Prima lettera di Pietro

Commentario sulla prima lettera di Pietro.  
Volume pubblicato con il permesso di Edizioni IL MESSAGGERO CRISTIANO

 

Introduzione

Nelle epistole di Pietro, così come in quella agli Ebrei, i credenti sono visti in cammino verso la gloria; in questo mondo non hanno nulla. In loro c’è la vita di Dio e lo Spirito Santo, potenza di questa vita; tutte le altre benedizioni che il Signore ha dato, nelle epistole di Pietro sono future; è l’epistola agli Efesini che le considera attuali, e vede il credente già seduto nei luoghi celesti, benedetto già oggi «di ogni benedizione spirituale» in Cristo; e tanto sono attuali, nell’epistola agli Efesini, che la venuta di Cristo non è là nemmeno menzionata.

     Ora, i credenti che camminano verso la gloria altro non possono incontrare che la sofferenza; e non c’è parte della Scrittura che parli di sofferenza tanto come questa epistola di Pietro. I termini “sofferenza” e “soffrire” si trovano una ventina di volte. Ma la sofferenza è anche il solo mezzo che Dio adopera per farci afferrare le cose future staccandoci da quelle del mondo, per farci entrare nel godimento di tutto ciò che è di pertinenza della fede.

     Anche “la gloria”, che è lo scopo finale, è nominata tredici volte in quest’epistola; il lavoro incessante del Signore serve proprio a rendere spedito verso la gloria il cammino di quelli che gli appartengono

 

Capitolo 1

«Pietro, apostolo di Gesù Cristo, agli eletti che vivono come forestieri dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella Bitinia,» (v. 1)

Pietro scrive ai cristiani, usciti dal Giudaismo, che erano dispersi nelle province dell’Asia Minore. Essi vivevano quindi in mezzo ai pagani, molto probabilmente dispersi in quelle regioni dalla persecuzione di cui parla il cap. 8 degli Atti.

«eletti secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, a ubbidire e a essere cosparsi del sangue di Gesù Cristo: grazia e pace vi siano moltiplicate.» (v. 2)

Ecco qui quel che fa del credente uno straniero nel mondo. C’è un contrasto fra la posizione e la chiamata del cristiano e quella di Israele. Il cristiano è eletto secondo la preconoscenza di Dio Padre, mentre Israele come popolo era eletto dall’Eterno per essere una testimonianza a Dio sulla terra; esso era separato dalle nazioni (distinto da queste tramite il segno esteriore della circoncisione) per ubbidire alla legge di Dio. Il cristiano è eletto (cioè prescelto) «mediante la santificazione dello Spirito»; lo Spirito, infatti, per mezzo della Parola, lavora nell’anima per produrre la nuova nascita, la rigenerazione; il credente è così separato dal mondo e reso capace di ubbidire come Cristo ha ubbidito (*)[1]

Il testo originale dice: Eletti all’ubbidienza di Cristo e all’aspersione del suo sangue. Vale a dire eletti ad ubbidire come ha fatto Lui.

Vediamo dunque che c’è contrasto fra l’ubbidienza alla legge di Mosè e l’ubbidienza di Cristo. L’ubbidienza alla quale siamo chiamati è quella stessa del Signore che diceva: «Dio mio, io desidero (meglio: prendo piacere nel) fare la tua volontà» (Salmo 40:8). Noi siamo “figli ubbidienti” (v.14).

Ubbidire significa fare ciò che Dio vuole, quando vuole e come vuole; ed è quel che Cristo ha fatto. è in vista di questo che Dio ci plasma, per mezzo della sua Parola e delle prove, ogni volta che è necessario (v. 6), anche se noi tendiamo a rifiutare istintivamente le sofferenze.

L’aspersione del sangue di Gesù Cristo è indispensabile perché possiamo entrare in relazione con Dio; il suo sangue ci purifica da ogni peccato.

Ai credenti che percorrono questo cammino di sofferenza e di difficoltà, l’apostolo augura che la grazia e la pace siano moltiplicate ad ogni passo, per dar loro la possibilità di attraversare la prova senza essere scoraggiati. “Grazia e pace” è l’augurio che il favore di Dio riposi sui santi.

«Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere ad una speranza viva mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti,» (v. 3)

In Efesini 1:3 c’è la stessa espressione: «Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo»; il Dio e Padre è lodato a motivo di tutte le benedizioni spirituali che noi possediamo nei luoghi celesti in Cristo, e si comprende che debba essere così. La ritroviamo nella 2ª epistola ai Corinzi 1:3 dove l’apostolo Paolo, vituperato e perseguitato, ha ogni giorno la morte come prospettiva; egli, allora, benedice il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo come il “Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione” perché quello che l’anima sua riceveva nel cammino della sofferenza era utile per consolare anche gli altri.

Nel nostro capitolo, i credenti che sulla terra non hanno nulla, eccetto la sofferenza, e che non otterranno nulla prima di essere introdotti nel cielo, benedicono il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo perché, nella sua grande misericordia, li ha fatti rinascere, non per ottenere una parte gloriosa sulla terra, bensì una speranza viva, in vista di una eredità incorruttibile, conservata nei cieli. Questo è il motivo della loro lode.

Ciò che li riempie di gioia è quello che Dio ha fatto in loro e per loro, servendosi delle sofferenze necessarie perché afferrino le gloriose benedizioni e guardino alle cose celesti. In nessun altro brano della Scrittura troviamo l’espressione di una gioia più grande come in questo capitolo: «Una gioia ineffabile e gloriosa» (v. 8).

La posizione di questi credenti, esposti alle peggiori persecuzioni, non è tuttavia meno privilegiata di quella dei credenti visti nell’epistola agli Efesini; essi sono rinati ad una speranza viva e di conseguenza sono in possesso della vita nuova e di tutte le benedizioni spirituali nei luoghi celesti. Il v. 23, «siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile», ci dice che questa speranza ha un carattere vivente, per il fatto che Cristo è risuscitato dai morti; Egli stesso è la nostra speranza. Allora comprendiamo come tutto ciò che ha attinenza con la “rigenerazione” sia fuori dalla portata del male e della corruzione, e posto al di là della morte, nella gloria di Cristo.

«per una eredità incorruttibile, senza macchia. Essa è conservata nei cieli per voi,» (v. 4)

Ciò che possediamo di più elevato per mezzo della rigenerazione è la speranza vivente, cioè Cristo stesso nella gloria. è la nostra parte attuale; l’eredità è invece la nostra parte futura, dove si trova Cristo, ed è conservata per noi nei cieli da Dio stesso; essa è preservata dalla corruzione e dalla contaminazione, a differenza della Canaan terrestre dove l’eredità fu subito sciupata nelle mani del popolo d’Israele.

L’apostolo, quindi, distoglie il cuore dei credenti dalla speranza di un’eredità sulla terra, tipica dei Giudei, per porre davanti a loro il cielo. Erano stati «rigenerati da un seme incorruttibile» (v. 23); l’eredità doveva perciò essere adeguata alla loro natura rigenerata.

«che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la salvezza che sta per essere rivelata negli ultimi tempi.» (v. 5)

Per entrare in possesso di quell’eredità, gli eredi hanno bisogno di essere custoditi. Lasciati a noi stessi non vi entreremmo mai. Solo Dio ha il potere di introdurci in essa, e la sua potenza ci conserva per mezzo della fede, ma non in maniera incosciente come avviene per la protezione divina di cui siamo anche ogni giorno gli oggetti (Sal. 39:7). Dio opera nei nostri cuori per mezzo della fede, e la sua potenza ci guarda; le nostre affezioni sono rinnovate e nutrite del loro oggetto, e il nostro cuore rimane attaccato a ciò che è invisibile per mezzo di una fede pratica e attiva che si impossessa di ciò che non è ancora stato rivelato, liberandoci dall’influenza del male.

Pietro sapeva, per esperienza, com’era necessario essere guardati in questo modo; egli aveva visto la gloria del regno sul monte della trasfigurazione ma, lasciato a se stesso, non avrebbe mai potuto esserne fatto partecipe. Si vede dai suoi scritti quanto egli fosse compenetrato da ciò che aveva veduto e udito quando era col Signore; le sue esperienze e tutti quegli avvenimenti, così vivi e luminosi nell’anima sua per la potenza dello Spirito Santo, erano anche il mezzo per poter pascere egli stesso il gregge del Signore.

Noi siamo dunque custoditi sicuramente «per la salvezza che sta per essere rivelata negli ultimi tempi», tempi della manifestazione di Cristo in gloria che Pietro non perde mai di vista. Quella salvezza futura sarà la completa liberazione da tutto ciò che fa parte dell’antica creazione, e il possesso di tutto ciò che appartiene alla nuova.

Tutto è pronto; colui che l’ha proposta è seduto nella gloria in attesa del momento voluto da Dio, e ben prossimo, della sua rivelazione.

«Perciò voi esultate anche se ora, per breve tempo, è necessario che siate afflitti da svariate prove, affinché la vostra fede, che viene messa alla prova, che è ben più preziosa dell’oro che perisce, e tuttavia è provato con il fuoco, risulti a vostra lode, gloria e onore alla rivelazione di Gesù Cristo.» (v. 6,7)

La rivelazione di questa salvezza è un grande motivo di gioia, non soltanto per noi, ma soprattutto per il Signore. Egli ha sofferto, è stato umiliato per noi e, da così tanto tempo, è sconosciuto e disprezzato dagli uomini; ma quando sarà manifestato nella sua gloria, i suoi diritti saranno resi saldi e riconosciuti. L’attuale creazione, liberata dalla “schiavitù della corruzione” (Rom. 8:21), godrà allora della benedizione sparsa sopra tutta la terra. La nostra parte sarà la sua Persona e l’essere con Lui, in tutta la pienezza di quella meravigliosa liberazione.

I nostri cuori dovrebbero essere più strettamente uniti a Cristo e la nostra gioia più grande, al pensiero di ciò che Egli avrà, e non solo di ciò che noi avremo, in quel giorno. Anche la profezia dovrebbe interessarci di più in questo senso, poiché ci fa conoscere la manifestazione finale della gloria del nostro amato Signore e Salvatore che i profeti hanno sempre avuto come oggetto delle loro rivelazioni.

Nell’attesa di quel glorioso momento, la gioia è frammista a sofferenze; queste due cose non sono mai disgiunte quaggiù. Se siamo stati santificati per l’ubbidienza di Cristo non possiamo aspettarci altra sorte che la sua; con una differenza, però: che le sofferenze di Cristo sono state sofferenze di grazia e di simpatia, senza parlare di quelle per l’espiazione, mentre le nostre sono dovute spesso alla «disciplina» di Dio verso di noi, cioè alla scuola a cui ci sottopone e ai suoi castighi quando questo è necessario. Il movente dei nostri atti può essere buono, ma ha sempre bisogno di essere purificato e liberato da ogni influenza della carne. Se è mediante la fede che la potenza di Dio ci guarda, bisogna che questa fede sia provata, perché noi siamo fortificati e formati in vista della gloria nella quale stiamo per entrare.

Ma Dio vuole che impariamo a contare su di Lui a dispetto delle circostanze avverse che sembrano non essere in armonia con le sue promesse e che a volte mettono la fede a dura prova, facendo persino dire ai nemici, come avverrà al futuro residuo fedele d’Israele: «Dov’è il tuo Dio?» (Salmo 42:10).

«I nostri padri confidarono in te; confidarono e tu li liberasti» (Salmo 22:4), dovette dire il Signore. «Dio mio, io grido di giorno, ma tu non mi rispondi, e anche di notte, senza interruzione. Eppure tu sei il Santo, siedi circondato dalle lodi d’Israele» (v. 2,3).«Tu hai scrutato il mio cuore, l’hai visitato nella notte; mi hai provato e non hai trovato nulla; la mia bocca non va oltre il mio pensiero» (Salmo 17:3). Lo scopo della prova è di farci realizzare queste perfezioni!

“Se ora, per breve tempo, è necessario”, prezioso pensiero che incoraggia e rallegra i nostri cuori attraverso l’afflizione! Possiamo lasciare a Dio la cura di decidere se questo è necessario, e di dirigere le nostre circostanze. Siamone certi: non una sola prova è inutile e, anche se al momento non comprendiamo, vi sarà un risultato benefico.

La prova è dunque più preziosa dell’oro che perisce. Malachia 3:3 ci mostra i figli di Levi affinati come l’oro e l’argento perché possano fare offerte con giustizia; per noi vi sarà un risultato “a nostra lode, gloria e onore, alla rivelazione di Gesù Cristo”.

«Benché non lo abbiate visto, voi lo amate; credendo in lui, benché ora non lo vediate, voi esultate di gioia ineffabile e gloriosa,» (v. 8)

Nell’attesa della sua rivelazione, Gesù Cristo era già caro al cuore di quei credenti; essi non aspettavano di vederlo per amarlo. Egli era la loro gioia, ed essi lo amavano anche se non avevano avuto il privilegio, come Pietro, di vederlo coi loro propri occhi. Egli era per loro un oggetto di fede, come dice Gesù ai discepoli: «Voi avete fede in Dio, abbiate fede anche in me!» (Giov. 14:11); è credendo in Lui che potevano rallegrarsi di una gioia ineffabile e gloriosa. Pietro non li incita ad amare il Signore perché sapeva che lo amavano quanto lui.

I suoi pensieri sembrano riportarsi alla scena del cap. 21 di Giovanni dove per tre volte egli ripete, sotto lo sguardo divino che scrutava il suo cuore: «Tu sai che ti amo»; era come se dicesse: Dopo ciò che è avvenuto, io non vedo amore nel mio cuore; ma tu che sei Dio, guarda, e potrai vedere ch’io t’amo.

Attraversare la sofferenza, rallegrarsi nella salvezza che sta per essere rivelata, amare il Signore, gioire di una gioia ineffabile e gloriosa, è la parte benedetta del credente che aspetta la gloria. Se Cristo è quaggiù l’oggetto dei nostri cuori, cosa sarà quando Lo vedremo a faccia a faccia?

«ottenendo il fine della fede: la salvezza delle anime.» (v. 9).

è chiamata salvezza delle anime perché è una salvezza “spirituale”, applicata all’anima nel tempo presente (*), in attesa della completa liberazione rivelata negli ultimi tempi. Il credente la possiede perché ha già la vita e lo Spirito Santo; il rimanente è futuro. Questa salvezza è lo scopo e il risultato della fede.

«Intorno a questa salvezza indagarono e fecero ricerche i profeti, che profetizzarono della grazia a voi destinata. Essi cercavano di sapere l’epoca e le circostanze cui faceva riferimento lo Spirito di Cristo che era in loro, quando anticipatamente testimoniava delle sofferenze di Cristo e delle glorie che dovevano seguirle. E fu loro rivelato che non per sé stessi, ma per voi, amministravano quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo, mediante lo Spirito Santo inviato dal cielo: cose nelle quali cose gli angeli bramano penetrare con i loro sguardi.» (v. 10,11,12)

Nel profetizzare quella salvezza, i profeti non comprendevano per quale tempo e in quali circostanze lo Spirito di Cristo indicava il compimento delle loro profezie. Quando rendevano anticipatamente testimonianza delle glorie che sarebbero seguite alle sofferenze di Cristo, sapevano che non si trattava soltanto di liberazioni temporanee, ma di benedizioni spirituali molto più elevate, dovute proprio alla Sua reiezione. E fu loro detto che non era per se stessi, ma per noi, che “amministravano” quelle cose.

La profezia parlava delle glorie di Cristo. La sua sostanza è: «La potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo» (2 Pietro 1:16). Ma i profeti dovevano necessariamente parlare anche delle sue sofferenze perché da esse derivavano tutte le benedizioni; e delle sofferenze del futuro residuo fedele d’Israele e di tutti i credenti nell’attesa della gloria che sono legate a quelle del loro Signore. Ecco perché l’apostolo può dire: Queste cose sono scritte per voi che partecipate alla sofferenza di Cristo e che parteciperete «alla gloria che sta per essere rivelata». La parte dei credenti della Chiesa sarà di molto superiore a quella del popolo terreno, poiché tutto ciò che è loro annunciato per la terra, il credente lo possiede in maniera celeste. Ecco il motivo per cui, dopo la discesa dello Spirito Santo, gli apostoli presentarono le conseguenze dell’opera di Cristo come compimento delle profezie, e le applicarono ai credenti che formavano la Chiesa d’allora, nell’attesa del loro compimento letterale per Israele e per tutte le nazioni.

I Profeti parlavano dunque di benedizioni che riguardavano prima i credenti della Chiesa, nella parentesi che va dall’ascensione al ritorno di Cristo, benché questa “economia” non fosse il soggetto esplicito della loro profezia. Si comprende allora il perché essi abbiano cercato di sapere il tempo e il momento del compimento di quello che annunciavano sospinti dallo Spirito di Cristo. Era un fatto imminente o andava lontano nel tempo? La medesima domanda la rivolsero i discepoli al Signore, nel cap. 1:6 degli Atti: «è in questo tempo che ristabilirai il regno a Israele?». La risposta fu: «Non spetta a voi di sapere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla propria autorità», e proseguì col dire: Ma mi sarete testimoni nel mondo che mi ha respinto.

I tempi e i momenti non hanno nulla a che fare con la Chiesa; essi sono per la terra. Non era necessario che l’apostolo Paolo ne scrivesse ai Tessalonicesi, i profeti ne parlavano già sufficientemente (1 Tess. 5:1-3).

Le cose amministrate dai profeti per i credenti sono dunque le sofferenze e le glorie di Cristo in loro favore; esse fanno parte ora della buona novella annunciata dagli apostoli che sono strumenti dello Spirito Santo mandato dal cielo. Gli apostoli, però, vi hanno aggiunto il mistero, nascosto da tutti i secoli in Dio, e di cui nessun profeta ebbe mai conoscenza: il mistero della Chiesa (Efesini 3 ecc…). Ma la grazia verso i peccatori, la rivelazione dell’opera di Cristo con le sue conseguenze, erano di fatto profezia; solamente, noi siamo posti in una posizione infinitamente più elevata del popolo terreno, tanto che perfino gli angeli «bramano penetrare con i loro sguardi». Essi, che non hanno mai peccato, desiderano capire come il cielo possa essere aperto a degli esseri come noi, a dei peccatori perduti. Quegli angeli, testimoni della caduta dell’uomo e di tutta la storia del peccato e della ribellione contro Dio, hanno assistito a tutti i grandi avvenimenti che sono alla base del cristianesimo: nascita, morte, risurrezione e ascensione del Signore; ma ora imparano a conoscere, per mezzo della Chiesa, la «infinitamente varia sapienza di Dio» (Ef. 3:10)! Essi contemplano tutte queste cose meravigliose e sono in un’ammirazione priva di gelosia di fronte alla posizione gloriosa data ai credenti (leggere Ebrei 2:16).

«Perciò, cinti i fianchi della vostra mente, state sobri, e abbiate piena speranza nella grazia che vi sarà recata al momento della rivelazione di Gesù Cristo.» (v. 13)

I fianchi cinti presuppongono un’azione; quelli che si cingevano i fianchi, cioè si mettevano la cintura a vita per raccogliere e trattenere le ampie tuniche, lo facevano per essere pronti per la marcia, la corsa, il combattimento, il sacerdozio, ecc…; ma qui è una preparazione spirituale alla sobrietà e a tutta la condotta del credente, affinché egli glorifichi Dio e speri pienamente nella grazia che accompagnerà la rivelazione di Gesù Cristo.

«I fianchi della mente» sono ciò che v’è di più intimo, di più nascosto in noi, spiritualmente; essi devono “essere cinti”. Questa espressione, che è un po’ inusuale, significa che non dobbiamo lasciarci influenzare da tutto ciò che avviene attorno a noi, che dobbiamo sapere controllare i nostri pensieri senza pigrizia né negligenza, affinché il nostro cuore sia diretto interamente verso l’oggetto della fede e speri pienamente in quella grazia futura che sarà recata alla rivelazione di Gesù Cristo.

La grazia è l’amore di Dio verso dei poveri peccatori, dei colpevoli, allo scopo di salvarli. Ma, una volta salvati, la grazia diventa il favore di Dio che riposa su di loro. La giustificazione per fede ha aperto l’accesso a quel favore, a quella grazia nella quale stiamo saldi (Romani 5:2). Essa è fondata su Cristo stesso. Nello spirito di questa Epistola, la grazia è però considerata come una cosa futura che ci sarà recata alla rivelazione di Gesù Cristo.

Avere «cinti i fianchi» è uno stato di fatto che ci permette di «essere sobri», e di avere piena speranza. Essere sobri vuol dire prendere delle cose visibili solo lo stretto necessario per attraversare il mondo nel quale ci troviamo ancora. La sobrietà è il contrario dell’ebbrezza; le cose di quaggiù, offerte da Satana, inibiscono i sensi spirituali, impediscono l’apprezzamento delle cose divine e ostacolano la piena speranza nella grazia che sarà rivelata all’apparizione di Gesù Cristo.

«Come figli ubbidienti, non conformatevi alle passioni del tempo passato, quando eravate nell’ignoranza; ma come colui che vi ha chiamati è santo, anche voi siate santi in tutta la vostra condotta, poiché sta scritto: “Siate santi, perché io sono santo”.» (v. 14,15,16)

In quanto siete figli d’ubbidienza, santificati, comportatevi come tali; l’esortazione parte sempre dalla posizione. Quando ignoravano ancora la grazia, la legge sotto la quale si trovavano provocava la concupiscenza del loro cuore. Ma ora che ne erano liberati, potevano non conformarsi alle loro concupiscenze passate. Se non stiamo attenti, cadiamo anche noi in questo peccato, e perdiamo il nostro carattere di figli d’ubbidienza, che è quello dell’uomo nuovo manifestato pienamente in Cristo.

Dio, che ci ha chiamati, esige la santità in tutta la condotta di coloro che sono in relazione con Lui, poiché Egli è santo.

«E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l’opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;» (v. 17)

Questo versetto ci presenta un altro carattere della condotta di coloro che sono in relazione con Dio Padre: il timore. Il Padre giudica nel tempo presente, ma, alla fine, ogni giudizio sarà rimesso nelle mani del Figlio. Il Padre giudica i suoi figli, apprezza il loro operato, e li castiga se lo ritiene necessario. Il giudizio di Dio incomincia dalla sua casa (4:17). Egli non sopporta il peccato nella nostra condotta; se non fosse così ci permetteremmo cose che non gli sarebbero gradite.

Si tratta qui della disciplina di Dio, come Padre nella sua famiglia. Il timore non è per noi un timore servile, ma il timore di dare un dispiacere a Dio; esso deriva dal riconoscimento dei suoi diritti, della sua autorità, della sua dignità, ma anche del godimento del suo amore, di questa relazione così intima di figli con il proprio Padre. Se realizziamo questo gli saremo certo graditi.

Dobbiamo essere profondamente riconoscenti perché è Lui che ci ha dato la possibilità e l’onore di essere introdotti in una simile relazione con Lui. Tuttavia, nel godimento della libertà nella quale la grazia ci ha posti, non dobbiamo mai perdere di vista, sia nella nostra condotta che nel culto, la grandezza e la gloria del nostro Dio, e il fatto che siamo posti nella piena luce del Dio sovrano (Salmo 5:7; Ebrei 12:28,29). Se trascuriamo queste cose, abusiamo della bontà e della grazia di Dio, come figli irriverenti verso i loro genitori.

«sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri, ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia. Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;» (v. 18,20)

Alla fine di questo capitolo troviamo il fondamento della posizione del cristiano: il riscatto e la rigenerazione. Da questi due fatti fondamentali deve dipendere la condotta dei credenti sulla terra. La condotta dei Giudei sotto la legge era stata vana in quanto anche il Giudeo più ubbidiente non avrebbe potuto guadagnarsi la vita eterna con la sua ubbidienza (Rom. 6:10; Gal. 3:21-22).

I credenti, ai quali Pietro si rivolge e che provenivano da Israele, avevano dovuto essere riscattati da quel «vano modo di vivere» insegnato loro dai padri. Il riscatto non era avvenuto per mezzo di cose corruttibili, anche se molto preziose, ma per il sangue prezioso di Cristo, come d’agnello senza difetto né macchia. Che potente motivo per vivere ora nel timore di Dio!

Scrivendo a degli Ebrei, Pietro fa allusione al riscatto dei primogeniti del popolo; riscatto delle anime per mezzo dell’agnello (Esodo 12), e per mezzo del denaro (Esodo 30).

Il padre di famiglia di Esodo 12 doveva mettere da parte il suo agnello sino al giorno in cui avrebbe dovuto sacrificarlo. Anche Dio aveva il suo Agnello in serbo per manifestarlo nel tempo stabilito, alla fine dei tempi: «Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi». Gli ultimi tempi, o la fine dei tempi, è la fine della storia della responsabilità dell’uomo sotto la legge. La croce di Cristo pone il punto finale ad essa e apre la via alla manifestazione della grazia.

La croce segna dunque la fine della prova del primo Adamo che non sarà ripetuta; non vi sarà neppure una nuova manifestazione dell’Agnello, giacché è avvenuta una volta per tutte.

«per mezzo di Lui credete in Dio che l’ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza siano in Dio.» (v. 21)

è per mezzo di Cristo, l’Agnello di Dio, che noi crediamo in Dio ora. Non è perché vediamo la creazione, né perché sperimentiamo la provvidenza, e neppure grazie alla legge di Mosè, che il credente crede a Dio, ma per la rivelazione di se stesso nella persona di Cristo. Il sangue prezioso dell’Agnello è il fondamento di tutto ciò che Dio ha fatto per noi. Era necessario che fossimo riscattati e purificati, e che la sua morte ponesse fine a tutto ciò che eravamo come figli d’Adamo. Ma Dio lo ha risuscitato e gli ha dato gloria. La nostra fiducia e la nostra speranza sono che Egli agirà nel medesimo modo verso di noi. Dio, essendo stato glorificato dalla morte del suo Figlio, può con “giustizia” benedirci, e darci un posto nella medesima gloria di Cristo. Tutto ciò che concerne Dio ancora prima della fondazione del mondo, lo conosciamo per mezzo di Cristo, l’Agnello ben preordinato prima della fondazione del mondo, manifestato in terra, morto, risorto, glorificato per noi.

«Avendo purificato le anime vostre con l’ubbidienza alla verità per arrivare a un sincero amore fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,» (v. 22)

I credenti a cui scriveva Pietro avevano ottenuto questa purificazione  per mezzo della fede; la fede dà valore al sangue di Cristo, il solo che purifica da ogni peccato. Ora, essi dovevano camminare nell’ubbidienza alla verità per essere praticamente puri. Si insegna sovente che è per mezzo della consacrazione a Dio che si può essere purificati. Ma è la purificazione dell’anima per mezzo della fede il punto di partenza del cammino del credente; dopo vengono l’ubbidienza e la consacrazione.

La purificazione dell’anima e l’amore vanno di pari passo. Purificato dalla contaminazione della vecchia natura, posso ora agire secondo la nuova, quella di Dio che è amore e, di conseguenza, amare tutti coloro che sono oggetto del medesimo amore.

Il cuore puro non è un cuore che non pecchi più; è piuttosto un cuore che respinge il male, invece di accettarlo, che è davanti a Dio senza frode. Davide dice nel Salmo 139: «O Eterno, tu m’hai investigato e mi conosci», e ai vers. 23 e 24: «Esaminami, o Dio, e conosci il mio cuore. Mettimi alla prova e conosci i miei pensieri. Vedi se v’è in me qualche via iniqua e guidami per la via eterna».

Il cuore puro ci rende capaci di amare senza ipocrisia, perché respinge qualsiasi pensiero estraneo alla natura divina. L’amore fraterno deve essere praticato in questa maniera, affinché niente ci impedisca di esercitarlo nella purezza.

«perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, mediante la parola vivente e permanente di Dio.» (v. 23)

Noi possiamo realizzare l’amore fraterno senza ipocrisia perché siamo stati rigenerati da seme incorruttibile, per mezzo della vivente e permanente parola di Dio che lo Spirito Santo ha fatto penetrare nel nostro cuore e nella nostra coscienza (siamo “nati d’acqua e di Spirito” secondo le parole del Signore a Nicodemo in Giov. 3:5).Questa Parola ha così portato nel cuore una natura nuova, un seme incorruttibile che è la vita che possediamo. Il seme incorruttibile è della medesima natura della Parola di Dio che l’ha comunicato.

«Infatti, ogni carne è come l’erba, e ogni sua gloria come il fiore dell’erba. L’erba si secca e il fiore cade; ma la parola del Signore rimane in eterno. E questa è la Parola della Buona Novella che vi è stata annunziata.» (v. 24,25)

La vecchia natura è una cosa giudicata; non se ne parla più. La carne con tutti i suoi vantaggi e tutta la sua gloria è come l’erba e il suo fiore; non può sussistere al soffio dell’Eterno.

Quando Dio vuole consolare il suo popolo, dopo i castighi che gli hanno reso «il doppio per tutti i suoi peccati» (Isaia 40:1-2), non lo fa sul fondamento della responsabilità dell’uomo nella carne, perché “la carne” è consumata dal suo soffio. Allora appare Cristo, la Parola, Parola vivente che permane in eterno; Egli lavora nei cuori per produrre una natura incorruttibile, consentendo a Dio di realizzare i suoi progetti di grazia per la benedizione del suo popolo (Isaia 40:3-11).

L’Evangelo è la “buona novella”, cioè una “buona notizia”; quella che annuncia a ogni uomo peccatore la possibilità di ottenere il perdono di Dio credendo al sacrificio di Cristo. Cristo e la sua gloria, nostra speranza, ci sono presentati in contrapposizione all’uomo nella carne, la cui gloria è come l’erba e il suo fiore.

 

Capitolo 2

«Sbarazzandovi di ogni cattiveria, di ogni frode, dell’ipocrisia, delle invidie e di ogni maldicenza, come bambini appena nati, desiderate il puro latte spirituale, perché con esso cresciate per la salvezza,» (v.1,2)

Non è tutto essere stati rigenerati; dobbiamo crescere. Per questo dobbiamo respingere tutto ciò che proviene dalla nostra antica natura: «Ogni cattiveria e ogni frode, e l’ipocrisia e le invidie, e ogni maldicenza». Queste cose impure mantenute nel cuore paralizzano lo sviluppo spirituale.

Dobbiamo anche desiderare ardentemente, come dei bambini appena nati, il puro latte spirituale, per poter crescere, grazie ad esso, per la salvezza. L’esempio del neonato ci mostra con quale ardore dobbiamo desiderare il nutrimento della Parola.  I neonati rifiutano tutto ciò che li distoglie dal latte di cui hanno bisogno.

Il latte spirituale non significa qui, come in Ebrei 5:13 e 1 Corinzi 3:2, il nutrimento idoneo per i piccoli fanciulli soltanto, per i giovani nella fede; qui è l’alimento completo utile a tutti, bambini, giovani e padri. Il latte è l’unico alimento completo, puro. Dopo essere stati generati dalla Parola di Dio, questa stessa Parola rimane l’unico nutrimento utile per lo sviluppo dell’uomo nuovo. Egli ha la vita, e dev’essere nutrito per crescere «per la salvezza». Quest’espressione può significare: crescere nella conoscenza di ciò che la salvezza comporta; oppure: crescere in vista e nell’attesa della salvezza finale, cioè della finale liberazione da ogni legame col mondo, con la carne, col peccato, quando lasceremo questa terra. Il coronamento di questa salvezza è la gloria; nell’attesa del suo raggiungimento, dobbiamo nutrirci della Parola, affinché vi sia una crescita regolare, liberati da tutto ciò che potrebbe essere un intralcio per il raggiungimento di questa salvezza finale.

I Filippesi dovevano compiere la loro salvezza, «con timore e tremore» (Fil. 2:12); salvezza pratica, liberazione dalla potenza del peccato nella vita di tutti i giorni, da non confondere con la salvezza ottenuta per fede, una volta per sempre. Qui bisogna crescere a salvezza, fino allo sviluppo che raggiungeremo perfetto nella gloria, poiché noi aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, «che trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria» (Fil. 3:20-21); Salvatore perché ci libererà, finalmente, dalla presenza del peccato.

«se davvero avete gustato che il Signore è buono.» (v. 3)

Se non apprezziamo l’amore, la grazia, la bontà del Signore e la sua Persona adorabile, non possiamo nutrirci della Parola che ci parla di Lui. Vi sono tante cose in questo mondo che assorbono i pensieri e fanno perdere l’attrattiva che il Signore deve avere per il cuore rinnovato.

Dobbiamo far uso con molta sobrietà delle cose di quaggiù, indispensabili per la vita presente, per essere sempre nella condizione di gustare e di apprezzare quanto il Signore è buono, e di desiderare con ardore il latte dell’intelligenza spirituale che nutre l’anima di Cristo, sino al momento in cui Gli saremo resi simili.

«Accostandovi a lui, pietra vivente, rifiutata dagli uomini ma innanzi a Dio scelta e preziosa, anche voi, come pietre viventi, siete edificati per formare una casa spirituale, un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo.» (v. 4,5)

Avendo gustato quanto il Signore è buono, questi credenti ebrei, in contrasto con la nazione che l’aveva respinto e misconosciuto, si accostavano a Lui come alla pietra vivente, scelta da Dio e preziosa agli occhi suoi.

Il pensiero dell’apostolo si ricollega alla scena del capitolo 16 di Matteo. Dopo che Pietro ebbe confessato che Gesù era il Cristo, il Figlio del Dio vivente, il Signore gli disse che su quella pietra, su quella roccia, cioè il Figlio del Dio vivente, trionfante sulla morte, stava per edificare la sua Chiesa; Pietro diventava così, per la grazia, una pietra vivente della medesima natura del suo fondamento.

L’apostolo attribuisce anche a tutti i credenti ai quali scrive, la qualifica di pietre viventi. Essi erano «edificati per formare una casa spirituale, un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo».

In questo passo vediamo la Chiesa come un edificio, un edificio che Cristo stesso costruisce senza il contributo di architetti umani, contrariamente all’edificio di cui è parlato in 1 Corinzi 3, dove si vede che Dio ha dei collaboratori; e questi, sul fondamento che è Cristo, hanno edificato, alcuni, materiali preziosi; altri, purtroppo, legno, fieno e paglia, che saranno consumati dal fuoco del giudizio di Dio (*).

Qui tutte le pietre sono viventi e della medesima natura del fondamento. è anche così in Efesini 2:21, dove «l’edificio intero, ben collegato insieme, si va innalzando per essere un tempio santo nel Signore». Questa costruzione, che ebbe inizio alla Pentecoste, sarà terminata quando il Signore vi avrà aggiunto l’ultima pietra, al suo ritorno. Al versetto 22 di questa medesima epistola, vediamo la Chiesa come abitazione di Dio per lo Spirito, composta da tutti i credenti che vivono attualmente sulla terra.

I credenti sono non soltanto delle pietre dell’edificio spirituale, ma anche un sacerdozio santo, sacerdozio di cui quello dei figli d’Aaronne nel tempio era la figura. Essi offrivano dei sacrifici materiali che non potevano pienamente soddisfare Dio; mentre ora, per mezzo di Gesù Cristo, questi sacrifici gli sono graditi perché sono spirituali e sono adatti alla natura di Dio, essendo presentati non sulla base della carne, ma in virtù di ciò che Cristo ha compiuto e di ciò ch’Egli è per Dio.

Il Padre ha cercato degli adoratori che lo adorino in spirito e verità. In Ebrei 6:14, la coscienza è stata purificata dalle opere morte per servire il Dio vivente. In Ebrei 13:15 è scritto: «Per mezzo di Gesù, dunque, offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode; cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome» (*).

Si vede che l’intento di Dio nel salvare il peccatore e avvicinandolo a sé, è stato di ottenere un culto e un’adorazione che l’uomo naturale non era in grado di offrirgli. Questa verità è quasi del tutto dimenticata nella cristianità, dove si cerca, forse anche con sincerità, di servire Dio per mezzo di un’attività fatta più di volontà propria che di dipendenza da Lui, e dove si trascura il significato del vero culto.

Quando il cieco dalla nascita, ottenuta la vista, si trovò davanti a Gesù e seppe ch’Egli era il Figlio di Dio, gli si prostrò davanti, lo adorò (Giov. 9:38). In Luca 17, il lebbroso samaritano, dopo essere stato guarito, tornò da Gesù glorificando Dio ad alta voce; e, gettandosi sulla sua faccia ai piedi del Signore, gli rese grazie. Il Signore, dopo la sua liberazione dalla morte, secondo la profezia del Salmo, loda anch’Egli Dio: «Io ti celebrerò nella grande assemblea, ti loderò in mezzo a un popolo numeroso» (Salmo 35:18).

«Infatti si legge nella Scrittura: “Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare, eletta, preziosa; e chiunque crede in essa non sarà confuso”. Per voi dunque che credete essa è preziosa; ma per gli increduli “la pietra che gli edificatori hanno rigettata è divenuta la pietra angolare, pietra d’inciampo e sasso di ostacolo”. Essi, essendo disubbidienti, intoppano nella parola; e a questo sono stati anche destinati.» (v. 6 a 8)

Quanto era incoraggiante per dei credenti provenienti dal popolo d’Israele (i quali, pur avendo accettato il Messia, non si troveranno sulla terra, poiché fanno parte della Chiesa, quando avrà luogo la benedizione millenaria) vedere la posizione ben più elevata che ora occupavano per mezzo della fede. Essi godevano già, ma con benedizioni ben più grandi e aspettando la gloria, di tutto ciò che il residuo fedele della fine troverà in quella Pietra angolare che Dio porrà in Sion, pietra eletta e preziosa (Isaia 28).

La pietra sulla quale Dio aveva edificato tutto, in vista della benedizione dei credenti, aveva già un gran valore per i fedeli, in quel momento. Che valore aveva per Dio, dopo il crollo di tutto ciò che era stato affidato alla responsabilità dell’uomo nella carne! E che valore ha ora per coloro che, coinvolti in questa rovina totale, trovano in essa un terreno di benedizione stabile e sicuro per l’eternità!

Ma per i Giudei che non scorgevano in Cristo né bellezza, né valore alcuno, quella stessa pietra angolare, preziosa a quelli che credono, era divenuta una «pietra d’inciampo e un sasso di ostacolo». Contrastando la Parola, unico mezzo di benedizione, essi sono destinati al giudizio a motivo della loro disubbidienza, poiché respingono colui che porta la liberazione. Il Signore stesso aveva detto: «Chi cadrà su questa pietra sarà sfracellato; ed essa stritolerà colui sul quale cadrà» (Matteo 21:44). Questo avverrà a Israele apostata; sarà il carname su cui si raduneranno le aquile (Matteo 24:27,28).

«Ma voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato, perché proclamiate le virtù di Colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa;» (v. 9)

L’apostolo applica qui ai credenti dei privilegi simili a quelli promessi a Israele sulla base dell’ubbidienza alla legge ma molto più elevati e gloriosi (Esodo 19:6). Li definisce «una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato». Eletti secondo la prescienza di Dio Padre in santità di Spirito, essi sono acquistati, come popolo, dal sangue dell’Agnello di Dio, «per proclamare le virtù di Colui che li ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa».

Troviamo qui un secondo carattere del nostro sacerdozio, poiché esso partecipa al duplice carattere del sacerdozio di Cristo. Egli è attualmente sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec, ma compie al di là della cortina del tempio, in figura, il sacerdozio secondo l’ordine di Aaronne. Ben presto Egli sarà re e sacerdote sul suo trono, e manifesterà la sua gloria a tutti, benedicendo gli uomini da parte di Dio, e Dio da parte degli uomini.

Se noi esercitiamo un sacerdozio santo davanti a Dio per offrirgli sacrifici spirituali, possiamo anche esercitare un sacerdozio regale verso gli uomini, porgendo loro, da parte di Dio, la medesima grazia di cui siamo oggetti e proclamando al mondo le virtù di Colui che ci ha così meravigliosamente liberati. Non dobbiamo trascurare il compimento del sacerdozio regale, il far conoscere la grazia a coloro che sono ancora nelle tenebre; ma non dobbiamo nemmeno negligere il sacerdozio santo, che rende a Dio ciò che gli è dovuto. Del resto, i due vanno insieme e non possono essere efficaci l’uno senza l’altro.

«voi, che già non eravate un popolo, ma ora siete il popolo di Dio; voi, che non avevate ottenuto misericordia, ma ora avete ottenuto misericordia.» (v. 10)

I privilegi annunciati dal profeta Osea per il futuro popolo d’Israele (cap.1:20 e 2:23) sono anche applicati a questi Giudei credenti. Adesso, essi erano il vero popolo di Dio, dopo aver fatto parte di quello che Dio ormai chiama “non popolo mio” (lo Ammi) e a cui non è fatta misericordia. Essi hanno già varcato la porta di speranza della valle di Acor, di cui parla il medesimo profeta (cap.2:15). In quel luogo cadde il primo giudizio su Israele in Canaan; Acan ne portò la pena e il popolo fu risparmiato. Così il Signore, l’Agnello di Dio, prese volontariamente il posto del colpevole e la porta fu aperta alla misericordia nel luogo stesso del giudizio.

Il residuo giudeo dei tempi della fine vedrà il compimento di queste cose soltanto dopo aver subito il castigo di Dio. Questi passi, come tanti altri, ci mostrano che ciò che Israele ha perduto per la terra, il credente lo guadagna per il cielo.

«Carissimi, io vi esorto, come stranieri e pellegrini, ad astenervi dalle carnali concupiscenze che danno l’assalto contro l’anima,» (v. 11)

I credenti che camminano verso la loro eredità sono stranieri e pellegrini; quei credenti a cui Pietro scrive lo erano, senza dubbio, in quanto Giudei nella dispersione, ma anche, e soprattutto, per la posizione che la grazia aveva loro conferito. Essi erano nella medesima posizione di Abraamo, loro padre nella fede, quando si trovava in Canaan. Gli stranieri non fanno parte del paese in cui abitano, e i pellegrini, oltre che essere stranieri, non hanno una dimora fissa; essi sono di passaggio e si recano a tappe verso un altro luogo. I patriarchi hanno confessato di essere stranieri e pellegrini sulla terra (Ebrei 11:13).

Per contrasto, è interessante udire l’apostolo Paolo dire ai credenti di Efeso, provenienti dalle nazioni pagane, ch’essi non erano più «né stranieri né ospiti; ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio» (Efesini 2:19).

In qualità di stranieri e pellegrini i fedeli devono astenersi da ciò che impera nel paese nel quale abitano, dalle concupiscenze carnali che “danno l’assalto all’anima” e trovano eco nel cuore naturale. Pietro presenta sempre il lato pratico della verità. In Romani 7:8, il peccato in noi è la sorgente della concupiscenza; Giacomo 1:15, invece, ci mostra che è la concupiscenza a produrre i peccati. Qui si tratta del peccato che così facilmente ci avvolge per mezzo delle concupiscenze dall’esterno che eccitano quelle interiori e fanno guerra all’anima. Il credente può e deve astenersene.

«avendo una buona condotta fra gli stranieri (i non Giudei); affinché laddove sparlano di voi, chiamandovi malfattori, osservino le vostre opere buone e diano gloria a Dio nel giorno in cui li visiterà.» (v. 12)

Astenendosi dalle concupiscenze carnali, la condotta di quei credenti sarebbe stata onesta tra le nazioni che li circondavano. Si tratta qui particolarmente di Giudei credenti, disprezzati e perseguitati, esposti alle calunnie di quelli delle nazioni pagane che si sarebbero sentiti giudicati dalla buona condotta di coloro che, un tempo, avevano seguito la medesima via (4:3). Nel giorno in cui Dio li visiterà, quando la Sua mano peserà in giudizio sugli empi, quelle medesime persone che avranno sparlato dei credenti come di gente che fa il male, vedranno la differenza che c’è tra i Giudei empi che vivono come loro nel peccato, e quelli che soffrono facendo il bene; e dovranno glorificare Dio a motivo delle buone opere che avevano vedute.

La “visitazione” era un’espressione ben conosciuta dai Giudei; questo termine indica il giorno del giudizio sia sul popolo che sulle nazioni pagane (eccetto in Luca 19:44, dove la visitazione indica il tempo nel quale il Messia era stato presentato ai Giudei. Per il giudizio su Israele, vedere Geremia 8:12; 11:23; 23:12; Isaia 10:3; Osea 9:17; Michea 7:4; e per le nazioni pagane, Geremia 46:21; 48:44; 50:18, 21, 27; 51:18).

Mentre Pietro scriveva le sue epistole, quel giorno era vicino per i Giudei, perché prossima era la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito; è da questo giudizio che sarebbero scampati coloro che si aggiungevano alla chiesa (Atti 2:47).

In linea generale, quando Dio “visita” gli uomini, essi devono riconoscere il cammino fedele dei credenti, anche se li hanno disprezzati. Giudicati dalle buone opere dei santi, essi devono anche glorificare Dio, attribuendo così a Lui il bene che hanno osservato nei suoi (vedere Matteo 5:16).

«Siate sottomessi, per amor del Signore, ad ogni umana istituzione: al re, come al sovrano; ai governatori, come mandati da lui per punire i malfattori e per dar lode a quelli che fanno il bene.» (v. 13,14)

Bisogna essere soggetti ad ogni autorità poiché l’autorità è da Dio, e il motivo della sottomissione è l’amore per il Signore. Ritroviamo qui i due principi della vita cristiana che abbiamo incontrato nel primo capitolo: l’ubbidienza e l’amore dai quali la sottomissione e il timore sono inseparabili. Nell’epistola, troviamo più volte la parola “soggetto”, o sottomesso, e, più ancora, la parola “timore”. Nella sottomissione e nel timore noi riconosciamo l’autorità del Signore e cerchiamo di piacergli, accettando anche ogni ordine istituito da Dio.

Prima viene il re, il quale rappresentava l’autorità che proveniva direttamente da Dio; poi i governatori che erano i rappresentanti del re per punire coloro che facevano il male e lodare coloro che facevano il bene.

In quest’epistola si ritrova sempre l’idea del governo. è pure ripetuta l’espressione “fare il bene”; è ciò che Cristo ha fatto (Atti 10:38). Ma in questo modo chi fa il bene deve soffrire; ecco perché, come abbiamo visto, Pietro parla molto anche di sofferenza.

«Perché questa è la volontà di Dio: che, facendo il bene, turiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti.» (v. 15)

La volontà di Dio è che facendo il bene si turi la bocca all’ignoranza degli uomini ignoranti e insensati; perché fare il bene riduce al silenzio gli avversari della verità, così come fare il male dà loro motivo di sparlare sia contro i credenti che agiscono male, sia contro Dio e la sua Parola.

«Fate questo come uomini liberi, che non si servono della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servi di Dio.» (v. 16)

Questo versetto ci presenta un importante carattere dei credenti: liberi perché è la libertà che rende il credente capace di fare la volontà di Dio e non la propria. Quest’ubbidienza si manifesterà nell’accettazione delle cose come Dio le ha stabilite, e darà alla vita del fedele qualche carattere di quella di Cristo, che poteva dire: «Perché faccio del continuo le cose che gli piacciono» (Giovanni 8:29).

«Onorate tutti. Amate i fratelli. Temete Dio. Onorate il re.» (v. 17)

Quest’esortazione era molto necessaria per dei credenti usciti dal giudaismo che avevano l’abitudine di considerare gli altri uomini con disprezzo, specialmente i pagani in mezzo ai quali vivevano e la cui condotta li urtava, come urta anche il cristiano. Ma è un’esortazione utile a tutti, in tutti i tempi.

L’umiltà che la vita di Dio produce rende più facile la realizzazione di questa esortazione. Il credente non si pone al di sopra degli altri, quale che sia la sua condizione sociale. Se un uomo misconosce e viola la sua dignità di creatura intelligente, il credente la deve riconoscere e deve agire usando il tatto che lo Spirito suggerisce; tatto che, quando c’è una vera pietà, supplisce perfino alla mancanza di educazione. La comunione col Signore, poi, fornisce il discernimento spirituale necessario per sapere come trattare con gli altri in ogni circostanza.

Bisogna amare tutti i fratelli, tutti coloro che sono nati da Dio; ma non confondere l’amore con la comunione, e neppure mettere sullo stesso livello l’amore e l’amicizia. Tutti i credenti sono fratelli e dobbiamo amarli. è un modo di temere Dio e cercare di essergli graditi il riconoscere i diritti del suo amore.

«Onorate». Nel greco, dove è detto di onorare tutti gli uomini, il tempo del verbo indica che questo deve avvenire quando l’occasione si presenta; mentre qui, dove l’onore si riferisce al re, il verbo indica un’azione che permane; bisogna onorarlo a motivo del carattere datogli da Dio, anche se la sua condotta può non essere onorevole.

«Domestici, siate con ogni timore sottomessi ai vostri padroni; non solo ai buoni e ragionevoli, ma anche a quelli che sono difficili.» (v. 18)

Dal versetto 13 del capitolo in esame al versetto 6 del capitolo 3 troviamo il riconoscimento dell’autorità al di sopra di noi: il re, i governatori, i padroni, i mariti; poi, al capitolo 5:5, gli anziani. Uno dei grandi caratteri dell’apostasia finale, che prende piede rapidamente nei nostri tempi e a cui corriamo il rischio di non sfuggire, è il disprezzo dell’autorità sotto tutte le sue forme; dobbiamo lottare seriamente contro questo spirito di insubordinazione.

Qui l’esortazione concerne in modo particolare i servi. Da loro è richiesta la sottomissione con ogni timore, un timore che, non solo riconosce l’autorità, ma proviene dall’amore, fonte di sottomissione e di ubbidienza. è in questo timore di Dio ch’essi devono servire i loro padroni, senza far dipendere la loro sottomissione dal carattere più o meno buono di essi.

La sottomissione differisce un po’ dall’ubbidienza. Essa si sottopone all’autorità d’un altro, qualunque cosa questi faccia di noi; l’ubbidienza, invece, è eseguire tutto ciò che è richiesto di fare. Così un credente può essere sottomesso senza però ubbidire, se quello che gli è richiesto contrasta con la volontà di Dio che è al di sopra di tutto; se l’autorità sotto la quale si trova un credente esige cose contrarie alla volontà di Dio, egli non può ubbidire, ma si sottomette alle conseguenze della posizione che ha preso. Vediamo in Atti 4 e 5 che gli apostoli ubbidiscono «a Dio piuttosto che agli uomini»; così è per coloro che subirono e subiscono la persecuzione e il martirio. Ma spesso, invece di sopportare qualche piccola difficoltà, ci si ribella guidati da un principio di insubordinazione.

Qualcuno ha detto che in questo mondo di sofferenza, la sottomissione è un principio di guarigione. è incoraggiante pensare che anche nella posizione di servo si poteva onorare Cristo stando sottomessi. Cristo è stato sottomesso in modo perfetto.

«Perché è una grazia se qualcuno sopporta, per motivo di coscienza davanti a Dio, sofferenze che si subiscono ingiustamente. Infatti, che vanto c’è se voi sopportate pazientemente quando siete malmenati per le vostre mancanze? Ma se soffrite perché avete agito bene, e lo sopportate pazientemente, questa è una grazia davanti a Dio.» (v. 19,20)

Un padrone difficile può fare soffrire ingiustamente il suo servitore, ma sarà cosa degna di lode se, per motivi di coscienza verso Dio, il servitore sopporterà quest’afflizione con sottomissione invece di abbandonare il suo padrone. Non bisogna che la sofferenza provenga da infedeltà nella sua condotta; in questo caso non è degno di lode. Ma se v’è sofferenza per aver fatto il bene, come avvenne per il Signore, allora c’è della gloria; ed è una cosa degna di lode poiché l’apostolo dice: «A questo siete stati chiamati». Siamo chiamati a fare il bene e a soffrire poiché, in questo mondo di peccato, fare il bene è inseparabile dalla sofferenza. «Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui» (Fil. 1:29).

«Infatti a questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme. “Egli non commise peccato e nella sua bocca non si è trovato inganno”. Oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; soffrendo, non minacciava, ma si rimetteva a colui che giudica giustamente;» (v. 21 a 23)

Cristo, soffrendo per noi, ci ha lasciato un modello affinché seguiamo le sue orme. è per salvarci e lasciarci un modello che Cristo ha sofferto. Questo modello è perfetto; non ci rimane che imitarlo. Il Signore ha attraversato tutte le circostanze della vita di quaggiù affinché noi sappiamo come comportarci, guardando a Lui che non ha mai commesso peccato, nella cui bocca non v’è stata frode alcuna, che sopportava l’oltraggio senza renderlo, che soffriva senza minacciare rimettendosi a Colui che giudica giustamente.

Nel contemplare quel modello divino in tutte le sue perfezioni, occupati di Lui e non di noi stessi, saremo resi capaci d’imitarlo e di riprodurre i caratteri divini che hanno brillato nella sua perfetta umanità, in seno a tutte le sofferenze.

«egli ha portato egli stesso i nostri peccati nel suo corpo, sul legno della croce, affinché, morti al peccato, vivessimo per la giustizia, e mediante le cui lividure siete stati sanati.» (v. 24)

Egli ha portato i nostri peccati affinché, liberati da essi, noi siamo “morti” quanto al commettere il peccato, e viviamo per la giustizia, una giustizia pratica. Un morto non pecca più; un vivente in Cristo compie la giustizia secondo Dio.

L’apostolo Paolo, che ci parla dei principi fondamentali della fede, dice in Romani 6 che siamo morti al peccato, cioè alla natura peccatrice da cui provengono i peccati. Pietro, che presenta l’aspetto pratico, parla dei peccati, frutti del peccato che è in noi. è una potente motivazione per non compiere il male il sapere che Cristo ha sofferto per noi affinché noi possiamo praticare la giustizia.

Ogni volta che presenta Cristo come modello, Pietro non separa le Sue sofferenze, nelle quali dobbiamo imitarlo, dalle sue sofferenze espiatorie che non saranno mai le nostre (capitoli 1:15 a 20; 2:21 a 24; 3:17,18; 4:1). L’espiazione dei nostri peccati era necessaria perché, divenuti credenti e salvati per fede, potessimo avere Cristo come modello di vita; essa ci rende capaci di imitarlo, cosa che sarebbe stata impossibile prima della conoscenza dell’espiazione. Col decadimento del cristianesimo si cercò di impegnare gli uomini a seguire Cristo senza preoccuparsi che fossero salvati, cioè senza la croce come punto di partenza; anche oggi, nella cristianità, non si tiene conto che l’uomo in Adamo non può, nel modo più assoluto, imitare il Signore. Bisogna “mangiare” la carne di Cristo e “bere” il suo sangue (Giov. 6:54); bisogna, in figura, essere nutriti della sua morte nella quale il vecchio uomo ha preso fine, per poterlo poi seguire come modello.

In quest’epistola troviamo le sofferenze di Cristo sotto tutti gli aspetti e, come si può vedere in molti Salmi e nei profeti (ad esempio Zaccaria 13), le sue sofferenze dalla parte degli uomini non sono separate da quelle dalla parte di Dio.

«Poiché eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle anime vostre.» (v. 25)

 

Capitolo 3

«Anche voi, mogli, siate sottomesse ai vostri mariti, perché, se anche ve ne sono che non ubbidiscono alla Parola, siano guadagnati, senza parola, dalla condotta delle loro mogli, quando avranno considerato la vostra condotta casta e rispettosa.» (v. 1,2)

La ragione della sottomissione alle diverse autorità alle quali siamo sottoposti è indicata nell’ultimo versetto di questo capitolo: «Gesù Cristo, asceso al cielo, sta alla destra di Dio, dove angeli, principati e potenze gli sono sottoposti». La nostra sottomissione è dunque dovuta all’autorità di Cristo, che è al di sopra di tutto e di tutti. Quando si è compreso questo, la sottomissione diventa facile. I servitori devono ubbidire ai loro signori “come a Cristo”, “servendo il Signore” (Colossesi 3:24; Efesini 6:5); così pure le mogli ai loro mariti “come al Signore” (Efesini 5:22).

La sottomissione della moglie al marito non implica però che non debba essere sottomessa anche al Signore, poiché l’autorità del marito è subordinata a quella di Cristo. Nel caso in cui una donna con un marito non convertito venga alla conoscenza del Signore, la sua umile sottomissione può essere di testimonianza e guadagnare il marito incredulo all’Evangelo e all’ubbidienza a Dio il quale ordina agli uomini «che tutti, per ogni dove, abbiano a ravvedersi» (Atti 17:30). Questa è “l’ubbidienza della fede” (Romani 1:5). Quindi la moglie credente, più che predicare a suo marito, deve vivere secondo la Parola, affinché questi sia convinto, senza parola, dai frutti del comportamento di sua moglie; “considerando” la sua condotta “casta e rispettosa”.

Il timore del Signore perfeziona i sentimenti che influiscono sul comportamento, e li purifica; poiché la purezza è l’assenza del peccato nel nostro modo di vivere, come la santità è la separazione dal male per piacere a Dio. Una condotta del genere pone il marito non convertito alla presenza di Dio il quale, con questo mezzo, può agire sulla sua coscienza.

«Il vostro ornamento non sia quello esteriore che consiste nell’intrecciarsi i capelli, nel mettersi addosso gioielli d’oro e nell’indossare belle (ossia suntuose, lussuose) vesti,» (v. 3)

L’ornamento di una donna credente non dev’essere esteriore, con oggetti che hanno valore per gli uomini e che attirano gli sguardi su di lei. Ella deve adornarsi di ciò che ha valore per Dio, di ciò che ora è nascosto, ma che un giorno sarà manifestato gloriosamente. Quando la Sposa di Cristo apparirà, alle nozze dell’Agnello, sarà vestita di fino lino risplendente e puro che sono le “opere giuste dei santi”. Così adorna, essa apparirà con Cristo nella gloria (Apocalisse 19:8-15), nel giorno in cui verrà manifestato tutto quello che Dio ha apprezzato nel nostro cammino. Il castigo di Dio sulla vanità e l’orgoglio delle donne d’Israele, quando il popolo si era distolto dall’Eterno, era già stato preavvisato ed eseguito (Isaia 3:16-26); e non è cambiata, oggi, la sua valutazione.

«ma quello che è intimo e nascosto nel cuore, la purezza incorruttibile di uno spirito dolce e pacifico, che agli occhi di Dio è di gran valore.» (v. 4)

L’essere occulto del cuore, cioè “l’interiore” che solo Dio conosce, ha un ornamento che Dio apprezza: l’ornamento incorruttibile di uno spirito benigno e pacifico, in contrasto con quello corruttibile e solo esteriore di questo mondo. Quest’ornamento non può che essere quello dell’uomo nuovo, nascosto nel cuore, cioè nell’”uomo interiore” (secondo 2 Corinzi 4:16); esso è la manifestazione dei caratteri di Dio nella sottomissione della donna alla Sua volontà, e fa realizzare alla donna la posizione nella quale Dio l’ha posta.

«Così infatti si adornavano una volta le sante donne che speravano in Dio, restando sottomesse ai loro mariti, come Sara che ubbidiva ad Abraamo, chiamandolo signore; della quale voi siete diventate figlie facendo il bene senza lasciarvi turbare da nessuna paura.» (v. 5,6)

Vediamo qui l’ornamento delle sante donne di un tempo; esse speravano in Dio e la loro condotta lo testimoniava. Così dev’essere per ogni credente. Finché siamo in terra, tutto ciò che possediamo è per la fede e allo stato di speranza, quindi dobbiamo fare ogni cosa per piacere a Dio il quale, a suo tempo, darà ad ognuno la ricompensa del suo lavoro «Poiché chi s’accosta a Dio deve credere ch’egli è, e che ricompensa tutti quelli che lo cercano» (Ebrei 11:6).

Questa speranza ispirava il comportamento delle sante donne che, animate dal solo desiderio di piacere a Dio, erano sottomesse ai loro mariti, come Sara che ubbidiva ad Abramo e riconosceva la sua autorità chiamandolo signore (Genesi 18:12). Le donne credenti diventano “sue figlie”, dice Pietro, se agiscono seguendone l’esempio (anche senza chiamare il marito “signore”!). è nel fare il bene e nell’avere una buona condotta che non avranno nulla da temere, come il giusto del Salmo 112:7,8: «Egli non temerà cattive notizie; il suo cuore è saldo, fiducioso nell’Eterno. Il suo cuore è tenace, privo di paure…».

Quando riponiamo la nostra speranza in Dio, non abbiamo nulla da temere; nulla da temere se ubbidiamo, come qui, e nulla da temere se soffriamo per la giustizia, come al vers. 14.

«Anche voi, mariti, vivete insieme alle vostre mogli con il riguardo dovuto alla donna, come a un vaso più delicato. Onoratele, poiché anch’esse sono eredi con voi della grazia della vita, affinché le vostre preghiere non siano impedite.» (v. 7)

Questo versetto insegna al marito cristiano come deve comportarsi verso sua moglie; egli non deve considerarsi un’autorità che richiede da lei sottomissione e ubbidienza; anzi, deve agire in modo da non aver bisogno di rivendicare la sua autorità. Nei suoi rapporti con sua moglie, conoscendo la grazia, egli deve tenere presente due cose: 1. la sua natura sensibile e intuitiva, per cercare di vedere le cose come lei le vede, senza far violenza ai suoi sentimenti ma esercitando, se è necessario, una ferma e dolce pressione senza pretendere da lei quelle cose che sono tipiche dell’uomo, al quale la supremazia è stata conferita; 2. la posizione davanti a Dio uguale per l’uomo come per la donna, nel senso che sono ambedue eredi della grazia della vita. Nelle relazioni umane, la donna deve quindi onorare suo marito, e nelle relazioni cristiane il marito deve l’onore a sua moglie, poiché la grazia ha dato loro una parte comune. Quando gli sposi si comportano tenendo presente queste due verità, ogni dissenso che potrebbe turbare o intralciare le loro preghiere in comune sarà evitato, e ogni ostacolo tolto al loro esaudimento.

In questo passo è da notare che è il marito responsabile di vegliare perché nulla venga a turbare la pace nei rapporti coniugali e le preghiere non siano impedite. La preghiera in comune non dispensa la moglie dal pregare anche per conto proprio, quand’è sola, oppure in seno alla sua famiglia, in assenza di suo marito. Ma è evidente che anche le preghiere individuali dell’uno o dell’altro potrebbero essere interrotte per comportamenti che il Signore non può approvare.

Vediamo l’importanza della preghiera in comune condizionata qui dal comportamento del marito nei confronti di sua moglie. Si potrebbe dire ch’egli deve comportarsi in modo da non turbare la felicità coniugale, e questo è giusto. Ma è ancora più importante, e da questo dipendono la vera felicità degli sposi credenti e la gloria di Dio, che le nostre preghiere “non siano impedite”. La debolezza che ci contraddistingue, i pericoli di ogni tipo a cui siamo esposti, la nostra incapacità di glorificare il Signore nel compito, sovente così difficile, di mariti e di mogli, esigono che le nostre preghiere non siano impedite. E il marito deve regolare ogni suo comportamento in vista di quello.

«Infine, siate tutti concordi, compassionevoli, pieni di amore fraterno, misericordiosi e umili;» (v. 8)

I credenti devono avere un medesimo sentimento, essere affabili, fraterni, compassionevoli, umili, come Cristo quand’era quaggiù. Per avere un medesimo sentimento bisogna avere il pensiero di Cristo; ed è con quel punto di riferimento che noi dobbiamo controllare i nostri sentimenti. Se poi dei nostri fratelli sentono qualcosa diversamente, noi non dobbiamo imporre i nostri punti di vista; la nostra volontà personale tenderà sempre a produrre la divisione. Dobbiamo invece agire come l’apostolo Paolo insegna in Filippesi 3:15: «Se in qualche cosa voi pensate altrimenti, Dio vi rivelerà anche quella. Soltanto, dal punto a cui siamo arrivati, continuiamo a camminare per la stessa via»; e non creiamo delle divisioni!

«non rendete male per male, od oltraggio per oltraggio, ma, al contrario, benedite; poiché a questo siete stati chiamati affinché ereditiate la benedizione.» (v. 9)

Invece di rendere il male, il credente deve benedire, sempre. Egli è erede della benedizione e deve far partecipare tutti al bene che possiede. In ogni Epistola, le esortazioni dipendono dalle verità che sono presentate; però, malgrado la diversità degli insegnamenti, tendono a produrre sempre i medesimi risultati.

In Efesini le esortazioni sono in relazione con l’unità del corpo; in Filippesi, in relazione col Vangelo; in Tessalonicesi, con Dio che avevano appena conosciuto e che servivano. Nel nostro passo, come in tutta quest’epistola, sono in rapporto col governo di Dio nella vita del credente e l’eredità celeste.

«Infatti: “Chi vuol amare la vita e veder giorni felici, trattenga la sua lingua dal male e le sue labbra dal dire il falso; fugga il male e faccia il bene; cerchi la pace e la persegua; perché gli occhi del Signore sono sui giusti e i suoi orecchi sono attenti alle loro preghiere; ma la faccia del Signore è contro quelli che fanno il male”.» (v. 10-12)

La benedizione di cui il credente è erede gli appartiene già se vive nel timore di Dio, com’è insegnato nel Salmo 34:13: «Trattieni la tua lingua dal male e le tue labbra da parole bugiarde. Allontanati dal male e fa’ il bene; cerca la pace e adoperati per essa». Qualsiasi manifestazione del male attira il castigo di Dio, perché «il volto del Signore è contro quelli che fanno il male». L’apostolo cita solo la metà di questo versetto 16 del Salmo 34, omettendo «… per cancellar dalla terra il loro ricordo», parole che non si possono applicare al credente.

Dio non ha riguardi personali, e colui che ama la vita e desidera vedere dei giorni felici deve evitare tutto ciò che potrebbe allontanare da lui la benedizione che Dio ha in serbo. Troviamo lo stesso pensiero in Giobbe 36:7: «Dio… non allontana il suo sguardo dai giusti»; se li disciplina è perché siano partecipi della sua grazia.

«Chi vi farà del male, se siete zelanti del bene? Se poi aveste da soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomenti la paura che incutono e non vi agitate;» (v. 13,14)

Il versetto 13 stabilisce il principio che quando siamo imitatori di Colui che è buono non dobbiamo temere alcun male. Questo non vuol dire che quelli che fanno il bene non abbiano da soffrire; anzi, essendo in un mondo opposto a Dio, soffriranno per amore per la giustizia.

Colui che sopporta le sofferenze è “beato”. L’apostolo, per incoraggiare coloro che soffrono, cita un passo d’Isaia 8 che si applica al residuo fedele d’Israele del tempo della fine. Quel residuo, praticando la giustizia, soffrirà in mezzo a un popolo apostata il quale, temendo l’invasione dell’Assiro, cercherà aiuto in un’alleanza con la “morte”, e in un patto col “soggiorno dei morti”, cioè con la bestia e il falso profeta.

Ma i fedeli non devono temere come i malvagi, né lasciarsi turbare da chi li fa soffrire a motivo della loro giustizia; anzi, sono invitati a santificare il Signore nel loro cuore e a rimettersi a Lui con piena fiducia.

«ma glorificate (o meglio: santificate) il Cristo come Signore nei vostri cuori. Siate sempre pronti a render conto della speranza che è in voi a tutti quelli che vi chiedono spiegazioni. Ma fatelo con mansuetudine e rispetto, e avendo la coscienza pulita;» (v. 15)

Il passo d’Isaia 8:13 dice: «Santificate l’Eterno degli eserciti! Sia lui quello per cui provate timore e paura!». Il “Signore” del Nuovo Testamento è l’”Eterno degli eserciti” dell’Antico (s’intende che si tratta degli eserciti celesti, non certo degli eserciti umani!). Quando giudichiamo tutto il male che è nel nostro cuore, lo “santifichiamo”, poiché non è possibile associare il male con Cristo. Il medesimo pensiero è in Matteo 6:9: «Sia santificato il tuo nome». Il nome del Padre che è nei cieli dev’essere mantenuto puro da qualsiasi mescolanza col male da parte di coloro che lo invocano.

Se qualcuno, testimone del comportamento spirituale di un credente, s’informa sulla ragione della speranza che è in lui, questi deve rispondere con dolcezza e rispetto. Questa dolcezza, che era quella del Signore quando rispondeva a qualcuno, deve essere conosciuta da tutti.

I tre giovani Ebrei di Daniele 3:16,18 risposero in quel modo al re Nebucadnetsar. Non dobbiamo mai rispondere al mondo col sentimento della nostra superiorità; il timore che abbiamo del Signore ci fa dare a lui solo la superiorità, e annulla la fiducia in noi stessi. In quest’epistola vediamo che il timore dev’essere alla base di tutte le nostre relazioni, in contrasto con lo spirito di quelli che, non temendo Dio e non rispettando gli uomini, peccano in tutte le loro relazioni.

«affinché quando sparlano di voi, rimangano svergognati quelli che calunniano la vostra buona condotta in Cristo.» (v. 16).

I credenti possono essere criticati anche per la loro buona condotta al seguito di Cristo; è quindi molto importante che abbiano una buona coscienza (qui nel senso pratico), una coscienza, cioè, che non ha nulla da rimproverarsi, per poter aspettare in pace e nella fiducia nel Signore il momento in cui la verità sarà manifestata, sia quaggiù, sia nel giorno del Signore, quando i maldicenti e i calunniatori saranno confusi.

«Infatti è meglio che soffriate per aver fatto il bene, se tale è la volontà di Dio, che per aver fatto il male. Anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati, lui giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio. Fu messo a morte, quanto alla carne, ma reso vivente quanto allo spirito (o meglio: dallo Spirito).» (v. 17,18)

Può capitare che, facendo il bene, Dio permetta che soffriamo; ma non dovremmo mai soffrire per aver fatto il male.

Cristo è venuto a soffrire per i peccati, regolando perfettamente questa questione, «Lui giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio». Venuto in carne per compiere l’opera una volta per tutte, è morto; poi, vivificato dallo Spirito, ci ha portati a Dio, aprendoci un orizzonte celeste ed eterno e mettendoci in una nuova relazione con Dio nella quale possediamo tutte le benedizioni dell’Evangelo. Avendo così una nuova natura che ci rende capaci di praticare il bene, non ci capiterà di soffrire per aver fatto il male.

«E in esso andò anche a predicare agli spiriti trattenuti in carcere, che una volta furono ribelli, quando la pazienza di Dio aspettava, al tempo di Noè, mentre si preparava l’arca, nella quale poche anime, cioè otto, furono salvate attraverso l’acqua.» (v. 19 e 20)

Cristo, dopo la sua morte vivificato dallo Spirito, al tempo di Noè aveva, per mezzo del medesimo Spirito, predicato agli uomini ribelli, i cui spiriti sono adesso trattenuti in carcere, cioè nell’Ades. Fu allora, mentre quei disubbidienti vivevano sulla terra, che lo Spirito di Cristo, per mezzo di Noè (chiamato “predicatore di giustizia” – 2 Pietro 2:5) predicò agli uomini. Non fu nell’Ades che ricevettero la predicazione, e Cristo, dopo la morte, non andò a predicare a loro! Il Signore disse al ladrone sulla croce: «Oggi tu sarai con me in paradiso” (Luca 23:43). Ora, il paradiso è il luogo dove vanno i credenti dopo la morte in attesa della risurrezione, mentre l’Ades è il luogo invisibile dove sono “in prigione” gli spiriti dei malvagi in attesa della risurrezione per il giudizio.

Lo Spirito di Cristo è lo Spirito di Dio, per mezzo del quale Dio compie ogni cosa in potenza. Nel Nuovo Testamento è chiamato lo Spirito di Cristo, perché il Cristo nel Nuovo Testamento è l’Eterno dell’Antico. In Genesi 6:3, l’Eterno dice: «Il mio Spirito non contenderà sempre con l’uomo… i suoi giorni saranno centovent’anni». Ma, parlando della profezia, 2 Pietro 1:21 dice: «… ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo». E nel capitolo primo di questa 1ª epistola vers. 11 abbiamo letto, di questi medesimi profeti, che “cercavano di sapere l’epoca e le circostanze a cui faceva riferimento lo Spirito di Cristo che era in loro».

Lo Spirito di Dio, per mezzo dell’apostolo Pietro, fa cenno alla predicazione di Cristo ai giorni di Noè per l’analogia che c’era fra quei tempi e quelli nei quali vivevano i credenti a cui l’epistola si rivolge. Anche gli uomini di oggi hanno a che fare con il medesimo Spirito e la medesima pazienza di allora, in un tempo che precede il giudizio di Dio. Infatti per i Giudei increduli che respingevano il Signore Gesù venuto in carne, e di conseguenza la testimonianza dello Spirito Santo a un Cristo risuscitato, il giudizio era vicino (la distruzione di Gerusalemme e la dispersione dei Giudei nel mondo). Così è oggi per la cristianità.

Ai giorni di Noè soltanto un piccolo numero si salvò nell’arca attraverso le acque del giudizio per uscirne, sani e salvi, in una terra rinnovata e in una condizione nuova; così è anche oggi; soltanto un piccolo numero approfitta del mezzo di salvezza che Dio offre, cioè Cristo, per scampare al suo giudizio.

«Quest’acqua era figura del battesimo (che non è eliminazione di sporcizia dal corpo, ma l’impegno – o più letteralmente: la richiesta – di una buona coscienza verso Dio). Esso ora salva anche voi, mediante la risurrezione di Gesù Cristo, che, asceso al cielo, sta alla destra di Dio, dove angeli, principati e potenze gli sono sottoposti.» (v. 21,22)

L’apostolo prosegue l’analogia riguardo al mezzo di salvezza e alle sue conseguenze. Lo Spirito di Cristo predicava ai tempi di Pietro, come aveva fatto ai tempi di Noè. Per i Giudei, al tempo di Pietro, c’era un castigo imminente, ma anche un’arca (Cristo) pronta, con la porta aperta. Bisognava separarsi dal sistema giudaico su cui incombeva il giudizio divino; «salvarsi da quella perversa generazione» (Atti 2:40) che aveva respinto il suo Messia, credendo alla risurrezione del Messia e facendosi battezzare.

Il battesimo cristiano, figura della morte di Cristo, è l’antitipo delle acque del diluvio le quali, a loro volta, prefiguravano la morte e il giudizio. è dunque la morte di Cristo che salva anche ora, e in virtù d’essa si può ottenere ciò che si richiede, cioè una buona coscienza, una coscienza lavata da tutti i peccati di cui era carica davanti a Dio. Le acque della morte, nelle quali Cristo è passato, e noi in Lui, ci hanno liberati da ogni contaminazione poiché Egli ha sofferto per i peccati, «Lui giusto per gli ingiusti», e con la sua risurrezione ci ha portati a Dio. Tutto è stato compiuto perfettamente, e Cristo è tornato in cielo, alla destra di Dio, dove angeli, autorità e potenze gli sono sottoposti. Là Egli ha tutto il potere di esercitare i suoi giudizi sugli uomini, e lo farà in un giorno futuro; ma ora, essendo salito in cielo, egli compie, per mezzo dello Spirito e in virtù della sua morte, un’opera sulla terra. Un piccolo numero di persone, coloro che accettano l’Evangelo, sono portate a Dio passando indenni attraverso il giudizio subìto da Cristo e posti davanti a Lui, in virtù della sua risurrezione, con una coscienza scarica da tutto il peso del peccato per iniziare una vita nuova.

Questi versetti ci mostrano il vero significato del battesimo. Si passa attraverso l’acqua, figura della morte di Cristo, allo scopo di ottenere una buona coscienza e di giungere in un luogo dove si è al riparo dal giudizio. Ciò avvenne per Noè e la sua famiglia, entrati nell’arca non perché erano salvati dal diluvio ma per esserlo, e per ricominciare una nuova vita in un mondo nuovo. Io non attraverso le acque del battesimo perché ho una buona coscienza, ma allo scopo di ottenerla. Non v’è dunque altro mezzo per ottenerla all’infuori della morte di Cristo di cui il battesimo è la figura.

 

Capitolo 4

«Poiché dunque Cristo ha sofferto nella carne, anche voi armatevi di questo stesso pensiero, che, cioè, colui che ha sofferto nella carne rinuncia al peccato, per consacrare il tempo che resta da passare nella carne, non più alle concupiscenze degli uomini, ma alla volontà di Dio.» (v. 1,2)

Questo versetto ci riporta al vers.18 del capitolo precedente (Cristo «fu messo a morte quanto alla carne») perché possiamo trarne le conseguenze pratiche. Cristo ha dunque «sofferto nella carne» per noi; questo “sofferto” comprende tutte le sofferenze di Cristo; come abbiamo già notato nel corso di questo studio, le sofferenze di Cristo come nostro modello non possono essere disgiunte dalle sue sofferenze espiatorie, dalla sua morte per noi; ed è nella sua morte che noi abbiamo il punto di partenza delle nostre sofferenze nel praticare la giustizia.

Prima di conoscere Cristo facevamo la volontà della carne e non ne soffrivamo. Ma Cristo venne in questo mondo in cui la volontà di Dio non era conosciuta, e l’adempì dall’inizio alla fine della sua carriera, resistendo agli sforzi di Satana che, con ogni mezzo, cercava di farlo deviare dal cammino dell’ubbidienza. Di fronte alla morte, quando avrebbe potuto chiedere dodici legioni d’angeli per essere liberato, ed anche usare a questo scopo la propria potenza, si lasciò prendere e condannare, preferendo ubbidire. Da allora, la questione della volontà dell’uomo, che è peccato, è stata regolata completamente e per sempre da Colui che ha sempre fatto la volontà di Dio.

Cristo ha finito d’aver a che fare col peccato; Egli si riposa, essendo entrato nel riposo, e non avrà mai più da soffrire a causa d’esso. «Poiché il suo morire fu un morire al peccato, una volta per sempre; ma il suo vivere è un vivere a Dio» (Romani 6:10).

Stando così le cose, la morte di Cristo è la nostra morte; armiamoci dunque di questo pensiero, dice l’apostolo, che «colui che ha sofferto nella carne rinuncia al peccato». Nella nuova posizione in cui ci ha messi la morte di Cristo, ci asteniamo dal peccato, avendone ora i mezzi per farlo, non continuando più a vivere nella concupiscenza degli uomini, ma facendo ciò che piace a Dio; realizziamo così ciò che l’apostolo Paolo scrive ai Romani (6:11): «Così anche voi fate conto di essere morti al peccato, ma viventi a Dio, in Cristo Gesù».

Pietro presenta in questo passo la medesima verità di Paolo nel capitolo 6 ai Romani, ma sotto il suo aspetto pratico. Qualcuno ha osservato: Paolo dice: «Colui che è morto è affrancato dal peccato». Pietro dice: «Colui che ha sofferto nella carne…» Si tratta della medesima verità; nel primo caso v’è il principio, nel secondo la sua realizzazione pratica e visibile.

Il credente è nel riposo e in pace, ma il godimento di questo riposo dipende dalla maniera in cui realizza la sua morte con Cristo. Occorre resistere alle tentazioni e non cedere mai alla carne; secondo Pietro questo è soffrire, secondo Paolo è realizzare la morte. Qui, soffrire come Cristo ha sofferto, in questo mondo dove tutto è in opposizione alla volontà di Dio, diventa la regola che il credente deve seguire. Soffriamo quando la vecchia natura ci vuole spingere a peccare; noi le resistiamo e la conseguenza pratica è che siamo in pace. La pace è per tutti coloro per i quali Cristo ha sofferto nella carne, affinché non avessero più da soffrire per il peccato. Come Cristo, possiamo ora glorificare Dio in una vita di ubbidienza, al riparo dal peccato.

«Basta con il tempo trascorso a far la volontà dei pagani col vivere nelle dissolutezze, nelle passioni, nelle ubriachezze, nelle orge, nelle gozzoviglie, e nelle illecite pratiche idolatriche.» (v. 3)

L’apostolo allude al tempo in cui il popolo d’Israele, sia prima, sia durante, sia dopo la deportazione, era vissuto come le nazioni pagane; dicendo queste cose vuole far loro comprendere non tanto ciò che essi stessi avevano fatto, ma di che cosa erano stati capaci come nazione, e da che cosa erano ora stati liberati. Ma queste parole si riferiscono anche a noi, ai peccato commessi prima che conoscessimo Cristo, prima della nostra “morte” con lui.

«Per questo trovano strano che voi non corriate con loro agli stessi eccessi di dissolutezza e parlano male di voi. Ne renderanno conto a Colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti.» (v. 4,5)

Questi credenti, ora trasformati dalla fede, sono ingiuriati da quelli che un tempo erano stati loro compagni di corruzione; ma questi calunniatori avranno a che fare con Colui a cui i credenti ubbidiscono, che è ora nel cielo e che detiene ogni potere (3:22). Egli è pronto a giudicare i vivi e i morti.

I Giudei conoscevano soltanto il giudizio dei viventi, perché il governo di Dio si esercitava su di loro durante la loro vita sulla terra; ma, grazie alla rivelazione fattaci dall’Evangelo, noi abbiamo conoscenza del giudizio dei morti, quello degli increduli che saranno condannati alla “seconda morte”.

«Infatti per questo è stato annunziato il vangelo anche ai morti; affinché, dopo aver subito  nel corpo il giudizio comune a tutti gli uomini, possano vivere mediante lo Spirito, secondo la volontà di Dio.» (v. 6)

è appunto perché ci sarà questo giudizio che l’Evangelo è stato predicato a coloro che sono moralmente morti, morti davanti a Dio, «morti nei falli e nei peccati» (Efesini 2:1)(*) .Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati, e l’Evangelo è loro annunziato affinché vivano secondo Dio. Ma non tutti lo accettano; e nel giorno del giudizio coloro che non avranno creduto saranno giudicati come peccatori responsabili davanti a Dio, come uomini “nella carne”. è di questo che l’Evangelo avverte tutti gli uomini, presentando il giudizio che tutti meritano, perché scampino afferrando la vita eterna offerta loro.

«Secondo il mio Evangelo», dice Paolo, Dio giudicherà i segreti degli uomini (Romani 2:16). Nessuna Scrittura ci fa conoscere il giudizio di Dio come lo fa l’Evangelo, perché questo giudizio è stato manifestato alla croce dove Cristo lo ha subito per noi.

Il versetto 6 ci dice che l’Evangelo è stato annunciato a tutti coloro che sono morti, e ci mostra ciò che avverrà nel giorno del giudizio. Coloro che compariranno come uomini nella carne, perché hanno rifiutato l’Evangelo, saranno giudicati in base alle loro opere. Ma coloro che l’avranno accettato non saranno giudicati ma vivranno secondo Dio nello Spirito.

«La fine di tutte le cose è vicina; siate dunque moderati e sobri per dedicarvi alla preghiera (oppure: vegliate per pregare).» (v. 7)

Per “fine di tutte le cose” s’intende la fine di tutto ciò che è visibile; inoltre, per i Giudei, la fine di Gerusalemme era davvero vicina, storicamente. Bisognava essere sobri per non cadere nel torpore spirituale e nella ricerca delle cose di questo mondo che volgono tutte alla fine. L’eccitazione della carne, prodotta dagli eccessi di ogni tipo, ci priva della vigilanza spirituale necessaria per godere delle risorse che la preghiera ci procura; perché, se il nostro cuore è pieno delle cose del mondo, possiamo anche non sentire nessun bisogno di pregare.

La sobrietà e la vigilanza sono legate insieme in molti passi, poiché una non può reggere senza l’altra (1 Tessalonicesi 5:6; 1 Pietro 1:13; 5:8). In Tito 2:6,12 la sobrietà consiste nell’usare moderatamente delle cose necessarie alla vita presente.

Anche la vigilanza e la preghiera sono abbinate in molti passi (Marco 13:33; Luca 21:36; Matteo 26:41; Colossesi 4:2). Sapere che la fine di tutte le cose è vicina costituisce un potente stimolo per non mettere il cuore nelle cose della terra e per «vegliare e pregare». Come anche dice l’apostolo Pietro: «Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi, quali non dovete voi essere, per santità di condotta e per pietà…» (2 Pietro 3:11).

«Soprattutto, abbiate amore intenso gli uni per gli altri, perché l’amore copre una gran quantità di peccati.» (v. 8)

Soprattutto è l’amore che deve regnare in mezzo ai credenti, l’amore fervente, attivo, come quello dei serafini “ardenti” di zelo per proclamare la santità dell’Eterno. Se questo amore è reale davanti a Dio, non saremo freddi nei confronti degli interessi del Signore e dei suoi santi. L’apostolo dice “soprattutto” perché l’amore dev’essere per il credente, come lo è per il Signore, il movente dell’azione.

L’amore copre una gran quantità di peccati. L’amore di Dio in Cristo ha infatti coperto una moltitudine di peccati, tutti i peccati che Cristo ha portati sulla croce, «più numerosi dei capelli del suo capo» secondo l’espressione del Salmo 40:12. Così deve avvenire nei nostri rapporti gli uni con gli altri. Se nel cuore del credente c’è dell’odio, egli paleserà le colpe del suo fratello, le metterà sempre allo scoperto, mentre l’amore le coprirà.

Se è il caso, l’amore può anche indurre a “regolare” queste mancanze, a giudicarle nel fratello caduto nel peccato, secondo gli insegnamenti della Parola, poiché «l’amore non gode con l’ingiustizia ma gioisce con la verità» (1 Corinzi 1:13); è un altro modo di coprire il peccato.

L’amore coprirà anche il peccato facendo in modo da impedirlo, come fece Abigail (1 Samuele 25:33). Nell’amore così esercitato, siamo fatti partecipi del servizio d’amore di Cristo nella gloria, come Avvocato e Sacerdote. L’amore dev’essere anche pronto ad agire verso i peccatori, e Giacomo 5:19 ce ne offre un esempio.

«Siate ospitali gli uni verso gli altri senza mormorare.» (v. 9)

Una delle grandi testimonianze dell’amore è l’ospitalità. Troviamo già questo in Ebrei 8; dopo aver detto: «L’amore fraterno continui fra voi», in contrasto con tutte le cose di questo mondo che passano, l’apostolo aggiunge: «Non dimenticate l’ospitalità perché, praticandola, alcuni, senza saperlo, hanno albergato degli angeli». Anche oggi, accogliendo un fratello come «mandato da Dio» (angelo significa messaggero, inviato), si può dire di albergare un angelo, con tutti i privilegi e le benedizioni che ciò comporta.

L’amore si manifesta nello svolgimento della vita di tutti i giorni, e, secondo quanto è scritto nella 1a Epistola di Giovanni 3:16, può portarci anche a dare “la nostra vita” per i nostri fratelli.  Non tutti abbiamo l’occasione di dare la vita, ma possiamo farlo in devozione e in abnegazione, essendo disponibili e pronti ad aiutare colui che è nel bisogno.

Non è sempre comodo praticare l’ospitalità; il momento può non essere adatto, la padrona di casa può essere già molto occupata, oppure gli ospiti possono sembrare poco simpatici; ma l’amore non si limita alle apparenze; esso supera tutto, s’impone, e dà a colui che ne ha il cuore traboccante di non mormorare nel compimento del proprio servizio.

«Come buoni amministratori della svariata grazia di Dio, ciascuno, secondo il dono che ha ricevuto, lo metta al servizio degli altri. Se uno parla, lo faccia come si annunziano gli oracoli di Dio; se uno compie un servizio, lo faccia come si compie un servizio mediante la forza che Dio fornisce, affinché in ogni cosa sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartengono la gloria e l’imperio nei secoli dei secoli. Amen.» (v. 10,11)

Questo passo ci presenta il servizio del cristiano nelle sue due grandi parti: la Parola e il ministero; in esso sono compresi tutti i doni; non sono specificati secondo il loro scopo e il loro carattere come in 1 Corinzi 12 ed Efesini 4, o anche Romani 12. Bisogna mettere i doni di grazia, che ciascuno ha ricevuto, al servizio gli uni degli altri, come buoni dispensatori della svariata grazia di Dio. è sempre l’amore che suggerisce l’uso di ciò che si è ricevuto per il bene comune. Se uno parla, deve farlo nella più grande umiltà per poter essere la bocca e l’oracolo di Dio. Non deve dare nulla di suo e Dio si servirà di lui per dispensare la Parola e rispondere a bisogni ch’Egli solo conosce.

Generalmente nelle assemblee noi difettiamo a questo riguardo.Vi sono moltissimi fratelli che non sono coscienti della loro responsabilità e fanno affidamento su alcuni pochi che, finendo per avere l’abitudine di parlare, non lo fanno sempre «come oracolo di Dio» perché costretti all’azione dal silenzio degli altri. Così, quelli che trascurano il loro dovere, lasciando l’azione a uno solo, o comunque a pochi invece di proferire loro stessi le “cinque parole” che Dio può aver loro dato, peccano e spengono lo Spirito. «Se uno compie un servizio, lo faccia come si compie un servizio mediante la forza che Dio largisce». Anche in questo caso, ogni risorsa carnale, ogni potenza umana, sono annullate, per dipendere solo da Colui che chiama al servizio e provvede al suo adempimento. è necessario parlare? Egli darà la parola; servire? sarà Lui a dare la forza. Tutto risulterà allora non soltanto per il bene comune, ma per la gloria di Dio in Gesù Cristo, al quale appartengono la gloria e la potenza nei secoli dei secoli; poiché è in virtù sua che tutto ciò che è di Dio può essere manifestato nei suoi, quaggiù e per l’eternità.

«Carissimi, non vi stupite per l’incendio che divampa in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Anzi, rallegratevene in quanto partecipate alle sofferenze di Cristo, perché anche al momento della rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare.» (v. 12,13)

L’apostolo riprende ora l’argomento delle sofferenze. Dal vers.12 al vers.10 del capitolo 5 le enumera tutte.

I versetti 12 e 13 trattano della sofferenza nella prova. I credenti non si dovevano stupire della fornace accesa per provarli. Essi soffrivano come Cristo aveva sofferto; dovevano quindi rallegrarsi poiché, alla rivelazione della sua gloria, si sarebbero grandemente rallegrati. La gioia nella prova attuale è paragonata alla gioia nell’eternità. Troviamo il medesimo pensiero in Matteo 5:11,12.

Col permettere la prova della fede, Dio fa risaltare nei suoi i caratteri di Cristo per la sua propria gloria; e questa prova è più preziosa dell’oro che perisce perché i suoi risultati sono eterni.

«Se siete insultati per il nome di Cristo, beati voi! Perché lo Spirito di gloria, lo Spirito di Dio, riposa su voi.» (v. 14)

Qui vediamo le sofferenze «per la giustizia», quelle cioè dei credenti testimoni di Cristo nel mondo ingiusto ed empio dove essi manifestano la luce divina. Lo Spirito di gloria e di Dio è su loro, ma essi incontrano, come Cristo, l’opposizione e l’odio. «Beati voi, quando gli uomini vi odieranno, e quando vi scacceranno loro, e metteranno al bando il vostro nome come malvagio, a motivo del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno e saltate di gioia, perché, ecco, il vostro premio è grande nei cieli» (Luca 6:22,23).

«Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida, o ladro, o malfattore, o perché s’immischia nei fatti altrui; ma se uno soffre come cristiano, non se ne vergogni, anzi glorifichi Dio, portando questo nome.» (v. 15,16)

Vediamo di nuovo, come nei capitoli 2:20 e 3:17, che il credente non deve soffrire per aver commesso il male; in questo non c’è gloria! Ma se qualcuno soffre nella sua vita perché è un cristiano non se ne vergogni; anzi, glorifichi Dio. Se uno soffre per aver commesso il male, non soffre come cristiano, e deve vergognarsi.

«Infatti è giunto il tempo in cui il giudizio deve cominciare dalla casa di Dio; e se comincia prima da noi, quale sarà la fine di quelli che non ubbidiscono al vangelo di Dio? E se il giusto è salvato a stento, dove finiranno l’empio e il peccatore?» (v. 17,18)

Le sofferenze sopportate dai cristiani sono il mezzo usato da Dio per mantenere la sua casa al livello di santità che la sua presenza esige.

Oggi Dio non giudica il mondo; usa soltanto pazienza per fare grazia ai peccatori; ma il giudizio verrà sicuramente e, per ora, incomincia dalla Sua casa, da ciò che gli è più vicino, come è detto in Ezechiele 9:6: «Cominciate dal mio santuario». In Apocalisse, il giudizio incomincia dalla Chiesa (capitoli 2 e 3), e terminerà con il mondo, quando la vera Chiesa non sarà più sulla terra. In Amos 3:2, l’Eterno dice al suo popolo: «Voi soli ho conosciuto fra tutte le famiglie della terra, perciò io vi punirò per tutte le vostre iniquità».

Non v’è giudizio per i credenti, se non in questo mondo sotto forma di castigo per purificarli dal male. Dio vuole poter camminare con noi e non può tollerare il male a cui ci adattiamo così facilmente; per questo lo giudica. Ma se il male è insopportabile in coloro che Dio chiama “giusti”, e che davvero lo sono in virtù dell’opera di Cristo, quale sarà la fine di coloro che non credono e che non ubbidiscono all’Evangelo? Sarà il giudizio eterno che colpisce tutto, poiché niente di ciò che è di Dio sarà trovato in loro.

«Perciò anche quelli che soffrono secondo la volontà di Dio, affidino le anime loro al fedel Creatore, facendo il bene.» (v. 19)

è necessario che coloro che soffrono secondo la volontà di Dio si rimettano al fedele Creatore, facendo il bene. Nella sofferenza secondo la volontà di Dio il credente gode di una pace che gli permette di abbandonarsi completamente nelle sue mani, qualunque sia la circostanza che Dio permette. Così fecero i tre giovani ebrei, amici di Daniele. Che Dio li liberasse o no dalla fornace, essi si affidarono a Lui facendo il bene.

Qui Dio è presentato come il Creatore, fedele nel suo governo e nelle cure di cui circonda le sue creature. «Il Dio vivente è il Salvatore di tutti gli uomini, soprattutto dei credenti» (1 Timoteo 4:10). 

 

Capitolo 5

«Esorto dunque gli anziani che sono tra di voi, io che sono anziano con loro e testimone delle sofferenze di Cristo e che sarò pure partecipe della gloria che deve manifestata:» (v. 1)

Pietro esorta ora gli anziani e si considera uno di loro. Il titolo di anziano è qui da riferirsi a un “carattere” più che ad uno con una nomina ufficiale. L’apostolo Paolo nominava degli anziani soltanto nelle assemblee dei Gentili. Generalmente gli anziani lo erano a motivo della loro età, perché la Parola considera prima di tutto le cose nella loro condizione normale; l’età dovrebbe dare esperienza e altre qualità che conferiscono un peso morale (Ferru: l’età di per sé non da proprio nulla, a parte l’esperienza, anzi forse accentua i caratteri negativi. Quello che conta è che l’anziano abbia i caratteri morali che la Parola prevede). Non è escluso, però, che dei giovani siano dotati di simili qualità, e forse anche più di molti anziani.

Pietro si presenta come anziano e testimone delle sofferenze di Cristo e pone, come fa di solito, la gloria in contrasto con la sofferenza. Egli stesso fu testimone delle sofferenze di Cristo e sarà partecipe della gloria che ha da essere rivelata. Ed ora incoraggia i credenti mostrando loro, da una parte, le sofferenze, le stesse che Cristo ha subito, e dall’altra, la gloria a cui essi, insieme a lui, parteciperanno, poiché soffrivano quaggiù com’Egli ha sofferto.

«Pascete il gregge di Dio che è tra di voi, sorvegliandolo, non per obbligo, ma volenterosamente secondo Dio; non per vile guadagno, ma di buon animo; non come dominatori di quelli che vi sono affidati, ma come esempi del gregge.» (v. 2,3)

Pietro, al tempo della sua riabilitazione, aveva ricevuto dal Signore (Giovanni 21) l’incarico di pascere le Sue pecore, ed ora può esortare coloro che sono anziani come lui a pascere il gregge che è stato loro affidato.

È importante osservare che è detto: «Il gregge di Dio che è tra di voi». Il gregge è di Dio, ed essi hanno la responsabilità verso Dio come pastori del Suo gregge. Solo l’amore doveva guidarli nell’adempimento del loro servizio, che andava svolto volenterosamente, non in vista di un vantaggio materiale, e senza alcuno spirito di dominio.

Purtroppo, il vantaggio materiale è quello che caratterizza il clero dovunque viene stabilito; mentre per pascere il gregge bisogna essere degli esempi viventi, secondo ciò che dice l’apostolo Paolo: «Le cose che avete imparate, ricevute, udite da me e viste in me, fatele» (Filippesi 4:9).

Quando si va davanti al gregge si comprendono meglio le sue difficoltà, e le cure che sono necessarie, e si agisce con indulgenza e amore nei confronti dei deboli.

Il pastore non è un dottore, benché debba anche insegnare (1 Timoteo 3); egli si occupa di ogni pecora in particolare, ed entra nei minimi dettagli della sua vita allo scopo di nutrirla, di aiutarla nel cammino, di impedirle di smarrirsi. Sarebbe triste vedere un credente che, dopo anni di ministero, abbandona il gregge di cui è responsabile, lasciando che si disperda e che si allontani per mancanza di cure. Un fratello che aveva avuto gran cura della chiesa che Dio gli aveva affidato aveva potuto dire, prima di lasciare questo mondo: “Me ne posso andare tranquillo; ora sanno camminare da soli”.

«E quando apparirà il supremo pastore, riceverete la corona della gloria che non appassisce.» (v. 4)

Lo sguardo dei pastori è diretto verso la manifestazione del supremo Pastore; fino a quel momento dovevano agire per amore del Signore e dei suoi, senza ricercare vantaggi personali e senza vanagloria, come fece il Signore in mezzo ai suoi servendo nell’abbassamento e nell’umiltà. E quando il sommo Pastore apparirà essi riceveranno la corona di gloria “imperitura”, a differenza della gloria umana, delle corone che si ricercano o che si accettano in questo mondo e che sono ben presto appassite. La corona è una ricompensa e un segno dell’approvazione di Dio per il modo in cui un credente è stato fedele a Cristo.

«Così anche voi, giovani, siate sottomessi agli anziani. E tutti rivestitevi d’umiltà gli uni verso gli altri, perché “Dio resiste ai superbi ma dà grazia agli umili”. Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinché Egli vi innalzi a suo tempo, gettando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché Egli ha cura di voi.» (v. 5,6,7)

Nelle sofferenze e nell’obbrobrio i santi devono vedere la mano di Dio e umiliarsi sotto di essa, sapendo che Dio dal male sa trarre il bene per i suoi; e quando la prova avrà portato il suo frutto, saranno rialzati.

L’innalzamento dei santi è compito di Dio; il nostro dovere è di rimanere umili e di abbassarci, seguendo anche in questo il nostro Modello perfetto, Colui che Dio ha «sovranamente innalzato» dopo ch’Egli abbassò se stesso (Filippesi 2). Nell’attesa, abbandoniamo su Dio ogni nostra sollecitudine poiché Egli ha cura dei suoi; Egli non permetterà che la prova superi il necessario, e ci darà quanto ci occorre per sopportarla glorificandolo.

«Siate sobri, vegliate; il vostro avversario, il diavolo, gira come un leone ruggente cercando chi possa divorare.» (v. 8)

L’apostolo rinnova l’esortazione del capitolo 4:7, quella di essere temperati e vigilanti, assidui alla preghiera. Essere vigilanti per non diventare le vittime del diavolo che gira cercando chi potrà divorare; perché Satana è un leone ed è anche un serpente; leone quando perseguita i credenti, serpente, come in mezzo ai Corinzi (2 Corinzi 11:3) quando li rendeva insensibili al male.

Per mancanza di sobrietà, la sentinella che vegliava durante la notte sugli accampamenti nel deserto si poteva addormentare, e allora il leone, sempre in agguato, poteva senza difficoltà gettarsi sulla preda.

«Resistetegli stando fermi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze affliggono i vostri fratelli sparsi per il mondo.» (v. 9)

Per resister al diavolo bisogna essere fermi nella fede. Quando il cuore è sazio delle cose spirituali afferrate per fede, quando gli sguardi sono diretti verso la gloria futura, il diavolo è impotente; la vigilanza è allora reale e noi siamo al riparo.

Al capitolo 4:12, Pietro dice che la prova non deve essere considerata come una cosa strana; qui è aggiunto che le medesime sofferenze si compiono nella fratellanza sparsa per il mondo; quei credenti non erano dunque i soli a trovarsi in simili prove; il loro Signore vi si era trovato prima di loro, e tutti quelli che prenderanno parte alla gloria che deve  essere rivelata le attraverseranno esattamente come loro.

«Or il Dio di ogni grazia, che vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, dopo che avete sofferto per breve tempo, vi perfezionerà Egli stesso, vi renderà fermi, vi fortificherà stabilmente.» (v. 10)

Dio, da cui proviene ogni grazia ora e nell’eternità, e che li aveva chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, dopo una breve sofferenza, darà loro di goderne il frutto. Egli li renderà compiuti, perfetti, fermi, forti; come gli alberi che, battuti dai venti, affondano le loro radici molto più che se non avessero mai da subire la tempesta.

La prova rende il credente più stabile e più fermo, fondato su un fondamento incrollabile; infatti, in mezzo alle difficoltà di ogni genere, la fede cerca un appoggio sicuro e stabile, e lo trova in Dio. I vantaggi acquisiti nella prova rimangono anche quando torna la calma.

«A lui sia la potenza, nei secoli dei secoli. Amen.» (v. 11)  è a Dio solo, sorgente di tutto, che spettano la gloria e la lode, nei secoli dei secoli.

«Per mezzo di Silvano, che considero vostro fedele fratello, vi ho scritto brevemente, esortandovi, e attestando che questa è la vera grazia di Dio; in essa state saldi.» (v. 12)

Pietro scriveva brevemente per mezzo di Silvano, senza dubbio il compagno di Paolo in 2 Corinzi 1:19, quello citato all’inizio delle due epistole ai Tessalonicesi.

Egli attesta che la grazia nella quale si trovano i credenti è la vera grazia di Dio. La loro parte era la sofferenza, ma ciò su cui poggiava la loro fede era la vera grazia di Dio, manifestata pienamente in Cristo venuto quaggiù, respinto e salito in cielo. Essi speravano pienamente e con piena certezza nella grazia che sarebbe stata loro recata nella rivelazione di Gesù Cristo (1:13).

«La chiesa che è in Babilonia, eletta come voi, vi saluta. Anche Marco, mio figlio, vi saluta.» (v. 13)

Il testo originale dice: Quella che è in Babilonia. Alcuni pensano che Pietro faccia qui riferimento alla propria moglie e trasmetta i suoi saluti, insieme a quelli di Marco. Ma potrebbe anche riferirsi alla chiesa di Babilonia.  Comunque sia, ciò che è importante è questo amore fra credenti, queste relazioni di affetto, l’interesse che ognuno ha per i propri fratelli e sorelle, vicini e lontani.

«Salutatevi gli uni gli altri con un bacio d’amore fraterno. Pace a voi tutti che siete in Cristo.» (v. 14)

I credenti dovevano salutarsi l’un l’altro con un bacio d’amore. Questa testimonianza d’affetto fraterno tende purtroppo a scomparire in certe località e ciò è qualche volta un triste sintomo dell’abbandono del primo amore. Un “santo” bacio (1 Cor. 16:20) è un bacio dato con purezza di pensieri e senza soddisfazione carnale. Questo è importante da tenere presente nelle relazioni fra fratelli e sorelle.

Infine, Pietro augura «a tutti coloro che sono in Cristo Gesù» la pace, quella che il Signore vuole che i suoi godano nella loro vita, quali che siano le circostanze attraverso le quali devono passare.

 

(*) Il credente è un essere nuovo, “generato” da Dio “mediante la parola di verità” (Giac. 1:18); è una nuova creatura o, meglio, una nuova creazione (Gal. 6:15). Qui, in Pietro 1:23, il credente è “rigenerato”, cioè generato di nuovo; prima, come uomo, è nato da sangue, da volontà di carne, da volontà d’uomo; poi, quando crede, nasce da Dio.

(*) “Salvezza delle anime” è in contrasto con le liberazioni “temporali”, terrene, sulle quali i Giudei erano abituati a contare. Questa loro gioia era come un anticipo delle future, gloriose benedizioni celesti. Quei cristiani, come anche noi oggi, non vedevano niente, non toccavano niente di quell’eredità conservata per loro nei cieli; la gloria celeste era “in speranza”. Ma la pregustavano, questa salvezza finale, contemplando Cristo, amandolo e godendo di lui.

(*) La Chiesa, oltre a essere raffigurata da un edificio del quale i credenti sono le pietre e Cristo è il fondamento, è anche vista come “corpo” di cui Cristo è il capo (la testa) e i credenti le membra; come “gregge” di cui Cristo è il pastore; come “famiglia” in cui Cristo è il “primogenito fra molti fratelli” (vedere 1 Cor. 12:12, Ef. 1:22-23, Giov. 10:16, Ebrei 3:6, Rom. 8:29).

(*) Noi credenti in Cristo non abbiamo più da offrire sacrifici come facevano gli Ebrei in ubbidienza alla legge di Mosè; però la Parola chiama “sacrifici” sia l’offerta della nostra lode, sia quella dei nostri beni (Ebrei 13:16), sia quella dei nostri corpi (Rom. 12:1).

(*) Oppure, secondo altri commentatori, “morti” in riferimento a coloro che adesso sono “morti” (come gli increduli del tempo di Noè) ma ai quali “l’Evangelo” fu annunziato, quando erano ancora in vita; l’Evangelo nel senso che fu data e annunciata loro la possibilità di scampare all’imminente giudizio di Dio; anche quella aera un Evangelo, cioè una “buona notizia”.