Gli utili ricordi del passato – Deuteronomio 8

di Alfredo Apicella

 

Il lungo viaggio nel deserto
All’inizio di questo capitolo Mosè invita gli Israeliti a ripensare al lungo cammino del deserto e a considerare i risultati che Dio aveva in vista nel sottoporli a una tale disciplina. Qui, la storia della traversata del deserto è vista da una nuova e interessante angolazione: non più come castigo per la loro incredulità, ma come un mezzo per perfezionarli, istruirli, portarli ad una più profonda conoscenza di quel Dio che li aveva liberati dall’Egitto, per far loro del bene alla fine.
Quarant’anni di prova per sapere quello che avevano “nel cuore” (v. 2); che umiliazione! ma era necessaria perché si rendessero conto che da soli non potevano far nulla, che avevano bisogno delle cure dell’Eterno, che in loro non c’era alcun bene.

 

La manna
Così hanno provato la fame, ma poi era arrivata la manna (v. 3) per un intervento miracoloso di Dio. I loro padri non l’avevano conosciuta. Era “il pane” che Dio dava loro da mangiare (Esodo 16:15), un cibo per il deserto, ed essi se ne nutrirono “per quarant’anni, finché arrivarono in terra abitata” (Esodo 16:31-35). “La manna cessò l’indomani del giorno in cui mangiarono i prodotti del paese… il frutto del paese di Canaan” (Giosuè 5:12).
In tutto il libro del Deuteronomio, la manna è ricordata solo in questo capitolo (v. 3 e 16). Era una sostanza bianca, “simile al seme di coriandolo e aveva l’aspetto di resina gommosa (oppure del bdellio)” (Numeri11:7-9). Scendeva di notte, insieme alla rugiada, e si posava sul terreno.

Gli Israeliti dovevano raccoglierne soltanto la dose che serviva per nutrire la famiglia, circa due litri e mezzo a testa (un omer), niente di più. L’eccedenza sarebbe andata a male il giorno dopo, salvo quella raccolta al venerdì che, miracolosamente, si sarebbe conservata anche per tutto il sabato, visto che di sabato non potevano lavorare, quindi nemmeno raccogliere manna.

La manna aveva il gusto, essi dicevano, di schiacciata fatta col miele (Esodo 16:3). Un po’ più tardi dissero che rassomigliava alla focaccia fatta con olio (Numeri 11:8); e verso la fine del viaggio se ne nausearono: “Perché ci avete fatti salire fuori d’Egitto per farci morire in questo deserto? Poiché qui non c’è né pane né acqua, e siamo nauseati da questo cibo tanto leggero” (Numeri 21:5). Quando la manna non soddisfaceva più, si erano messi ad elaborarla, riducendola in farina, cuocendola in pentole o facendone delle focacce.

La manna rappresenta sia Cristo, nutrimento dell’anima durante il nostro pellegrinaggio in questo mondo, sia la Parola di Dio che ci parla di Lui. Se perdiamo di vista le promesse del Signore, e la sua gloriosa Persona non occupa più un posto preminente nei nostri affetti, anche noi corriamo il rischio di sviarci “dalla semplicità e dalla purità rispetto a Cristo” (2 Corinzi11:3) e di farci un Signore a modo nostro, complice delle nostre miserie. E quando perdiamo il gusto della sua Parola, finiamo per adattarla ai nostri gusti, e prendere da essa ciò che ci piace e ci esalta, eliminando ciò che ci giudica e ci condanna.

La manna non era solo un mezzo di sopravvivenza e una dimostrazione concreta delle cure di Dio; serviva anche ad insegnare che “l’uomo non vive soltanto di pane – come il Signore ricorderà a Satana – ma “di tutto quello che procede dalla bocca del Signore” (v. 3).

La manna, poi, sebbene scendesse come dal cielo, non era “il vero pane”. Quelli che ne hanno mangiato sono morti. Soltanto il Signore Gesù è il vero pane che scende dal cielo e dà vita al mondo. “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete” (Giovanni 6:32-35).

Un altro segno delle cure di Dio gli Israeliti l’avevano avuto nel fatto che il loro vestito non si era logorato per quei quarant’anni e che i loro piedi non si erano gonfiati nelle lunghe ed estenuanti marce (v. 4). Al capitolo 29 versetto 5 Mosè ricorda che anche i loro sandali erano durati per tutto quel tempo grazie all’intervento dell’Eterno.

 

Insegnamento e castigo
Quel lungo viaggio nel deserto era stato un castigo, ma lo scopo di Dio era il bene del popolo, e la sua correzione era quella di un padre verso il figlio che ama (v. 5). Le esperienze fatte dovevano formarli, istruirli, e portarli a vivere nel timore di Dio (v. 6). Un timore che non è paura, ma rispetto e sottomissione verso un Dio grande e tremendo che li aveva messi in una posizione di straordinario privilegio, e in una relazione intima come è quella di figli col loro padre.

Anche il cristiano è sottoposto alla disciplina del suo Padre celeste; e la deve apprezzare. “Non disprezzare la disciplina del Signore e non ti perdere d’animo quando sei da Lui ripreso; perché il Signore corregge quelli che Egli ama e punisce tutti coloro che riconosce come figli” (Ebrei 12:5-6). Qual è il figlio che il padre non castiga? Il castigo di Dio è per noi un segno che siamo suoi figli. Non dobbiamo dunque scoraggiarci delle sue eventuali riprensioni, ma accettarle con umiltà e sottomissione perché gli scopi del Padre sono sempre gloriosi ed ogni sua azione verso di noi è mossa da un amore infinito.

 

In vista c’è un buon paese
Il paese promesso che stava davanti a loro era davvero eccezionale. L’acqua abbondava, abbondavano i frutti (v. 8). C’erano anche minerali per i loro arnesi e le loro armi, ferro e rame (v. 9).  La promessa era che avrebbero mangiato pane a sazietà e non sarebbe loro mancato nulla.

Alziamo anche noi gli occhi al cielo e contempliamo la nostra vera patria: Dio asciugherà ogni lacrima, la morte non sarà più. Non ci saranno più cordoglio, né grido, né dolore (Apocalisse 21:4). Vedremo il nostro amato Salvatore com’Egli è, e questa visione ci farà simili a Lui (1 Giovanni 3:2).  Ma già adesso possiamo godere nel nostro spirito delle benedizioni celesti. Già adesso, “a viso scoperto, contemplando come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati nella sua stessa immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione del Signore che è lo Spirito” (2 Corinzi 3:18). “E chiunque ha questa speranza in lui si purifica com’Egli è puro” (1 Giovanni 3:3), perché l’attesa di vedere il Signore, se è fonte di gioia, aiuta il credente a comportarsi in modo da piacergli e da essere trovato irreprensibile alla sua venuta.

L’elenco delle risorse varie e abbondanti del paese promesso simboleggiano le benedizioni spirituali della nostra patria celeste che sono già a nostra disposizione quando, per la fede, accogliamo con gioia le promesse di Dio. Già oggi noi possiamo nutrirci, spiritualmente, dei sette preziosi prodotti elencati al v. 8 che danno forza e ristoro.

Ricordare e ubbidire: è un’esortazione che ritorna frequentemente in questo capitolo (v. 11,18, 19) e in tutto il libro. Ora Mosè mette in guardia gli Israeliti da un grave pericolo: quello che, una volta sistemati nel paese e diventati ricchi, dimentichino tutto il lavoro di Dio per farli arrivare a quel punto, e pensino che la loro situazione sia dovuta alle loro capacità e alle loro forze (v. 12-16). Ma perché l’Eterno li favoriva? Perché scacciava davanti a loro quelle nazioni? Era forse per la loro giustizia? No di certo. Un tale pensiero non avrebbe nemmeno dovuto sfiorarli Al cap. 9:4-6 vi sono dei passi molto preziosi. Quelle nazioni erano distrutte per la loro malvagità e grazie alla fedeltà di Dio nel mantenere le promesse fatte ai padri. Il rischio di inorgoglirsi è sempre presente, perché l’orgoglio è radicato nel cuore umano. “La gente che è con te è troppo numerosa” – dirà l’Eterno a Gedeone – “Israele potrebbe vantarsi di fronte a me e dire: E’ stata la mia mano a salvarmi” (Giudici 7:2).

Per evitare la presunzione Mosè indica una duplice strada:

  1. Ritornare con la memoria al grande e terribile deserto, terra arida, senz’acqua, “pieno di serpenti velenosi e di scorpioni”, e considerare l’amore di Dio che ha fatto sgorgare l’acqua dalla dura roccia e ha mandato la manna (8:15-16).
  2. Avere sempre davanti agli occhi il quadro della propria miseria e degli errori commessi, per rimanere umili e riconoscere che “ogni cosa buona e ogni dono perfetto vengono dall’alto” (Giacomo 1:17).

Dimenticare la grazia di Dio e pensare che il benessere sia cosa normale, quasi dovuta, o, peggio ancora, frutto delle nostre capacità, è un pericolo al quale siamo seriamente esposti. Paolo dice: “Che cosa possiedi tu che non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché ti vanti come se tu non l’avessi ricevuto?” (1 Corinzi 4:7). “Da te provengono la ricchezza e la gloria… e sta in tuo potere il far grande e il rendere forte ogni cosa… Tutto viene da te” (1 Cronache 29:12-14).