenere alla fine la benedizione; oppure non ascoltare e finire in disgrazia (v. 12).

Concludendo i suoi discorsi, Eliu paragona questa disciplina alle nubi, alla burrasca che Dio permette nella vita dei Suoi: “Egli carica pure le nubi di umidità, … da Lui guidate, vagano nei loro giri per eseguire i Suoi comandi… e le manda come flagello, oppure come beneficio alla Sua terra o come prova della Sua bontà” (37:11-13). Sotto l’effetto della burrasca, “il mio cuore trema – egli dice – e balza fuori dal suo posto” (37:1); “ora non si scorge la luce brillante (del sole), essa è nascosta nelle nubi”. Ma poi “il vento passa, spazza le nuvole e rende limpido il cielo” (37:21).

e. La presenza di Dio

Per la lunghezza di ventinove capitoli, Giobbe e i suoi amici hanno discusso e contestato. In sei capitoli ci sono le parole che Eliu ha rivolto a Giobbe da parte di Dio. Basteranno all’Eterno quattro capitoli per condurre a termine la Sua opera nel cuore di Giobbe. “Chi può insegnare come Lui?” (32:22).

Giobbe aveva detto: “Che l’Onnipotente mi risponda”, e Dio si abbassa fino a lui! Non subissa il Suo servo di severi rimproveri, anche se sarebbero stati giustificati, ma prende il posto dell’allievo: “Io ti farò delle domande e tu insegnami!” (38:3; 40:7). Così, pone diverse domande, alle quali Giobbe non sarà in grado di rispondere.

“Dov’eri tu quando io fondavo la terra?” (38:4). Fin dalla prima domanda, Giobbe è colto di sorpresa. Quando Dio insiste: “Colui che censura Dio ha una risposta a tutto questo?” (40:2), Giobbe non può che rispondere “Ecco, io sono troppo meschino; che ti potrei rispondere? Io mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non riprenderò la parola; due volte, ma non lo farò più” (40:4-5). Tacere era proprio la sola cosa giusta, ma l’Eterno voleva portare il suo servo fino alla confessione completa e al giudizio di se stesso; perciò deve ripetere: “Ti farò delle domande e tu insegnami! …Vuoi condannare me per giustificare te stesso?” (40:7-8).

Dio fa sfilare davanti a Giobbe alcune delle Sue creature, per terminare con quel terribile animale chiamato “leviatano” (forse il coccodrillo), la cui descrizione poetica richiama la malvagità e la potenza di Satana, quel nemico che l’uomo senza il soccorso di Dio non può vincere. “Ti ricorderai del combattimento e non ci tornerai!” (40:32).

Il Signore non desidera soltanto che Giobbe impari a tacere, ma vuole condurlo ad avere una comunione vivente con Lui. Al cospetto della grandezza dell’Onnipotente, egli sperimenterà la propria nullità e non potrà far altro che umiliarsi e pentirsi.

Che ne è di noi che non possediamo soltanto la rivelazione del Dio Creatore, ma abbiamo anche quella del “Figlio unigenito che è nel seno del Padre” che Lui ci ha fatto conoscere? (vedi Giovanni 1:18). Meglio impariamo a distoglierci da noi stessi, e più conosceremo Lui e il Suo cuore (Filippesi 3:7-10).

f. Confessione e riabilitazione (cap. 42)

Numerosi versetti ci riferiscono come Giobbe ha contestato e accusato Dio e giustificato se stesso; ma cinque versetti bastano per descrivere la confessione che gli aprirà il cammino della benedizione. “Io riconosco che tu puoi tutto e che nulla può impedirti di eseguire un tuo disegno” (v. 2). Posto davanti alla potenza del nemico, Giobbe è costretto a riconoscere che la potenza di Dio è la sua unica ancora di salvezza.

Deve anche confessare la propria ignoranza: “Sì, ne ho parlato, ma non lo capivo; sono cose troppo meravigliose per me, e io non le conosco” (v. 3). Aveva preteso di sapere tutto, di conoscere ogni cosa, ma alla presenza di Dio ha dovuto constatare di non sapere nulla. Con quanta facilità ci capita di discutere di cose per noi troppo meravigliose, quando invece un po’ di umiltà ci farebbe solo tacere!

Qual è la conclusione di Giobbe? “Ti prego, ascoltami, e io parlerò; ti farò delle domande e tu insegnami!” (v. 4). È nel silenzio e alla presenza di Dio che ascoltiamo e impariamo. Abbiamo bisogno di lasciarci correggere, istruire, formare, standocene in disparte, soli con Lui.

“Il mio orecchio aveva sentito parlare di te, ma ora il mio occhio ti ha visto” (v. 5). Non basta soltanto sentir parlare di Lui; ci vuole col Signore una relazione personale e profonda dell’anima, nel segreto. Fu la visione del giovane Isaia nel tempio che condizionò tutta la sua vita (Isaia 6); o la visione di Paolo quando ode la voce che gli dice: “Va’, perché io ti manderò lontano, tra i popoli” (Atti 22:17-21).

Giobbe, che ha osato dire “Il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni” (27:6), ora dichiara: “Mi ravvedo (oppure “ho orrore di me”), mi pento sulla polvere e sulla cenere” (42:6). Egli conosce ora il proprio cuore, e conoscerà soprattutto Dio e la Sua grazia, quella “sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è pieno di compassione e misericordioso” (Giacomo 5:11).

Il patriarca, raggiunto lo scopo finale voluto Dio, è ora abbondantemente benedetto. Ha riconosciuto la Sua grandezza e il Suo amore; si è reso conto della propria condizione di uomo peccatore e si è abbandonato alla grazia divina.

Restava ancora un atto da compiere: perdonare gli amici. Così Giobbe prega per loro. E “quando Giobbe ebbe pregato per i suoi amici, il SIGNORE lo ristabilì nella condizione di prima” (v. 10). Quegli uomini l’avevano portato all’esasperazione, non avevano parlato di Dio come si conveniva, avevano detto che le sofferenze del loro amico erano un castigo di Dio… Che prudenza dobbiamo avere nei nostri giudizi personali! Il Signore Gesù, in Luca 6:36-37, ci dice: “Siate misericordiosi come misericordioso è il Padre vostro… non condannate e non sarete condannati”. I tre amici di Giobbe hanno dovuto imparare la stessa lezione del loro amico e accettare di offrire un “olocausto” per beneficiare della stessa propiziazione (33:24) che ha reso Giobbe “gradito” agli occhi di Dio (42:8).

Così il SIGNORE rende a Giobbe il doppio di tutto quello che gli era appartenuto… ma non il doppio dei figli. Infatti, se tutto il bestiame era definitivamente perso, i figli, per i quali il loro padre aveva interceduto offrendo sacrifici, non erano perduti poiché Dio li aveva chiamati a Sé. Essi attendevano il giorno di quella risurrezione di cui Giobbe aveva potuto dire : “E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno i miei occhi, non quelli di un altro” (19:26-27).

CAPITOLO 3: Elia, Giona, Giovanni: disciplina e reintegrazione nel servizio

Il servizio del Signore può esporci a insidie e a pericoli. La vita dei tre uomini sopra citati ce ne offre un esempio. Il ministero di Elia ha subìto una battuta di arresto a causa dell’orgoglio: “Sono rimasto io solo”, si lamentava il profeta (1 Re 18:22; 19:10, 14); quello di Giona è stato ostacolato dalla preoccupazione della sua reputazione personale. Giovanni (detto Marco) ha abbandonato l’opera per paura delle difficoltà e della sofferenza.

Ma la fedeltà del Padre celeste ha voluto, attraverso la disciplina, liberare i Suoi servitori dall’insidia in cui erano caduti e rialzarli.

Il nostro compito è pregare per i servitori del Signore particolarmente esposti agli sforzi di Satana finalizzati ad ostacolare il loro ministero (“il laccio del diavolo” – 1 Timoteo 3:7).

a. Elia

– Il primo dei segreti del suo servizio è la comunione con Dio. Tutto il ministero del profeta è caratterizzato dalle parole “il SIGNORE che io servo” (1 Re 17:1), da lui spesso ripetute nella prima parte della sua vita.

– Il secondo è che Elia era un uomo di preghiera. Giacomo 5:17 ci riferisce che Elia “pregò intensamente che non piovesse”. Non era quella la sua occupazione fondamentale presso il torrente Cherit? Per risuscitare il figlio della vedova di Sarepta egli prega (1 Re 17:20-21). Presso l’altare del monte Carmelo supplica pubblicamente l’Eterno: “Rispondimi SIGNORE, rispondimi, affinché questo popolo riconosca che tu sei Dio” (v. 37). Quando si trattò di far piovere di nuovo, dopo che il popolo si era umiliato, “Elia salì in vetta al Carmelo; e, gettandosi a terra, si mise la faccia tra le ginocchia” (v. 42) per sette volte di seguito.

– Il terzo segreto per un servizio benedetto è la dipendenza, la sottomissione che ha dimostrato ogni volta che Dio gli ha detto “Va’” (1 Re 17: 3, 9; 18:1; 19: 15). Elia è stato uno strumento di Dio per disciplinare il Suo popolo allo scopo di ricondurlo a Lui. Questa disciplina è consistita in un primo tempo in anni di siccità, seguiti poi dal trionfo sul monte Carmelo nel momento del confronto del profeta dell’Eterno coi profeti di Baal.

Elia soffre col popolo di Dio. La sua fede viene messa alla prova, prima nella solitudine presso il torrente Kerit, poi nella semplicità di vita a Sarepta. All’epoca della vittoria sul Carmelo, egli deve, tutto solo, far fronte ai quattrocentocinquanta profeti di Baal, ai quattrocento profeti di Astarte, al re Acab e a tutte le sue forze. Lo dice egli stesso: “Sono rimasto io solo dei profeti del Signore, mentre i profeti di Baal sono in quattrocentocinquanta” (1 Re 18:22).

Era vero, era solo come lo erano stati un tempo Giosuè e Caleb, soli di fronte ai dieci loro compagni che screditavano il paese esplorato e di fronte a tutto Israele che mormorava (Numeri 13). Ma questi due uomini soffriranno insieme al popolo e lo accompagneranno nella lunga peregrinazione attraverso il deserto. Per loro, l’incomprensione era una scuola, una formazione, una preparazione per la missione alla quale Dio li chiamava. Ma una disciplina di diverso genere attendeva Elia. Nel cuore del profeta una radice di amarezza era germogliata: “io solo”, io solo fedele, io solo dalla parte di Dio. Tale è l’atteggiamento di sufficienza e anche di delusione per un ministero apparentemente privo di frutto. Che contrasto col Signore Gesù che poteva affermare: “Io sono mansueto ed umile di cuore” (Matteo 11:29).

La disciplina di Dio è dunque necessaria per rivelare lo stato del cuore del Suo servitore e guarirlo.

b. La ginestra (1 Re 19:1-9)

Dopo la prova del Carmelo, Elia avrebbe dovuto mettersi subito in disparte. La stanchezza fisica e psichica imponeva il riposo. Avere un grande successo, un bel risultato e l’approvazione delle folle può essere pericoloso se il servitore non si rende conto di aver bisogno di ritrovarsi solo e in disparte con Dio affinché il suo essere interiore possa essere rinnovato. Non facendolo volontariamente, Elia vi è costretto dalle minacce di Izebel. Un lungo viaggio di circa centottanta chilometri lo conduce a sud del paese fuori dalla portata da quella malvagia regina. Poi fugge ancora più lontano per un’altra giornata di cammino, nel deserto; e alla fine si siede sotto una ginestra e chiede di morire: “Basta! Prendi la mia anima, o SIGNORE, poiché io non valgo più dei miei padri” (v. 4). Aveva pensato di valere più di loro? Evidentemente sì. È la stessa insidia che ha fatto inciampare Pietro che asseriva: “Quand’anche tutti fossero scandalizzati, io però non lo sarò!” (Marco 14:29).

Con questo sembrerebbe che la carriera del profeta sia finita. Ha ceduto allo scoraggiamento e non pensa ad altro che a morire. Si corica e si addormenta. Ma la grazia di Dio, la disciplina del Padre, sta per intervenire. Presso il torrente Kerit erano i corvi a portargli il pane e la carne, e qui, nel deserto, un angelo è mandato per nutrirlo e soprattutto per guidarlo.

A due riprese il messaggero celeste lo tocca e gli dice: “Alzati e mangia”. Elia guarda, e vede “vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre calde e una brocca d’acqua” (v. 5). Un tempo una focaccia simile veniva offerta nel tabernacolo ed era figura delle sofferenze di Cristo. Ora, nel deserto, lontano dal tempio e lontano dall’altare dei sacrifici, l’angelo si trova là per fortificare l’animo del profeta e restituirgli le forze perché possa percorrere un cammino “troppo lungo” per lui (v. 7).

In quaranta giorni e quaranta notti Elia, rinvigorito da quel cibo, giunge al monte di Dio, vicino a Lui. Dio ha voluto fortificarlo nel suo essere interiore, prima di quell’incontro memorabile in cui si troverà con Lui faccia a faccia.

Per Giobbe ci sono voluti mesi di sofferenza per rivelare la condizione del suo cuore e condurlo alla presenza di Dio. Per Elia fu necessario un mese e mezzo, per Giona tre giorni e tre notti nella profondità del mare. Qualunque sia la durata, qualsiasi prova sembra molto lunga quando l’anima non gode della comunione del suo Signore.

c. Oreb (1 Re 19:10-18)

Nella solitudine del monte di Dio, forse nella caverna in cui si era rifugiato Mosè quando l’Eterno gli passò davanti (Esodo 32:22), la parola divina si rivolge al servitore scoraggiato: “Che fai qui, Elia?”

Il profeta esterna l’amarezza del suo cuore e accusa il popolo: “I figli di Israele hanno abbandonato il tuo patto, hanno demolito i tuoi altari ed hanno ucciso con la spada i tuoi profeti… e cercano di togliermi la vita”. L’apostolo Paolo, in Romani 11:2-4, ricorda quest’episodio; è l’unica colpa di un uomo di Dio dell’Antico Testamento che sia ricordata nel Nuovo Testamento! Elia ha fatto ricorso a Dio contro Israele! Che contrasto con Mosè che sullo stesso monte, in circostanze ancora più gravi, aveva interceduto per gli Israeliti colpevoli e increduli, arrivando persino a desiderare, se fosse stato possibile, di offrirsi in riscatto per loro.

Ma Elia non si accontenta di accusare gli altri, lui giustifica se stesso! Tutto l’orgoglio del suo cuore si manifesta: “Io sono stato mosso da una grande gelosia per il SIGNORE, per il Dio degli eserciti… sono rimasto io solo” (v. 10).

Così l’Eterno fa passare davanti a lui tutta la Sua potenza in giudizio: il vento forte e impetuoso, il terremoto, il fuoco: ma in quegli elementi scatenati Dio non c’era. Alla fine una voce gli parla, quella voce dolce e lieve che Mosè aveva già udito in quel medesimo luogo. È la voce della grazia, sconosciuta a quel severo profeta. La domanda gli viene ripetuta: “Che fai qui?”, ed Elia ricomincia con i suoi soliti discorsi; non ha ancora compreso quello che Dio vuole dirgli. La disciplina non ha ancora prodotto il suo frutto.

La voce dell’Eterno deve dirgli allora, come un tempo ad Agar (Genesi 16:9): “Va’, rifai la strada del deserto”. Ritorna per il cammino che hai fatto per venire. Hai creduto di essere l’unico profeta? Io ho un altro profeta di riserva, non ho più bisogno di te. Tu ungerai Eliseo, figlio di Safat “come profeta, al tuo posto”. Hai creduto di essere l’unico rimasto fedele? Ebbene, io mi sono riservato in Israele “settemila uomini, tutti quelli il cui ginocchio non si è piegato davanti a Baal”.

Quale sarà la reazione di Elia? Si riterrà del tutto abbandonato e, scoraggiato, condurrà un’esistenza monotona fino alla morte? No, la disciplina sta per ottenere i suoi risultati.

d. Reintegrazione

Senza indugiare, Elia ritorna e trova Eliseo. Si avvicina a lui e gli getta addosso il suo mantello (v. 19). Senza gelosia, si dimette dalla sua funzione di profeta e la trasmette ad Eliseo. Il giovane vuole seguirlo, ma Elia gli risponde: “Va’ e torna”, cioè non ti chiedo di seguirmi. Ma Eliseo si alza, segue il suo maestro e lo serve con umiltà, versando l’acqua sulle sue mani (2 Re 3:11). Eliseo sarà formato dal grande profeta d’Israele e, nel momento da Dio stabilito, raccoglierà quel mantello che al tempo della sua giovinezza gli era stato messo sulle spalle (2 Re 2:13).

Elia può essere ancora uno strumento di Dio, pieno di energia spirituale, per annunciare ad Acab il giudizio che l’avrebbe colpito a causa della sua condotta verso Nabot. La Parola dell’Eterno viene da lui presentata con una potenza tale che Acab si umilia e fa l’esperienza della grazia di Dio (1 Re 21:27-29). Questa energia spirituale si manifesta anche verso Acazia, figlio di Acab. Il profeta non ha timore di denunciare l’empietà di Acazia, che l’aveva indotto a consultare Baal-Zebub “come se in Israele non ci fosse un Dio da poter consultare” (2 Re 1:15-17).

E alla fine, che trionfo per Elia! Dopo aver percorso, simbolicamente, tutta la storia di Israele, da Ghilgal a Betel, da Betel a Gerico, poi oltre il Giordano, Elia non morirà, ma sarà rapito in cielo su un carro di fuoco! Era l’approvazione di Dio al suo lungo servizio di profeta.

e. Giona

Ci troviamo davanti alla strana personalità di un uomo per il quale la propria reputazione di profeta (2 Re 14:25) aveva più importanza dell’ubbidienza alla chiamata di Dio e della salvezza delle anime! Egli rinnega la missione divina di annunciare il giudizio perché ha troppa paura che un eventuale pentimento smentisca la sua profezia. Infatti, se Dio avesse fatto grazia ai Niniviti (com’è poi avvenuto), mentre Giona aveva preannunciato la distruzione della città, tutti avrebbero potuto affermare che la sua predicazione era falsa!

Così, anziché rispondere alla chiamata dell’Eterno, egli fugge lontano. Scende a Iafo, si imbarca su una nave, poi scende in fondo alla stiva della nave dove, coricatosi, dorme “profondamente” senza nemmeno accorgersi della tempesta che, per colpa sua, si è scatenata. Che posto per un profeta dell’Eterno! La disciplina deve allora esercitarsi verso di lui, strumento di disgrazia per i suoi compagni di viaggio, contrariamente all’apostolo Paolo che, in Atti 27, in piena burrasca, si era rivelato strumento di salvezza per i suoi compagni di navigazione.

Questa disciplina si svolge in più tappe:

– La tempesta: che non ha effetto perché Giona dorme in fondo alla stiva e non si accorge di nulla.

– Le domande dei marinai: “Perché hai fatto questo?” (1:10). Giona infatti li aveva messi al corrente che fuggiva dalla presenza del Signore; ma questo non lo preoccupava più di tanto, mentre loro erano terrorizzati. Giona allora deve confessare: “Io so che questa gran tempesta vi piomba addosso per causa mia… Prendetemi  gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi” (v. 11 e 12). La confessione è spesso difficile, ma non bisogna esitare a farla quando è necessaria.

– Giona è ora in balia dei flutti. La grazia di Dio interviene facendo venire un grosso pesce per inghiottirlo, cioè per preservarlo dalla morte per annegamento. Per la durata di tre giorni e tre notti negli abissi del mare, dal fondo della sua angoscia, egli grida all’Eterno.

La disciplina lo ha condotto alla presenza di Dio. Solo, in una situazione tale che non esita a definire il “soggiorno dei morti” (2:3), Giona grida dal profondo della sua angoscia, grida dall’abisso, dal cuore del mare. Nella sua disperazione, mentre la sua vita veniva meno, si ricorda del SIGNORE. Malgrado tutto, al profeta non viene meno la fiducia in Dio, tanto che termina la sua supplica con queste parole: “La salvezza viene dal SIGNORE” (2:10).

La disciplina avrà portato il suo frutto? Purtroppo no! Giona va a Ninive e predica: “Ancora quaranta giorni, e Ninive sarà distrutta”. La sua profezia tocca la coscienza del re e del popolo, che si pentono; il giudizio viene sospeso, e Dio li perdona. Ma il profeta giudica pessima questa soluzione e ne è irritato; dimostra di non aver nessuna comprensione della grazia, e rinfaccia a Dio di essere misericordioso e lento all’ira!

Subentra allora la quarta fase della disciplina, simile ad una lezione di una scuola d’infanzia. L’Eterno fa crescere un ricino che faccia ombra sul capo del predicatore, “per calmarlo della sua irritazione” (4:6). Con una gioia spontanea Giona prova meraviglia per quel riparo ed è felice. Ma l’indomani la pianta si secca e il povero profeta è irritato per quella disgrazia. L’Eterno allora dovrà dirgli: “Tu hai pietà del ricino… e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone?” (4:10-11).

Giona è pieno di sollecitudine per ciò che riguarda se stesso, ma è insensibile verso le anime che vanno incontro al giudizio di Dio. Di fronte al biasimo divino egli tace. Nella Sua fedeltà, Dio aveva “preparato” ogni cosa per il Suo servitore: la burrasca, il pesce, il ricino, il verme, il vento orientale… Tutte cose che non erano capitate per caso, ma erano state nella mano di Dio strumenti di quella disciplina che il profeta faceva così tanta fatica a comprendere e ad accettare.

I marinai se ne vanno su un mare ormai calmo. I Niniviti sono liberati dal giudizio. Ma Giona, irritato, chiede di morire! Tuttavia, un’opera ha dovuto infine realizzarsi in lui: sotto l’azione dello Spirito di Dio non ha vergogna di scrivere la sua storia e di riconoscere i suoi errori!

f. Giovanni (detto Marco)

Il giovane Giovanni, cugino di Barnaba, impegnatosi troppo presto nel servizio, viene fermato dal timore degli ostacoli e della persecuzione. Che contrasto con Gesù che “si mise risolutamente in cammino per andare a Gerusalemme” (Luca 9:51) e non indietreggiò mai di fronte alle sofferenze che sapeva di dover incontrare.

L’apostolo Paolo aveva detto a Timoteo: “Sopporta anche tu le sofferenze” (2 Timoteo 2:3), “sopporta le sofferenze” (4:5). Ci sono delle promesse per coloro che si affidano al Signore: il Salmo 5:11 ci dice: “Si rallegreranno tutti quelli che in te confidano… tu li proteggerai”.

Una buona volontà giovanile non basta per impegnarsi con perseveranza nel servizio. Solo l’amore per il Signore può dare impegno e costanza. Né l’influenza di persone ben intenzionate, né l’imitazione di altri servitori, né l’entusiasmo iniziale bastano per resistere nel lavoro del Signore. È dunque necessario, prima di intraprenderlo, mettersi a sedere e calcolare la spesa, come si fa prima di costruire una torre (Luca 14:28).

È bene prestare attenzione agli incoraggiamenti che il Signore dà sia direttamente sia per mezzo di altri fratelli. Ebrei 10:24 ci esorta a “incitarci all’amore e alle buone opere”. In Colossesi 4:17 l’apostolo Paolo fa dire ad Archippo: “Bada al servizio che hai ricevuto nel Signore, per compierlo bene”. In Matteo 21:28 il padre dice al figlio: “Figlio, va’ a lavorare nella vigna oggi”. In Matteo 20:6 il “padrone” biasima coloro che se ne stavano sulla piazza della città “tutto il giorno inoperosi”.

Il giovane Giovanni aveva tuttavia iniziato bene. Nella casa materna (Atti 12:22), sotto una buona influenza, aveva vissuto una giovinezza protetta. In un clima di pietà dove si praticava la preghiera, era cresciuto con buone abitudini. Così, Barnaba e Saulo potevano “prenderlo con loro” quando ebbero compiuto la loro missione a Gerusalemme (Atti 12:25). Più tardi Giovanni li segue come aiutante (Atti 13:5); lui che era abituato ad essere servito (Atti 12:13), impara a servire .

Perché dopo un po’ di tempo si ferma? Perché, “separatosi da loro, ritornò a Gerusalemme”? (Atti 13:13). A farlo desistere era la preoccupazione della casa materna o il timore delle persecuzioni, delle fatiche e dei rischi? Non è precisato, ma il Signore aveva avvertito i Suoi: “Nessuno che abbia messo mano all’aratro e poi volga lo sguardo indietro è adatto per il regno di Dio” (Luca 9:62).

La disciplina paterna deve allora esercitarsi verso Giovanni detto Marco. Il Signore vuole che sia messo in disparte per un certo tempo. Quando Barnaba, in Atti 15:38, desidera prenderlo nuovamente con sé per un viaggio che lo porterà, con Paolo, a visitare le assemblee, Paolo si oppone e ne consegue un’accesa disputa tra i due servitori. Forse Paolo si rendeva conto che la disciplina non aveva portato ancora il suo frutto; ma Barnaba si ostina e parte con il giovane.

Quante conseguenze per una falsa partenza! Marco aveva ceduto con leggerezza a un entusiasmo passeggero, e i due apostoli lo avevano preso forse con troppa facilità come aiutante; ma le conseguenze sono evidenti.

Molto più tardi, però, Paolo in carcere avrà al suo fianco proprio lui, Marco, e dà istruzioni alle chiese di riceverlo se si reca da loro (Colossesi 4:10). In Filemone 24, lo associa ai suoi compagni d’opera. In 2 Timoteo 4:11, infine, dichiara che gli è utile per il ministero.

Abbiamo qui l’esempio della bella scuola di un uomo istruito e formato dalla disciplina che è stato in seguito usato dallo Spirito Santo per scrivere un Vangelo (il Vangelo di Marco) che presenta il Signore come il Servitore perfetto.

CAPITOLO 4: Eli, Naomi, Abramo: la disciplina nella famiglia

Eli, Naomi e Abramo sono tre antichi personaggi, ciascuno col suo carattere, il suo ambito famigliare e la disciplina alla quale Dio, nella Sua grazia, li ha sottoposti. Quelle situazioni lontane trasposte nella nostra vita di oggi risultano attualissime. Per mezzo di esse possiamo ricordare alcuni insegnamenti che Dio intende darci.

Consideriamo in primo luogo ciò che la Parola di Dio insegna riguardo alla “casa del servitore di Dio”. La Bibbia ci parla da un lato della “casa di Dio” e dall’altro di “quella del suo servitore”.

Quanto al comportamento da tenere nella “casa di Dio, che è la chiesa del Dio vivente” (1 Timoteo 3:15), le istruzioni sono chiare. In essa ci dev’essere santità, spiritualità e pietà. Il suo carattere dipende dallo stile di vita di coloro che la compongono. I privilegi di appartenere alla Chiesa e la gioia di un’assemblea dove Cristo è il centro non escludono la responsabilità personale.

Ma anche i privilegi e le responsabilità che si riferiscono alla “casa del servitore” sono chiaramente presentati nella Scrittura. In Luca, tre passi lo sottolineano:

– Marta “ospitò Gesù in casa sua” (10:38).

– A Zaccheo il Signore disse: “Oggi devo fermarmi a casa tua” (19:5).

– I due discepoli di Emmaus lo pregarono perché rimanesse con loro e “lo trattennero” (24:29).

La santità si addice alla casa di un figlio di Dio, perché lì c’è il Signore. Giacobbe ce ne offre l’esempio (Genesi 35:2-3): quando Dio lo esorta ad andare a Betel, a Giacobbe sorge una domanda: la mia casa è pura per andare alla casa di Dio? In realtà non lo era, così Giacobbe dice ai suoi: “Togliete gli dèi stranieri che sono in mezzo a voi… e cambiatevi i vestiti”. Non solo lui, ma anche la sua famiglia doveva essere pronta a rispondere alla chiamata di Dio e a presentarsi davanti a Lui.

Alla fine della sua vita, Giosuè può dire: “Quanto a me e alla mia casa, serviremo il SIGNORE” (Giosuè 24:15). Non basta che il padre sia fedele. Il suo compito è di prendere con sé i propri figli per introdurli nella casa di Dio. Che benedizione c’è per la famiglia di un uomo fedele, legato al Signore! “Conceda il Signore misericordia alla famiglia di Onesiforo, perché egli mi ha molte volte confortato” (2 Timoteo 1:16).

In 1 Timoteo 3:4, l’anziano (o vescovo) è esortato a “governare bene la propria famiglia”. Non possiamo trovare delle scuse. Perché questo si realizzi, è necessaria tutta la grazia di Dio. Applichiamo alla casa del servitore l’esortazione di Apocalisse 3:20: “Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me”. Apriamo la porta per lasciar entrare il Signore e godere, nell’intimità della famiglia, la Sua preziosa comunione.

a. Eli

La sua storia non è avvincente, tuttavia rimane esemplare nella nostra epoca di lassismo, nella quale i genitori non osano più rimproverare né correggere i propri figli.

Eli, il sacerdote, pare che fosse molto anziano, e questa “distanza” (che può essere anche solo psicologica) tra la sua età e quella dei suoi figli ci aiuta a comprendere alcuni problemi all’interno di quella famiglia. Eli mancava talvolta di percezione spirituale, come quando ha accusato Anna di essere ubriaca, mentre ella, nella sua tristezza, cercava un sollievo nella preghiera della fede (1 Samuele 1:13).

Il cuore di Eli era tuttavia molto legato alla casa dell’Eterno. Che conforto trovava nel giovane Samuele! Era come un nonno con un nipote pio e devoto, ma questo non bastava. Situazioni simili possono verificarsi anche oggi. Tutto l’interesse, tutta la gioia si concentrano sull’assemblea e si tende a lasciare la famiglia da parte. Si perde il contatto coi propri figli, coi loro interessi, le loro gioie, i loro problemi, invece di viverli insieme. Non è sempre facile occuparsi con cura della propria famiglia e contemporaneamente dedicare il tempo necessario alle cose di Dio, ma il Signore può aiutare i Suoi a trovare il giusto equilibrio.

I due figli di Eli, Ofni e Fineas, “non conoscevano il SIGNORE” (1 Samuele 2:12), eppure svolgevano l’ufficio di sacerdoti e prestavano servizio nella casa di Dio! Con quale scopo? Per trarne un vantaggio personale, come vediamo in 1 Samuele 2:12-17. Il peccato di quei giovani era grandissimo perché disprezzavano le offerte fatte al Signore.

La loro cattiva condotta (v. 22) era di scandalo tra il popolo (v. 23). Col trascorrere degli anni avevano accumulato colpe su colpe, ma il loro padre sembrava ignorarle.

Quando ne viene a conoscenza (v. 22) dice loro semplicemente: “Perché fate queste cose? …quel che odo di voi, figli miei, non è buono”. Era troppo poco. Lui diceva “non è buono”, ma l’Eterno considerava il loro peccato “grandissimo” (v. 17).

Eli, indulgente, tenta di intervenire con qualche parola, ma non prende alcun provvedimento nei loro confronti. Lui era un uomo pio, ma mancava di fermezza, e l’Eterno gli rimprovera, per bocca di Samuele, di non aver “posto un freno” ai suoi figli. I giovani erano cresciuti, è vero, si erano anche sposati (4:19), ma lui, in quanto padre, rimaneva responsabile se non di proibire certe azioni o almeno di metterli sull’avviso, di porre loro un freno e di destituirli dall’incarico di sacerdoti.

Salomone ha molto esortato e rimproverato nei suoi libri (Proverbi ed Ecclesiaste), ma non sempre ha messo in pratica egli stesso quelle esortazioni. Non è stato di buon esempio, e suo figlio Roboamo si è allontanato dal Signore e non ha agito per la gloria di Dio.

Abbiamo veramente bisogno della Sua grazia affinché i nostri figli siano allevati “nella disciplina e nell’istruzione del Signore” (Efesini 6:4).

Allevare dei figli non è semplicemente farli “crescere”. Bisogna condividere con loro la lettura della Parola di Dio dando insegnamenti alla loro portata, e fare di tutto perché partecipino alle riunioni di chiesa attorno al Signore. Significa pure partecipare alle loro distrazioni, a tutte quelle belle esperienze che si possono fare in famiglia e che uniscono genitori e figli. È qui che l’esempio dei genitori si fa sentire.

La Parola di Dio mette anche in guardia contro la severità eccessiva: “Padri, non irritate i vostri figli, affinché non scoraggino” (Colossesi 3:21). Se si è troppo duri, si rischia di provocare delle reazioni che potrebbero rivelarsi un ostacolo al loro sviluppo psicologico e spirituale; ma questo non significa lasciar correre né avere un’indulgenza eccessiva.

La condotta di Eli e dei suoi figli ha richiesto inevitabilmente la disciplina divina. In primo tempo Dio avvisa: “Un uomo di Dio” va da Eli (v. 27) e gli parla da parte dell’Eterno, sottolineando tra l’altro: “Tu onori i tuoi figli più di me” (v. 29). Il dito è messo nella piaga: Dio non occupava il primo posto in quella famiglia. L’onore e il timore non gli erano resi. La libertà dei figli, il loro piacere venivano anteposti al rispetto per Dio, e la loro cattiva condotta non era repressa. È facile trascurare la lettura della Bibbia in famiglia o, con ogni sorta di scuse, non condurre i figli con sé alle riunioni; ma le conseguenze non si faranno attendere.

Davanti all’esortazione dell’uomo di Dio, Eli non dice nulla. Non si nota alcun pentimento né alcuna umiliazione. Il tempo trascorre… L’Eterno gli parlerà ancora una volta per mezzo di Samuele, il bambino allevato nel tempio, che Eli ama e stima. Il ragazzino ha paura di trasmettere al vecchio sacerdote il messaggio dell’Eterno, ma dietro sua insistenza glielo rivela: “Gli ho predetto che gli avrei esercitato i miei giudizi sulla sua casa per sempre, a causa dell’iniquità che egli ben conosce, poiché i suoi figli hanno attirato su di sé la maledizione ed egli non li ha sgridati” (3:13). Eli ascolta e si rassegna. E dice: “Egli è il SIGNORE: faccia quello che gli parrà bene” (v. 18). Non c’è più tempo per umiliarsi, non c’è più possibilità di tornare indietro.

Il castigo di Dio deve inesorabilmente compiersi. I due figli di Eli sono uccisi nella battaglia contro i Filistei; e quando il vecchio sacerdote viene a sapere non solo che i suoi due figli sono morti ma che l’arca di Dio è stata presa, cade all’indietro, si frattura la nuca e muore. Sua nuora, moglie di Fineas, partorisce nel dolore e muore anch’essa, dicendo: “La gloria si è allontanata da Israele, perché l’arca di Dio è stata presa” (4:22).

Il vecchio padre e la nuora testimoniano il loro attaccamento all’Eterno prendendo a cuore più la presa dell’arca che la morte rispettivamente del proprio figlio e del proprio marito. Tuttavia la tragedia termina nella morte, nel lutto e nel disonore.

b. Elimelec e Naomi (Rut cap. 1)

Una carestia sopraggiunge nel paese di Canaan. La prova è permessa da Dio, per un fine che Egli ben conosce. L’atteggiamento della fede dovrebbe sempre essere quello di ricercare la ragione della disciplina, di pentirsi e sottomettersi: “Quando il cielo sarà chiuso e non ci sarà più pioggia a causa dei loro peccati contro di te, se essi pregano… danno gloria al tuo nome… e si convertono… tu esaudiscilo dal cielo e perdona il tuo popolo” (1 Re 8:35)! Ma Elimelec e i suoi non agiscono in questo modo. Vogliono evitare la prova e si trasferiscono in un paese idolatra per “soggiornarvi”… ma ben presto finiscono per “stabilirvisi”. Da un punto di vista economico, la vita della famiglia è assicurata, ma tutto il resto andrà perduto.

Quando si va nel mondo, fosse anche per la necessità di un lavoro, molto spesso si finisce per adattarsi ai suoi costumi. È la tendenza attuale per cui certe famiglie cristiane, anche senza cambiare domicilio, cambiano ambiente, si adattano al mondo, lo amano, trovano in esso della soddisfazione, dimenticando l’ordine di Dio: “Non amate il mondo né le cose che sono nel mondo” (1 Giovanni 2:15).

La disciplina di Dio si esercita prima su Elimelec, che muore, e la vedova Naomi rimane coi suoi due figli. I giovani sposano delle donne moabite, che non conoscono l’Eterno. Per dieci anni abitano là; avrebbero avuto tempo per ritornare a Betlemme. Poi anche Malon e Chilion muoiono e “la donna restò priva dei suoi due figli e del marito” (Rut 1:5). Sembra di capire che Naomi era stata d’accordo di lasciare il paese e insediarsi a Moab; probabilmente non si era opposta al matrimonio dei suoi figli. C’è da stupirsi che ora debba dire: “L’Onnipotente mi ha resa infelice” (Rut 1: 20-21)?

Ma questa dolorosa disciplina porterà i suoi frutti. Avendo appreso che l’Eterno aveva visitato il suo popolo mandandogli del pane, Naomi parte per tornarsene nel paese di Giuda. Riconosce di essere partita “nell’abbondanza” e che ora l’Eterno la riconduce “spoglia di tutto”, ma la riconduce. Il cuore spezzato ed umiliato, che riconosce la perfezione delle vie di Dio senza cercare scuse, sarà in benedizione a Rut, sua nuora, e la indurrà ad andare a rifugiarsi “sotto le ali” del Dio d’Israele.

Che bella relazione tra la suocera e la nuora! Naomi può dire: “Io devo assicurarti una sistemazione perché tu sia felice” (Rut 3:1), e Rut sarà chiamata “la tua nuora che ti ama” (4:15). Naomi troverà anche un “figlio” nel figlio di lei e la gioia riempirà di nuovo il suo cuore (4:16).

Noi come renderemo felici i nostri figli? Non certo conducendoli “nel paese di Moab”, ma insegnando loro a conoscere una Persona in cui sta la forza: il vero Boaz, bella immagine del Signore Gesù!

c. Abramo

Non prenderemo in considerazione tutta la storia del patriarca, ma il frutto prodotto dalla disciplina di Dio nella sua vita famigliare.

La chiamata di Abramo era chiara: “Va’ via… dai tuoi parenti… nel paese che ti mostrerò” (Genesi 12:1), ma Abramo si allontana più volte dalla direttiva divina perché

  • prende con sé suo padre e suo nipote,
  • scende in Egitto (12:10),
  • si accorda con sua moglie nel dire che è “sua sorella”.

Le conseguenze spiacevoli di tali deviazioni richiamano su lui la disciplina del Signore, ma portano anche il frutto prezioso che essa produce.

d. Il padre

La chiamata di Dio non era rivolta al padre Tera, ma solo ad Abramo. Era probabilmente difficile lasciare il vecchio padre solo ad Ur, ma la fede avrebbe potuto contare su Dio affinché si prendesse cura di Lui per esempio servendosi di Naor, il suo secondo figlio. Quanti altri servitori che Dio ha chiamato per andare lontano, al Suo servizio, hanno dovuto fare così! Tera si unisce così ad Abramo e ai suoi per il viaggio alla volta di Canaan. Sembra anche che sia lui a prendere l’iniziativa, ma per una ragione ignota il gruppo si ferma a Caran dove Tera muore. Fu soltanto dopo la morte di suo padre che “Dio fece venire Abramo in questo paese” (Atti 7:3-4).

Un legame di parentela può rivelarsi un ostacolo nel sentiero della fede. Una giovane coppia di sposi che si è creata una famiglia, pur mantenendo per i genitori tutto il rispetto, la stima e l’affetto che è loro dovuto, deve assumersi le proprie responsabilità e camminare con il Signore lungo la via in cui la fede li conduce.

e. Lot

Era probabilmente naturale per Abramo condurre con sé suo nipote Lot, figlio del defunto fratello. Ma la chiamata di Dio non era stata rivolta a Lot; questi seguiva lo zio in buonafede, sotto la sua influenza.

Quando scendono insieme in Egitto, lo zio purtroppo non gli ha offerto un buon esempio. Lo capiamo dal fatto che, al momento di doversi separare a causa delle continue liti fra i rispettivi pastori, Lot, a cui Abramo concede di fare la scelta per primo, alza gli occhi e vede l’intera pianura del Giordano “tutta irrigata fino a Tsoar… come il paese d’Egitto” (Genesi 13:10). Probabilmente, furono i ricordi del paese irrigato dal Nilo a determinare la sua scelta; così se ne va verso quella regione abitata da gente corrotta, con una condotta abominevole. L’esempio è serio per quei genitori che sarebbero tentati di offrire il “sapore dell’Egitto” ai loro figli che presto non saranno più in grado di riconoscere i “limiti” stabiliti da Dio.

Che disciplina ne viene per Abramo! Oltre alla tristezza per la separazione, ci sono gli sforzi per correre in suo aiuto quando è fatto prigioniero. Quando l’Eterno decide di distruggere Sodoma, Abramo deve intercedere per lui. Nel castigo di quella città, Lot perde tutto, beni, casa, moglie; e alla fine le sue figlie lo ingannano per dare alla luce dei figli che saranno nemici accaniti dei discendenti di Abramo: i Moabiti e gli Ammoniti (Genesi 19: 37-38).

Ma è interessante notare il frutto che la disciplina ha prodotto nel patriarca e il sostegno che il Signore gli ha offerto. Dopo la separazione da Lot, egli realizza una comunione preziosa con Dio (13:14-17); le promesse gli vengono rinnovate e lui edifica a Mamre un terzo altare al SIGNORE.

Dopo aver liberato Lot dal potere dei re nemici, Abramo beneficia dell’intervento di Melchisedec. Questo re di “giustizia” e di “pace” fa portare del pane e del vino, e lo benedice da parte del Dio Altissimo. Così il patriarca, fortificato nella fede, sa rifiutare la proposta insidiosa del re di Sodoma: “Dammi le persone; i beni prendili per te” (14:21).

È un’insidia nella quale sono caduti molti credenti: avviarsi per un cammino nel quale le anime dei figli corrono gravi pericoli, anche se si garantisce loro il benessere materiale.

Infine, quando sta per distruggere Sodoma, Dio appare ad Abramo sotto le querce di Mamre, lo fa gioire della Sua comunione, gli comunica le Sue intenzioni, presta ascolto alla sua intercessione e, grazie a quella, fa scampare Lot al disastro (19:29).

f. Agar

Dall’Egitto, Abramo non aveva portato con sé soltanto dei ricordi, ma anche “una serva egiziana” (16:1) che viene introdotta nell’intimità della famiglia. Ecco il pericolo. Che ci sia in una casa una giovane di servizio non credente, non è forse l’ideale, ma può avvenire; però, accogliere una persona del mondo nella cerchia intima della famiglia rappresenta certamente un pericolo.

La presenza di Agar diventa un motivo di tensione tra lei e la padrona, poi tra Abramo e sua moglie Sara, per non parlare dell’insidia che il consiglio di Sara ha rappresentato per suo marito (16:3-6). Più tardi, Ismaele, il figlio che Agar ha partorito, riderà di Isacco (21:9), generando nuovi motivi di tensione.

La disciplina porta alla fine il suo frutto. Dopo oltre vent’anni di vita insieme, con tristezza ma con tatto, Abramo è costretto a mandar via la serva, a scacciarla, come leggiamo in Galati 4:30: “Caccia via la schiava e suo figlio; perché il figlio della schiava non sarà erede con il figlio della donna libera”. Isacco doveva poter crescere in un ambiente famigliare tranquillo, in cui la fede avesse un posto di rilievo.

Anche il mondo nota il frutto di questa disciplina. Abimelec e Picol, capo del suo esercito, possono dire ad Abramo: “Dio è con te in tutto quello che fai” (21:22).

g. “È mia sorella”

Quando Dio aveva fatto emigrare Abramo lontano dalla casa di suo padre, lui aveva stretto un patto con sua moglie: “Dovunque giungeremo, dirai di me: è mio fratello” (20:13).

Questo stratagemma aveva già causato diverse difficoltà all’epoca del loro soggiorno in Egitto (12:14-20), ma poi, ritornato a Canaan, Abramo aveva ritrovato la comunione con l’Eterno (13:3-4). Però nell’“intimo” del suo cuore era rimasta una radice velenosa che fu la causa di una nuova deviazione. Infatti leggiamo nel cap. 20 che Abramo ricade nello stesso errore, ma questa volta alla fine, confessa l’accordo menzognero che aveva fatto con la moglie Sara (20:12-13). Può allora pregare per Abimelec (v. 17) e sperimentare una piena riabilitazione. Dopo tutti quegli anni, l’Eterno potrà donare Isacco.

h. Isacco

La disciplina ha portato dei frutti nella vita di Abramo. Ma quest’uomo di Dio ha ancora bisogno di un’esperienza estrema che la Parola così ci riferisce: “Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo” (22:1). Non era una disciplina per mettere in evidenza una colpa e giudicarla, ma una prova destinata a far risplendere la fede (Giacomo 2:21). “Prendi ora tuo figlio… e offrilo in olocausto”. Nella tensione di quei giorni, Abramo impara a ricevere ogni cosa da Dio, e anche Isacco, riavuto “come per una specie di risurrezione” (Ebrei 11:19). Com’è bella la calma e la dignità della sua fede! “Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto” (Genesi 22:8), dice al figlio. Poi chiama quel luogo “Javè-Irè” (che significa: l’Eterno provvede – v. 14).

È il “frutto di pace e di giustizia” di Ebrei 12:11 che la prova ha prodotto, il rinnovo delle promesse, non solo ad Abramo ma alla sua discendenza “che è Cristo” (Galati 3:16), nella quale, “tutte le nazioni della terra saranno benedette” (Genesi 22:18).

CAPITOLO 5: I Recabiti: la disciplina personale

Una domanda si impone: dobbiamo attendere “passivamente” la disciplina di Dio, sia per prevenire una caduta, sia nel caso in cui la caduta sia fatto compiuto?

La Parola ci mostra in parecchi brani quanto sia necessario, nella dipendenza dallo Spirito di Dio, mantenersi vigilanti e sobri per evitare di incorrere nel peccato; e siamo chiamati a giudicare noi stessi, riconoscendo e confessando le nostre colpe, per non subire il castigo (la disciplina) del Signore e godere la gioia del perdono (Salmo 32).

a. La disciplina volontaria preventiva (1 Corinzi 9:24-27; 1 Tessalonicesi 5:6-8)

Per una decina di volte, nelle sue lettere l’apostolo Paolo dice: “Non sapete che…?”

Egli non presenta una dottrina, ma un argomento pratico: quello della disciplina preventiva, necessaria nella corsa e nel combattimento del cristiano. Non si tratta di un’obbedienza legalista, ma di una disposizione di cuore (“Daniele prese in cuor suo la decisione di non contaminarsi con i cibi del re”, Daniele 1:8), del risultato in noi di un’opera di grazia, che non deve indurci a ritenerci superiori ad altri. Il segreto sta nell’abbandonarsi alla misericordia del Signore che potrà formarci, e, mediante l’azione dello Spirito, aiutarci a far “morire le opere del corpo” (Romani 8:13). La vigilanza personale e costante è necessaria: “Purifichiamoci da ogni contaminazione di carne e di spirito, compiendo la nostra santificazione nel timore di Dio” (2 Corinzi 7:1).

Correre e combattere presuppongono un’energia spirituale perseverante. In Apocalisse 2 e 3, lettera dopo lettera, lo Spirito, tramite l’apostolo Giovanni, ripete: “Chi vince…”. È una questione individuale, personale, senza aspettarsi che altri intraprendano il medesimo cammino.

Nella corsa o nel combattimento l’atleta non può prescindere dalla sobrietà e dall’esercizio se vuole ottenere una corona (1 Corinzi 9:25) ed evitare di commettere errori.

Paolo ne aveva fatto l’esperienza personalmente: “Tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso non sia squalificato” (v. 27).

Come potrebbe il nostro ministero pubblico per il Signore progredire e portare dei frutti per Lui, se il nostro comportamento contraddice quello che insegniamo agli altri?

Ogni attività implica autocontrollo. Lo vediamo in 1 Tessalonicesi 5:4-5 dove “quelli del giorno” sono messi in contrasto con “quelli della notte”: “Voi, fratelli, non siete nelle tenebre… voi tutti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre”.

In 2 Timoteo 4:5 la sobrietà è necessaria al predicatore: “Ma tu sii vigilante in ogni cosa, sopporta le sofferenze, svolgi il compito di evangelista, adempi fedelmente il tuo servizio”.

1 Pietro 2:11 ci esorta ad astenerci dalle “concupiscenze carnali che danno l’assalto contro l’anima”. Proprio le concupiscenze della carne sono spesso alla base di gravi cadute, quando ci si allontana deliberatamente dal cammino del Signore, invocando come scusa dei dubbi intellettuali o adducendo altri banali pretesti.

L’autocontrollo impegna il cristiano a non cedere a tutto ciò che lo circonda e lo sollecita, e anche suscita dell’interesse: “Perciò, dopo aver predisposto la vostra mente all’azione, siate sobri” (1 Pietro 1:13). La pratica del digiuno è appropriata, in un modo del tutto particolare, in quest’epoca in cui tante cose vane e seduttrici attirano l’attenzione. Non possiamo tenere nella nostra mano contemporaneamente le vanità del mondo e la mano del Signore!

Per amore del Signore, impegniamoci a portare il Suo giogo (Matteo 11:29). Lo insegnava già il profeta Geremia: “È bene per l’uomo portare il giogo della sua giovinezza” (Lamentazioni 3: 27).

Questo giogo d’amore richiede di camminare lungo lo stesso cammino del Signore, allo stesso Suo passo. Riservare dieci minuti per qualche esercizio di ginnastica che rinvigorirà il fisico richiede uno sforzo costante! Perché non esercitare questa stessa disciplina personale per dedicare un po’ di tempo a pregare Dio e ad ascoltare la Sua Parola? Perché dedicare tanto tempo ad ascoltare i media piuttosto che la Sua Parola? Riflettiamo sulle nostre priorità. “Non abbandonando la nostra comune adunanza” è scritto in Ebrei 10-25. Anche in quest’ambito è necessaria dell’energia e con essa un’organizzazione della giornata che lasci libero il tempo necessario.

La parabola ci parla delle “spine” (Marco 4:18): le preoccupazioni, le ricchezze, i desideri smodati “che, penetrati”, soffocano la Parola. È impossibile non avere preoccupazioni. Ma è necessario imparare a rimetterle al Signore. “Gettate su Lui ogni vostra preoccupazione, perché Egli ha cura di voi” (1 Pietro 5:7). Nella società odierna ci sono molte facilitazioni materiali. La sobrietà per farne un uso conforme al pensiero di Dio è quanto mai necessaria. “Dio… ci fornisce abbondantemente di ogni cosa perché ne godiamo” (1 Timoteo 6:17), ma col Signore!

Quanto ai desideri smodati, facciamo attenzione che non penetrino nell’anima ed entrino in guerra con lo Spirito. In tanti modi essi vengono innescati e stimolati da scene viste o lette o ascoltate. Non possiamo fare a meno di vedere molte cose, ma dobbiamo rimanere vigili nel timore che esse non vengano a prendere posto nel nostro essere interiore.

In Proverbi 24:33-34 ci è detto: “Dormire un po’, sonnecchiare un po’, incrociare un po’ le mani per riposare… e la tua povertà verrà come un ladro e la tua miseria come un uomo armato”. Che insidia in quel un po’! Forse la sobrietà e la temperanza sono state praticate; ma l’apostolo Pietro ci esorta ad aggiungere la “pazienza” (o la costanza) (2 Pietro 1:6), cioè la perseveranza nel rimanere sobri, nel non cedere alla tentazione, fosse anche solo “per una volta”, nel non abbandonarci al sonno spirituale che è in agguato. Il nemico farà in fretta ad approfittarne per introdursi nella nostra vita e impoverirla.

Che consolazione nell’affermazione di Paolo quando parla del servitore di Cristo e dice: “Egli sarà tenuto in piedi perché il Signore è potente da farlo stare in piedi” (Romani 14:4)!

b. I Recabiti (Geremia 35:1-11 ; 18-19)

I discendenti i Ionadab, figlio di Recab, avevano ricevuto l’ordine dal loro padre di non bere vino, non costruire case, non seminare i campi né piantare vigne. Volevano vivere da pellegrini e stranieri sulla terra. Un servitore di Dio poteva dire: “È il tesoro che ho trovato nel Suo amore ad aver fatto di me un pellegrino in questo mondo”.

Le circostanze erano diventate difficili; la guerra aveva spinto la piccola tribù dei Recabiti nella città di Gerusalemme. Geremia riceve dall’Eterno l’ordine di condurre quegli uomini nel tempio e di incitarli a bere vino. Era per metterli alla prova. Ma i Recabiti non cedettero. Non era una cosa cattiva bere del vino, ma essi intendevano restare fedeli al loro padre e se ne privavano volontariamente per rispettare la sua volontà. A più riprese è ripetuto che “davano ascolto” alla voce del loro padre, mentre il popolo d’Israele, lungi dal seguire il loro esempio, non prestava attenzione alla parola dell’Eterno, attirando così la disciplina del Suo castigo (v. 17).

È facile applicare dal punto di vista spirituale l’insegnamento di Ionadab, figlio di Recab. Il vino può privare del discernimento ed è un simbolo di tutte le cose capaci di privare le nostre anime di discernimento spirituale, se ci lasciamo andare! Le tende, al contrario delle case, dimostrano che non abbiamo una dimora stabile in questo mondo, che quaggiù non troviamo né la nostra patria né il nostro appagamento. Non seminare campi, non piantare vigne, significa non aspettarsi alcuna raccolta spirituale dal mondo, ma trovare la propria gioia nelle realtà invisibili che permangono.

Per consacrarsi a Dio totalmente, il Nazireo di un tempo (Numeri 6), per un periodo limitato (Atti 18:18) o per la durata di tutta la vita (Giudici 13:5), si asteneva dal vino e dai godimenti mondani. Si lasciava crescere i capelli, rinunciando alla sua dignità personale e alla sua reputazione, e si manteneva distante da qualsiasi corpo morto e da ogni cosa contaminata. Una pratica simile non era obbligatoria, ma colui che, per amore del suo Dio, voleva restare in quel modo separato dal male, faceva attenzione a quelle cose.

c. La disciplina personale quando si ha peccato.

1 Corinzi 11:31-32 ci mette davanti un principio molto importante in relazione con la Cena del Signore: “Ora ciascuno esamini se stesso, e così mangi” (v. 28). Che cosa significa esaminare se stessi? Soltanto giudicare le eventuali colpe? L’apostolo Paolo lo spiega qualche riga dopo esortandoci a giudicare noi stessi per non essere giudicati. Il giudizio di sé implica l’accordo con la valutazione di Dio riguardo al nostro stato, e anche il discernimento, alla Sua luce, delle cause profonde dei nostri errori. Innanzitutto, in base a Giovanni 1:9, dobbiamo dire chiaramente a Dio il male che abbiamo commesso e riconoscerlo anche nei confronti di coloro che possiamo aver offeso. Poi, dobbiamo ricercare alla presenza di Dio quali siano state le cause o i motivi reconditi che ci hanno indotti a peccare. In questo modo eviteremo la disciplina del Signore che altrimenti sarebbe necessaria: “Quando siamo giudicati siamo corretti dal Signore, per non essere condannati con il mondo”. Potremo allora dire con Davide: “Beato l’uomo a cui la trasgressione è perdonata” (Salmo 32:1).

Un tale esercizio non ci porterà ad una valutazione cupa e deprimente della nostra condizione; anzi, rinforzerà in noi il sentimento della grazia che ci permette, malgrado tutto, di avvicinarci alla cena del Signore e di annunciare la Sua morte per mezzo della quale i nostri peccati sono stati cancellati. Non diciamo frasi di questo tipo: “Questa settimana non è andata tanto male, posso partecipare alla sacra mensa”, ma esaminiamo noi stessi, giudichiamo noi stessi e comprenderemo che ogni colpa è stata espiata sulla croce dal Signore Gesù. È Lui che ci ha lavati col Suo prezioso sangue. È Lui il “sacrificio propiziatorio” per i nostri peccati.

Allora, rassicurati del perdono di Dio e consapevoli del prezzo che Gesù ha pagato per espiare le nostre colpe, accostiamoci al memoriale del Suo sacrificio col sentimento profondo della Sua immensa grazia.

Il salmista dice: “Ma presso di te è il perdono, perché tu sia temuto” (Salmo 130:4). La consapevolezza della grazia di Dio non ci porta a ripetere con leggerezza gli stessi errori, ma a temere di dispiacere al Signore. Proverbi 28:13 precisa: “Chi confessa le sue colpe e le abbandona otterrà misericordia”. Questo richiede una seria disciplina personale, nel santo desiderio di non ricadere e chiedendo a Dio la forza che solo Lui può dare.

6: Paolo: la disciplina preventiva in relazione con il ministero

Può essere difficile da comprendere questo tipo di disciplina, ma i numerosi pericoli in cui può incorrere un servitore del Signore ci fanno capire perché può essere necessaria.

Tra questi pericoli c’è quello di Romani 12:3: avere di sé “un concetto più alto di quello che deve avere”. È l’orgoglio, l’autocompiacimento, che può minacciare ogni servitore, qualunque sia il suo dono di grazia o la “misura” del suo campo di attività (2 Corinzi 10:13), e svalutare qualunque ministero pubblico.

In 1 Pietro 5:2 gli anziani sono esortati a non dominare su quelli che sono loro affidati; questo spirito di dominio potrebbe pesare, oltre che sui fratelli e sulle sorelle, anche su altri servitori di Dio (Matteo 24: 49).

La stanchezza può sopraffare ogni operaio del Signore (2 Corinzi 4). L’eventuale monotonia del ministero, soprattutto il rilassamento nella comunione con Dio, l’affaticamento psichico, il superamento delle energie fisiche, tutto ciò può indurre un uomo, un tempo fedele, a cedere. Si ricordino gli operai del Signore che sono dei servitori non dei forzati! In Atti 20:13 vediamo che Paolo desiderava fare il viaggio via terra fino ad Asso, lasciando che i suoi compagni facessero il percorso più rapido con la nave. Forse avrà voluto meditare, solitario nel lungo tragitto, in una preziosa comunione col suo Signore.

Il Signore esercita una disciplina preventiva verso i suoi. Essa non è dovuta alla responsabilità del servitore, ma alla sollecitudine del Maestro verso coloro che Egli impiega. Ma perché scegliere un servitore come Paolo per illustrare l’insegnamento riguardo la disciplina divina nel corso del suo ministero? Perché anche il più grande degli apostoli ne aveva bisogno! Leggiamo accuratamente 2 Corinzi 12: 5-10 dove egli stesso spiega l’accaduto.

Lo scopo fondamentale di quella disciplina era che Paolo non avesse “da insuperbire per l’eccellenza delle rivelazioni” (v. 7). Per tutta la durata della sua vita, Paolo è stato alla scuola del Signore, allo scopo di tenere il proprio “io” sotto controllo. Il pericolo non era di essere salito al terzo cielo, ma di inorgoglirsi in seguito alle rivelazioni ricevute. In una certa misura noi corriamo un rischio simile se abbiamo un ministero d’insegnamento che tutti apprezzano e di cui saremmo tentati di inorgoglirci. Eppure, “che cosa possiedi che tu non abbia ricevuto?” (1 Corinzi 4:7).

Tre volte l’apostolo supplica il Signore di togliergli la “spina” che lo affligge. E in quella dura prova riceve la meravigliosa risposta: “La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza” (v. 9). Con umiltà, può allora dire: “Mi compiaccio in debolezze… perché quando sono debole, allora sono forte” (v. 10).

a. La “spina della carne”

Dio aveva messo una “spina” nel corpo del suo servitore e l’aveva lasciata lì nonostante le sue suppliche. Lo Spirito Santo non ha ritenuto opportuno dirci esattamente di cosa si trattasse. Diversi brani fanno cenno ad una infermità che era di ostacolo al suo ministero e di cui i suoi avversari traevano vantaggio per disprezzarlo. Per esempio, in 2 Corinzi 10:10 leggiamo: “La sua presenza fisica è debole e la sua parola è cosa da nulla”. Ai Galati (4:13-14) Paolo scriveva: “e quella mia infermità, era per voi una prova, voi non la disprezzaste né vi fece ribrezzo”.

Era una sofferenza continua per l’apostolo, consapevole che era il Signore ad aver permesso quella disciplina e che era Lui a farla persistere. Paolo aveva imparato ad accettarla dalla Sua mano. La spina stava a ricordargli che egli non era che un “vaso di terra”; se quel debole vaso avesse voluto giocare un ruolo di spicco, il suo ministero ne avrebbe pesantemente risentito.

Facciamo attenzione a non disprezzare quei fratelli che hanno difficoltà ad esprimersi, pur recando un messaggio fondamentale da parte del Signore. In Atti 4:13 gli apostoli erano definiti degli illetterati e venivano sottovalutati per il loro accento galileo, ma i capi dei Giudei riconoscevano “che erano stati con Gesù”. E chi ha difficoltà naturali di parola o è timido non si perda d’animo, ma porti con semplicità ed umiltà quello che il Signore può dargli da trasmettere per l’edificazione di altri.

b. Persecuzioni (opposizioni dall’esterno)

Scrivendo ai Corinzi, Paolo dice che lui e i suoi collaboratori avevano pronunciato essi stessi la loro “sentenza di morte”, affinché non riponessero la loro fiducia in sé stessi, “ma in Dio che risuscita i morti”, e che era capace di liberarli. Paolo era consapevole di compiere nella sua carne “quel che mancava alle afflizioni di Cristo a favore del Suo corpo che è la chiesa” (Colossesi 1:24).

In 2 Corinzi 11:23-27 l’apostolo ci dà un’idea di quelle persecuzioni, sopportate in diverse occasioni, molto più numerose di quelle riferite nel libro degli Atti. Sebbene “esposto alla morte per amore di Gesù” (2 Corinzi 4:11), Paolo poteva affermare: “Mi compiaccio… in persecuzioni… per amore di Cristo” (2 Corinzi 12:10). Le soffriva tuttavia intensamente, come dice al termine della sua vita, al suo figlio spirituale Timoteo: “Tu hai seguito da vicino… le mie persecuzioni, le mie sofferenze… quali persecuzioni ho sopportato” (2 Timoteo 3:11).

I Giudei in particolare, accaniti contro l’apostolo, se ne servivano per ostacolare l’opera del Signore. Essi l’avevano cacciato insieme ai suoi compagni impedendo loro “di parlare agli stranieri perché siano salvati” (1Tessalonicesi 2: 15-16).

Paolo accettava dalla mano di Dio la sofferenza che derivava da una tale disciplina. Era sicuro che il Signore se ne sarebbe servito a fin di bene: “Quanto mi è accaduto ha piuttosto contribuito al progresso del vangelo” (Filippesi 1:12). Attraverso tutte queste persecuzioni e quei pericoli di morte, la vita di Gesù veniva manifestata; una testimonianza era resa alla Sua potenza e alla Sua autorità. In questo modo si adempiva la profezia del Nazareno glorificato in colui che aveva perseguitato i cristiani e le chiese: “Io gli mostrerò quanto debba soffrire per il mio nome” (Atti 9:16). Il “vaso di argilla” era stato frantumato, affinché la luce che esso conteneva potesse risplendere.

c. Prove e delusioni nelle chiese (opposizioni dall’interno)

Questa opposizione interna è stata per l’apostolo Paolo ben più dolorosa di tutte le persecuzioni. Perché proprio lui, “chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù” (1 Corinzi 1:11), “costituito predicatore e apostolo, per istruire gli stranieri nella fede e nella verità” (1 Timoteo 2:7), ha dovuto sopportare simili prove? L’opposizione non proveniva soltanto dai cosiddetti “giudaizzanti” o da nemici della verità, ma anche da certe assemblee e da alcuni fratelli, figli di Dio, che avevano la stessa fede nel Signore Gesù. Ma cosa sarebbe accaduto se Paolo fosse stato sempre e ovunque ben accolto da tutti? Così, per mantenere il suo servitore nell’umiltà, evitandogli il rischio di sopravvalutarsi, Dio lo ha fatto passare anche attraverso quella dolorosa disciplina.

L’apostolo in cuor suo si prodigava per ogni assemblea: “Sono assillato ogni giorno dalle preoccupazioni che mi vengono da tutte le chiese” (2 Corinzi 11:28), diceva. Quella sollecitudine si estendeva anche alle chiese che non aveva visitato, come quelle di Colosse e Laodicea. Egli provava una grandissima tristezza quando i Galati venivano turbati da personaggi che li evangelizzavano “diversamente” da come li aveva evangelizzati lui (Galati 1:8). Gli pareva di dover ricominciare daccapo: “Figli miei, per i quali sono di nuovo in doglie finché Cristo sia formato in voi… sono perplesso a vostro riguardo” (4:19). Con quale rammarico scrive loro “Voi correvate bene; chi vi ha fermati perché non ubbidiate alla verità?” (Galati 5:7).

Tra i Corinzi, alcuni cercavano “un pretesto” (2 Corinzi 11:12) contro di lui. Certuni trovavano “cosa da nulla la sua parola” (10:10), altri ricorrevano alla calunnia. Con una grande tristezza Paolo si vede costretto a dire loro: “Io avrei dovuto essere da voi raccomandato” (2 Corinzi 12:11); e il suo affetto era tale che aggiungeva: “Molto volentieri spenderò e sacrificherò me stesso per voi. Se io vi amo tanto, devo essere da voi amato di meno?” (12:15). Ma sapeva anche apprezzare i loro incoraggiamenti.

Se noi dovessimo incontrare, nel nostro piccolo, un’opposizione simile, saremmo in grado di accettare la prova e ci domanderemmo con serietà se stiamo realmente seguendo il cammino di Dio? Se il Signore ci dà la convinzione che è così, perseveriamo con umiltà senza lasciarci scoraggiare.

Quell’opposizione e quel disprezzo che Paolo ha incontrato in diversi luoghi devono essersi accentuati verso la fine del suo ministero.

d. Abbandono e solitudine alla fine della corsa

In Colossesi 4 vediamo che Paolo sentiva già sopraggiungere quel penoso isolamento. Egli parla di alcuni compagni d’opera che “provengono dai circoncisi”, “gli unici… che mi sono stati di conforto” (v. 11). Quell’abbandono diventerà tragico al termine della sua vita, come leggiamo nella seconda lettera a Timoteo. “Tutti quelli che sono in Asia mi hanno abbandonato” (1:15). Tra costoro si trovavano gli Efesini, che dalla Lettera a loro indirizzata si direbbe avessero un elevato livello spirituale. Quando Onesiforo, da Efeso, arrivò a Roma per far visita a Paolo carcerato, sembra che nessuno nella chiesa sapesse dove si trovava. Onesiforo dovette fare più tentativi, e dopo averlo cercato “con premura” riuscì alla fine a trovarlo e a confortarlo da parte del Signore (1:16-17).

Per il bene dell’opera, Paolo aveva inviato Timoteo a Efeso. Altri erano partiti, Crescente in Galazia, Tito in Dalmazia. Dema lo aveva abbandonato “avendo amato questo mondo” (4:9-12). “Cerca di venire prima dell’inverno” (4:21), dice al suo caro Timoteo. Infatti “l’inverno” era giunto e il vecchio apostolo era abbandonato da tutti.

“Nella mia prima difesa”, egli afferma, “nessuno si è trovato al mio fianco; ma tutti mi hanno abbandonato” (4:16). Però fa un’esperienza meravigliosa, per almeno la settima volta nella sua vita: “Il Signore mi ha assistito e mi ha reso forte… il Signore mi libererà… e mi salverà nel suo regno celeste” (4:17-18).

e. I frutti della disciplina

Ne illustreremo sei in particolare.

  1. La perseveranza

“Non ci scoraggiamo” (2 Corinzi 4:16). Formatosi alla scuola di Dio, rinnovato di giorno in giorno nel suo interiore, l’apostolo Paolo perseverava. Egli restava a disposizione del suo Maestro e delle chiese (Filippesi 1: 23-25) come un tempo Gedeone e i suoi uomini i quali “benché stanchi, continuavano ad inseguire il nemico” (Giudici 8:4).

  1. La consapevolezza che tutto è grazia da parte di Dio

La profonda consapevolezza di aver ricevuto il ministero “in virtù della misericordia” che gli è stata fatta (2 Corinzi 4:1) lo sosteneva attraverso le difficoltà e lo aiutava a superare tutti gli ostacoli. Ogni ministero è una grazia, e non un dovere penoso; la disciplina, attraverso la quale l’apostolo aveva dovuto passare, aveva rafforzato questa convinzione nel suo cuore.

  1. L’umiltà

Dopo un servizio non dovremmo pensare: “Non me la sono poi cavata così male!” Diremo invece con riconoscenza: “Il Signore mi ha benedetto!”

L’apostolo Paolo aveva dovuto capire di non essere altro che un fragile vaso di terra: “Noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra, affinché questa grande potenza sia attribuita a Dio e non a noi” (2 Corinzi 4:7). Elia si era reputato migliore dei suoi padri, e l’apparente fallimento della sua missione lo aveva scoraggiato. Ma Paolo aveva compreso di non valere più di un vaso d’argilla destinato ad essere frantumato.

  1. La fedeltà di Dio

Nella prova, nelle persecuzioni, nell’opposizione, Paolo aveva sperimentato la fedeltà di Dio e delle Sue risorse: “Noi siamo tribolati in ogni maniera, ma non ridotti all’estremo; perplessi, ma non disperati; perseguitati ma non abbandonati, atterrati, ma non uccisi” (v. 8-9). Poteva così affermare: “Sono pieno di consolazione, sovrabbondo di gioia in ogni nostra tribolazione” (7:4).

  1. La costanza

Tutta la disciplina attraverso cui Paolo è passato aveva prodotto in lui la più importante delle virtù: “una grande costanza” (6:4). Un tempo era stato pieno di zelo per difendere quella che credeva essere la causa di Dio. Ma dopo la conversione, ciò che lo raccomandava come vero servitore di Dio era questa “grande costanza… nella buona e nella cattiva fama… come sconosciuti eppur ben conosciuti… come non avendo nulla, eppure possedendo ogni cosa” (6:1-10). Poteva scrivere ai Filippesi: “Ho imparato ad accontentarmi nello stato in cui mi trovo. So vivere nella povertà e anche nell’abbondanza; in tutto e per tutto ho imparato ad essere saziato e ad avere fame… Io posso ogni cosa in colui che mi fortifica” (4:11-13).

  1. “Nulla in me, tutto in Lui”

Paolo conclude la sua Lettera dicendo: “Io non sono nulla” (2 Corinzi 12:11).

“Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Galati 2:2).

“Per me vivere è Cristo” ( Filippesi 1:21).

“Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto” (Filippesi 3:8).

Questo frutto supremo si sarebbe prodotto in Paolo senza quella disciplina dolorosa che ha fatto sanguinare il suo cuore?

Conclusione

La Parola stessa ci dà la conclusione: “È vero che qualunque correzione sul momento non sembra recare gioia, ma tristezza; in seguito tuttavia produce un frutto di pace e di giustizia in coloro che sono stati addestrati per mezzo di essa” (Ebrei 12:11).

Giobbe è stato a lungo provato, ma la sua conclusione è ammirevole: “Il mio orecchio aveva sentito parlare di te, ma ora l’occhio mio ti ha visto” (Giobbe 42:5).

L’orgoglio di Elia, di cui egli non si rendeva conto, ha lasciato il posto, sotto l’azione della disciplina, all’umiltà, come vediamo quando getta il suo mantello sul giovane Eliseo che diventerà profeta al posto suo. Elia sapeva che, delle tre missioni di cui Dio l’aveva incaricato sull’Oreb, quella era l’ultima.

Giovanni, detto Marco, fermatosi nell’opera per timore delle difficoltà, diventa dopo una lunga disciplina “molto utile per il ministero” (2 Timoteo 4:11).

La tragedia della famiglia di Naomi la induce a ritornare con Rut nel paese del Dio di Israele e a trovare la gioia e la consolazione.

Abramo, messo alla prova nell’ambito della sua famiglia, dovendo sopportare a lungo le pene derivanti dalle sue cadute, vede la sua fede trionfare, e una meravigliosa testimonianza è resa alla gloria di Dio.

I Recabiti hanno dato ascolto al loro padre, e hanno perseverato nella lunga disciplina personale a cui il loro padre li aveva vincolati. Dio può lodarli per la loro fedeltà.

Paolo, il grande apostolo, sottoposto alla prova della “spina nella carne”, delle persecuzioni, dell’opposizione dei fratelli, ha manifestato una grande pazienza e ha perseverato fino alla fine senza scoraggiarsi, in una comunione crescente col suo Signore.

Mosè aveva detto al popolo d’Israele, alla fine del cammino nel deserto: Egli ti ha umiliato, ti ha messo alla prova, ti ha fatto conoscere le Sue cure… e tutto questo “per farti, alla fine, del bene” (Deuteronomio 8:16).

Non è forse vero che “tutte le cose cooperano per il bene di quelli che amano Dio” (Romani 8:28)?

 

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