Ezechiele un profeta del Millennio

di Georges André
Pubblicato con il permesso di Edizioni Il Messaggero Cristiano
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Capitolo 1: Ezechiele e la profezia biblica

Il libro di Ezechiele è uno dei meno conosciuti della Bibbia; eppure, oltre alle rivelazioni profetiche, esso contiene – come del resto tutta la Parola di Dio – delle preziose lezioni spirituali. Ne esamineremo alcuni capitoli cercando di trarne, per prima cosa, l’insegnamento morale; ma daremo anche una visione d’insieme del suo contenuto.

Prima di esaminare questo libro vediamo di collocarlo in mezzo agli altri profeti. L’Antico Testamento, come sappiamo, si divide praticamente in quattro parti:

  1. I cinque libri di Mosè, chiamati «Pentateuco», dalla Genesi al Deuteronomio.
  2. I libri storici, da Giosuè a Ester, che ci danno la storia del popolo d’Israele in Palestina.
  3. I libri detti poetici, da Giobbe al Cantico dei Cantici. È da includere anche il libro delle Lamentazioni di Geremia.
  4. I libri profetici, da Isaia a Malachia.

Ezechiele e gli altri profeti

A loro volta, i sedici libri profetici si possono suddividere in diversi modi:

a) Secondo la «lunghezza» della loro profezia, e quindi la dimensione del libro. Così si distinguono i quattro grandi profeti, Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele, e i dodici piccoli profeti, o profeti minori, da Osea a Malachia.

b) Più interessante è la distinzione tra profeti di Giuda e profeti d’Israele. Avvenuta la divisione del regno, dopo la morte di Salomone, la maggior parte dei profeti si è indirizzata alle due tribù di Giuda e di Beniamino e, in numero molto minore, alle restanti tribù di Israele. Molti, come Elia ed Eliseo, non hanno lasciato scritti; lo Spirito di Dio ha voluto conservarci il messaggio scritto solo di sedici di loro.

Giona, Amos, Osea sono stati soprattutto profeti d’Israele; gli altri tredici profeti di Giuda.

La maggior parte dei profeti ha parlato al popolo di Dio, solo alcuni alle altre nazioni. Giona e Naum s’indirizzano specialmente alle nazioni. Abdia a Edom. Nei libri di Isaia, di Geremia e di Ezechiele si trovano delle porzioni intere destinate a diverse nazioni. Ma tutti gli altri hanno in vista essenzialmente il popolo d’Israele.

c) Un’ultima distinzione tra i vari profeti può essere fatta in base all’epoca in cui esercitarono il loro ministero: o in Canaan, o prima della deportazione, o durante la deportazione, o a ritorno in Palestina.

Tra i profeti maggiori, Isaia e Geremia profetizzarono ancora in Palestina, prima della deportazione. Il finale del loro nome «ia» risponde all’ebraico «Jah», abbreviazione di Jahveh, l’Eterno. Infatti è come «l’Eterno» (tradotto nella versione italiana attuale della Bibbia “il SIGNORE”) che Dio si è particolarmente rivelato al suo popolo (Esodo 6:2-3) ed è come tale che rimane in relazione con lui. Il nome di questi due profeti ne porta dunque il contrassegno.

Invece, Ezechiele e Daniele portano la desinenza «ele», che corrisponde a «El», altro nome di Dio sovente impiegato nell’Antico Testamento, ma che non ha una relazione particolare con il suo popolo. Il nome di questi due servitori corrisponde dunque alla loro situazione di «deportati» lontano da Gerusalemme, in un momento in cui le relazioni di Dio col popolo d’Israele erano interrotte a causa della sua infedeltà.

Tutti gli altri profeti, salvo gli ultimi tre, hanno profetizzato in Canaan, prima della deportazione. Solo Aggeo, Zaccaria e Malachia hanno esercitato il loro ministero dopo il ritorno dall’esilio, quando un certo numero di Giudei erano risaliti con Zorobabele, poi con Esdra e poi ancora con Neemia per ricostruire l’altare, il tempio e infine le mura di Gerusalemme. Malachia descrive lo stato del popolo un secolo dopo il suo risveglio per segnalarne la decadenza.

Le varie profezie nell’arco del tempo

Fondamentalmente, la profezia tratta della terra e del governo di Dio. È un errore, commesso purtroppo fin dai primi secoli del cristianesimo, applicare alla Chiesa i giudizi e le benedizioni che sono preannunciati per Israele.

Nell’Antico Testamento la Chiesa non è oggetto di profezia; la sua parte non è sulla terra. Durante l’epoca attuale, dalla venuta dello Spirito Santo alla Pentecoste e fino al ritorno del Signore, Dio trae le anime individualmente, di fra i Giudei e di fra le nazioni, per farne delle pietre viventi per la sua casa, una casa spirituale la cui parte è celeste.

In grandi linee, possiamo distinguere tre periodi principali considerati dai profeti.

a) Durante il primo, il popolo d’Israele è ancora nel paese e l’Eterno è in relazione con lui. Esso è il centro del suo governo.

b) Ma dopo le varie deportazioni, le relazioni dell’Eterno con Israele si sono interrotte e il potere, come lo dimostrano le visioni di Daniele, è dato alle nazioni: Babilonia, la Persia, la Grecia di Alessandro Magno, e infine l’Impero Romano. Questo secondo periodo, che si estende dall’anno 600 a. C. circa fino alla futura venuta in gloria del Signore Gesù, è chiamato «il tempo delle nazioni» (Luca 21:24), periodo durante il quale Gerusalemme è calpestata.

In questo periodo è compreso il parziale ritorno dei Giudei dall’esilio di Babilonia, grazie all’editto di Ciro, re di Persia; e il Signore Gesù è nato in mezzo ai discendenti di quei Giudei. Nell’anno 70 d. C. il popolo d’Israele fu nuovamente disperso quando Tito, imperatore romano, prese Gerusalemme. Da allora i Giudei non hanno ancora riconquistato pienamente la loro libertà, anche se un parziale ritorno in Palestina è già in atto dal 1948.

c) Un terzo periodo profetico s’aprirà in futuro, con il ritorno in gloria del Signore Gesù, quando verrà dal cielo per stabilire il suo regno sulla terra. Allora, tutto il potere gli sarà dato, e Israele sarà di nuovo il centro del governo di Dio sulla terra. Ma prima che possa stabilirsi questo regno di giustizia e di pace, l’ira di Dio verrà su «coloro che abitano sopra la terra» (Apocalisse 6:10) e che hanno rifiutato il Messia e il suo Evangelo.

Nessuna benedizione sarebbe stata possibile, né mai lo sarà, mai senza il sacrificio in croce del Signore. La croce si pone al centro della storia profetica e della storia del mondo: «Non doveva il Cristo soffrire tutto ciò ed entrare nella gloria?» (Luca 24:26). Il sangue del nuovo patto è stato versato per la remissione dei peccati, di noi credenti di oggi ma anche dei credenti di ogni altra epoca, compresi coloro che all’alba del futuro regno milleniale si sottometteranno di cuore al Signore Gesù.

La grande verità che il Messia doveva soffrire, che sarebbe stato «soppresso» e nessuno sarebbe stato per Lui (Daniele 9:26), era un mistero per i profeti: «Essi cercavano di sapere l’epoca e le circostanze cui faceva riferimento lo Spirito di Cristo che era in loro, quando anticipatamente testimoniava delle sofferenze di Cristo e delle glorie che dovevano seguirle» (1 Pietro 1:10-12). Il Signore risuscitato, sulla via di Emmaus, ha aperto gli occhi dei due discepoli su questa duplice prospettiva – sofferenza e gloria –  di cui tutte le Scritture parlavano.

Capitolo 2: La profezia di Ezechiele

Ezechiele e il suo tempo

I primi versetti del libro ci danno qualche dettaglio sulla personalità di Ezechiele. Come Geremia, anche lui era sacerdote. Però, essendo deportato in Caldea, non poteva esercitare il suo ufficio. Egli abitava in una casa (8:1), che forse gli era stata donata, presso il fiume Kebar. Era sposato, ma nel corso del suo ministero sua moglie morì improvvisamente (24:18).

È utile ricordare che le tribù di Giuda e Beniamino non furono deportate in uno stesso momento.

Vi fu una prima deportazione verso l’anno 606 a. C., sotto il re Ioiachin, quando anche gli utensili del tempio furono trasportati a Babilonia (2 Cronache 36:7, Daniele 1: 1-2). Questo avvenimento segna l’inizio dei settant’anni di cattività di cui parla Geremia. In quell’occasione anche Daniele fu deportato a Babilonia.

Una seconda deportazione ebbe luogo sotto il re Ioiachim, verso l’anno 600 a. C. (2 Cronache 36:10); è allora che Ezechiele venne deportato in Caldea. Infine, dopo la distruzione di Gerusalemme e del tempio, tutto ciò che restava di importante in Israele fu trasportato in Caldea, alla fine del regno di Sedechia (2 Cronache 36:18-20). Pochi mesi dopo, Geremia non volendo abbandonare alcuni del suo popolo, li accompagnò in Egitto, dove si persero le loro tracce (Geremia 43).

Il profeta Ezechiele inizia il suo ministero cinque anni dopo la deportazione di Ioiachin (Ezechiele 1:2). Tutte le sue profezie sono datate a partire da quel momento fino al ventisettesimo anno di quella deportazione. Per quasi ventitré anni egli ha profetizzato in terra straniera, deportato come lo era stato Daniele nella stessa epoca, e come lo sarà l’apostolo Giovanni, esiliato sull’isola di Patmo (Apocalisse 1:9).

Non è forse toccante che a questi tre uomini allontanati dal loro paese e dai loro famigliari, Dio riveli l’avvenire? Ezechiele sottolinea una parola che è stata di consolazione in ogni tempo per molti credenti isolati: «Sebbene io li abbia allontanati fra le nazioni e li abbia dispersi per i paesi, io sarò per loro, per qualche tempo, un santuario nei paesi dove sono andati» (Ezechiele 11:16).

Noi dobbiamo far di tutto per trovarci, specialmente nel primo giorno della settimana, in una località dove dei credenti si riuniscono per adorare Dio e ricordarsi del Signore; ma può anche avvenire che circostanze diverse portino a trascorrere delle domeniche solitarie: viaggi, malattie o avvenimenti particolari, come trovarsi in prigione per la propria fede, rendono impossibile riunirsi con altri fratelli. Che fare allora? Giovanni, lontano da un luogo di radunamento, fu rapito «dallo Spirito nel giorno del Signore»; i suoi pensieri erano concentrati su cose spirituali e sulla persona del Signore. Così, anche Daniele ed Ezechiele trovarono un «santuario» in cui la loro anima poteva godere del loro Dio; e poiché erano occupati di Lui, Egli parlò loro.

Schema del Libro di Ezechiele

PRIMA PARTE: Capitoli da 1 a 24
Prima della presa di Gerusalemme
a) 1 a 3: Visione e vocazione
b) 4 a 7: Annuncio della distruzione di Gerusalemme
c) 8 a 11: La gloria dell’Eterno se ne va
d) 12 a 23: Motivo e annuncio del giudizio
e) 24: Inizio dell’assedio di Gerusalemme.

SECONDA PARTE: Capitoli 25 a 32
Profezie contro sette nazioni
a) 25
(v. 1 a 7): Amman
(v. 8 a 11): Moab
(v. 12 a 14): Edom
(v. 15 a 17): Filistei

b) 26 a 28
(fino a 28:19): Tiro e il suo re
(28: 20-26): Sidone
c) 29 a 32
(fino a 32:16): Egitto
(32: 17-32): Il canto dei morti.

TERZA PARTE: Capitoli 33 a 39

Dopo la rovina di Gerusalemme

Restaurazione nazionale e spirituale di Israele
a) 33: La città distrutta
b) 34 e 36: Restaurazione spirituale
c) 35: Edomiti
d) 37: Restaurazione nazionale di Israele
e) 38 e 39: Gog.

QUARTA PARTE: Capitoli 40 a 48.
Israele nella sua terra durante il regno di mille anni
a) Cap. 40 a 46:
Il nuovo tempio e il suo servizio
Il ritorno della gloria dell’Eterno
Il principe
b) 47: 1-12: Le acque del santuario
c) 47: 13-23 e 48: 1-29: L’eredità del paese
48: 30 -35: Le porte della città.

Visione e vocazione

Abbiamo considerato l’epoca e il quadro generale in cui è vissuto Ezechiele; vediamo ora com’è diventato profeta.

Come tanti altri, Ezechiele ha avuto bisogno di un contatto personale e diretto con Dio per essere chiamato all’opera alla quale Egli lo destinava. Allo stesso modo Giovanni, prima di scrivere alle sette chiese e farci partecipi delle «cose che devono avvenire tra breve» (Apocalisse 1:1), ebbe la visione del Signore in veste di giudice. Il giovane Isaia, l’anno della morte del re Uzzia, vide “il Signore seduto sopra un trono alto, molto elevato” (Isaia 6:1). Mosè ebbe la visione del pruno ardente. Durante la notte, Samuele udì la voce dell’Eterno. Paolo fu atterrato dalla grande luce sulla via di Damasco. Pietro, di fronte alla pescata miracolosa, si gettò ai piedi del Signore Gesù esclamando: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore» (Luca 5:8).

Nella chiamata di Ezechiele distinguiamo tre stadi successivi:

al capitolo 1, vede la gloria dell’Eterno;

al capitolo 2, ode la sua voce;

al capitolo 3, è nutrito della Sua parola.

Solo allora l’Eterno può dirgli «Va’», e stabilirlo «come sentinella» per la casa d’Israele.

Capitolo 3: La visione della gloria dell’Eterno (cap. 1)

(capitolo 1)

Quale fu la visione di Ezechiele? Egli dice che «era un’apparizione dell’immagine della gloria del SIGNORE» (v. 28); visione magnifica, strana, difficile da descrivere. E questo è senza dubbio voluto perché la gloria di Dio non poteva essere manifestata chiaramente come lo sarà poi nella persona di Cristo (2 Corinzi 4:6).

L’insieme rappresentava approssimativamente un carro fantastico, le cui ruote erano sulla terra; su di esse c’erano quattro esseri viventi con le ali distese. Sopra le loro teste, qualcosa «come una volta d’un bagliore come di cristallo di ammirevole splendore» (v. 22) separava le cose che si trovavano di sopra da quelle che erano sotto. In alto, il profeta intravede come una pietra di zaffiro «che pareva un trono» su cui era seduto «come la figura di un uomo» impossibile da descrivere. Ezechiele si limita a dire che intorno a lui c’era «come del fuoco, come uno splendore» (v. 26-27). Questo può essere definito: il carro del governo di Dio.

A grandi linee, i versetti 4-14 ci presentano i cherubini; i versetti 15-21 le ruote; i versetti 22-25 la distesa che era al di sotto d’esse; i versetti 26-27 ciò che era sopra la distesa, vale a dire il trono e la «figura di un uomo» che vi stava seduto sopra, «su in alto».

Lo Spirito animava il tutto. Le ruote non potevano muoversi se non guidate dallo Spirito degli esseri viventi. E Colui che era seduto sul trono dirigeva il tutto.

Le ruote sulla terra rappresentano il governo di Dio così spesso incomprensibile, ma sempre condotto dall’alto. Infatti, ciò che avveniva a Israele ai tempi di Ezechiele non era dovuto al concorso di varie circostanze né era il risultato dei piani di Nabucodonosor; tutto dipendeva dalla volontà e dai propositi di Colui che, seduto sul trono, giudicava in giustizia.

Questa era la grande lezione che il giovane profeta doveva apprendere prima di iniziare il suo ministero.

I cherubini (1:4-14)

Questi angeli sono i guardiani e i difensori della santità di Dio e gli esecutori dei suoi giudizi (Ezechiele 10:20).

Li vediamo per la prima volta all’ingresso del giardino di Eden, quando l’uomo ne fu cacciato (Genesi 3:24); essi vibravano una spada fiammeggiante per custodire la via dell’albero della vita, e impedire ad Adamo e ad Eva di mangiare il frutto di quell’albero.

Più tardi, sull’arca costruita da Mosè per ordine dell’Eterno, due cherubini d’oro, con le ali distese, avevano la faccia rivolta verso il “propiziatorio”; cosa vedevano su quel coperchio dell’arca? Il sangue che il sommo sacerdote vi versava nel “grande giorno delle espiazioni”. Il giudizio era caduto su una vittima innocente e senza difetto, quindi non sarebbe stato esercitato di nuovo, per mezzo dei cherubini, sul popolo colpevole.

Anche sulla “cortina”, la tenda che separava il luogo santo dal luogo santissimo del tabernacolo, dei cherubini v’erano ricamati, per mettere in evidenza la proibizione di accedere al luogo santissimo. Non ve n’erano invece sulla tenda tra il cortile e il luogo santo; lì, una porta molto larga consentiva l’accesso a tutti gli Israeliti che si accostavano all’altare di rame portando una vittima da sacrificare.

Nel tempio di Salomone si ergevano due grandi cherubini di legno d’ulivo rivestito d’oro (1 Re 6:23-28, 2 Cronache 3:13) con le facce rivolte verso l’entrata della casa come se fossero pronti ad accogliere nel regno di pace e di giustizia coloro che volevano entrare.

In Apocalisse 4 e 5 ritroviamo i cherubini sotto forma di quattro creature viventi attorno al trono. Le loro differenti facce, di leone, di bue, di uomo e d’aquila, ci parlano dei diversi aspetti del giudizio di Dio.

Qui, in Ezechiele, c’è una caratteristica importante: i cherubini sono pieni di occhi (Ezechiele 10:12), perché il governo di Dio non è cieco. Egli prende conoscenza di tutto e discerne tutto. Tale è anche la sua Parola, che «giudica i sentimenti e i pensieri del cuore» (Ebrei 4:12); tale è il Signore stesso nel primo capitolo dell’Apocalisse, con gli occhi che brillano come fiamme di fuoco.

Le ruote (1:15-21)

Esse costituiscono la parte inferiore del carro, quella che si muove sulla terra. Anche le ruote sono piene d’occhi (v. 18) perché niente nel governo di Dio avviene a caso. Tutto era animato dallo Spirito delle creature viventi che era nelle ruote (v. 20) e che le faceva muovere (v. 12).

La distesa e il trono (v. 22-28)

Al di sopra delle teste e delle ali delle creature viventi vi era una distesa di cielo, di colore simile a cristallo d’ammirabile splendore che separava in certo modo il carro sulla terra dal trono nel cielo.

La visione di Ezechiele e di Giovanni nell’Apocalisse sono simili per la presenza delle quattro creature viventi, ma diverse quanto al trono e a Colui che vi è seduto.

Ezechiele vede qualcosa di simile a un trono e su di esso «come la figura di un uomo»; e tutt’intorno «come del fuoco, che lo circondava» (v. 26-27). La gloria di Dio non era ancora chiaramente manifestata.

In Esodo 24:10, quando gli anziani salirono sul Sinai con Mosè, «videro il Dio d’Israele» e «sotto i suoi piedi vi era come un pavimento lavorato in trasparente zaffiro e simile, per limpidezza, al cielo stesso». Il profeta Ezechiele non vede molto di più, però discerne l’aspetto di un uomo sul trono. Come invece è più bella e dettagliata la visione di Giovanni! «Vidi, in mezzo al trono e alle quattro creature viventi e in mezzo agli anziani, un Agnello in piedi, come immolato… » (Apocalisse 5:6).

Nel tempo intercorso tra la visione di Ezechiele e quella di Giovanni, Dio è stato manifestato in carne. L’Agnello di Dio è stato visto sulle rive del Giordano; alla croce, ha portato i peccati del mondo; la cortina è stata squarciata e la luce della gloria di Dio ha brillato nel volto di Gesù Cristo (2 Corinzi 4:5). I riscattati, raffigurati dagli anziani, sono già nella gloria e là adorano, cantando il cantico nuovo. Senza Agnello non vi sarebbe stato nessun “anziano”, nessun riscattato; senza gli anziani nessun cantico sarebbe cantato, poiché solo i riscattati cantano!

Ma la visione di Ezechiele non si limita all’aspetto del fuoco e allo splendore della gloria; egli vede anche un arcobaleno, l’«arco che è nella nuvola in un giorno di pioggia». L’arcobaleno apparve dopo il diluvio come segno che Dio non avrebbe più distrutto la terra per mezzo dell’acqua. Qui, la presenza dell’arcobaleno è la prova evidente della grazia che si spiegherà magnificamente quando i tempi propizi saranno giunti.

Cosa poteva fare il profeta di fronte a una tale rivelazione, se non cadere con la faccia a terra, come hanno fatto, Mosè, Pietro, Giovanni e Saulo da Tarso sulla via di Damasco?

Capitolo 4: Ezechiele alla scuola di Dio

L’ascolto della voce dell’Eterno (cap. 2)

Prima di essere mandati, bisogna ascoltare: «Figlio d’uomo, alzati in piedi, io ti parlerò». È impossibile portare agli altri la Parola del Signore se prima non l’abbiamo udita noi stessi. «Ascolta ciò che ti dico; non essere ribelle» (v. 8). Coloro ai quali Ezechiele si rivolgerà, il più delle volte non l’ascolteranno, ma «sia che ti ascoltino o non ti ascoltino» (v. 7) egli dovrà portare il suo messaggio.

Quando il seminatore esce per seminare, sa che qualche seme cadrà sulla roccia, o fra le spine, o sulla strada, e questi non porteranno frutto; ma semina ugualmente.

Non lasciamoci scoraggiare se una parte di opuscoli di evangelizzazione che abbiamo distribuito vengono strappati o gettati via, o se molti li rifiutano e si allontanano ancor più dal Signore. «Tu riferirai loro le mie parole», dice Dio al profeta; non secondo i tuoi pensieri, o ciò che a te par bene, ma secondo quello che tu avrai prima udito da me.

Essere nutriti dalla Parola di Dio (3: 1-15)

Ascoltare non è sufficiente; bisogna “nutrirsi”. Geremia lo dice: «Appena ho trovato le tue parole, io le ho divorate; e le tue parole sono state la mia gioia, la delizia del mio cuore» (Geremia 15:16). Chiamato a condurre il popolo alla conquista di Canaan, Giosuè doveva meditare il libro della legge giorno e notte.

Come ciò che mangiamo entra nella costituzione del nostro organismo, così, spiritualmente parlando, la nostra personalità interiore si formerà in base a quello di cui nutriamo il nostro spirito e la nostra anima. Ecco perché dobbiamo dare alla Parola di Dio il primo posto; non soltanto leggere velocemente un versetto, o ascoltare ciò che dicono i fratelli, o ciò che viene spiegato durante le riunioni, ma nutrirsi per se stessi, lasciare che la Parola formi e corregga i nostri pensieri, le nostre concezioni, il nostro modo di vedere. Molti servitori del Signore ebbero nella loro vita, in generale nella loro giovinezza, un periodo in cui hanno concentrato tutte le loro letture sulla Parola di Dio, per un anno intero e anche più; questo sta alla base di un solido e proficuo servizio.

È dolce nutrirsi della Parola. Ezechiele dice: «Mi fu dolce come del miele» (v. 3); e Geremia: «Le tue parole sono state la mia gioia, la delizia del mio cuore» (15:16). Giovanni ne fa l’esperienza quando mangia il libretto (Apocalisse 10); ma poi gli viene l’amaro in bocca alla rivelazione dei giudizi che cadranno su coloro che hanno rifiutato questa Parola. Ricevila «nel tuo cuore», ripete l’Eterno a Ezechiele, sottolineando che quello è l’unico mezzo per essere qualificati per parlare ad altri.

«Va’». La sentinella (3:16-21)

Non era bene che Ezechiele parlasse subito della visione. Per sette giorni egli rimane seduto mesto e silenzioso (3:15) meditando su ciò che aveva visto e udito. Anche Paolo restò tre giorni a Damasco, cieco e senza mangiare né bere; non ebbe fretta di raccontare l’esperienza straordinaria fatta col Signore.

Poi bisognava che il profeta si mettesse al livello dei figli del suo popolo: «E là abitai… in mezzo a loro» (v. 15).

Alla fine dei sette giorni, la parola dell’Eterno gli giunge per fargli sapere questo: «Io ti ho stabilito come sentinella», una sentinella col compito di avvertire i peccatori che si convertano dalle loro vie malvagie il giusto che se ne allontani. Se ascolteranno, che gioia vi sarà! Ma se rifiuteranno, la responsabilità del servitore è fatta salva, se ha avvertito; ma se non ha avvertito, il peccatore morirà per la sua iniquità, e il servitore porterà la pena della sua disubbidienza!

«Lo Spirito entrò in me»

Al cap. 2:2 e al cap. 3:24 c’è la stessa espressione. Nell’Antico Testamento lo Spirito era dato solo in certi momenti; non abitava nei credenti come oggi. Tuttavia, senza lo Spirito di Dio non si poteva né ascoltare (v. 2) né parlare (v. 3). «Non per potenza, né per forza, ma per lo Spirito mio» dirà l’Eterno a Zorobabele (Zaccaria 4:6). Solo lo Spirito di Dio può applicare la Parola alle nostre coscienze e ai nostri cuori, ed Egli solo dà la potenza per presentare questa Parola; a noi il compito di vegliare per non ostruire il canale che deve portare l’acqua viva a coloro che hanno sete. Se ci siamo veramente giudicati davanti a Dio e abbiamo confessato al Signore i nostri peccati, lo Spirito sarà libero di agire, guidare nella verità e rendere testimonianza. Non dimentichiamo mai l’affermazione del Signore Gesù: «Senza di me non potete far nulla» (Giovanni 15:5).

Capitolo 5: La gloria dell’Eterno se ne va (cap. 8 a 11)

Il sedicesimo anno della cattività, circa un anno dopo la prima visione, una nuova rivelazione è fatta a Ezechiele. La gloria dell’Eterno, che gli era apparsa in Caldea, e che si trovava nel tempio a Gerusalemme (8:4), ora sta per uscire dal tempio. Per quale motivo? E come avviene questo?

Perché la gloria se ne va (cap. 8)

Ci sono specificate cinque ragioni per il giudizio che sta per cadere sulla città santa:

  1. All’entrata della porta interna, verso nord, si trovava «l’immagine scolpita dell’idolo», cosa che «provoca ad ira» e «rende geloso» l’Eterno (Salmo 78:58). Questo idolo, introdotto nel tempio dal re Manasse (2 Cronache 33:7), era poi stato tolto da lui stesso quando si era convertito (v. 15). Evidentemente, fu reintrodotto qualche tempo dopo. Era una prova manifesta e pubblica dell’idolatria che regnava nel popolo d’Israele che si era allontanato dall’Eterno.
  2. Ma c’era di peggio. Praticando un foro nel muro del tempio e aprendo una porta segreta, il profeta penetra in una camera sulle cui pareti erano dipinti «ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli» (v. 10).

Se i culti di Baal e di Astarte erano venuti dalla Siria, questo culto orrendo proveniva dall’Egitto. Esso era praticato da settanta anziani (in contrapposizione con i settanta anziani che avevano contemplato con Mosè la gloria del Dio d’Israele, Esodo 24:9).

In mezzo a loro si trovava «il figlio di Safan», proprio quel Safan che con Chilchia aveva ritrovato il libro della Legge ai tempi del re Giosia (2 Cronache 34:15). Con quale gioia suo padre l’aveva letta al re! Ed ora, nel buio di quella stanza, il figlio faceva salire una nuvola d’incenso agli idoli dei pagani! Ma tutti dicevano: «Il SIGNORE non ci vede» (v. 12), ignorando la presenza dei cherubini e di quelle misteriose «ruote piene d’occhi tutto attorno» (10:12).

  1. «All’ingresso della porta della casa del SIGNORE» (8:14) un altro culto era celebrato, questa volta fenicio: il culto di Tammuz, l’Adone dei Greci, con tutta la corruzione e le perversioni che lo caratterizzavano.
  2. Infine, «all’ingresso del tempio del SIGNORE, tra il portico e l’altare» (8:16), venticinque uomini, disposti in modo da voltare le spalle alla casa dell’Eterno, con la faccia rivolta verso oriente, si prostravano davanti al sole, praticando un culto che proveniva dalla regione dell’attuale Iran. Chi lo praticava erano «ventiquattro» sacerdoti, due per ognuna delle dodici classi, con un sommo sacerdote a capo!
  3. Una quinta ragione è citata al v. 17: riempivano «il paese di violenza». Violenza e corruzione fin dall’epoca di Noè avevano riempito il mondo, ed ora anche il popolo di Dio ne era invaso.

Noi ci stupiamo che il popolo di Israele sia caduto così in basso. Se valutiamo bene le cose, non è la stessa cosa oggi? Molti hanno goduto dei privilegi cristiani, nella famiglia o nei radunamenti, ma il loro cuore non è stato cambiato e la nuova nascita non ha avuto luogo. Si sono accontentati di una conoscenza intellettuale della verità, ed ecco che un idolo si è introdotto nella loro vita: forse un affetto contrario ai pensieri di Dio, una teoria filosofica o religiosa, un’amicizia fuori luogo, una passione peccaminosa. Qualcosa, qualunque essa sia, ha preso il posto del Signore, ed è diventata un idolo; e a poco a poco il cuore si è allontanato da Lui.

Nel cuore che non dà al Signore il primo posto si insinuano facilmente dei pensieri impuri. Non quelli che affiorano alla mente di quando in quando e che ci affrettiamo a giudicare e a respingere concentrandoci su altre cose (Filippesi 4:8-10), ma quelli che si ricercano, che si amano, che ci piace coltivare. Nessuno sa, nessuno vede, poiché tutto ha luogo nel segreto della mente o della propria camera. È come se si dicesse: l’Eterno non ci vede; e nella camera segreta dell’anima, nell’oscurità, l’immaginazione corrotta lavora, «ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli… dipinti sul muro tutto attorno» (v. 10)!

Ma la corruzione non resta sempre interiore, nel segreto dei pensieri e della fantasia; essa si traduce poi in atti concreti, e si può cadere molto in basso, forse senza nemmeno rendersene conto. Non diciamo che queste cose non avvengono o che sono molto rare; se ognuno di noi non veglia sul proprio cuore, in misura più o meno grave finiremo per trovarci in una situazione di peccato.

E che dire anche della «violenza» che così spesso affiora nelle nostre parole e nei nostri comportamenti?

Le Lettere apostoliche ci avvertono che «le opere della carne sono: … inimicizie, discordia, gelosia, ire, contese» (Galati 5:20-21). «Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, collera, malignità, calunnia; e non vi escano di bocca parole oscene» (Colossesi 3:8). Se non stiamo in guardia, questi modi di agire si manifestano anche fra noi credenti. C’è allora da stupirsi se, mancando la vita di Dio, l’interesse delle cose dell’alto si affievolisce e scompare? Se in un cuore che non ha mai ricevuto Cristo vi sono cose che non corrispondono alla gloria di Dio, e questa se ne va? Nella sua grazia, certo, Dio può intervenire per chiamare ancora al pentimento e riportare sulla buona strada quelli che si sono smarriti; ma essi risponderanno?

Un residuo (cap. 9)

A Gerusalemme non tutti partecipavano alla corruzione generale. Alcuni si umiliavano di questo stato di cose e soffrivano a causa di tutte le abominazioni che venivano commesse nella città. Dovevano essi subire il castigo insieme agli altri? Essere distrutti nella punizione che si sarebbe abbattuta sui colpevoli? Sono gli interrogativi ai quali risponde il cap. 9.

Nella visione, Ezechiele vede sei uomini armati avvicinarsi alla città da nord, ciascuno con la sua arma di distruzione in mano. Tutto sta per essere annientato, ma per la grazia immensa di Dio «in mezzo a loro stava un uomo vestito di lino, che aveva un corno da scrivano alla cintura» (v. 2). Questi, figura preziosa del Signore Gesù, va a fare un segno a forma di T (simbolo della croce!) sulla fronte di tutti coloro che sospiravano e gemevano a causa del male che li circonda; soltanto dopo questo atto i sei uomini armati eseguiranno il giudizio senza risparmiare nessuno. Ma nessuno di coloro che portano il marchio sarà colpito.

Nella visione, il giudizio è eseguito; esso inizia dagli anziani che stavano davanti alla casa (v. 6), nel santuario (1 Pietro 4: 17); ma un residuo è risparmiato.

Il principio del «residuo», o «rimanente», si trova più volte nella Parola di Dio. Già al tempo del vitello d’oro, «chiunque cercava il SIGNORE» usciva verso la tenda di convegno, che era fuori del campo (Esodo 33:7). La maggioranza del popolo restava, ciascuno all’ingresso della propria tenda, e seguiva con lo sguardo coloro che si recavano nel luogo dove c’era la gloria dell’Eterno. Il residuo fedele usciva verso Dio fuori del campo come furono esortati a fare gli Ebrei che confessavano il Signore Gesù (Ebrei 13: 13).

Malachia descrive lo stato nel quale era caduto il popolo che era tornato dalla cattività, ma in mezzo ad esso egli distingue «quelli che temono il SIGNORE» e che «si son parlati l’un l’altro». E dice che «il SIGNORE è stato attento ed ha ascoltato; e un libro è stato scritto davanti a Lui, per conservare il ricordo di quelli che temono il SIGNORE e rispettano il suo nome. “Essi saranno, nel giorno che io preparo, saranno la mia proprietà particolare”, dice il SIGNORE degli eserciti; “io li risparmierò, come uno risparmia il figlio che lo serve”» (Malachia 3:16-17).

Alcuni, dunque, malgrado il male che dilagava, s’incoraggiavano a vicenda e, sottovoce, parlavano di Dio; come hanno fatto anche, qualche secolo più tardi, Zaccaria ed Elisabetta, Anna e il vecchio Simeone, quando il Signore Gesù è venuto sulla terra.

Considerando la storia della Chiesa nelle sette lettere di Apocalisse 2 e 3, vediamo che nelle ultime quattro chiese, fra una massa che si è allontanata da Dio, resta qualche fedele: «Gli altri di voi in Tiatiri», per esempio, «a Sardi ci sono alcuni…», tutti quelli di Laodicea che aprono la porta al Signore, e infine i fedeli di Filadelfia.

Lo stesso insegnamento lo troviamo in 2 Timoteo 2, dove la casa di Dio sulla terra è paragonata ad una grande casa contenente vasi ad onore e vasi a disonore, gli uni destinati a uso nobile, gli altri ad uso ignobile. Per essere un «vaso destinato a un uso nobile, santificato, utile al servizio del padrone» (v. 21), bisogna purificarsi dal male ed attaccarsi al Signore con tutti quelli che «con un cuore puro» (v. 22) invocano il suo nome.

Come se ne va la gloria dell’Eterno

In Ezechiele 8:4 leggiamo: «Ed ecco, là era la gloria del Dio d’Israele». Ai bei tempi del re Salomone (2 Cronache 5:14), la nuvola aveva riempito il tempio nel giorno della sua inaugurazione. Malgrado il declino del grande re, malgrado l’idolatria di Acab, di Izebel e di Atalia, e i vergognosi peccati di Manasse, la presenza di Dio era rimasta lì; ma ora si è raggiunto il colmo e la gloria dell’Eterno sta per ritirarsi.

Nel brano da 9:3 a 10:4, la gloria si alza al di sopra dei cherubini del santuario e va verso la soglia della casa; poi, al cap. 10 v. 18, parte di sulla soglia della casa; e, insieme ai cherubini, si ferma all’ingresso della porta orientale. Ma anche là non v’è che iniquità e male (11:2); i principi del popolo danno cattivi consigli e seguono i costumi delle nazioni lontane da Dio. La gloria non può restare nemmeno lì, sulla soglia. Al capitolo 11:23 vediamo che si innalza “di sul mezzo delle città” e se ne va sul monte che è ad oriente della città, il monte degli Ulivi.

Nella persona del Signore Gesù la gloria tornò un giorno a Gerusalemme. La folla lo acclamò: “Osanna al Figliuolo di Davide. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!”. Si tagliarono i rami degli alberi, si stesero delle vesti sulla strada… ma cosa fece il Signore? “Come si fu avvicinato, vedendo la città, pianse su lei, dicendo: Oh, se tu pure avessi conosciuto in questo giorno quel che è per la tua pace! Ma ora è nascosto agli occhi tuoi” (Luca 19:41-42).

Egli era lo splendore della gloria di Dio, l’impronta della sua essenza. Quando si trovò nel tempio, “avendo riguardata ogni cosa attorno, essendo già l’ora tarda, uscì” (Marco 11:11). Nessuno era pronto a riceverlo, nessun cuore, nessuna casa lo voleva accogliere. Il Signore se ne andò a Betania, dal “piccolo residuo”, dietro il monte degli Ulivi, dove c’era chi lo amava. Dallo stesso luogo Egli salirà al cielo, dopo avere benedetto i suoi discepoli. Ma sullo stesso monte ritornerà nel giorno del suo trionfo (Zaccaria 14:4). Allora la gloria, assente da tanti secoli ritornerà finalmente nel nuovo tempio: “La gloria dell’eterno entrò nella casa per la via della porta che guardava ad oriente. Lo spirito mi levò in alto e mi menò nel cortile interno; ed ecco, la gloria dell’eterno riempiva la casa” (Ezechiele 43:1-6).

La distruzione di Gerusalemme

Il nono anno della deportazione, il decimo mese, l’Eterno avverte Ezechiele che proprio in quel giorno il re di Babilonia attaccherà Gerusalemme (24:2). Il profeta trasmette la notizia al popolo ma senza grande successo. Per far più impressione a “quella casa ribelle”, l’Eterno gli propone la parabola della pentola (v. 3-12): poi lo avverte che sua moglie morirà e che lui non dovrà piangerla. Il popolo si stupisce e il profeta spiega che, secondo il comandamento dell’Eterno, com’egli non può piangere la moglie, così essi non potranno far cordoglio sul tempio di Gerusalemme, “orgoglio” della loro forza, “delizia” dei loro occhi, “desio” dell’anima loro (v. 21). Essi non avrebbero più rivisto i loro figli e le loro figlie rimaste nel paese; i fanciulli sarebbero stati massacrati e i loro genitori non li avrebbero pianti, ma si sarebbero “consumati di languore” per le loro iniquità, gemendo l’uno con l’altro.

Sono trascorsi tre anni; un fuggiasco viene da Gerusalemme (33:21), il dodicesimo anno della cattività, e annuncia al profeta: “La città è presa”. È finita. Il giudizio, annunciato in maniera così viva per sei anni, è ormai eseguito. Il tempio è distrutto, la città bruciata, le mura abbattute.

Come applicare a noi tutte queste cose? Pensiamo ai giovani, a coloro che dopo aver ricevuto tanti insegnamenti e tante benedizioni hanno abbandonato il cammino del Signore, non l’hanno accettato come il loro salvatore; su di loro, se non si pentono, la punizione verrà. La gloria se n’è andata dalla loro vita, ma Dio attende ancora, bussa, chiama. Se rifiutano di ravvedersi, se non vogliono venire a Cristo per avere la vita, non resta altro che la morte e, “dopo la morte, il giudizio”.

Capitolo 6: Il re di Tiro (cap. 28)

La seconda parte del libro di Ezechiele (cap. 25 a 32) s’indirizza non a Israele ma alle altre nazioni. Il profeta annuncia, uno dopo l’altro, i giudizi di Dio su sette popoli diversi: Ammon (25:1-7), Moab (25:8-11), Edom (25:12-14), i Filistei (25:15-17). Poi torna a parlare di Tiro nei capitoli 26 a 28:19, e aggiunge qualcosa per Sidone (28:20-24). Quattro capitoli contro l’Egitto (29 a 32) chiudono questa parte.

La profezia termina poi con quello che viene chiamato «il canto dei morti» (32:17-32), un lamento (v. 16) grande e solenne, che vale la pena leggere ad alta voce; esso descrive l’annientamento di tutti coloro che, nel corso del tempo, hanno attaccato il popolo di Dio.

Satana (28:11-19)

Sotto i tratti caratteristici del re di Tiro (come Isaia sotto quelli del re di Babilonia, 14:12-17), Ezechiele ci parla di Satana, della sua origine e della sua caduta. Non c’è nulla di straordinario che un re pagano sia un tipo del diavolo; e non è strano che alcuni re fedeli, come Davide e Salomone, siano una figura di Cristo.

Chi è Satana?

Ezechiele ci presenta gli eccezionali privilegi di cui questo angelo godeva: «Tu mettevi il sigillo alla perfezione». Interiormente pieno di saggezza, esteriormente di una bellezza perfetta (v. 12). Dal giorno in cui fu creato, tutti i vantaggi possibili, raffigurati dalle pietre preziose, furono preparati per lui. Egli aveva una posizione superiore a quella degli altri angeli; era un «cherubino dalle ali distese, un protettore», senza dubbio al di sopra di quegli stessi cherubini di cui Ezechiele ebbe la visione all’inizio del suo libro; una creatura delle più elevate, ma pur sempre una creatura (v. 13-15). Isaia lo definisce «astro mattutino, figlio dell’aurora» (Isaia 14:12).

La sua caduta
Come può essere caduto un essere così perfetto, posto in una posizione così elevata? Non fu per un’influenza esterna, ma per orgoglio. Satana «ha peccato». I privilegi che aveva, la bellezza, la saggezza, lo splendore (v. 17) l’hanno portato ad elevarsi nei suoi pensieri e a volersi accaparrare un posto al di sopra di quello che Dio gli aveva assegnato. Isaia lo precisa in questo modo: «Tu dicevi in cuor tuo: “Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle stelle di Dio; mi siederò sul monte dell’assemblea, nella parte estrema del settentrione; salirò sulle sommità delle nubi, sarò simile all’Altissimo”» (Isaia 14:13-14). Come rileva Paolo in 1 Timoteo 3:6, la caduta del diavolo fu che diventò «presuntuoso» (lett. gonfio d’orgoglio). Egli si è elevato fino al punto di voler essere uguale a Dio!

Che contrasto col cammino del Signore Gesù «il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce» (Filippesi 2:6-8).

Il suo giudizio

Davanti a una tale iniquità, Dio pronuncia il suo giudizio: «Ti caccio via, come un profano, dal monte di Dio e ti farò sparire, o cherubino protettore, di mezzo alle pietre di fuoco… ti getto a terra… tu sei diventato oggetto di terrore e non esisterai mai più» (Ezechiele 28:16-19). Isaia aggiunge ancora: «Sei caduto dal cielo… sei atterrato… t’hanno fatto discendere nel soggiorno dei morti» (Isaia 14:12-15). Ma questo giudizio non è ancora stato completamente eseguito. Satana ha tuttora accesso alla presenza di Dio, come vediamo in Giobbe 1:6 e Apocalisse 12:10 dov’è impegnato ad accusare i fratelli. La sua abitazione e quella delle “forze spirituali della malvagità” è ancora “nei luoghi celesti” (Efesini 6: 12). Il suo potere è molto grande sulla terra e nel mondo di cui è principe, e purtroppo una buona parte dell’umanità gli è sottomessa.

La vittoria di Cristo

Tutto lo sforzo di Satana, dopo la sua caduta, è stato quello di trascinare altre creature con sé, prime fra tutte una parte di angeli riguardo ai quali la Parola fa alcuni cenni. Quando Satana tentò l’uomo in Eden riuscì a farlo cadere; e da allora vi riesce con tutta la razza umana. Attraverso la concupiscenza degli occhi e della carne, e l’orgoglio della vita, egli trascina gli uomini nel peccato e attira su di loro il giusto giudizio di Dio. Come potrebbe la giustizia divina ricevere dei simili peccatori? Perdonare semplicemente i loro peccati non sarebbe giustizia; bisognava che qualcun altro, perfetto e senza peccato, subisse al posto dei colpevoli il castigo che essi meritavano; e questo ha fatto il nostro Signore Gesù Cristo.

In Genesi 3:15, era stato preannunciato che la progenie della donna avrebbe schiacciato il capo del serpente. Ebrei 2:14 precisa che, «poiché i figli hanno in comune sangue e carne, egli (Cristo) pure vi ha similmente partecipato, per distruggere, con la sua morte, colui che aveva il potere sulla morte (meglio: della morte), cioè il diavolo».

Per essere nostro Salvatore Egli doveva diventare uomo, progenie della donna. Satana si impegnò in ogni modo per evitare che ciò avvenisse: spinse Erode a far massacrare i fanciulli di Betlemme, lo tentò nel deserto per farlo cadere, cercò più volte di farlo morire. Ma alla fine del suo ministero il Signore Gesù ha potuto dire: «Viene il principe di questo mondo. Egli non ha nulla in me» (Giovanni 14:30). Come l’agnello della Pasqua, Egli era perfetto, senza alcun difetto, e poteva offrirsi in sacrificio per noi, come ha scritto l’apostolo Pietro: «Lui giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio» (1 Pietro 3:18).

Per espiare i nostri peccati, il Signore è entrato nella morte, ma Dio lo ha risuscitato e gli ha dato gloria. Per mezzo della morte, Egli ha distrutto «colui che aveva il potere della morte», cioè il diavolo, e ha strappato al suo potere tutti coloro che mettono in Lui la loro fiducia. Così ha anche liberato «tutti quelli che dal timore della morte erano tenuti schiavi per tutta la loro vita» (Ebrei 2:15).

La situazione di Satana oggi

Il giudizio è stato pronunciato su Satana, ma eseguito soltanto parzialmente. Egli è ancora oggi il principe di questo mondo (Giovanni 14:30, 16:11), il principe della potenza dell’aria (Efesini 2:2), il dio di questo secolo (2 Corinzi 4:4). Davanti a Dio accusa i fratelli; sulla terra tenta gli uomini e li acceca.

I risultati della vittoria di Cristo non sono ancora tutti manifesti. Noi che crediamo in Lui siamo salvati quanto alla nostra anima e possediamo fin da ora la vita eterna; siamo anche liberati dal potere e dalla schiavitù di Satana, ma i nostri corpi restano sottomessi alle conseguenze del peccato. La carne è ancora in noi e «manchiamo tutti in molte cose» (Giacomo 3:2). Cristo non è ancora riconosciuto in questo mondo, ma è disprezzato e rigettato. Egli compirà la sua vittoria quando verrà a prendere i suoi e a stabilire il suo Regno sulla terra. Poi farà «nuovi cieli e una nuova terra, nei quali abiti la giustizia» (2 Pietro 3:13).

Nell’attesa, quale dev’essere il cammino del credente? Egli non ha che un mezzo per ottenere la vittoria sul mondo e sul suo capo: la fede.  «Tutto quello che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. Chi è che vince il mondo, se non colui che crede che Gesù è il Figlio di Dio?» (l Giovanni 5:4-5). A quelli che ricevono Cristo per fede, Dio dà il diritto di diventare figli di Dio (Giovanni 1:12). Possedendo in Cristo una vita nuova, il credente non ha più i suoi interessi nelle cose del mondo; la fede lo eleva al di sopra dell’ambiente che lo circonda e fa entrare Cristo nelle sue affezioni e nelle sue esperienze. Non c’è da lottare contro il mondo, ed è vano adoperarsi per migliorarlo o riformarlo; chi è morto e risuscitato con Cristo ha nel cielo i suoi tesori (Colossesi 2:20 e 3:4).

E il nemico cosa fa attualmente? Sapendo che le anime possono sfuggirgli quando entrano in contatto con la Parola di Dio, mette in atto tutti i mezzi possibili per distruggere la Bibbia, o mutilarla per mezzo del razionalismo, o addolcirla per mezzo della psicologia, cercando di convincere gli uomini che non è quella la Verità. Una parabola del Signore dice che «il seme è la parola di Dio»; quando cade sulla strada, prima che possa prendere radice, «viene il diavolo e porta via la parola dal loro cuore, affinché non credano e non siano salvati» (Luca 8:12). Se la Parola comincia a sviluppare qualche effetto, Satana fa in modo che essa non possa fissarsi saldamente nell’anima; che il terreno pietroso ne ostacoli lo sviluppo, che delle spine crescano e soffochino la pianticella già nata. «Il nostro vangelo è ancora velato… per gli increduli, ai quali il dio di questo mondo ha accecato le menti, affinché non risplenda loro la luce del vangelo della gloria di Cristo» (2 Corinzi 4:3-4).

Satana è contento che gli uomini dispongano della loro vita a modo loro, senza tener conto di Dio, che si diano ai piaceri del mondo, purché rimangano indifferenti e ciechi riguardo al Vangelo. Egli non si oppone nemmeno quando i cristiani si organizzano religiosamente, o stabiliscono delle cerimonie e dei riti di loro propria invenzione, o trovano piacere nella filosofia, nella politica, nelle ideologie del mondo; l’importante per lui è che non diano alla Parola di Dio il posto che le spetta. Quante lotte hanno fatto e fanno i credenti perché la Bibbia giunga nelle mani di tutti, e quante preghiere perché si possa liberamente parlare del Signore in ogni luogo e in ogni circostanza (2 Timoteo 4:2), a dispetto di Satana che fa di tutto per impedire la presentazione dell’Evangelo o l’insegnamento della Parola alla gente (Marco 10: 13-14)!

Il giudizio su Satana verrà eseguito

Romani 16:20 preannuncia: «Il Dio della pace stritolerà presto Satana sotto i vostri piedi». Apocalisse 12 dice che il diavolo sarà precipitato dal cielo sulla terra; e qui agirà con grande furore, sapendo di avere poco tempo, e darà la sua potenza alla bestia (Apocalisse 13) per un periodo di cui Dio ci dice la durata: tre anni e mezzo. Alla fine di questi giorni terribili, sarà legato e gettato nell’abisso dove rimarrà mille anni (Apocalisse 20:2). Quando, alla fine del Regno di Cristo sulla terra, verrà liberato dalla sua prigione, subito ne approfitterà per sedurre le nazioni e radunarle insieme contro i santi (20:7-9). Ma il Signore lo vincerà e i ribelli saranno uccisi. Allora «il diavolo che le aveva sedotte fu gettato nello stagno di fuoco e di zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta; e saranno tormentati giorno e notte, nei secoli dei secoli» (20:10). Così si compirà la parola di Ezechiele: «Non esisterai mai più» (28:19), per dire non che l’esistenza di Satana cesserà, ma che tutto il suo potere e la sua influenza saranno ridotte al nulla.

Capitolo 7: La restaurazione spirituale d’Israele

Abbiamo visto al cap. 33 che il tempio era stato distrutto, Gerusalemme saccheggiata, le mura abbattute. Che speranza restava ad Israele? Anche i pochi sopravvissuti erano in un cattivo stato spirituale, come lo testimonia Geremia. Ma l’Eterno ha voluto, per mezzo dei suoi profeti, dare al suo popolo «un avvenire e una speranza» (Geremia 29:11).

In questa terza parte del suo libro (cap. 33 a 39), Ezechiele ci parla del pastore nuovo (34), del cuore nuovo (36), del popolo nuovo (37). Dopo un lungo periodo di dispersione, infatti, l’Eterno interverrà in favore d’Israele per riportarlo nella sua terra, non senza farlo passare però per delle grandi prove e dei profondi esercizi spirituali.

Il pastore nuovo (34:11-16, 23, 24)

Ezechiele ci presenta questa restaurazione futura come essendo interamente opera di Dio: «Così dice il Signore, DIO: “Eccomi! io stesso mi prenderò cura delle mie pecore”». È Dio che fa tutto: cercherà le sue pecore, se ne prenderà cura, le radunerà, le pascolerà e le farà riposare. Davide aveva parlato delle cure dell’Eterno per lui come quelle di un pastore per la sua pecora (Salmo 23); sono le cure del Signore Gesù che si presenta Egli stesso come il «buon Pastore» (Giovanni 10), ma sotto dei caratteri che al profeta Ezechiele non erano ancora stati rivelati.

Una volta di più possiamo notare un interessante parallelismo tra il suo libro e gli scritti di Giovanni. Ma nei versetti 11-18 e 29-30 del capitolo 10 del suo Vangelo l’apostolo rivela almeno quattro cose che non troviamo in Ezechiele:

1. La prima, la più importante, è che «il buon pastore mette la sua vita per le sue pecore». Per amore, Egli dà se stesso e libera dal nemico le sue pecore; e in questo ubbidisce al Padre e lo glorifica. Ezechiele non parla mai della venuta del Signore sulla terra, dunque non poteva presentarci un pastore che si dà così per i suoi.

2. Al v. 14 di Giovanni 10 troviamo inoltre una comunione tra il Pastore e le sue pecore che non era stata rivelata al profeta: essere conosciuti dal Pastore come il Padre conosce Lui. E più ancora, conoscere il Signore Gesù come Lui, uomo sulla terra, conosceva il Padre. È una fonte di «allegrezza completa» (Giovanni 15:11) che niente può sostituire!
3. Sempre in Giovanni 10, il Pastore non voleva soltanto far uscire le pecore dall’ovile giudaico, ma portarne altre che riconoscevano la sua voce, perché ci fosse poi «un solo gregge e un solo pastore». Il mistero dell’unione dei Giudei e delle Nazioni in un «corpo unico» (Efesini 2:16) non era ancora stato rivelato al tempo di Ezechiele e nemmeno del tutto al tempo del Signore Gesù; sarà poi rivelato chiaramente all’apostolo Paolo (Efesini 3). Ma il Signore già lasciava intravedere che le pecore sarebbero state chiamate da ogni tribù, lingua, popolo e nazione. E sarebbero state tenute insieme non dal recinto di un ovile – com’erano le ordinanze e le cerimonie della legge – ma da Colui che è il centro del gregge, il Pastore attorno al quale le pecore si radunarono, tanto vicine le une alle altre quanto sono vicine al Signore stesso
4. Sette volte nei versetti di Giovanni 10 il Signore Gesù parla del Padre. «Nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere» (Giovanni 1:18).
In relazione col Padre, Giovanni afferma una cosa che era sconosciuta a Ezechiele: la certezza della salvezza eterna! Il Signore aveva detto: «Nessuno le rapirà dalla mia mano» (v. 28), ma aveva aggiunto: «Nessuno può rapirle dalla mano del Padre» (v. 29). Questa è la sicurezza incrollabile di coloro che possiedono la vita eterna per la fede nel suo Nome.

Ritorniamo al testo di Ezechiele (34:16); quale incoraggiamento nelle espressioni di questo capitolo!
«Io cercherò la perduta, ricondurrò la smarrita». Il tema sarà sviluppato nella parabola di Luca 15 in cui il pastore va alla ricerca della pecora smarrita «finché non l’abbia ritrovata». Noi possiamo essere d’aiuto a coloro che una volta hanno camminato sul buon cammino e poi si sono sviati; possiamo presentare loro la Parola, parlare al loro cuore, ma solo il Signore può ricondurre. Egli non sospende la sua opera di riabilitazione a metà strada, ma va fino in fondo. Come dice Eliu a Giobbe: «Dio soltanto lo farà cedere; non l’uomo!»; «Chi può insegnare come Lui?» (32:13; 36:22).
«Fascerò la ferita». Ci sono pecore ferite nel gregge del Signore! Ferite ricevute dagli uomini increduli, ma anche da fratelli. Ferite di dolore, di dispiaceri diversi. Com’è prezioso sapere che il Signore è colui che fascia le piaghe!
«Rafforzerò la malata». Perché non dice che la guarirà? Se lo giudica buono lo può fare; ma prima di tutto vuole dare forza per sopportare la malattia o la prova: «Nel giorno che ho gridato a te, tu mi hai risposto, hai accresciuto la forza nell’anima mia» (Salmo 138:3); non dice «e mi hai liberato».
Se il Signore è pieno di compassione per la pecora smarrita, la ferita, la malata, è anche severo verso chi accampa false pretese: «Distruggerò la grassa e la forte». Il Signore dirà ai farisei: «Siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (Giovanni 9:41).
Con quale gioia nel paragrafo seguente l’Eterno parla delle benedizioni che verranno: «Porrò sopra di esse un solo pastore che le pascolerà: il mio servo Davide; egli le pascolerà, egli sarà il loro pastore» (v. 23). Non sentiamo già da lontano la voce del nostro buon Pastore? «Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora che era perduta». E quella del Padre: «“Questo mio figlio era morto ed tornato in vita; era perduto, ed è stato ritrovato”. E si misero a fare gran festa» (Luca 15:24).

Il cuore nuovo (36:24-32).

L’opera del pastore in favore del suo popolo non è la sola che Dio vuole compiere. Un lavoro interiore del suo Spirito è indispensabile per ricevere la benedizione. La nuova nascita era necessaria ad Israele perché potesse godere della parte che l’Eterno gli assegnava sulla terra, così come lo è per il credente perché possa entrare nel regno di Dio.

La nuova nascita è anch’essa un’opera divina: «Vi radunerò… vi purificherò… vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo» (v. 24-26). Quest’opera comprende due interventi essenziali: la purificazione per mezzo delle acque pure, figura della Parola di Dio, e l’azione dello Spirito nel loro cuore (v. 25 e 27). Non si tratta qui di migliorarsi, di correggere i propri errori, di riformare il popolo; è solo l’opera della grazia che potrà dar loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo.

Una volta di più troviamo un bel parallelismo con gli scritti di Giovanni. Al capitolo 3, nell’incontro di Nicodemo, il Signore Gesù ripete: «Bisogna che nasciate di nuovo»; una nascita completamente nuova, dall’alto, come da una nuova sorgente e una nuova origine di vita. L’acqua della Parola (Efesini 5:26) è lo strumento di Dio per operare la rigenerazione: «Siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio» (1 Pietro 1:23); anche Giacomo scrive: «Egli ha voluto generarci… mediante la parola di verità» (1:18).

Ma si potrebbe leggere più volte la Parola senza trovare la via della vita; solo se c’è l’azione dello Spirito, la lettura fosse anche di un solo versetto, questo può avvenire. È lo Spirito di Dio che applica la Parola alla coscienza e al cuore. Paolo scrive a Tito: «Dio, nostro Salvatore… egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, mediante il bagno della rigenerazione e del rinnovamento dello Spirito Santo» (Tito 3:4-5).

Nicodemo avrebbe dovuto conoscere queste cose perché sia Geremia che Ezechiele avevano annunciato che la benedizione terrena del popolo di Dio non sarebbe venuta che attraverso una nuova nascita. Quanto più essa è necessaria per ottenere le benedizioni celesti! Per questo l’Evangelo ci rivela molto più della profezia di Ezechiele.

Ma la nuova nascita è possibile solo perché il Signore Gesù è sceso dal cielo, è diventato il Figlio dell’uomo e come tale si è caricato dei nostri peccati e li ha espiati sulla croce. È questo il mistero della sostituzione: «Colui che non ha conosciuto peccato, Egli lo ha fatto diventare peccato per noi» (2 Corinzi 5:21). «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo divenuto maledizione per noi» (Galati 3:13). È in Lui, nel Figlio dell’uomo elevato sulla croce, che bisogna credere per avere la vita eterna (Giovanni 3:15).

Ma Egli è anche il Figlio unigenito di Dio, dato dal Padre per amore per noi (3:16). Giovanni insiste molto nelle sue Lettere sulla necessità della fede nel Figlio di Dio, venuto come uomo sulla terra, vero Dio e vero uomo. Il risultato non è solo una benedizione terrena, ma la salvezza in gloria, la vita eterna (3:17 e 36), una parte benedetta nell’eternità col Signore stesso.

Ritorniamo ora alle parole di Ezechiele e vediamo quali applicazioni possiamo farne per noi. Al cap. 36:24, egli ricorda che Israele sarà raccolto da tutte le nazioni in cui è disperso.

Anche oggi Dio agisce così riguardo alla Chiesa: Egli trae dal mondo, da tutte le tribù e lingue e popoli e nazioni, dei riscattati per il cielo; li purifica con la Parola (v. 25) e mette in loro il suo Spirito (v. 27, Efesini 1:13, Romani 8:9). Dopo aver dato loro la vita, fa loro conoscere il cammino (v. 27), non secondo ordinanze e statuti, ma in novità di vita, come Cristo ha camminato, per la fede e nell’amore. Egli prepara loro una casa nel cielo (v. 28), non un paese sulla terra; una casa spirituale di cui Cristo è il fondamento. Dà loro il nutrimento (v. 29), li aiuta a portare dei frutti (v. 30) come il tralcio attaccato alla vite.

Perché al v. 31, dopo tutto quel lavoro di purificazione, c’è come conclusione: «Avrete disgusto di voi stessi a motivo delle vostre iniquità»? Non avevano già riconosciuto le loro iniquità prima di essere purificati? Certamente sì, ma in che debole misura questo avviene talvolta! Spesso si deve camminare a lungo col Signore e fare continue esperienze della sua grazia prima di arrivare a conoscere se stessi e ad avere disgusto delle proprie mancanze. Giobbe poteva dire: «Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l’occhio mio ti ha visto. Perciò mi ravvedo, mi pento (lett. ho orrore di me)» (Giobbe 42:5-6).

Conoscere se stessi, ma conoscere anche il Suo amore: «Non è per amor di voi che agisco così, dice il Signore, Dio; siatene certi!» (v. 32). Giovanni dirà: «In questo è l’amore: non che noi abbiamo amato Dio, ma che egli ha amato noi, e ha mandato suo Figlio per essere il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati» (1 Giovanni 4:10). Il Signore stesso dichiara: «Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi». «Noi amiamo perché Egli ci ha amati per primo» (Giovanni 15:16, 1 Giovanni 4:19).

Quando Israele era disperso, i nemici si facevano scherno dell’Eterno e del suo popolo; ma quando sarà riabilitato, la Parola dice: «Le nazioni che saranno rimaste attorno a voi conosceranno che io, il SIGNORE, ho ricostruito i luoghi distrutti e ripiantato il luogo deserto» (v. 36). La benedizione del popolo di Dio sarà una testimonianza alla Sua gloria, come oggi tutte le vite trasformate dalla fede nel Signore Gesù rendono testimonianza alla grazia e all’amore di Dio: tutti riconosceranno «che io t’ho amato» (Apocalisse 3:9).

Capitolo 8: La restaurazione nazionale d’Israele

A differenza di altri profeti, Ezechiele ci dà soltanto un quadro succinto dei fatti che riguardano la restaurazione d’Israele come popolo nel suo paese, senza entrare in tutti gli esercizi e le prove per i quali passeranno.

La visione delle ossa secche

La visione delle ossa secche del cap. 37 è una delle parti più conosciute di questo libro. Il profeta vede una grande pianura piena di ossa secche, e deve profetizzare su loro (v. 4). Ed ecco che le ossa si accostano, poi si coprono di muscoli, di carne e di pelle, senza però riprendere vita. Occorre una seconda profezia perché si veda che lo Spirito di Dio anima «questi uccisi» e fa sì che rivivano (v. 9). «E si alzarono in piedi; erano un esercito grande, grandissimo» (v. 10).

L’interpretazione di questa visione è data da Dio stesso: «Queste ossa sono tutta la casa d’Israele» (v. 11). L’Eterno li fa uscire dai loro «sepolcri», figura delle nazioni fra le quali erano dispersi, e li ricondurrà nella loro terra.

Questa restaurazione avrà luogo in tre tempi: prima le ossa si riuniranno, poi si copriranno di muscoli, di carne e di pelle. Ma la vita non c’è ancora: è solo un movimento politico, una riorganizzazione nazionale; è quello che è avvenuto con la formazione dello Stato d’Israele. Ci vuole ancora l’opera dello Spirito perché la vita entri in loro.

La profezia di Isaia 18 sembra parallela a quella di Ezechiele 37. Sotto l’egida di una grande nazione, fuori della terra profetica (v. 1 e 2), Israele disperso è chiamato, con sorpresa del mondo, a rientrare nel suo paese. La tromba del raduno suona (v. 37), ma tutto questo avviene senza l’Eterno (v. 4). È un ritorno parziale e precario; il giudizio di Dio deve ancora farsi sentire (v. 5).

In seguito a tale giudizio, «in quel tempo», il popolo ritornerà finalmente all’Eterno e al suo santuario (Zaccaria 12). Soltanto allora potrà compiersi la terza fase della visione di Ezechiele, quel soffio di Dio che viene sul grande esercito e gli ridà la vita. È il lavoro del pastore (cap. 34), ed è anche l’opera dello Spirito di Dio che produce la nuova nascita per mezzo della Parola (cap. 36).

Ma Ezechiele non ha in vista questo periodo di prove, né i rapporti d’Israele con l’Occidente, né la bestia, né la grande tribolazione, cose di cui parlano Daniele e Apocalisse. Egli fa semplicemente la sintesi di questa risurrezione nazionale, dal momento in cui le ossa si riuniscono fino al giorno in cui tutto il popolo dimora nella sua terra in una relazione vivente col suo Dio.

Questa profezia, pronunciata circa 2600 anni fa, è la più sorprendente. In ogni tempo, sia da parte dei padri della Chiesa, sia nel protestantesimo in generale, essa è stata interpretata come l’azione dell’Evangelo che dà la vita ai morti e forma il popolo spirituale di Dio. Ma quando alcuni commentatori del 19° secolo hanno sostenuto che si trattava della rinascita d’Israele (sebbene un’applicazione all’Evangelo sia anche possibile) non c’era il minimo indizio che questo avrebbe potuto accadere.

Ma ecco che oggi gli avvenimenti storici e politici ai quali assistiamo accreditano in maniera straordinaria ciò che Ezechiele annunciava. Oggi è solo un preambolo, perché vi sono ancora molti cambiamenti e molte tribolazioni fino a che le profezie si adempiano nella loro totalità. Il Signore Gesù deve venire per prendere la Chiesa prima dell’«ora della tentazione (o cimento, prova ardua) che sta per venire sul mondo intero, per mettere alla prova gli abitanti della terra» (Apocalisse 3:10), specialmente prima della grande tribolazione che Israele dovrà attraversare.

Le rivelazioni ben più complete fatte a Giovanni nell’Apocalisse ce lo insegnano chiaramente.

La riunificazione delle dodici tribù (37:15-28)

Un punto importante resta ancora da chiarire. Dopo la morte di Salomone, Israele si è diviso in due parti: il regno di Giuda e Beniamino sotto la casa di Davide, e il regno di Israele comprendente le altre dieci tribù. Tutti gli sforzi fatti in seguito per riunire le dodici tribù fallirono. Eppure, la restaurazione nazionale preannunciata non riguarda solamente le tribù rimaste fedeli alla casa di Davide bensì a tutto Israele. Ezechiele 37:15 a 28 lo espone senza ombra di dubbio. Non soltanto Giuda e Beniamino saranno riportati nella loro terra, ma anche tutte le altre tribù. «Un solo re sarà re di tutti loro, e non saranno più due nazioni… Non si contamineranno più coi loro idoli… essi avranno tutti uno stesso pastore… Abiteranno nel paese… io farò con loro un patto di pace: sarà un patto perenne… la mia dimora sarà presso di loro». Questa «dimora» di Dio, il santuario, è descritto a partire dal capitolo 40.

Ezechiele non parla del ritorno in gloria del Signore per regnare sulla terra; dice però: «Il mio servo Davide sarà re sopra di loro, ed essi avranno tutti un medesimo pastore… E il mio servo Davide sarà loro principe per sempre; la mia dimora sarà presso di loro; io sarò loro Dio» (37:23-27).

Israele saprà chi è l’Eterno. Tutte le nazioni lo riconosceranno. È il compimento della profezia di Isaia: «Così parla il SIGNORE, il Redentore, il Santo d’Israele, a colui che è disprezzato dagli uomini, detestato dalla nazione, schiavo dei potenti: “Dei re lo vedranno e si alzeranno; dei principi pure e si prostreranno, a causa del SIGNORE che è fedele, del Santo d’Israele che ti ha scelto”» (Isaia 49:7).

Capitolo 9: Gog (cap. 38 e 39)

Nei capitoli 38 e 39 del suo libro, Ezechiele ha una nuova visione non legata però alla precedente: la grande invasione dal Nord dei tempi della fine. Sotto l’egida di Gog – forse la Russia – si formerà una grande confederazione di popoli del Nord e dell’estremo oriente, «molti popoli» di cui Gog sarà capo. Questi popoli invaderanno la Palestina, «la nazione raccolta in mezzo a molti popoli, sui monti d’Israele» (v. 8). Per chi conosce un poco la profezia, si può dire che questo avverrà, molto probabilmente, dopo la distruzione degli eserciti dell’Occidente guidati dalla «bestia» (il dittatore, capo del futuro risorto Impero Romano), al tempo dell’apparizione gloriosa del Signore.

Il fatto saliente è che Gog e i suoi alleati, che avevano pensato di divorare la piccola Palestina in un solo boccone, saranno annientati sulle montagne d’Israele per la parola dell’Eterno. « “Io chiamerò contro di lui la spada su tutti i miei monti”, dice il Signore, Dio; “la spada d’ognuno si volgerà contro il proprio fratello. Verrò in giudizio contro di lui, con la peste e con il sangue; farò piovere torrenti di pioggia e grandine, fuoco e zolfo, su di lui, sulle sue schiere e sui popoli numerosi che saranno con lui”… “Tu cadrai in mezzo ai campi, poiché io ho parlato”, dice il Signore, DIO». (38:21-22, 39:5).

Sette anni saranno necessari per distruggere gli armamenti che saranno rimasti (39:9), e sette mesi per seppellire tutti i morti (v. 12)!

Capitolo 10: Il ritorno della gloria di Dio (43:1-11)

Le vicende del tempio

La visione della gloria di Dio era stata per Ezechiele la base della sua chiamata al servizio di profeta. Un anno dopo aveva avuto il dolore, in un’altra visione, di vedere la gloria lasciare il tempio di Gerusalemme e poi uscire dalla città per andarsene sul monte degli Ulivi. Che conforto deve aver provato quando, il venticinquesimo anno della cattività (40:1), cioè vent’anni dopo la prima visione, egli contempla questa gloria che ritorna nel nuovo tempio!

Essa aveva dovuto lasciare il tempio edificato da Salomone a causa della corruzione che vi regnava, sia pubblica che segreta (Ezechiele 8 a 11). Quel tempio fu poi distrutto. Nel tempio ricostruito da Zorobabele, la gloria non era ritornata. Anche quello subì alterne vicende di distruzione totale o parziale, di riparazione e ricostruzione, fino alla venuta del Signore. Il Signore Gesù vi entrò, ma non fu ricevuto; nessuna porta si è spalancata per il Signore di gloria, nessun cuore. Ed Egli fu costretto a fare questa solenne dichiarazione: «Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta. Infatti vi dico che da ora in avanti non mi vedrete più, finché non direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!» (Matteo 23:38-39).

Dovranno trascorrere dei secoli e ci vorranno prove terribili perché Israele si penta di aver messo a morte il suo Messia, e possa essere purificato e restaurato nella sua terra, come abbiamo visto nei capitoli precedenti. Fra le benedizioni della restaurazione vi è una promessa predominante: «La mia dimora sarà presso di loro» (37:27). Nei capitoli 40 e 46, Ezechiele ha la visione di questo nuovo tempio, poi del suo servizio; ma a che serve l’edificio se la gloria di Dio non vi rientra?

Ed ecco che il profeta la vede rientrare, e freme di commozione e di gioia. La gloria di Dio arriva dal lato d’oriente, illumina tutta la terra, entra nel tempio e finalmente lo riempie! A oriente dal tempio, egli aveva avuto il dolore di vedere venticinque uomini prostrarsi davanti al sole; alla porta orientale, altri venticinque capi del popolo tenevano malvagi consigli. Ora, tutto è cambiato: la grazia ha operato, e la gloria c’è di nuovo. È la visione di un tempo a venire, non ancora adempiuta oggi, ma che certamente si adempierà in un prossimo futuro.

Cosa poteva fare Ezechiele se non, come nel primo capitolo, prostrarsi con la faccia a terra e adorare (v. 3)? Le relazioni di Dio con Israele, che furono interrotte da quando la gloria se n’era andata e mai più riprese durante tutto il «tempo dei Gentili» che dura ancora oggi, saranno riallacciate quando, agli albori del Regno, la gloria del Dio d’Israele avrà nuovamente riempito la sua casa.

Considerando i capitoli da 8 a 11, abbiamo applicato la partenza della gloria di Dio dal tempio alla situazione di un cuore che è stato sotto l’influenza delle cose di Dio, ma che poi si è lasciato riempire da idoli, e, a poco a poco, si è allontanato da Lui. Ma, come la storia d’Israele insegna, anche oggi, per ogni uomo, il pentimento è possibile finché si è in vita e il Signore non è ancora tornato. Forse accorreranno molte prove e dolori perché qualche cuore si converta veramente a Dio. E che gioia quando qualcuno finalmente, lavato dal sangue di Cristo per aver creduto al Signore Gesù, può gustare tutta la dolcezza della sua presenza!

Ma anche dei veri figli di Dio possono fare nella loro vita una simile esperienza. A volte, invece di camminare nella luce, possiamo mantenere nel nostro cuore una o due «camere segrete», sottratte all’azione dello Spirito di Dio. Il male che le riempie non ci permette di gioire del Signore e della sua comunione. Ma quando lasciamo che la luce del Signore penetri in quei luoghi segreti dei nostri affetti e dei nostri pensieri, e giudichi il male, quando l’ostacolo è tolto e gl’idoli sotterrati (Genesi 35:2-4 e 2 Corinzi 7:1), la gioia della presenza del Signore riempirà di nuovo tutto il nostro essere.

Umiliazione e ubbidienza

Ezechiele 43:9-10 ci dà un insegnamento particolare in rapporto con il tempio. Il profeta deve ora mostrare la forma del tempio e la sua disposizione sia ai Giudei che erano in cattività con lui sia, attraverso i suoi scritti, all’Israele futuro. Ma quale doveva essere l’effetto della visione, seppure in grandi linee, di quella meravigliosa costruzione? Non l’ammirazione, ma la vergogna! «Mostra questa casa alla casa d’Israele e si vergognino delle loro iniquità. Ne misurino il piano e… si vergognano di tutto quello che hanno fatto» (43:10-11). Se gli Israeliti si fossero umiliati di tutto il male commesso, allora il profeta avrebbe fatto loro conoscere nei dettagli la forma del santuario, la sua disposizione, i suoi passaggi, i suoi ingressi, tutti i suoi ordinamenti.

Non troviamo qui un importante principio circa il modo con cui Dio rivela i suoi pensieri alla sua Chiesa? Oggi non c’è un tempio fatto da mano d’uomo, ma una casa spirituale, composta da pietre viventi, la Chiesa del Signore (1 Pietro 2). Le verità della Parola non possono essere afferrate che da cuori umili, pentiti dello stato attuale delle cose. Se l’umiliazione è vera, allora il Signore farà entrare di più nella conoscenza dei suoi pensieri e mostrerà che ancora oggi è possibile, sia collettivamente che individualmente, mettere in pratica la sua Parola e goderne i privilegi. Il profeta aveva esposto al popolo gli ordinamenti relativi alla casa «affinché osservino tutti i suoi riti e i suoi regolamenti e li mettano in pratica» (43:11).

Cerchiamo di conformarci agli insegnamenti della Parola, umilmente e senza pretese, e abbiamo fede nelle promesse del Signore. Egli è presente in mezzo a coloro che sono radunati nel Suo nome, ed è sorgente di una gioia che nulla sulla terra può rimpiazzare. «I discepoli dunque, veduto il Signore, si rallegrarono» (Giovanni 20:20).

Capitolo 11: Le acque del santuario (47:1-12)

Possiamo considerare questo passo sotto tre punti di vista.

Si può pensare che il fiume di cui Ezechiele parla, menzionato anche dai profeti Gioele (3:18) e Zaccaria (14:8), sia una realtà geografica della futura Palestina.

Ma il significato profetico e spirituale ci interessa di più: Gerusalemme, sede della presenza di Dio sulla terra durante il Regno, diventa sorgente di benedizione per il mondo intero; le acque della grazia scendono tanto verso oriente che verso occidente per portare la vita dove regna la morte.

Ma c’è un terzo modo per studiare questa pagina di Ezechiele: è cercare un’applicazione per noi e per la nostra vita spirituale.

Cosa rappresentano queste «acque che escono dal santuario»? Non sono esse una bella figura della grazia di Dio e del suo amore che sgorga dal suo cuore e si spande in benedizioni sempre più vaste e più profonde per i suoi e per il mondo?

Un torrente da attraversare

Avendo trovato nel Signore Gesù il proprio Salvatore, il riscattato ha fatto una prima esperienza della grazia: «È per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio» (Efesini 2:8). Molti cristiani si accontentano di seguire questo fiume senza mai attraversarlo; eppure, solo l’esperienza personale e pratica della grazia ce ne farà gustare la profondità.

Dopo aver camminato per mille cubiti (circa cinquecento metri), il profeta deve attraversare le acque che gli arrivavano alle caviglie (v. 3); solo i piedi erano immersi: è la grazia di Dio nelle varie circostanze del cammino. Quante occasioni abbiamo di gustare la bontà di Dio, le sue cure, le sue liberazioni! Così è stato per gli Israeliti nel deserto dove, malgrado quarant’anni di cammino, i loro vestiti non si sono logorati e i loro piedi non si sono gonfiati (Deuteronomio 8:4).

Ma non bisogna fermarsi qui. Ezechiele deve camminare altri mille cubiti e a quel punto l’acqua gli arriva alle ginocchia (v. 4). La Scrittura ci parla sovente di ginocchia stanche, tremanti, vacillanti, perché proseguendo nel cammino della fede s’incontrano giorni di scoraggiamento, di paura, di stanchezza. Che fare se non proseguire nell’attraversamento del «fiume» della sua grazia? Così facciamo l’esperienza della grazia di Dio che risponde a tutti i nostri bisogni e supplisce alle nostre mancanze. Nella preghiera, in ginocchio, dobbiamo cercarlo, e lo troveremo sempre pronto a soccorrere, fortificare e ristorare.

Ma il profeta deve camminare ancora mille cubiti, ed ecco che le acque gli raggiungono i fianchi. Il Nuovo Testamento ci parla di «fianchi» che devono essere «cinti» (es. Efesini 6:14), figura del nostro essere interiore che dev’essere plasmato dalla Parola di verità e rinnovato di giorno in giorno. Non è sufficiente conoscere la grazia che risponde alle nostre circostanze giornaliere o che ci sostiene nei momenti di scoraggiamento; bisogna che essa compenetri la nostra vita interiore e formi la nostra personalità. Quanta luce emana un credente che ha fatto una simile esperienza della grazia di Dio!

Ma c’è di più. «Ne misurò altri mille: era un torrente che io non potevo attraversare, perché le acque erano ingrossate; erano acque che bisognava attraversare a nuoto» (v. 5). Nella preghiera di Efesini 3 Paolo domanda che i credenti siano «resi capaci di abbracciare con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo e di conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza» (v. 18-19). Crescere nella grazia e nella conoscenza del Signore non porta forse a rendersi conto che questa grazia, questo amore, sono senza limiti? Se ne è potuto gustare la profondità, considerare la larghezza e la lunghezza, immergersi come in un immenso torrente; ma è come un fiume troppo profondo da attraversare. L’amore di Cristo sorpassa ogni conoscenza!

Il torrente che scende

I versetti da 6 a 12 ci presentano un altro soggetto.

Il profeta deve tornare sulle rive del torrente. Gli viene detto: «Queste acque si dirigono verso la regione orientale, scenderanno nella pianura ed entreranno nel mare» (v. 8). È prezioso godere della grazia del Signore per se stessi, ma questa grazia deve spandersi, e la benedizione che si è ricevuta può e deve essere comunicata ad altri. «Voi avete ricevuto… date… », dice il Signore ai suoi discepoli. Avevano soltanto cinque pani, ma Egli dice: «Date voi loro da mangiare». Le acque sorgono… scendono… arrivano… rendono sane le acque del mare.

Questo è il cammino della grazia, e così fu quello del Signore Gesù: un sentiero che scende per raggiungere coloro che sono immersi nell’ombra della morte e portare loro la vita: «Ogni essere vivente che si muove, dovunque giungerà il torrente ingrossato, vivrà» (v. 9). Il Signore aveva detto ai suoi discepoli: «lo vi farò pescatori d’uomini». I «pesci» pescati raffigurano le anime tratte da questo mondo perduto e portate al Signore per fare l’esperienza dell’amore di Dio attraverso la nuova nascita.

Gli alberi

«Presso il torrente, sulle sue rive, da un lato e dall’altro», c’erano alberi da frutto, in gran numero, di ogni specie. La visione di Ezechiele è per la terra. Questi alberi rappresentano i credenti, così sovente paragonati nella Parola ad un albero (Salmo 1, Geremia 17 ecc.) le cui radici si estendono verso le acque affinché il loro fogliame rimanga verde e del frutto possa essere portato. Nessuno vede le radici: esse sono la vita interiore del credente che si nutre della grazia. Ma tutti vedono le foglie, che sono la testimonianza di una vita vissuta con il Signore, per la benedizione degli altri: «quel loro frutto servirà di cibo, e quelle loro foglie di medicamento» (v. 12). Il “frutto” è il cibo per il popolo di Dio; e le foglie sono per la “guarigione” degli uomini perduti.

L’albero della vita

Rileviamo ancora una volta il parallelo fra le visioni di Giovanni e quelle di Ezechiele. In Apocalisse 22:1 e 2, Giovanni parla di un fiume di acqua viva, splendente come il cristallo, che esce dal trono di Dio e dell’Agnello. La visione di Giovanni è per il cielo.

In mezzo alla piazza della città e su entrambe le rive del fiume c’era l’albero della vita. Nel cielo, non molti alberi, ma l’Albero: è il Signore Gesù stesso, il cui frutto continuo nutrirà per sempre quelli che gioiranno lassù della sua presenza; e le cui foglie saranno per la guarigione delle nazioni, risorsa indispensabile per coloro che durante il millennio saranno benedetti sulla terra.

Jehovah – Shamma (L’Eterno è qui)

Leggiamo ancora l’ultimo versetto d’Ezechiele: «Da quel giorno, il nome della città sarà: Il SIGNORE è là» (48:35). Non è questo il riassunto di tutto il libro, l’affermazione finale, la sola cosa che veramente interessa, cioè la presenza di Dio in mezzo al popolo finalmente raccolto?

La nuvola nel Tabernacolo e nel tempio di Salomone e la gloria ritornata nel tempio di Ezechiele sono i privilegi concessi a Israele, benedetto sulla base delle promesse. Per noi, c’è l’apparizione del Signore Gesù nell’alto solaio alla sera della risurrezione e la sua gradita presenza in mezzo ai credenti radunati nel suo nome durante la sua assenza, presenza realizzata anche individualmente nel cuore: «Cristo che vive in me… Cristo in voi, la speranza della gloria» (Galati 2:20; Colossesi 1:27).

Infine, presenza eterna e senza veli nel beato giorno in cui, compiuti tutti i suoi consigli, Dio sarà «tutto in tutti» (1 Corinzi 15:28).

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