Il libro di Neemia

F. B. Hole

Tratto da “I libri di Esdra e Neemia” pubblicato con il permesso di “Edizioni IL MESSAGGERO CRISTIANO”

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Capitolo 1

Preghiera di Neemia per i figli d’Israele

Esdra era rientrato a Gerusalemme il settimo anno di Artaserse, re di Persia (Esdra 7:1). All’inizio del libro di Neemia, ci troviamo al ventesimo anno del regno di questo re. Neemia non era sacerdote, come Esdra, ma svolgeva una funzione ufficiale al palazzo reale di Susa.

Il racconto inizia con l’arrivo di alcuni Giudei informati delle condizioni di vita a Gerusalemme in quel momento. E’ da loro che Neemia venne a conoscenza della triste situazione di quei Giudei che erano rientrati in quella città semidistrutta qualche anno prima.

“Io li interrogai – scrive Neemia – riguardo ai Giudei scampati, superstiti della deportazione, e riguardo a Gerusalemme. E quelli mi risposero: I superstiti… sono in gran miseria e nell’umiliazione; le mura di Gerusalemme restano in rovina”. Un resoconto disastroso! La città di Gerusalemme in rovina e i suoi abitanti in gran miseria! (v. 3). L’effetto che queste notizie produssero in Neemia è descritto nel resto del capitolo. “Piansi… fui in grande tristezza. Digiunai e pregai davanti al Dio del cielo” (v. 4). Nella sua preghiera c’è umiliazione, richiesta di aiuto e di pietà, appello alle promesse di Dio.

Nel libro di Esdra leggiamo che sotto la guida di Zorobabele e Iesua, uomini che temevano Dio, un residuo era ritornato a Gerusalemme e aveva ricostruito il tempio. Purtroppo però, col passar degli anni, la debolezza spirituale, la perdita d’entusiasmo per le cose di Dio e l’attaccamento alle cose della terra, avevano prodotto umiliazione e povertà. Anche se con l’arrivo di Esdra c’era stato un risveglio, ora, dopo tredici anni, quei Giudei si trovavano di nuovo nell’afflizione e nell’umiliazione. Come mai? Perché Dio non li aveva ricompensati con prove tangibili della sua approvazione e del suo favore?

Il libro che segue, quello di Ester, ci racconta che la maggioranza dei Giudei deportati, nel corso di settant’anni, avevano raggiunto una relativa prosperità e non avendo a cuore gli interessi di Dio avevano preferito non rientrare a Gerusalemme, ma rimanere nel paese della loro prigionia. Potremmo aspettarci che questi avrebbero dovuto incorrere nel disappunto e nel castigo di Dio, ma basta leggere Ester 9:17-19 per vedere cosa accadde: coloro che, nonostante le loro debolezze, avevano avuto a cuore gli interessi di Dio ed erano partiti per ricostruire il tempio, erano afflitti e umiliati, mentre quelli che erano rimasti comodamente a casa propria celebravano “un giorno di gioia, di banchetti e di festa”!

Quale lezione possiamo trarre da quest’apparente e inaspettata incongruenza? Prima di tutto, che la prosperità e il benessere terreni, anche se a nostra insaputa sono il frutto delle cure di Dio e delle sue vie segrete, non sono necessariamente un segno della sua approvazione; e così pure che l’afflizione non è necessariamente un segno della sua disapprovazione. Lo vediamo in modo particolare nel caso di Giobbe. In Ebrei 12:6 è detto che “il Signore corregge quelli che egli ama”.

Nel Salmo 73 vediamo che lo stesso argomento tormentava il salmista Asaf. Egli constatava che coloro che erano palesemente malvagi prosperavano, mentre quelli che temevano Dio attraversavano ogni sorta di prove. Fu solo entrando “nel santuario di Dio” che trovò la risposta che gli diede pace.

Neemia, certamente, non aveva tutta la luce che il Nuovo Testamento proietta su questi fatti; ecco perché le tristi notizie riguardanti “i superstiti” lo addolorarono così tanto. In spirito era con loro, benché non si trovasse con loro di persona. Lo vediamo piangere, fare cordoglio, digiunare, pregare. Ciò che aveva ascoltato riguardava principalmente le circostanze materiali degli scampati; egli ignorava quale fosse la loro condizione spirituale. Tuttavia ciò era sufficiente per rattristarlo profondamente.

Ma quali sono oggi le condizioni dei veri figli di Dio?

In alcuni paesi i credenti, per amore del Signore e per la testimonianza che danno della loro fede, incontrano grandi difficoltà, addirittura persecuzioni; e spesso vivono nella povertà. In altri, la vita relativamente facile e agiata svuota sempre più i cuori dell’amore e della pietà. Fratelli e sorelle, non dimentichiamo nelle nostre preghiere le migliaia di credenti che oggi sono perseguitati, e perfino martirizzati, e facciamo in modo che il benessere e la libertà che godiamo non ci addormenti, ma ci spinga invece a servire il Signore con maggiore entusiasmo.

La preghiera di Neemia (v. 5-11) assomiglia molto a quella di Esdra (Esdra 9), anche se è più breve. Neemia si identifica col peccato del suo popolo dicendo: “Abbiamo peccato io e la casa di mio padre”. Ma, in un certo senso, va più lontano di Esdra, invocando le promesse dell’Eterno scritte nei libri di Mosè. Israele era stato avvertito che la disubbidienza alla legge avrebbe causato la dispersione, ma anche in quel caso, se si fossero pentiti e rivolti a Dio ubbidendo alla sua Parola, Egli li avrebbe raccolti dai paesi lontani e li avrebbe ricondotti nel luogo in cui abitava il suo Nome (vedere Levitico 26:40-45 e Deuteronomio 30:3-5).

Su queste promesse Neemia fondava la sua richiesta. Associandosi a coloro che erano a Gerusalemme, egli dichiarava di essere fra quelli che desideravano aver timore del Signore (v. 11).

Oltre che per gli scampati che erano tornati a Gerusalemme, Neemia aveva una domanda precisa da fare per se stesso. Egli occupava una posizione di particolare responsabilità alla corte del re; essendo suo coppiere aveva facile accesso presso di lui. Così decise di chiedergli il permesso di recarsi a Gerusalemme. Il re avrebbe potuto rifiutarglielo categoricamente, ed è per questo che Neemia si rivolse a Dio, e a lui chiese la grazia di poter realizzare il suo progetto: “Concedi oggi, ti prego, successo al tuo servo, e fa’ che egli trovi pietà presso quest’uomo” (v. 11).

 

Capitolo 2

Neemia a Gerusalemme

A quei tempi, il coppiere del re doveva essere un uomo integro e affidabile, e doveva vegliare affinché nulla di sgradevole né di velenoso fosse mescolato al vino del monarca. Le notizie che Neemia aveva appena ricevute lo avevano molto addolorato, e la tristezza che si poteva leggere sul suo volto fu notata dal re il quale s’informò sul motivo del suo turbamento: “Perché hai l’aspetto triste? Eppure non sei malato; non può essere altro che per una preoccupazione” (v. 2). Neemia fu colto da “grande paura”, e con tremore informò il re delle notizie che aveva ricevuto da Gerusalemme e che gli avevano provocato quella grande tristezza.

Il re lo ascoltò con attenzione e lo invitò ad esporgli la sua richiesta. Era una miracolosa risposta alla preghiera che aveva rivolto a Dio. La reazione di Neemia è molto istruttiva: “Io pregai il Dio del cielo; poi risposi al re…”. Prima a Dio, poi al re. Una preghiera muta, salita al cielo in pochi secondi, all’insaputa del re e di tutti gli altri. Evidentemente, la risposta dall’alto fu altrettanto rapida, a dimostrazione che la sua richiesta era giusta e meritava di ricevere una risposta favorevole.

Sarebbe auspicabile che vivessimo anche noi una comunione così intima col nostro Signore, e che in ogni circostanza che richiede una decisione sapessimo presentargli subito e con poche parole il nostro problema, in modo da poter conoscere la sua volontà e lasciarci guidare da lui. Vedremmo allora più frequentemente la sua mano agire in nostro favore, come è accaduto a Neemia.

Invitato dal re ad esprimere il suo desiderio, Neemia chiese umilmente il permesso di andare a Gerusalemme con una raccomandazione scritta del re, per poter ricostruire la città. Egli volle che questo ordine del re fosse espresso per mezzo di lettere indirizzate non solo ad Asaf, guardiano del parco del re, ma anche ai “governatori d’oltre il fiume”. Il fiume era l’Eufrate e i governatori erano dei ministri stabiliti sulle province che si estendevano dal lato del paese d’Israele.

Non ci sono rivelati i motivi che spinsero il re ad acconsentire a queste richieste, ma è certo che la potenza di Dio, in risposta alla breve preghiera di Neemia, era intervenuta. “La cosa piacque al re che mi lasciò andare, e gli indicai una data” (v. 6).

Il re accolse così favorevolmente la richiesta di Neemia che predispose anche una scorta di ufficiali e di cavalieri per accompagnarlo nel viaggio. Ci ricordiamo che Esdra, quando era tornato a Gerusalemme con dei tesori, all’inizio del regno dello stesso re e inviato dal re stesso, non aveva voluto chiedere tale scorta, e aveva confessato apertamente la sua fede nella protezione di Dio durante il suo viaggio. Neemia, che occupava una posizione ufficiale alla corte del re, forse non aveva l’intelligenza spirituale di Esdra che era sacerdote, “esperto nella legge di Mosè”. Ma entrambi possono dire: “La benefica mano del mio Dio era su di me”.

Se il cuore è retto, Dio guiderà e sosterrà il suo servitore, qualunque sia la misura della sua intelligenza spirituale e il suo livello di fede. Questo pensiero deve incoraggiarci anche oggi. La nostra fede e la nostra intelligenza forse sono limitate, ma facciamo attenzione che i nostri cuori siano realmente consacrati a Cristo e ai suoi interessi. Come risultato ci sarà sicuramente un progresso nella fede e nella conoscenza del pensiero di Dio.

Ma appena c’è un’azione derivante dalla pietà e da una certa intelligenza spirituale, l’opposizione non tarda a manifestarsi. Era quanto accaduto all’inizio del risveglio, quando Zorobabele e i suoi compagni erano tornati a Gerusalemme; ed è ciò che si presenta nuovamente qui, come lo vediamo al v. 10, benché i capi dell’opposizione non siano gli stessi. Samballat era un Coronita, probabilmente un abitante della città di Bet-Oron, situata nel territorio di Moab, mentre Tobia era un Ammonita. Vediamo dunque qui i rappresentanti dei due figli di Lot – generati nelle circostanze disonorevoli raccontate in Genesi 19 – che si levano contro l’opera di Dio. Era venuto “un uomo che cercava il bene dei figli d’Israele”, e quello era il pensiero di Dio. Ecco perché il nemico vi si oppose, servendosi di questi due uomini, parenti lontani di Israele.

Giunto a Gerusalemme, Neemia trascorse tre giorni nella città senza rivelare lo scopo preciso per cui era venuto. Poi si alzò di notte, in segreto, e fece il giro della città per valutare con esattezza la condizione dei luoghi. Era arrivato in Giudea con i capi e i cavalieri dei re di Persia; però, quando si è trattato di agire, non prese con sé “altra cavalcatura oltre a quella che usava” (v. 12), vale a dire si avvalse delle proprie risorse senza dipendere da quelle che il mondo avrebbe potuto offrirgli.

Ed è là che si manifestò la sua fede. Gerusalemme era senza difese contro il nemico, e la sua rovina tale che non c’era neppure un varco attraverso il quale la cavalcatura di Neemia potesse passare.

Quando Dio ci affida un compito, dobbiamo prendere consiglio soltanto da Lui, e noi, come Neemia, non dipendiamo né dal mondo, neppure da “sacerdoti, notabili, magistrati”; principio molto importante per tutti coloro che sono mandati dal Signore.

Le autorità quindi non sapevano cosa Neemia facesse né quali scopi avesse (v. 16). Soltanto dopo aver constatato di persona la situazione espose loro il suo progetto dicendo: “Venite, ricostruiamo le mura di Gerusalemme, e non saremo più nella vergogna” (v. 17).

La ricostruzione delle mura ormai era il suo grande obiettivo. La casa dell’Eterno era già ricostruita, ma si trovava in una città desolata le cui mura erano in rovina e le porte bruciate dal fuoco. Non era ancora venuto il giorno – come non è venuto ancora oggi – in cui l’Eterno stesso sarà “per lei un muro di fuoco tutto intorno, e… la sua gloria in mezzo a lei” (Zaccaria 2:5). Era necessario ricostruirle quelle mura che circondavano il luogo dove Dio aveva messo il suo nome, e affinché la sua casa fosse separata dalla contaminazione del mondo esterno. Quelle mura hanno un senso figurato. Dal giorno in cui Dio aveva detto ad Abraamo: “Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti…” (Genesi 12:1), la separazione da questo mondo senza Dio è sempre stata nei suoi pensieri. E non è forse questa la volontà di Dio riguardo al suo popolo? Dal momento del rifiuto di Cristo, questo principio è messo ancora più in luce, tanto che leggiamo che “l’amicizia del mondo è inimicizia verso Dio” (Giacomo 4:4).

Dopo aver fatto la proposta di ricostruire le mura, Neemia raccontò ai capi del popolo come la mano di Dio era stata benefica su di lui (v.18), ed essi, avendo capito che Dio è l’autore di quel progetto, risposero: “Sbrighiamoci e mettiamoci a costruire!” (v. 18). Essi furono subito pronti a mettersi al lavoro; i buoni propositi e la comprensione della situazione non sarebbero stati sufficienti. Bisognava assolutamente mettere mano ai lavori.

E’ così anche per noi. Non basta capire il pensiero e i proponimenti di Dio, dobbiamo essere pronti a consacrarci al servizio attivo che Dio ci affida. Probabilmente questo è il punto debole della vita di molti credenti!

Man mano che i lavori diventano un fatto concreto, l’opposizione si fa più dura. Al v. 19 vediamo che Ghesem, l’Arabo, si unisce al Moabita e all’Ammonita, e ciò è sorprendente poiché gli abitanti dell’Arabia discendevano principalmente da Ismaele e da Esaù. Anche oggi, i nemici più ostinati dei Giudei sono rappresentati dalle diverse tribù arabe. Negli scritti profetici, Edom (altro nome di Esaù), Moab e Ammon sono sempre associati. Nel tempo della fine, secondo Daniele 11:41, diversi paesi cadranno davanti al re del Nord; solo questi tre sfuggiranno; ma sarà solamente per essere poi vinti da Israele secondo Isaia 11:14.

Nel cap. 2 l’opposizione si limita a manifestarsi sotto forma di scherno: “Si fecero beffe di noi e ci disprezzarono, dicendo: Cosa state facendo? Volete forse ribellarvi al re?” (v. 19).

La derisione ottiene spesso un risultato anche ai nostri giorni, specialmente se si agisce e si vive come “davanti agli uomini”, per compiacere al mondo. Ma Neemia e i suoi amici agivano come “davanti a Dio” in quello che si proponevano di fare; per questo risposero con fermezza: “Il Dio del cielo ci farà ottenere successo” (v. 20). Essi anticipavano la dichiarazione trionfale della lettera ai Romani: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” (Romani 8:31). Essi avrebbero continuato a lavorare alla luce di questa verità, ricordando ai loro avversari quanto profondo era l’abisso che li separava: “Voi non avete né parte né diritto né memoria a Gerusalemme” (v. 20).

Non lasciamoci mai distogliere dall’opera di Dio, né intimidire dagli scherni di coloro che si oppongono a Cristo e al suo servizio!

 

Capitolo 3

Ricostruzione delle mura di Gerusalemme

Il cap. 3 è dedicato ai dettagli riguardanti la ricostruzione delle mura; molti sono interessanti da considerare. Ma prima di entrarvi, diciamo qualcosa sul significato che questa riedificazione ha per noi.

Nel libro di Esdra leggiamo la storia della ricostruzione del tempio; essa ci parla dell’edificazione della Chiesa sul fondamento che è Cristo e adoperando materiali adatti per la casa di Dio (1 Corinzi 3:10-16). Ma c’era ancora un lavoro da compiere: la ricostruzione delle mura della città santa.

Le mura hanno una duplice funzione: separano dalla gente di fuori e sono una difesa dagli attacchi del nemico. Esse circondano e circoscrivono la città e ne fanno un tutt’uno, con le sue leggi, i suoi usi, il suo governo autonomo e autosufficiente, separato da elementi estranei. A Gerusalemme le mura racchiudevano al loro interno il popolo di Dio e nello stesso tempo difendevano il tempio.

Se vogliamo applicare questa descrizione alle nostre circostanze attuali, ne capiremo l’importanza. L’abitazione attuale di Dio, la Chiesa, è in cattivo stato per colpa nostra ed è diventata quasi invisibile agli occhi degli uomini. Se abbiamo l’intelligenza di Neemia, capiremo che è urgente, insieme ai “i cittadini della città celeste”, vale a dire i veri credenti, lavorare per separare la famiglia della fede, i concittadini dei santi, da ogni tipo di male, sotto qualunque forma si presenti, individuale o collettivo, morale o dottrinale, religioso, oppure mondano e carnale. Quando la città riavrà la sua cinta, Dio non la lascerà deserta, ma il suo Spirito saprà risvegliare dello zelo che, in una certa misura, colmerà il vuoto lasciato dagli assenti.

Comprenderemo pure che di fronte all’attacco sferrato dal mondo guidato da Satana per impedire ai fedeli spaventati di restare saldi in Cristo, noi dobbiamo ricostruire la muraglia che li preserva. Questa muraglia è Cristo, è Dio, è la sua Parola, la Parola di salvezza e lode (Zaccaria 2:5; Geremia 15:20; Isaia 60:18 e 26:1), unica sicurezza per i figli di Dio.

Non parliamo dell’impossibilità del compito: l’impossibilità è dell’uomo, mai di Dio. Fossimo anche solo due o tre fedeli ad essere impegnati a lavorare di fronte alle nostre abitazioni (v. 23), Dio ci approverà e la sua buona mano sarà su noi.

Tuttavia il nostro lavoro non è soltanto di occuparci delle mura, ma anche delle porte. Le porte di Gerusalemme erano “consumate dal fuoco” (cap. 2 v, 3, 13, 17); il nemico sapeva bene cosa faceva quando aveva agito in quel modo. Le porte hanno un’importanza capitale, ancora di più delle mura. Possono essere lasciate aperte per lasciar entrare e uscire liberamente gli abitanti della città, ma devono anche essere chiuse per impedire che ogni elemento estraneo, colpevole, contagioso o criminale vi prenda posto. Le porte vanno chiuse nella notte perché i cittadini non lascino la città nelle ore di maggior pericolo, e i sorveglianti controlleranno che eventuali traditori non le aprano al nemico.

Analogamente, la “città” secondo Dio ha come delle porte completamente aperte a tutto ciò che è di Dio, di Cristo e della sua Parola, ma vanno chiuse al mondo e alle sue concupiscenze, alle false dottrine e ai falsi fratelli.

Non perdiamoci di coraggio. Se abbiamo a cuore di ricostruire le mura, occupiamoci anche di ristabilire le porte, e la buona mano di Dio sarà con noi. Il nostro lavoro, inevitabilmente, sarà debole e incompleto, ma non dimentichiamo che Dio lo approva. Nella “nuova Gerusalemme” (Apocalisse 21:2), “di giorno le sue porte non saranno mai chiuse (la notte non sarà più)… e nulla d’impuro, né chi commetta abominazione o falsità, vi entrerà; ma soltanto quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello” (v. 25-27). “Beati quelli che lavano le loro vesti per aver diritto all’albero della vita e per entrare per le porte della città! Fuori i cani, gli stregoni, i fornicatori, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna” (22:14-15).

Dunque, sotto l’impulso di un uomo di fede, Neemia, o meglio sotto l’azione energica dello Spirito Santo che parlava mediante quell’uomo, “grandi e piccoli” si misero all’opera con coraggio e cuore ben disposto.

Nella prima parte di questo capitolo (v. 1-15) è descritta la ricostruzione delle mura attorno a Gerusalemme; nella seconda parte (v. 16-32) quella riguardante “la città di Davide” e il tempio.

Dio ha creduto bene di consacrare un intero capitolo per citare i nomi dei capi-famiglia o dei distretti che si sono impegnati nei lavori di ricostruzione. Può stupire il fatto che sia dedicato così ampio spazio per riportare nomi di uomini che altrimenti sarebbero stati dimenticati. Ciò dimostra che Dio registra anche il più umile servizio compiuto per lui, e che tale servizio acquista maggior valore se è compiuto davanti a uomini schernitori e oppositori. Tutto il capitolo ci appare come una prefigurazione del “tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva la retribuzione di ciò che ha fatto quando era nel corpo, sia in bene sia in male” (2 Corinzi 5:10).

In primo luogo troviamo citato il capo spirituale del popolo, Eliasib, il sommo sacerdote, e i suoi fratelli sacerdoti. “Insieme costruirono la porta delle Pecore; la consacrarono e vi misero i battenti; continuarono a costruire fino alla torre di Mea, che consacrarono, e fino alla torre di Cananeel” (v. 1). A prima vista, si direbbe che la loro opera non lasciasse nulla a desiderare. La porta delle Pecore era la più vicina al tempio, verso nord. La parte di mura riedificata comprendeva due torri, opere particolarmente importanti e complesse. Questa porta era provvista di battenti, però mancavano le serrature e le sbarre! Così, fin dall’inizio, questo ingresso della città di Gerusalemme non offriva garanzia.

Può darsi che Eliasib avesse un certo interesse a comportarsi così; infatti era imparentato con Tobia, l’Ammonita, uno dei tre grandi nemici del popolo di Dio, e gli aveva persino messo a disposizione una camera nel sagrato del tempio (13: 4-5, 7). Un suo nipote era genero del secondo grande avversario dei Giudei, Samballat, il Coronita. Eliasib sarà dunque stato in malafede? Non possiamo affermarlo, ma è innegabile che l’alleanza col mondo, quando vogliamo compiacergli, dà alla nostra opera un’impronta di incompletezza dalla quale il nemico trarrà vantaggio. Questa negligenza è tanto più grave quanto più il responsabile è una persona in vista.

A fianco dei sacerdoti lavorarono “gli uomini di Gerico” (v. 2). Erano risaliti dalla loro città (vedere Esdra 2:34, 70; Neemia 7:36) per aiutare i loro fratelli di Gerusalemme. Il loro lavoro non era molto appariscente; non ci è detto che abbiano costruito né una porta né una torre, ma contribuirono comunque alla difesa della città. Una parte di questo compito fu affidato a un solo uomo, Zaccur, figlio di Imri. Gli strumenti che Dio impiega sono molto diversi, ma ciascuno è utile, e nessuno può farsi sostituire o scegliere a piacimento il proprio lavoro. Che si tratti di gruppi o di una sola persona, tutti non devono far altro che lavorare nel posto che Dio ha loro assegnato.

I figli di Senaa (v. 3) (forse si trattava di una città o di un distretto nella regione di Gerico) si distinsero: “costruirono la porta dei Pesci, ne fecero l’intelaiatura, e vi misero i battenti, le serrature e le sbarre”. Questa porta, situata al lato nord di Gerusalemme, era, insieme alla porta Vecchia (o del vecchio muro), particolarmente esposta agli attacchi del nemico. È da questo lato che le armate assire abbordavano la città per metterla sotto assedio e farvi irruzione. I figli di Senaa ne sentivano l’importanza e cessarono il lavoro soltanto quando le serrature e le sbarre furono piazzate.

Ai v. 4-5 vediamo Meremot, figlio di Uria il sacerdote, uomo fedele e stimato, nelle cui mani i compagni di Esdra avevano rimesso tutti i doni volontari inviati da Babilonia a Gerusalemme (Esdra 8:33, 34). Il suo zelo andò oltre la riparazione di una sola parte di muraglia, perché lo vediamo restaurarne un’altra parte davanti alla casa del sommo sacerdote Eliasib (v. 21), nella zona del palazzo di Davide e del tempio. Il suo zelo lo portò a difendere il rappresentante del popolo davanti a Dio.

La fedeltà di un credente, dimostrata in un servizio anche di poca importanza, lo qualifica come servitore per un’attività più impegnativa che ha a che fare direttamente con Cristo, il nostro sommo sacerdote.

Mesullam, menzionato dopo Meremot, è una figura un po’ dubbia, perché lo vediamo imparentarsi con Tobia, a cui aveva dato sua figlia. Senza dubbio faceva parte dei sacerdoti, ed è possibile che Eliasib lo abbia influenzato col suo esempio negativo. Malgrado questo, diede prova di zelo per la casa di Dio, ma non come Meremot. perché lo vediamo all’opera soprattutto per difendere la propria casa (v. 30). Dopo di lui, Sadoc è uno che non esitò a intraprendere il lavoro da solo, assumendosene i rischi e i pericoli.

I Tecoiti, che appartenevano a una città di Giuda poco distante da Betlem (Amos 1:1, 2 Samuele 14:2), erano molto diligenti: “Ne restaurarono un’altra parte”, oltre alla precedente; ma è anche detto che “i più importanti non vollero sottomettersi a lavorare all’opera del loro signore” (v. 27, 5). Molto spesso, infatti, una posizione elevata nel mondo si rivela un impedimento quando si tratta dell’opera del Signore. Questi uomini “più importanti” amavano senz’altro parlare e dirigere, ma non erano disposti a sporcarsi le mani e ad abbassarsi per svolgere il lavoro!

Ioiada, figlio di Pasea, e Mesullam, figlio di Besodeia, due uomini senza particolare fama, ripararono la porta Vecchia situata al lato nord-ovest della città. Questi due uomini si misero insieme per fare questo lavoro importante, per il quale sarebbe stato necessario il concorso di tutti i figli di Senaa. L’impegno di questi due sconosciuti produsse un risultato notevole, e questo è istruttivo per noi. L’espressione “accanto a loro”, ricorrente in questo capitolo, qui non la troviamo. Essi sono considerati a parte, benché abbiano contribuito all’opera comune. Uomini di questo tipo si acquistano un grado elevato. Il loro lavoro denota un grande senso di responsabilità. La porta che costruirono fu fornita di tutto: inteialatura, battenti, serrature e sbarre. Così furono d’esempio agli altri; infatti (v. 7) Melatia, il Gabaonita, e Iadon, il Meronotida, un Galileo, lavorarono “accanto a loro”. La loro origine, oscura agli occhi degli uomini, era invece apprezzata da Dio.

Anche Uzziel, figlio di Caraia, uno degli orefici, e Anania, uno dei profumieri, (v. 8), sono citati a parte, benché abbiano lavorato insieme agli altri. Le loro funzioni, che servivano per il lusso, non erano incompatibili con il restauro della città di Dio, perché il Signore sceglie i suoi operai in tutte le classi e posizioni sociali, anche dove un criterio umano consiglierebbe di agire diversamente.

Questa stessa osservazione si applica a Refaia, figlio di Cur, “capo della metà del distretto di Gerusalemme” (v. 9), e a Sallum, anche lui“capo della metà del distretto di Gerusalemme” (v. 12), che vediamo mettersi al lavoro con le proprie figlie. Era qualcosa di straordinario in quanto il lavoro edilizio non è abitualmente un lavoro femminile. Queste figlie erano però molto zelanti, ed è bello vedere il loro impegno per aiutare il padre, sotto la sua guida e la sua responsabilità. Esse ci ricordano le due donne che avevano lottato per il Vangelo con l’apostolo Paolo (Filippesi 4:2, 3).

Ciò che ha valore per Dio non è l’importanza visibile del nostro lavoro, ma la pietà e lo zelo che ci spingono a compierlo. Per questo motivo il lavoro delle figlie di Sallum, qualunque sia stato, è citato in questo racconto. Una pietà e un lavoro simili, svolti oggi nell’interesse del Signore, avranno la loro menzione e la loro ricompensa davanti al tribunale di Cristo.

Iedaia (v. 10) riparò “di fronte a casa sua”. La sua prima cura fu di preservare la propria famiglia dalle invasioni del nemico, e così lo vediamo lavorare per mettere al riparo i suoi cari; e questo, in ogni tempo, è cosa della massima importanza. Come si potrebbe difendere il popolo di Dio se non si sapesse preservare la propria casa dal male? Questo stesso zelo aveva fatto onore a Gedeone, quando era stato chiamato a essere giudice d’Israele (Giudici 6:25-35).

Al v. 11 vediamo che l’esempio di Joiada e Mesullam continuò a portare frutto. Due uomini, Malchia e Cassub, ripararono la torre dei Forni che dominava tutta la muraglia ad occidente, lavoro importante sia per dare l’allarme che per la difesa; ma sempre loro due restaurarono un’altra parte delle mura, a riprova del loro zelo infaticabile.

Canun e gli abitanti di Zanoà restaurarono la porta della Valle a sud-ovest della città, con la stessa cura dimostrata dai figli di Senaa; ma fecero inoltre mille cubiti di muro fino alla porta del Letame, cioè tutta la parte della muraglia che guardava direttamente il sud. Quale zelo!

Malchia, figlio di Recab (v. 14), capo conosciuto, riparò la porta del Letame a sud-est. Fu il primo a costruire una porta tutto da solo. Ricordiamo la sua qualità di Recabita, che lo qualifica per la perseveranza nella fede.

Sallum (v. 15), un altro dei capi, lo vediamo andare ancora più lontano. Riparò da solo la porta della Sorgente ad oriente, rimettendola in perfetta efficienza, ma fece anche “il muro del serbatoio di Siloe, presso il giardino del re, fino alla scalinata che scende nella città di Davide”. Quanto doveva essere degno di rispetto e di riconoscenza da parte del popolo! La porta che protegge, le acque che rinfrescano e guariscono, l’ombra degli alberi che danno riposo, rientrano nell’ambito della sua attività, per il bene dei suoi fratelli.

Dal v. 16 ci troviamo nella città di Davide propriamente detta. Siamo partiti dal nord di questa città, costruita, insieme al tempio, sulla montagna di Sion, abbiamo fatto il giro della città e siamo arrivati, nel lato sud della città di Davide, alla scalinata che scendeva da questa. Restava quindi da riparare soltanto l’ultima e più importante parte della città santa, ma che era preservata, per la sua posizione ed altitudine al di sopra della valle del Cedron, da ogni attacco diretto del nemico.

Neemia, figlio di Azbuc (v. 16), ci è sconosciuto, come anche altri citati, benché sia un personaggio eminente. Col suo lavoro aprì la strada ai lavori più importanti.

I v. da 17 a 21 ci fanno conoscere il lavoro dei Leviti:

Reum (v. 17) era risalito a Gerusalemme con Zorobabele (12:3); più tardi sarà uno dei firmatari del patto (10:25), così come Casabia (10:11) che “lavorò per il suo distretto” e che era anche un capo dei Leviti addetti in particolare alla lode (12:24). Questi due uomini erano qualificati per lavorare “uno accanto all’altro”.

Bavvai (v. 18)era a capo della metà dello stesso distretto di Casabia, ma non lo troviamo più citato nel libro.

Ezer invece lo ritroviamo, in occasione dell’inaugurazione delle mura, fra i cantori che faranno risonare forti le loro voci (12:42).

Baruc (v. 20) potrebbe essere figlio di quel Zabbai (Esdra 10:28) che è elencato fra quelli che avevano preso una moglie straniera. Un fatto del genere deve aver prodotto in lui una grande attenzione affinché la classe sacerdotale fosse preservata da legami profani. Di lui è scritto che “restaurò con ardore un’altra parte” (v. 20) delle mura, dall’angolo fino all’entrata della casa di Eliasib, il sommo sacerdote che, come abbiamo visto, aveva veramente bisogno di queste cure. Baruc era evidentemente caratterizzato da uno zelo poco comune, tanto da essere menzionato e consegnato alle Scritture.

Meremot (v. 21), già citato al v. 4, era stato fedele fin dall’inizio. Come Baruc, e ancora di più di lui, avvertiva il pericolo che minacciava la classe sacerdotale. Il suo lavoro nell’ “altra parte delle mura” è dei più preziosi: in pieno accordo con Baruc, riparò “dalla porta della casa di Eliasib fino all’estremità della casa di Eliasib”.

Dal v. 22 incontriamo i sacerdoti; quelli che abitavano le campagne circostanti; si direbbe che non avessero un interesse diretto, eppure li vediamo al lavoro.

E’ parlato ancora di certi operai – anche fra i sacerdoti – che “lavorarono di fronte alla loro casa” (v. 23 e 28-29); quindi si preoccupavano principalmente della parte che stava a loro più a cuore. Questo modo d’agire forse non era altrettanto lodevole quanto lavorare in un luogo in cui non ci fosse nessun interesse personale, oppure in un luogo ripugnante come, ad esempio, “la porta del Letame”, la cui riparazione fu intrapresa da un uomo che era “capo del distretto di Bet-Accherem” (v. 14). Ma può anche essere letto in senso positivo in quanto l’interesse per la propria casa, intesa come famiglia, è senz’altro lodevole.

Beniamino (v. 23) in seguito prenderà parte all’inaugurazione delle mura (12:34). Cassub sottoscriverà il patto (10:23).

Azaria, che è elencato fra quelli che cercarono di preservare la propria casa, più tardi si distinguerà: lo vedremo spiegare la legge al popolo (8:7), apporre il proprio sigillo al patto con Dio (10:2), partecipare all’inaugurazione delle mura (12:33).

Di Binnui (v. 24) è detto che “restaurò un’altra parte delle mura, dalla casa di Azaria”, probabilmente lo aiutò a proteggere la sua casa; troveremo anche lui fra quelli che sigilleranno il patto (10:9).

Palal (v. 25) lavorò verso il cortile della prigione, aveva quindi sotto gli occhi i testimoni dell’autorità regale e del castigo dei colpevoli. In questo stesso versetto troviamo Pedaia, figlio di Paros. Molti dei suoi fratelli avevano preso per moglie delle straniere (Esdra 10:25). Egli assisterà più tardi alla lettura del patto (8:4), e parteciperà alla ripartizione delle porzioni spettanti ai Leviti (13:13).

Si direbbe che i sacerdoti non si siano occupati della porta del Cavalli (v. 28).

Sadoc, figlio d’Immer (v. 29), non è lo stesso Sadoc del v. 4. Uno dei due, non sappiamo quale, sigillerà più tardi il patto (10:22) e sarà preposto alla sorveglianza dei magazzini (13:13).

Semaia, figlio di Secania (29), era “guardiano della porte orientale”, la porta principale della cinta del tempio. Troveremo il suo nome nelle occasioni più importanti. Se Secania, suo padre, fosse stato guardiano della porta, Gerusalemme avrebbe corso un grave pericolo da parte di Tobia (6:18)!

Anania e Canun restaurarono un’altra parte delle mura (v. 30), oltre a ciò che già avevano fatto (v. 8 e 13).

Malchia (v. 31) si era preso per moglie una straniera (Esdra 10:25 o 31) e si era purificato.

Al v. 32, leggiamo che un gran numero di orefici e di mercanti misero mano all’opera e ripararono le mura della città di Davide alla porta delle Pecore, dove il lavoro era cominciato.

La lettura di questo capitolo deve quindi ricordarci che siamo oggi invitati a servire gli interessi del Signore, sia nella costruzione, sia nel mantenimento delle mura di separazione che circondano l’attuale “casa” di Dio, cioè la Chiesa del Signore, proteggendola dalle contaminazioni del “presente secolo malvagio” e dall’opera nefasta dei falsi dottori.

Il mutismo e l’incapacità di tanti credenti nel ministero non provengono forse, almeno in certi casi, dal fatto che all’inizio, quando Dio metteva davanti a loro un lavoro da compiere per Lui, lavoro che richiedeva sforzo, perseveranza e tempo, non vollero, come i più importanti dei Teochiti, “sottomettersi a lavorare al servizio del loro signore”?

Dobbiamo ricordarci la verità annunciata da Anna, la pia donna la cui preghiera ci è conservata in 1 Samuele 2: “Il SIGNORE è un Dio che sa tutto e da lui sono pesate le azioni dell’uomo” (v. 3). Quando le azioni con le quali noi cerchiamo di servire il Signore saranno pesate, quale sarà il loro peso?

 

Capitolo 4

I lavori continuati nonostante l’opposizione

Quando i risultati del lavoro di ricostruzione cominciarono a vedersi, l’opposizione degli avversari divenne accanita, come ci informa il cap. 4. Essa si manifestò in tre modi. Ci fu anzitutto lo scherno. I Giudei, in realtà, erano deboli, e voler far “rivivere delle pietre sepolte sotto mucchi di polvere” aveva tutto l’aspetto di una folle impresa. I nemici non persero dunque l’occasione di volgere quel lavoro in ridicolo. Infine, passarono all’attacco e si prepararono a intervenire con la forza e a fare guerra ai costruttori.

Nel nostro tempo possiamo vedere una strategia simile da parte di Satana, il nostro nemico. Essa si manifestò anche nel servizio dell’apostolo Paolo; infatti, quando predicò ad Atene, culla della cultura, fu schernito e definito “ciarlatano” (Atti 17:18). Più tardi, il governatore Festo gli disse: “Tu vaneggi” (Atti 26:24). Ecco lo scherno. Anche a Tessalonica ci fu un’errata interpretazione e una grave deformazione della verità, in quanto si diceva che Paolo metteva sottosopra il mondo e agiva contro i decreti di Cesare (Atti 17:6, 7). Nessuna di queste affermazioni era vera.

L’Evangelo lascia intatto il sistema corrotto di questo mondo, ma chiama i credenti fuori dal mondo, ponendoli nel cammino di Dio. Allora, contro Paolo si scatenò un’opposizione violenta che gli causò grandi sofferenze, quelle che elenca in 2 Corinzi 11:24-27. Se oggi mettessimo più energia e più fedeltà nel nostro servizio per il Signore, sperimenteremmo maggiormente queste tre cose: lo scherno, la menzogna e spesso anche la violenza.

Nella seconda parte del capitolo vediamo le misure che vennero adottate in quell’occasione. Prima di tutto, la preghiera a Dio (v. 9). Era davvero opportuna; Neemia aveva iniziato con la preghiera, come abbiamo visto nei capitoli 1 e 2 e ora il popolo continuava nello stesso spirito di preghiera.

In situazioni critiche, non abbiamo mai commesso l’errore di seguire una linea di condotta che ci sembrava ragionevole e prudente, e di pregare a cose avvenute, per domandare a Dio di benedire ciò che avevamo già fatto? Nella sua grazia, Egli può aver benedetto ugualmente, ma in ogni caso avremmo fatto meglio a pregare prima.

I Giudei affrontarono in seguito le difficoltà del lavoro. Le ingenti quantità di macerie li preoccupavano mentre i nemici si preparavano ad attaccarli.

A questo punto possiamo fare un paragone. Il loro lavoro consisteva nella ricostruzione delle mura che separavano il tempio di Dio dal mondo esterno. Nella sua grazia, Dio ha permesso che nella storia della Chiesa si producessero diversi risvegli, e ogni volta vi sono state più o meno “macerie” di cui sbarazzarsi. Che orrendo accumulo di mondanità e di sozzure morali ammucchiate dalla Roma “papale” nei secoli che precedettero la Riforma! E siamo ancora ben lontani da una vera e propria pulizia; gli operai si indebolirono prima ancora che il loro compito fosse terminato!

Dobbiamo assolutamente evitare, anche nella nostra vita, che si accumulino peccati dai quali diventa poi difficile sbarazzarsi.

Trovandosi davanti a una vera e propria minaccia di guerra, i Giudei si armarono per affrontarla. Nelle guerre, le armi sono usate sia dagli attaccanti che da coloro che sono attaccati; e la stessa cosa avviene per i combattimenti spirituali. I nemici dei credenti sono in primo luogo “i dominatori di questo mondo di tenebre” le “forze spirituali della malvagità che sono nei luoghi celesti” (Efesini 6:12). La nostra armatura deve dunque essere di ordine spirituale: la verità, la giustizia, lo zelo, la fede, la salvezza. La spada, l’unica arma offensiva, è quella dello Spirito, “la parola di Dio”.

Nei paesi in cui è garantita la libertà religiosa, si può facilmente dimenticare che la vita cristiana è una vita di combattimento, e ritenere che il nostro cammino verso il cielo, dove tutto sarà gioia, debba essere anch’esso tranquillo e senza ostacoli. Ma non è questo l’insegnamento della Scrittura. Noi credenti non siamo soltanto pellegrini, ma siamo anche soldati e soprattutto discepoli, chiamati a prendere la nostra croce e a seguire un Signore rigettato dal mondo. Dal momento che ci identifichiamo con Lui, il combattimento è inevitabile. Come buoni soldati di Gesù Cristo, dobbiamo prendere la nostra parte di sofferenze (2 Timoteo 2:3). Di conseguenza, l’armatura difensiva di Efesini 6, come pure quella offensiva, “la spada dello Spirito”, ci sono indispensabili.

Il coraggio di Neemia, e che egli trasmise ai suoi compagni di lavoro, è sottolineato al v. 14, e si fonda sull’invito a ricordarsi del “SIGNORE, grande e tremendo”, che era al loro fianco. Così la costruzione delle mura non si interruppe. Forse rallentò un po’ in quanto c’era da difendersi. Gli operai, costruttori o portatori di pesi, dovevano essere sempre armati, e possiamo immaginare quanto fosse difficile lavorare. “Quelli che costruivano le mura e quelli che portavano o caricavano i pesi, con una mano lavoravano, e con l’altra tenevano la spada” (v. 17).

E’ stato così durante tutta la storia della Chiesa, fino al periodo attuale. I veri servitori di Dio hanno sempre dovuto consacrare una parte importante del loro tempo e delle loro forze a difendere la verità. Fin dall’inizio, gli apostoli non si sono limitati a evangelizzare e ad insegnare la verità, ma hanno dovuto anche difenderla dagli attacchi di Satana. Le Lettere degli apostoli ne rendono testimonianza. E’ nostro compito difendere la verità; se la perdiamo, perdiamo praticamente tutto. Così, ognuno di noi deve vegliare e, in senso spirituale, avere una spada in una mano e un utensile da lavoro dall’altra, per poter compiere l’opera del Signore.

Alla fine del cap. 4, notiamo che oltre alla spada e alla cazzuola, c’era un altro strumento, la tromba, che doveva essere suonata in caso di allarme. L’opera era “grande ed estesa” (v. 19) e gli operai erano molto dispersi, “distanti uno dall’altro”; ma erano tutti come “uno solo” nel compimento dell’opera; non erano indipendenti gli uni dagli altri. Per questo motivo il pericolo che uno di loro correva li riguardava tutti. La loro unità nel lavoro doveva essere preservata. Questa è una lezione importante, che merita di essere considerata con attenzione e messa in pratica.

Questa unità d’azione nel servizio di Dio riveste un’importanza particolare per noi. Bisogna notare, prima di tutto, che la Parola di Dio insiste di più sull’unità dei santi che costituiscono la Chiesa di Dio che non sull’unità che dovevano avere le dodici tribù d’Israele. Nella lettera agli Efesini, si trovano quattro volte le parole “un solo”, “uno solo” nei v. da 14 a 18 del cap. 2, e sette volte nei v. da 3 a 6 del cap. 4.

Oggi il servizio di Dio è estremamente vario, come vediamo in 1 Corinzi 12. C’è una grande diversità nella Chiesa del Signore, e il corpo umano illustra molto bene il funzionamento di questo “corpo” costituito da tutti i veri credenti. Ogni membro è diverso dall’altro e nessuno può fare a meno dell’altro senza subirne un danno o una perdita.

La tromba sulle mura di Gerusalemme ci ricorda che se il nemico attaccava un solo gruppetto di operai, in realtà li attaccava tutti, e tutti dovevano combattere. “Dovunque udrete il suono della tromba, là radunatevi con noi; il nostro Dio combatterà per noi” (v. 20).

Nell’ultimo versetto di questo capitolo intravvediamo qualcosa dello zelo e della devozione che dimostravano Neemia e i suoi collaboratori. Ciascuno di loro doveva risiedere all’interno di Gerusalemme, approfittando così della protezione che potevano offrire le mura parzialmente ricostruite. Nessuno di loro si spogliava per dormire durante la notte. Erano dunque sempre pronti, sia per mettersi all’opera, sia per affrontare il nemico. Che quadro impressionante!

La vigilanza e la purezza sono due cose molto necessarie. Paolo le ricorda con insistenza a Timoteo. Nella sua seconda Lettera leggiamo che Timoteo doveva essere vigilante riguardo a tutto ciò che poteva attaccare le verità della Parola e doveva conservarsi “puro da quelle cose” (2 Timoteo 2:21). Poi, nel versetto successivo, Timoteo è esortato a fuggire “le passioni giovanili”, affinché la sua purezza personale fosse salvaguardata.

Le istruzioni date a Timoteo nel primo secolo sono ancora oggi molto importanti per noi.

 

Capitolo 5

Neemia fa giustizia ai poveri e rimprovera i notabili

Nel cap. 4 abbiamo rilevato alcune caratteristiche positive del popolo. Ma dall’inizio del cap. 5 scopriamo che, dietro all’apparenza, il male aveva fatto la sua opera. Sotto la direzione di Neemia, era stato adottato un comportamento coraggioso di fronte all’opposizione esterna, ma allo stesso tempo, fra di loro si era verificata una forma di oppressione dovuta all’egoismo di alcuni, e precisamente da parte dei Giudei più ricchi che avevano tratto vantaggio dalla miseria in cui erano caduti molti del popolo. I più poveri, infatti, mancando dello stretto necessario, avevano preso in prestito del denaro o ipotecato i loro beni per procurarsi del cibo per sé e per le loro famiglie. “Alcuni dicevano: Noi, i nostri figli e le nostre figlie siamo numerosi; dateci del grano perché possiamo mangiare e vivere. Altri dicevano: Impegniamo i nostri campi, le nostre vigne e le nostre case per assicurarci del grano durante la carestia. Altri ancora dicevano: Noi abbiamo preso del denaro ipotecando i nostri campi e le nostre vigne” (v. 2-4). Riassumendo, il popolo da un lato mostrava uno zelo lodevole, essendo occupato nel servizio di Dio, ma dall’altro erano colpevoli, almeno alcuni, di egoismo e di corruzione.

L’apostolo Paolo ricorda a Timoteo che le “sacre Scritture” di cui aveva conoscenza “fin da bambino” (quindi l’Antico Testamento) potevano dargli “la sapienza che conduce alla salvezza” (2 Timoteo 3:15). La salvezza non è soltanto essere salvati dal giudizio a venire, ma è anche essere liberati dai pericoli che il credente incontra lungo il suo cammino. Abbiamo qui un esempio molto chiaro di questa Parola che può darci la sapienza che conduce alla salvezza. In tutte le epoche, i vari risvegli, frutto dell’opera dello Spirito in mezzo ai santi, sono stati guastati in questa maniera. Mentre esteriormente il lavoro per Dio proseguiva diligentemente e con successo, anche quando si trattava di costruire, spiritualmente parlando un muro di separazione dal mondo, uno spirito egoista si sviluppava all’interno, e i credenti più umili subivano dei danni.

Non è forse questo il motivo per cui tanti risvegli, prodotti per la grazia di Dio nel corso degli ultimi secoli, hanno perso la loro forza e si sono spenti poco a poco? Alla luce di ciò che abbiamo letto in questi passi, accettiamo tale ammonimento ed esaminiamo le nostre vie davanti al Signore.

Vediamo poi che l’energia e la fedeltà di Neemia hanno permesso di ristabilire la situazione per un certo periodo. All’udire le loro lamentele fu “molto indignato”, e si trattava di una giusta indignazione. “Dopo aver molto riflettuto, rimproverai aspramente i notabili e i magistrati… Quello che voi fate non è ben fatto. Non dovreste piuttosto camminare nel timore di Dio?”. Di fronte a queste solenni parole “non seppero che rispondere” e giurarono di restituire ciò che avevano preso. E mantennero la promessa (v. 13).

Ciò che dà forza alle rimostranze di Neemia è il fatto che egli stesso era stato un esempio a questo riguardo, come possiamo vedere nel v. 8. I governatori che lo avevano preceduto, avevano preteso dal popolo nutrimento e aiuto materiale; lui, invece, non aveva preso nulla da loro, ma aveva mantenuto centocinquanta Giudei e magistrati, oltre ad altri visitatori occasionali, probabilmente con gli aiuti che riceveva dal re di Persia.

Quando si deve fare un rimprovero, questo è più efficace se chi lo fa è esente dalla colpa che deve rimproverare. Di qui l’esortazione di Galati 6: “Fratelli, se uno viene sorpreso in colpa, voi che siete spirituali, rialzatelo con spirito di mansuetudine. Bada bene a te stesso, che anche tu non sia tentato” (v. 1). E’ un invito a fare bene attenzione a noi stessi e alle nostre vie, quando ci occupiamo degli altri.

L’integrità di Neemia, oltre a giovare al popolo, gli dava anche fiducia per chiedere a Dio di ricordarsi di lui e fargli del bene, come vediamo nell’ultimo versetto del capitolo.

 

Capitolo 6

Nuovi ostacoli superati da Neemia. Compimento dell’opera

Il cap. 6 ci informa che con l’avvicinarsi del completamento dell’opera di ricostruzione delle mura, l’opposizione esterna si accentuò assumendo forme più sottili. Si vede chiaramente un invito al compromesso, col desiderio di fare del male, che andava a toccare personalmente Neemia. La richiesta da parte di Samballat, Tobia e Ghesem di un incontro in uno dei villaggi della valle di Ono (v. 2) sembrava ragionevole. Nel mondo vi sono nazioni in continua disputa, e si organizzano continuamente conferenze e incontri, per trovare dei compromessi ed evitare delle guerre. Gli uomini di stato di oggi approverebbero il suggerimento di Samballat e dei suoi alleati.

Ma quando si tratta della verità di Dio o dell’opera di Dio, il compromesso non può essere ammesso. Nei nostri paesi, il servitore di Dio non sempre deve temere la violenza fisica, ma deve comunque sapere che ciò che appartiene a Dio non può essere soggetto ad accomodamenti umani, per ragionevoli che possano sembrare.

Con Neemia, i nemici diedero prova di costanza, perché inviarono per ben quattro volte i loro messaggeri; ma ricevettero sempre la stessa risposta: “Io sto facendo un gran lavoro e non posso scendere” (v. 3). La quinta volta cambiarono tattica: accusarono Neemia di volersi ribellare al re di Persia e di proclamare re se stesso. Che menzogna!

Metodi simili furono usati dal nemico contro il Signore Gesù, come pure contro i credenti durante i primi giorni della proclamazione del Vangelo; Paolo, ad esempio, fu accusato di fomentare “rivolte fra tutti i Giudei del mondo” (Atti 24:5).

Queste false accuse contro Neemia avevano lo scopo di spaventare il popolo: essi pensavano: “Perderanno il coraggio e il lavoro non si farà più” (v. 9). Ma al v. 14 vediamo che non fecero altro che spingere Neemia ad appoggiarsi ancora di più su Dio. In fin dei conti, se l’opposizione ci attacca a Dio, non possiamo che trarne vantaggio.

Nei v. da 10 a 13 vediamo che i nemici usarono un altro stratagemma, più astuto e sottile dei precedenti. Assoldarono un Giudeo, un uomo del popolo di Neemia, per informarlo che correva il rischio di essere assassinato e che sarebbe stato prudente che si rifugiasse nel tempio, compiendo un atto contrario alla legge. “Troviamoci insieme nella casa di Dio, dentro il tempio; e chiudiamo le porte del tempio perché essi verranno ad ucciderti, e verranno a ucciderti di notte”.

Neemia non era sacerdote e quindi non gli era concesso di entrare nella casa di Dio. Così i nemici, non essendo riusciti a farlo cadere con le proposte di compromesso e con le false accuse, speravano in questo modo di riuscire nel loro intento facendolo cadere nel tranello di un peccato contro il Signore. Ma Neemia si rese subito conto della loro malvagità, e invocando ancora una volta il suo Dio evitò quella nuova trappola: “Un uomo come me potrebbe entrare nel tempio e vivere? No, io non vi entrerò”.

Quando siamo impegnati nel combattimento per il Signore, Satana pone sul nostro sentiero dei tranelli, degli inganni particolari. Per esserne preservati, l’unica risorsa è rimanere in contatto col Signore, proprio come ha fatto Neemia.

Il v. 14 ci riporta un altro fatto penoso: alcuni fra il popolo che erano profeti, tra i quali si trovava anche una profetessa, si erano legati coi nemici e agivano in accordo con loro!

Quelli che sono segretamente nemici dell’opera di Dio – e se ne trovano anche fra chi professa di appartenere alla Chiesa – sono ancora più pericolosi dei nemici dichiarati. Tuttavia, Dio sosteneva quelli che lavoravano alla ricostruzione delle mura, e l’opera poté essere terminata (v. 15, 16), malgrado l’ostilità e l’astuzia impiegate per far fallire il lavoro.

I nemici “provarono una grande umiliazione perché riconobbero che quest’opera si era compiuta con l’aiuto del nostro Dio” (v. 16).

Gli ultimi versetti del capitolo sottolineano i veri motivi di tutti quegli inganni e di quei tentativi astuti. Alcuni di loro avevano stretto dei legami di matrimonio coi nemici, forse nel tentativo di appianare le difficoltà. Ma dal giorno in cui Dio aveva chiamato Abraamo a lasciare il suo paese e la sua parentela (Genesi 12:1), i matrimoni coi pagani erano formalmente vietati agli Ebrei, e quando avvennero furono delle grandi insidie.

Non dobbiamo purtroppo confessare che non è stato diverso nella storia della Chiesa? Leggendo la prima lettera di Paolo ai Corinzi, potremmo stupirci della quantità e della varietà dei disordini che era costretto a denunciare e a riprendere in quella chiesa. Qual era la vera causa? La risposta possiamo trovarla nella seconda Lettera al cap. 6, v. 11 a 18. Molti di loro si erano messi “con gl’infedeli sotto un giogo” che non si addiceva a dei credenti. Il cuore dei Paolo si era “allargato”, nel senso che il suo amore li includeva tutti, ma la sua bocca si era aperta per mettere a nudo quella piaga.

Il credente, nato da Dio, ha una natura che l’incredulo non possiede, ma ha in sé anche la carne, la vecchia natura che è uguale a quella dell’incredulo. Per questo, se accetta di mettersi sotto lo stesso “giogo”, quasi sicuramente sarà trascinato verso il mondo e finirà per adottare molte delle sue usanze. Vegliamo dunque sul nostro cammino in modo da non essere trovati colpevoli di un peccato simile a quello che produsse conseguenze così spiacevoli al tempo di Neemia.

 

Capitolo 7

Iniziando la lettura del cap. 7 ci sentiamo sollevati. Scopriamo infatti che c’erano degli uomini che, lungi dall’ostacolare l’opera di Dio, vi contribuirono realmente. Nonostante le difficoltà, le mura erano state completate; le porte messe al loro posto ed erano state designate delle guardie per la loro apertura e chiusura al momento opportuno.

E’ a questo punto che si parla nuovamente di Anania (o Anani), che Neemia chiama “mio fratello”. Era lui che aveva riferito le prime notizie riguardanti la triste condizione della città e dei Giudei, come abbiamo visto all’inizio del libro. Egli è qui associato ad un altro Anania governatore della fortezza, definito “un uomo fedele e timorato di Dio più di tanti altri”.

E’ scritto che “il timore del SIGNORE è il principio della scienza” e della “saggezza” (Proverbi 1:7; 9:10). Dato che quest’uomo aveva più di altri questo santo timore, possiamo essere certi che era molto saggio. Il fatto che Dio abbia concesso a Neemia il sostegno di tali uomini dev’essere stato per lui di grande incoraggiamento. Egli aveva bisogno di tale appoggio poiché la città era grande, il popolo poco numeroso, e benché le mura fossero ultimate le case non erano ancora definitivamente costruite.

I figli d’Israele erano il popolo di Dio; di conseguenza le loro genealogie erano molto importanti e dovevano essere conservate con cura. Poiché Dio stesso aveva messo in cuore a Neemia di censire il popolo, egli scoprì che era stato redatto con cura un registro degli anni passati, all’epoca del primo esilio, com’è riferito all’inizio del libro di Esdra. Per via della sua importanza, questa lista è di nuovo ripetuta qui. I v. da 1 a 67 del cap. 2 del libro di Esdra sono ripresi quasi parola per parola nei v. da 6 a 69 del nostro capitolo. I quattro versetti che concludono questo cap. 7, e che riportano i doni dei capi famiglia e quelli del popolo in modo più generale, differiscono tuttavia dagli ultimi versetti di Esdra 2. I doni qui indicati sono molto più cospicui probabilmente perché si tratta di doni ulteriori che si erano accumulati fino ai giorni di Neemia. Il titolo di “governatore” (nella lingua persiana thirsata), del v. 70, si applica tanto a Neemia quanto a Zorobabele.

Il capitolo termina con l’annotazione che i sacerdoti e il popolo abitavano nelle loro città.

 

Capitolo 8

Come annunciato nell’ultimo versetto del capitolo precedente, arriva il settimo mese. Il popolo è radunato “sulla piazza che è davanti alla porta delle Acque”. Viene chiesto ad Esdra, il sacerdote, che si trovava a Gerusalemme da diversi anni, di portare il libro della legge di Dio e di leggerlo pubblicamente davanti agli uomini, alle donne, e anche ai bambini che erano in grado di capire.

La Parola di Dio si rivolge sempre a tutti coloro che sono “in grado di capire”. “Chi ha orecchie ascolti”, è più volte ripetuto nei cap. 2 e 3 di Apocalisse.

Questa lettura pubblica è notevole, ricca di preziosi insegnamenti per noi, specialmente per coloro che hanno il compito del ministero della Parola in pubblico. Esdra stava in piedi su un palco di legno di modo che sia lui che il libro che leggeva fossero ben visibili a tutto il popolo. Alcuni uomini lo aiutavano a spiegare con chiarezza agli ascoltatori il senso di ciò che veniva letto.

E’ bene che tutti coloro che sono impegnati nella predicazione del Vangelo o nel ministero della Parola per i credenti, leggano con attenzione il v. 8, prestando particolare attenzione a tre cose:

1. “Essi leggevano nel libro della legge di Dio in modo comprensibile”. Ciò che era scritto nel libro di Dio doveva essere capito chiaramente da tutti, tanto più che gli ascoltatori non avevano in mano delle copie che avrebbero potuto aiutarli nel caso che certe parole fossero state pronunciate in modo incomprensibile.

2. “Ne davano il senso”. Nel corso di mille anni, la lingua poteva essere un po’ cambiata; inoltre molti parlavano probabilmente l’aramaico e non conoscevano l’ebraico antico. Di qui la necessità di dare spiegazioni esaurienti.

3. “Per far capire al popolo quello che leggevano”. Bisognava essere sicuri che gli ascoltatori non solo udissero le letture, ma comprendessero ciò che veniva letto.

Questo versetto anticipa in modo stupendo gli insegnamenti esposti in 1 Corinzi 14, in relazione al ministero della Parola nelle chiese cristiane. Colui che pronuncia un ringraziamento o prega o presenta la Parola, deve assicurarsi prima di tutto di sapere con esattezza le cose che sta per dire, e poi deve esprimerle in modo comprensibile. Non basta che chi parla capisca lui ciò che dice. Se si tratta di una preghiera, deve poter essere approvata da tutti con l’ “amen”; se si tratta di un insegnamento, deve poter essere assimilato da tutti coloro che l’ascoltano, quindi che sia espresso con la chiarezza e la semplicità necessarie. In 1 Corinzi 14:9-20, l’apostolo Paolo insiste più volte sulla necessità di essere ben compresi.

Il primo effetto che questa lettura produce nel popolo è indicato al v. 9: “Tutto il popolo… piangeva”. Avevano ben motivo di piangere! Nessuno può essere confrontato con le esigenze della santa legge di Dio senza sentirsi rimproverato nella propria. Tuttavia, Neemia e Esdra calmano il popolo e invitano tutti a rallegrarsi.

Nel libro della legge si trovavano anche delle promesse che rivelavano la misericordia di Dio e annunciavano il Messia. Inoltre la festa delle capanne era vicina, e questa doveva celebrarsi con gioia. Anch’essi in fondo avevano tanti motivi per rallegrarsi di tutto ciò che Dio aveva operato in loro favore nonostante gli sforzi dei nemici. Li vediamo infatti che dopo essersi convinti di peccato se ne vanno “a mangiare, a bere… e a fare gran festa, perché avevano capito le parole che erano state loro spiegate” (v. 12). A questo punto ci sorge un dubbio: poiché una profonda convinzione di peccato non si acquisisce facilmente, chissà se il loro pentimento era reale o piuttosto superficiale. Ma nulla ci è detto a questo riguardo.

I capi famiglia di tutto il popolo erano animati da un profondo desiderio di imparare a conoscere la legge di Dio (v. 13). Il secondo giorno, grazie alla lettura della legge, sono poste chiaramente davanti a loro le prescrizioni relative alla festa dei tabernacoli e subito si danno da fare per celebrare questa festa secondo le Scritture. Il v. 17, che dichiara che essi “dal tempo di Giosuè… non avevano più fatto così”, ci potrebbe stupire; però sappiamo bene con quanta facilità possiamo allontanarci dagli insegnamenti della Parola di Dio! Quando, a suo tempo, il re Giosia dispose il cuore del popolo a celebrare la Pasqua, è detto che “nessuna Pasqua, come quella, era stata celebrata in Israele dai giorni del profeta Samuele” (2 Cronache 35:18). Anche per quanto riguarda la Pasqua, le direttive divine erano state dimenticate da molto tempo.[1]

E cosa è accaduto nella triste storia della Chiesa professante? Non possiamo certo scagliare la pietra contro gli Israeliti. In 1 Corinzi da 12 a 14 ci sono rivelati i grandi princìpi che reggono la vita e le attività della Chiesa come corpo di Cristo. Vi troviamo i comandamenti del Signore che riguardano l’esercizio dei doni spirituali, affinché tutti siano nutriti e edificati. Per quanto tempo questi comandamenti sono stati tenuti in considerazione e messi in pratica? Non molto a lungo! Non c’è voluto molto per giungere ad altri accomodamenti che, nel giro di qualche secolo, sono sfociati nei terribili mali del papato. Senza dubbio, qualche ricordo della Parola di Dio era presente in mezzo a credenti umili, sconosciuti e talvolta perseguitati, che furono considerati eretici. Ma niente di più, e questo per tanti secoli. Così le cose riportate al v. 17 non hanno nulla di sorprendente.

Nell’ultimo versetto di questo capitolo, e al v. 3 del cap. 9, vediamo che la lettura del libro della legge, iniziata quando Esdra era salito sul palco, non si era fermata lì, ma era proseguita durante i sette giorni della festa e anche oltre. “I figli d’Israele si radunarono vestiti di sacchi e coperti di polvere, per celebrare un digiuno. Quelli che appartenevano alla discendenza d’Israele si separarono da tutti gli stranieri”. La conoscenza della Parola era all’origine di quel risveglio ed è sempre stato così. Il risveglio della Riforma ha potuto svilupparsi, sotto la potente mano di Dio, grazie al fatto che si iniziò a tradurre la Bibbia nelle lingue parlate, e all’invenzione della stampa che ha permesso di leggerla a migliaia di persone. Un autentico risveglio è stato sempre contrassegnato da un ritorno alla Parola di Dio.

 

Capitoli 9 e 10

Nei v. 2 e 3 del cap. 9 vediamo gli effetti che la lettura della legge produsse sugli ascoltatori. Prima di tutto, essi misero fine ai legami con gli stranieri che fino ad allora avevano tollerato. In seguito confessarono i loro peccati, e le iniquità nelle quali i loro padri erano stati coinvolti. Infine, si prostrarono davanti al loro Dio per rendergli omaggio, riconoscendo che la parola di Dio che essi leggevano esigeva ubbidienza.

Ed è proprio questo che si deve sapere. E’ notevole che la Lettera ai Romani inizi e termini sulla nota dell’“ubbidienza della fede”. Nei primi versetti si tratta dell’ubbidienza al Vangelo quando è annunciato, e negli ultimi al “mistero” riguardante Cristo e la Chiesa (cf. 1:5; 16:26).

Tutta la verità di Dio è rivelata non per comunicarci delle idee filosofiche che distraggano il nostro spirito, ma per penetrare nel nostro spirito e nella nostra coscienza e condurci in un sentiero di gioiosa sottomissione alla volontà di Dio. Ciò implica chiaramente la separazione da ogni compromesso e da ogni contaminazione, come pure la confessione delle nostre colpe e dei nostri peccati.

Queste due cose devono infatti andare di pari passo. Dio non può accettare la separazione dal male senza confessione, né la confessione senza separazione dal male. Quando le due cose sono compiute insieme, siamo mantenuti nell’umiltà davanti a Dio, e condotti a quello stato d’animo e di spirito necessari per prendere la nostra gioiosa posizione di adoratori alla presenza di Dio e di suoi servi.

I v. da 4 a 6 ci riferiscono la lode rivolta a Dio da alcuni Leviti. Essi confessano l’Eterno come loro Dio, e riconoscono che Egli è il grande Creatore dei cieli e della terra, “esaltato al di sopra di ogni benedizione e di ogni lode”. Questo era in accordo con le rivelazioni che avevano allora. Se leggiamo Efesini 1:3-7, vediamo che l’apostolo Paolo esprime la sua adorazione alla luce della rivelazione che ci è stata fatta in Cristo. In Romani 11:36, lo stesso apostolo adora contemplando le vie di Dio riguardo a Israele e ai credenti fra le nazioni. Evidentemente i Leviti contemporanei di Neemia non potevano anticipare le cose che sono state rivelate a noi “che ci troviamo nella fase conclusiva delle epoche” (1 Corinzi 10:11).

Avendo reso omaggio a Dio, essi ricordano poi davanti a lui le sue vie meravigliose verso il popolo nel corso dei secoli, a cominciare da Abramo. Se leggiamo con attenzione questo lungo capitolo, vediamo spiegarsi davanti ai nostri occhi la movimentata storia d’Israele, e non possiamo non essere colpiti almeno da tre cose:

– La prima, è che essi riconoscono la meravigliosa potenza dell’Eterno spiegata in loro favore liberandoli dall’Egitto, poi sostenendoli nel deserto e nella conquista della terra promessa. In tutte le sue vie Dio aveva agito verso di loro sia in misericordia che in giustizia.

– La seconda è che riconoscono che la legge, con le sue “prescrizioni giuste” e i suoi “buoni precetti”, è perfetta, e non tentano minimamente  di giustificare se stessi o i loro padri per i loro ripetuti peccati e le loro ribellioni. Essi condannano se stessi riconoscendo la propria disubbidienza che li aveva portati addirittura ad uccidere i profeti che Dio aveva usato per testimoniare contro di loro e per ricordare loro la sua Verità. Riconoscono anche i motivi di ciò che era loro accaduto, tanto che, benché siano di ritorno nel paese, essi permangono in una posizione di servitù nei confronti dei re che sono stabiliti sopra di loro. Questa umile confessione di peccato era al suo posto, ed era giusto riconoscere la rettitudine di tutte le vie di Dio nei loro riguardi.

– La terza cosa, compare nell’ultimo versetto del capitolo. Riconoscendo la “grande angoscia” in cui si trovavano, e anche a motivo di essa, essi si propongono di rinnovare il patto della legge, stabilito all’inizio con i loro antenati, facendo ciò che chiamano “un patto stabile” che mettono per iscritto e sigillano.

E’ dunque evidente che non avevano ancora capito quello che l’apostolo Paolo scrive con decisione ai Galati: “Infatti tutti quelli che si basano sulle opere della legge sono sotto maledizione” (3:10). Il periodo di prova dell’uomo non era ancora scaduto del tutto. Israele era la nazione che Dio aveva scelto per questa messa alla prova, e questa non è terminata fino a che il popolo non ebbe crocifisso il suo Messia. Così non possiamo biasimare questi Israeliti pii per aver fatto un nuovo patto, simile al primo a grandi linee, e avervi posto il loro sigillo nella speranza di riuscire ad osservarlo meglio dei loro padri.

E’ bene  tuttavia notare ciò che accade nella loro storia successiva. Anche prima della fine di questo libro troviamo dei gravi errori. E se passiamo al libro di Malachia, scritto circa mezzo secolo più tardi, vi scopriamo che si era instaurata una situazione deplorevole fra i loro figli e i loro discendenti. Vi si trovava sempre una certa forma di religiosità, mentre la legge era trasgredita e completamente pervertita nella sua essenza. I Giudei si compiacevano di se stessi e non sopportavano alcun rimprovero. Essi rifiutavano con indignazione le riprensioni che il profeta doveva rivolgere loro da parte dell’Eterno.

Tuttavia, è innegabile che al tempo descritto in questi capitoli 9 e 10 di Neemia fosse all’opera uno spirito di risveglio in mezzo al popolo. E poiché la loro posizione davanti a Dio era fondata sulla legge di Mosè, questa conferma del loro desiderio di rispettarla e di osservarla era del tutto opportuna. Anche nella storia della Chiesa vi sono stati dei periodi di risveglio. Ciò che li ha contraddistinti è la riscoperta, non tanto di ciò che noi dovremmo fare per Dio, ma di ciò che Egli ha fatto per noi. C’è stata una rinnovata comprensione della pienezza della grazia e del favore nei quali siamo stati introdotti dall’Evangelo, come pure della posizione celeste della Chiesa, secondo i progetti eterni di Dio.

In questa lunga preghiera di confessione, mentre quei Leviti passano in rassegna la storia della loro nazione, per ben due volte riconoscono una delle maggiori cause del loro peccato: essi avevano agito “con superbia”, “si inorgoglivano” (v. 16, 29). Da questo sentimento d’orgoglio, sicuramente favorito dal privilegio e dal favore nel quale si trovavano come nazione, erano scaturite l’arroganza e la disubbidienza. Arroganza e disubbidienza si erano manifestate fin dal principio, particolarmente quando “si son voluti dare un capo per tornare alla loro schiavitù” (v. 17), e “quando si erano fatti un vitello di metallo fuso, dicendo: Ecco il tuo Dio” (v. 18).

Se gli Israeliti non poterono entrare nel paese promesso, fu “a causa della loro incredulità” (Ebrei 3:19). Nella loro incredulità, vollero un Dio visibile all’occhio umano, e fabbricarono un vitello d’oro. Per nulla pronti ad affrontare un soggiorno di quarant’anni nel deserto senza risorse visibili, avrebbero voluto nominarsi un capo secondo i loro pensieri, per essere riportati in un paese d’abbondanza ma che per loro sarebbe stato nient’altro che un paese di schiavitù.

Per noi è facile vedere il loro errore, ma non dimentichiamo che la carne che è in noi ha esattamente le stesse tendenze. Essa aspira a qualcosa di visibile che favorisca i nostri desideri naturali. Ecco ancora un caso in cui le “sacre Scritture” dell’Antico Testamento possono darci la sapienza che conduce alla salvezza (2 Timoteo 3:15). Non possiamo fare a meno di pensare che dei cattivi principi della stessa natura hanno infierito durante i primi secoli del cristianesimo. Man mano che la fede diminuiva, veniva richiesta un’immagine visibile del Salvatore, poi della Vergine, sua madre e dei cosiddetti santi. Le chiese si riempirono di simulacri e di immagini. I cristiani vollero anche un capo visibile e lo nominarono, ritenendolo un vicario di Cristo.

Così dunque, i Giudei del tempo di Neemia hanno firmato un patto che confermava la loro adesione a quello antico, il patto che era stato loro dato al Sinai, e che era veramente stabile.

I primi ventisette versetti del capitolo 10 elencano i nomi dei capi che hanno apposto il loro sigillo sul patto in nome del popolo. Il seguito del capitolo racconta come il popolo si è impegnato ad osservare la legge in modo generale, e in particolare le prescrizioni relative al matrimonio, al servizio della casa dell’Eterno, come pure le decime per i sacerdoti e i Leviti.

 

Capitolo 11

I due versetti che introducono questo capitolo forse ci sorprendono un po’. Avremmo pensato che tutti avrebbero desiderato abitare a Gerusalemme, essendo ormai una città fortificata. Ma chiaramente non fu così. Le città della campagna di Giuda avevano maggiore attrattiva. Si tirò quindi a sorte di modo che un abitante su dieci, quello su cui sarebbe caduta la sorte, abitasse a Gerusalemme. Alcuni si offrirono come volontari per abitare a Gerusalemme, e il popolo li benedisse, come se si fosse trattato di un sacrificio da parte loro!

Il resto del capitolo elenca i nomi di coloro che abitarono a Gerusalemme, e fornisce anche dei dettagli relativi alla loro posizione e ai servizi che svolsero. Può darsi che i loro nomi non abbiano grande importanza per noi, ma l’avranno nel giorno futuro della restaurazione e della benedizione d’Israele.

Questo capitolo ci insegna, ancora una volta, che ogni sacrificio fatto, ogni servizio reso per l’opera e gli interessi di Dio è registrato davanti a Lui e non verrà dimenticato. I nomi di coloro che non vollero abitare a Gerusalemme ma andarono a stabilirsi in altri luoghi, sono invece tralasciati. Malachia ci dice che ai suoi tempi “un libro è stato scritto” davanti all’Eterno, “per conservare il ricordo di quelli che temono il SIGNORE e rispettano il suo nome” (3:16). Questo “libro” simbolico non è solo dell’epoca di Malachia; c’era già al tempo di Neemia e c’è ancora oggi. Non dimentichiamolo!

 

Capitolo 12

I primi ventisei versetti contengono altri dettagli genealogici risalenti fino ai tempi di Zorobabele e Iesua, il sommo sacerdote. Al v. 10 apprendiamo che Iesua aveva un nipote che si chiamava Eliasib che, divenuto adulto, era diventato anch’egli sommo sacerdote e aveva un figlio che si chiamava Ioiada. Questi due uomini sono nominati di nuovo al v. 22, e altre particolarità che li riguardano le ritroviamo al cap. 13.

Dal v. 27 si parla dell’inaugurazione solenne delle mura. Benché siano elencati molti nomi, lo scopo non è di presentare delle genealogie, ma di mostrare in che modo quegli uomini hanno contribuito a celebrare la grazia di Dio al momento dell’inaugurazione delle mura che finalmente erano state completate.

Per quella circostanza tanto gioiosa si radunarono tutti, sia coloro che abitavano fuori Gerusalemme che quelli che abitavano nella città. Tuttavia, una cosa era necessaria: doveva essere fatta una purificazione, non solo quella dei sacerdoti e dei Leviti, ma anche del popolo, delle porte e delle mura (v. 30)

Possiamo riassumere in poche parole la lezione che deve essere tratta: non c’è consacrazione senza purificazione. Non ci è detto come questa purificazione è stata effettuata, ma senza dubbio è stata esteriore e visibile. Era la figura e l’ombra di quel travaglio interiore che Davide aveva già un po’ compreso (cf. Salmo 51:2; 119:9).

Quell’inaugurazione era una consacrazione a Dio e al suo servizio, e ciò corrisponde all’esortazione dell’apostolo Paolo: “Vi esorto… a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente” (Romani 12:1). In quanto riscattati, non apparteniamo a noi stessi; Dio vuole che anche i nostri corpi siano consacrati a Lui e al suo servizio. In questo versetto di Romani 12, dopo le parole “sacrificio vivente”, è aggiunto: “santo, gradito a Dio”. Troviamo anche qui la stessa cosa: ciò che era consacrato a Dio doveva essere purificato e santo, cioè separato per Lui da ogni iniquità. I primi otto capitoli della lettera ai Romani, che espongono il Vangelo nei suoi meravigliosi dettagli, ci mostrano che per questo Vangelo noi credenti siamo giustificati, purificati e messi a parte per Dio.

Una volta effettuata la purificazione, l’inaugurazione delle mura è stata caratterizzata prima di tutto da ringraziamenti e canti di lode a Dio; e poi da una grande gioia del popolo tanto che, mentre offrivano i loro sacrifici, “la gioia di Gerusalemme si sentiva da lontano” (v. 43). Inoltre vennero stabiliti dei sorveglianti che controllavano le stanze dov’erano raccolte le offerte, le primizie e le decime. Anche in questo troviamo delle analogie con ciò che ci riguarda: se siamo veramente consacrati, Dio sarà lodato e ringraziato, e nei nostri cuori ci sarà della gioia; ma non mancheranno i doni offerti per dell’opera di Dio e i bisogni dei suoi servitori.

 

Capitolo 13

Nonostante tutte le cose buone che abbiamo visto in occasione dell’inaugurazione delle mura, la situazione era ben lungi dall’essere perfetta. “In quel tempo si lesse in presenza del popolo il libro di Mosè”, e vi si trovò scritto che l’Ammonita e il Moabita non debbono mai entrare nell’assemblea di Dio” (leggiamo questo in Deuteronomio 23:3 e 4). Gli ascoltatori furono di nuovo molto colpiti da questa seconda lettura della legge, e riconobbero che erano stati disubbidienti. “Quando il popolo udì la legge si separò da tutti gli stranieri” (v. 3).

Questo insegnamento era stato trascurato anche dai capi del popolo; infatti al cap. 12 (v. 10), abbiamo visto che Eliasib, un nipote di Iesua, il sommo sacerdote, ed egli stesso sommo sacerdote (Neemia 3:1; 13:28), si era imparentato con Tobia l’Ammonita, uno dei principali oppositori dell’opera di Dio, e gli aveva riservato una camera nel recinto del tempio, nel luogo dove si riponevano le offerte e altre cose preziose. E’ anche detto che la sua dimora era una “camera grande”. Vediamo così che la legge era violata in maniera flagrante anche nelle più alte sfere religiose (v. 4). Se il capo religioso trasgrediva così la legge agli occhi di tutti, cosa ci si poteva aspettare dal popolo?

Il v. 6 ci spiega come si era potuti giungere a tal punto. Ormai erano trascorsi dodici anni da quando Neemia era arrivato a Gerusalemme per ricostruire la città. Egli era poi tornato da Artaserse, che lo aveva nominato governatore civile; per questo era mancato da Gerusalemme per un po’ di tempo. Avendo tuttavia ottenuto dal re il permesso di ritornare, scoprì una situazione morale gravemente compromessa che gli “dispiacque molto”. Così passò subito all’azione. Iniziò gettando fuori dalla camera del tempio tutti gli effetti che appartenevano a Tobia, purificando la stanza e ripristinandola all’uso che le era proprio. Che tragedia! Un uomo come Neemia che non era nemmeno sacerdote non solo doveva rimproverare il “sommo sacerdote”, ma doveva anche sconvolgere ciò che costui aveva fatto. Questa tragedia si è ripetuta più volte nella storia della Chiesa. Una funzione ufficiale non è garanzia di purezza né di ubbidienza alla volontà di Dio. E a più riprese, Dio ha formato degli uomini umili e sconosciuti per ravvivare nel popolo di Dio un po’ di ubbidienza alla sua volontà.

Questo incidente relativo a Eliasib spinse Neemia ad esaminare altre cose relative al comportamento della gente del popolo. Il resto del capitolo ci mostra in dettaglio le penose scoperte che fece.

Gli errori e le trasgressioni della legge erano di tre ordini. Il sostegno materiale dei Leviti e dei cantori, e per il funzionamento generale della casa di Dio, era completamente trascurato. Il popolo non voleva più sopportare quelle spese, e non portava più in maniera regolare le decime (v. 10-14). Inoltre, c’erano delle gravi e palesi infrazioni alla legge relativa al sabato. Il popolo stesso lo profanava e permetteva alle persone di Tiro, e ad altre, di intrattenere commerci con loro in giorno di sabato, persino a Gerusalemme. Ciò poteva essere comodo, ma era una palese disubbidienza alla legge (v. 15-22). Infine s’erano celebrati dei matrimoni con donne straniere, fatto tanto più grave in quanto avveniva poco tempo dopo che questo male era stato pubblicamente riconosciuto e rimosso. Inoltre si trattava di donne di Asdod (città dei Filistei), di Ammon e di Moab e questo rendeva la cosa ancora più grave.

In questo ultimo peccato, la famiglia sacerdotale era ancora una volta in prima fila (v. 28)! Un figlio di Ioiada, di cui non ci è detto il nome, nipote di Eliasib, aveva sposato una figlia di Samballat il Coronita. Neemia si accorse di questo e dice: “Io lo cacciai via da me”. Egli era un pronipote di quel Iesua, sommo sacerdote, a proposito del quale il profeta Zaccaria ebbe la notevole visione che è descritta al cap. 3 della sua profezia. A lui (sotto il nome di Giosuè) era stata fatta una promessa: “Se tu cammini nelle mie vie e osservi quello che ti ho comandato…”, ma non sappiamo cosa ne abbia fatto.

Da tutto ciò possiamo trarne ancora una lezione: disprezzare la volontà di Dio e non camminare più nelle sue vie è un male molto contagioso. Il capitolo inizia con Eliasib che si era alleato con Tobia l’Ammonita, e termina con suo nipote che si allea, in modo ancora più stretto, per via di matrimonio, con una figlia di Samballat, il Coronita. Costui era un nemico ancora più altolocato in quanto Tobia, (cap. 2, v. 10) è presentato come il suo servo.

L’allontanamento da Dio e dai suoi insegnamenti inizia spesso in modo impercettibile, ma può tuttavia diventare in poco tempo devastante come un torrente in piena. Che questi esempi possano darci la “sapienza che conduce alla salvezza”!

Sottolineiamo infine che se da un lato Neemia deve denunciare e correggere tre gravi trasgressioni del popolo – il che lo mette conflitto con molte persone – dall’altro supplica Dio per ben tre volte di ricordarsi di lui. Egli evidenzia le sue buone azioni, ma conta sulla bontà di Dio piuttosto che su una ricompensa. “Ricordati di me, o mio Dio, e abbi pietà di me secondo la grandezza della tua misericordia” (vv. 14, 22, 31).

A prima vista si potrebbe pensare che Neemia fosse un uomo soddisfatto di se stesso; ma riflettendo bene ci pare piuttosto che fosse ben cosciente dell’impopolarità e della disapprovazione pressoché generale che la sua azione energica in difesa della legge di Dio gli aveva procurato. “Quale dei profeti non perseguitarono i vostri padri?” dirà più tardi Stefano (Atti 7:52). Li avevano perseguitati tutti e Neemia, pur non essendo un profeta, aveva anch’egli dovuto denunciare il male e preannunciare il castigo di Dio. Tutta la missione che Neemia aveva ricevuto da Dio implicava un combattimento, non soltanto con quelli di fuori, ma anche con quelli del suo popolo. Tuttavia, se Dio si ricordava di lui per fargli del bene, tutta l’incomprensione degli uomini non gli incuteva timore!

La nostra fedeltà a Dio comporta spesso la condanna da parte del mondo, e anche da parte, purtroppo, dei credenti mondani. Teniamo presente gli insegnamenti che ci vengono da questi racconti e imitiamo il bene. Se ubbidiamo al Signore, se siamo fedeli testimoni di Cristo nel mondo, pur essendo separati dai suoi valori e dalla sua morale, allora Dio è glorificato, si ricorderà di noi “per farci del bene” e ci darà la ricompensa al tribunale di Cristo.


[1] Vedere anche 2 Cronache 30:26. Lo Spirito di Dio ricollega la celebrazione delle feste, in occasione dei risvegli che ebbero luogo sotto Ezechia, Giosia e Neemia, rispettivamente ai giorni gloriosi di Salomone, Samuele, e Giosuè. Questo raffronto costituisce un grande incoraggiamento a ritornare a mettere in pratica con tutto il cuore la Parola di Dio in un tempo di rovina. Più essa è stata dimenticata, più la sua luce ritrovata produce effetti gioiosi (Red.).

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