(Levitico 16)
John Nelson Darby – Il Dispensatore, 1885
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Nota BibbiaWeb: «Propiziazione» e «espiazione» hanno più o meno lo stesso significato. È l’opera per la quale Dio diventa propizio, favorevole all’uomo, la sua ira è stata placata. Nella parola originale «propiziazione» ha anche il significato di «coprire» (il peccato è stato coperto); infatti il «propiziatorio» era il coperchio dell’arca del patto.
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Vi esiste molta oscurità nel modo con cui generalmente si predica il Vangelo, il che genera altrettanta confusione in coloro che lo ascoltano; e ciò proviene per la maggior parte dal non distinguere abbastanza la parte espiatoria dalla parte di sostituzione nell’opera di Cristo. Non mi preoccupo delle parole (poiché in un certo senso Cristo fu nell’espiazione anche il nostro Sostituto), pure è piuttosto importante la distinzione pratica di questi due concetti, i quali troviamo rappresentati chiaramente nella Scrittura.
Quanta differenza vi esista tra la propiziazione e la sostituzione, la vediamo esaminando i sacrifici che si facevano nel gran giorno delle propiziazioni o giorno delle espiazioni (Levitico 16). Aaronne scannava il toro ed il montone, la parte «che è toccata in sorte all’Eterno», come veniva chiamato, e spruzzava il loro sangue su e davanti al propiziatorio, il coperchio dell’arca. Così il sangue era messo alla presenza di Dio, il quale era stato disonorato ed offeso per il peccato del popolo. Quest’era una figura di Cristo, che ha pienamente glorificato Dio su questa terra, essendo stato fatto peccato, Egli che non ha conosciuto peccato, ed essendosi dato volontariamente alla morte. I nostri peccati furono la causa di quest’opera piena di sofferenze; ma la maestà di Dio, la Sua giustizia, il Suo amore, la Sua verità, tutti i Suoi attributi insomma, furono pienamente glorificati in Cristo; e ne abbiamo una splendida prova nel fatto che questi entrò col Suo sangue nel Luogo Santissimo. Perciò si può dare a tutti la buona notizia che Dio essendo non solo soddisfatto, ma glorificato, chiunque gli si avvicina con confidenza in questo sangue, viene accolto con benignità e salvato gratuitamente. Sul capo del capro, ch’era la figura del sacrificio di Cristo come propiziazione, non venivano confessati i peccati, quantunque esso fosso scannato per il peccato d’Israele; ed il sangue veniva semplicemente presentato al Signore in segno che il peccato era stato giudicato e condannato secondo le esigenze della Sua giustizia. Ma la maestà di Dio, il Suo amore per il peccatore ed il Suo odio per il peccato, non furono mai messi così bene in luce come nella morte di Cristo. Su questo terreno Dio non solo può ricevere il peccatore secondo la Sua grazia ed il Suo amore, ma desiderare inoltre che gli uomini si convertano a Lui.
Oltre al peccato del popolo preso nel suo assieme, v’erano ancora dei peccati personali, dei quali Israele era responsabile, come lo è ogni uomo che pecchi oggi; e perciò il Sommo Sacerdote confessava nel gran giorno delle espiazioni le iniquità del popolo, mettendo le sue mani sul capro Azazel (*). Così tutte le colpe individuali, per mezzo di colui che rappresentava il popolo, venivano posto sul capo del capro di partenza, il quale le portava in luogo deserto, lontano da Israele (vedi Levitico 16:20-22).
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(*) «Azazel» significa «che se ne va», «che s’allontana».
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Ora Cristo è nello stesso tempo il nostro Sommo Sacerdote ed il nostro sacrificio; Egli ha confessato i peccati di tutti coloro che credono in Lui, come se fossero stati Suoi propri, e nello stesso tempo li ha portati nel Suo corpo, sul legno (1 Pietro 2:24). Egli fu la realizzazione di ciò che i due capri volevano rappresentare; l’opera Sua riveste un doppio carattere, quello che risponde alle esigenze della santità e della giustizia di Dio per mantenere intatta la Sua gloria, e quello che risponde ai bisogni dell’uomo peccatore.
Il nostro Sommo Sacerdote non entrò nel Santuario senza sangue (Ebrei 9), e questo fu la prova della perfezione dell’opera Sua, per la quale anche il più gran peccatore può ottenere il perdono desiderato. Si può dire senza esitazione che il valore del Suo sangue è più che sufficiente per espiare i peccati di tutto il mondo (1 Gio. 2:2); ed è in questo senso che ci vien detto che Cristo è morto per tutti (2 Cor. 5:15), ch’Egli ha gustato la morte per tutte le cose (Ebrei 2:9), e ch’Egli stesso pagò il riscatto per tutti (1 Tim. 2:6). Ma quando si tratta di Cristo quale Sostituto per portare i peccati, troviamo che la Parola usa un linguaggio ben diverso. Ci dice ch’Eg1i ha portato i nostri peccati, ch’Egli è stato offerto per portare i peccati di molti (1 Piet. 2:24, Ebrei 9:28); ma l’espressione «tutti» è scrupolosamente evitata. Non si troverà un sol passo nella Scrittura, dal quale risulti che Cristo abbia portato i peccati di tutti; se la cosa fosse così, sarebbe inutile parlare di Lui, e nessuno potrebbe essere giudicato secondo le sue opere. Quindi presentandomi agli uomini, posso dire che Cristo è morto per tutti, e che questa morte è la base su cui tutti possono avvicinarsi a Dio; ma soltanto a colui che crede, potrò dire che Cristo ha portato i suoi peccati, dei quali non verrà più fatta menzione.
Se noi ci formassimo a considerare alquanto la differenza che vi è fra la dottrina così detta «arminiana» (*) e quella di Calvino, vedremmo subito quanta importanza possa avere un’esatta conoscenza di queste cose. I difensori della prima non vedono nella morte di Cristo se non un sacrificio compiuto in favore di tutti, aggiungendovi generalmente il pensiero dell’espiazione dei peccati. Ora la maggior parte di questi tutti, dimostrando per le loro opere che vanno alla perdizione, è chiaro che con un tale principio si renda praticamente molto incerta la verità che Cristo abbia proprio portato i peccati d’ogni vero credente, o che abbia fatto un’opera speciale per i Suoi. Costoro dicono che se Dio amava tutti, non poteva fare parzialità, ed amarne qualcuno in modo speciale; con ciò la salvezza resta assai dubbiosa, l’uomo viene spesso elevato, e la dottrina che abbiamo nella figura del capro destinato alla terra inabitata, viene lasciata completamente da parte. I calvinisti invece stanno fermi nel sostenere che Cristo abbia portato i peccati dei Suoi e che quindi sia accertata la loro salvezza; ma s’inciampano là dove conchiudono che, s’Egli ha amato la Chiesa al punto di sacrificarsi per essa, il Suo amore non ha potuto avere un altro oggetto all’infuori di lei. Essi non comprendono il linguaggio della Scrittura sulla riconciliazione di tutte le cose, sulla Sua morte per tutti; e non andando al di là della sostituzione, non considerano il significato del sangue messo sul coperchio dell’arca.
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(*) (Il Dispensatore) L’epiteto «arminiana» viene da Arminiano, teologo olandese, morto nel 1609; e significa quella scuola teologica, la quale fa derivar la salvezza dalla responsabilità e dalla libera volontà dell’uomo, rinnegando la sovranità di Dio nell’elezione. I calvinisti invece sostengono le idee opposte. Noi possiamo dire che entrambi hanno ragione in ciò che affermano, ed hanno torto in ciò che negano: poiché tanto la responsabilità dell’uomo come l’assoluta sovranità di Dio, fanno parte tutte e due della verità che troviamo rivelate chiaramente nella Scrittura. Perciò il cristiano deve accettarle entrambe, senza cercare di farne una sola cogli sforzi della sua propria ragione. Ciò che è degno di essere considerato, però, si è che nella Scrittura, agli uomini inconvertiti viene, generalmente messa davanti la loro responsabilità e la necessità di fare la loro scelta tra la salvezza e la perdizione; mentre ai figli di Dio viene parlato della scelta fatta da Lui, ovvero della predestinazione. Per spiegare meglio questi pensieri, uno scrittore disse con linguaggio stringente: «Sulla parte esteriore della porta per entrare nella vita eterna sta scritto: Chi vuole, venga; e nella parte interna, ove può leggere soltanto colui ch’è entrato, sta scritto : Egli ci ha eletti prima della fondazione del mondo».
Perciò gli arminiani possono paragonarsi a qualcuno che, essendo abbastanza soddisfatto dell’iscrizione esterna, non si cura di conoscere quella che c’è internamente; mentre i calvinisti sono simili a coloro che leggendo il di dentro, rinnegano ciò che è scritto al di fuori.
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La verità si è che noi non troviamo mai nella Scrittura che Cristo abbia amato il mondo, ma ch’Egli ha amato la Chiesa d’un amore che scaturisce da una relazione affatto intima e particolare (Efes. 5:2 e 25) ; mentre vediamo da un altro lato che la Parola non dice che Dio abbia amato la Chiesa, ma che ha amato il mondo al punto da dare il Suo Unigenito Figlio per esso (Giov. 3:16). Ciò corrisponde maggiormente con la Sua bontà, ed è più adatto alla Sua divina natura; ma i Suoi consigli, la Sua determinazione sono poi ancora una tutt’altra cosa. Non voglio ora fermarmi su questo argomento, ma lo cito soltanto per indicare quanta confusione possa e debba produrre nell’animo degli ascoltanti l’annunzio del Vangelo da colui che non ha idee esatte sulla propiziazione e sulla sostituzione. L’appello al mondo resta più debole, la certezza della salvezza per il credente non può essere stabilita, e l’annunzio della verità manca di quella precisione che corrobora quanto si dice, obbligando l’uditore ad esaminare meglio i casi suoi.
Certo che un vero desiderio di salvare le anime e di predicare Cristo, sarà sempre benedetto, purché proceda dall’amore verso di Lui; ciò ha maggior importanza di una grande chiarezza ed esattezza nella presentazione della dottrina; ma il possedere idee chiare e nette intorno alle cose che si vogliono dire, è un grande aiuto per il predicatore del Vangelo, e sarà poi anche un buon fondamento per la successiva edificazione dei Santi.