Georges André
Introduzione
1. Il corpo di Cristo
1.1 Chi ne fa parte?
1.2 Come funziona?
2. La casa di Dio (1 Pietro 2:4-7)
2.1 Così come il Signore la costruisce
2.2 Affidata all’uomo
3. La rovina
3.1 Riconoscere la rovina e umiliarsene
3.2 Che fare?
1) Principio del «residuo»
2) Principio secondo il quale ciò che è di Dio sussiste
4. Riuniti in assemblea
4.1 La riunione di adorazione
4.2 La riunione di preghiera
4.3 La riunione di edificazione
5. Il ministerio e i doni
5.1 Qual’è il fine di questo ministerio?
5.2 Qual’è la forza di tale ministerio?
5.3 Quali doni sono affidati?
6. La Cena e la Tavola del Signore
6.1 La festa dei cristiani
6.2 Il memoriale
6.3 L’annunzio della sua morte
6.4 L’espressione dell’unità del corpo
6.5 Come partecipare alla Cena?
6.6 Chi può partecipare?
6.7 La disciplina
7. La sposa
Introduzione
«Poiché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». (Matteo 18:20)
«Chi non raccoglie con me, disperde». (Matteo 12:30)
Gesù — «non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati» (Atti 4:12). Non ve n’è neppure alcun altro per essere il centro del radunamento dei suoi riscattati (Matteo 18:20)!
Dopo aver liberato i figliuoli d’Israele dall’Egitto, Dio ha voluto radunarli e abitare in mezzo a loro nel tabernacolo (Esodo 25:8; 29:45-46). Una volta entrati nel paese (Deuteronomio 12) il popolo doveva cercare il luogo in cui l’Eterno avrebbe messo il suo Nome. Passarono secoli fino a che Gerusalemme fu conquistata e il tempio eretto sul monte Moria, dove Abrahamo aveva offerto Isacco, e Davide i sacrifici al tempo della peste. La nuvola riempì il tempio (2 Cron. 5:13) come aveva riempito il Tabernacolo (Esodo 40:34). Dopo secoli di infedeltà da parte del popolo di pazienza da parte di Dio, la nuvola lasciò il tempio (Ezechiele 10:4, 18) il quale, distrutto e ricostruito a più riprese, fu ridotto al nulla quarant’anni dopo la morte del Salvatore.
Oggi, l’abitazione di Dio sulla terra non è più in una casa fatta di mano d’uomo, ma, pel suo Spirito, Egli abita nel cuore dei suoi. Efesini 2:21 ci presenta i credenti sotto forma di un edificio in costruzione che «si va innalzando per essere un tempio santo nel Signore», edificio che sarà terminato al suo ritorno. Ma il versetto 22 ce li presenta come edificati insieme per essere attualmente un edificio «che ha da servire come dimora a Dio per mezzo dello Spirito».
Le «pecore» d’Israele erano tenute unite dal «recinto» delle leggi e degli ordinamenti: era l’epoca dell’«ovile» (Giov. 10:1). Il Signore ha fatto uscire da questo le sue pecore giudee, ma aggiunge: «Ho anche altre pecore, che non sono di quest’ovile; anche quelle devo raccogliere» (v. 16: quelle che andava a prendere tra le nazioni) «e vi sarà un solo gregge, un solo pastore».
Vediamo negli Atti come le anime furono aggiunte «alla loro comunità» (2:47), «al Signore» (5:14; tra i Giudei) e di nuovo «al Signore» (11:24; tra i Gentili) per formare «la Chiesa» (v. 26).
Lui solo è il centro del radunamento. È un Cristo conosciuto in potenza ed in grazia che deve adunare le anime intorno a Sé, e non a dottrine, per utili che siano al loro posto.
La Parola adopera altre quattro figure per rappresentare l’assemblea dei credenti:
- Il gregge il cui Pastore è il centro;
- Il corpo di cui Cristo è la Testa;
- La casa di cui Cristo è la pietra angolare;
- La Sposa di cui Cristo è lo Sposo.
Se il credente è chiamato a seguire individualmente il Signore, cammino in cui Cristo è il suo modello, è altresì desiderio del Signore di radunare intorno a Sé i suoi riscattati per essere il loro centro. Ma quanto bisogna fare attenzione a non applicare strettamente e teoricamente le verità del radunamento, vivendo poi, individualmente, una vita che disonora il Signore! Discredito gettato sul suo Nome, sulla sua testimonianza, e pietra di intoppo per coloro che vorrebbero avvicinarsi.
1. Il corpo di Cristo
«Perché mi perseguiti?», aveva detto il Signore di gloria a Saulo, atterrato sulla via di Damasco. Saulo non perseguitava veramente il Signore ma i suoi; tuttavia se la prendeva con Gesù stesso che li riconosceva come una stessa cosa con Lui. Saulo doveva essere l’apostolo per mezzo del quale Dio avrebbe rivelato il mistero nascosto da secoli: l’unione di Cristo coi suoi riscattati in un solo corpo.
1.1 Chi ne fa parte?
1 Corinzi 12:13 ci dice: «Noi tutti siamo stati battezzati in un unico Spirito per formare un unico corpo, Giudei e Greci, schiavi e liberi». Il «battesimo» dello Spirito Santo è avvenuto alla Pentecoste; quest’espressione è adoperata in relazione alla formazione del corpo di Cristo. Da allora tutti coloro che, udito l’Evangelo, hanno ad essa creduto, sono stati suggellati dallo Spirito Santo (Efesini 1:13). Tutti i credenti sono così divenuti partecipi di questo battesimo e, per lo Spirito Santo, sono uniti in un solo corpo. Lo Spirito Santo come Persona, venuto sulla terra alla Pentecoste, lascerà questo mondo con la Chiesa al ritorno del Signore (2 Tessalonicesi 2:7). Ogni credente dunque, dalla Pentecoste fino alla venuta del Signore, fa parte del corpo di Cristo» (Efesini 1:23). L’espressione è inoltre adoperata per indicare sia tutti i credenti che vivono sulla terra a un dato momento (Romani 12:5) sia coloro che vivono, a un dato momento, in una certa località (1 Corinzi 12:27).
Questa unità del corpo di Cristo esiste dunque ed è prodotta dallo Spirito Santo come risultato dell’opera alla croce del Signore Gesù. Non si tratta di formarla, ma di mantenerla (Efesini 4:3) e di mostrarla. Secondo 1 Corinzi 10:7 si può dire che non v’è altro modo di rappresentare o di esprimere pubblicamente l’unità del corpo di Cristo se non rompendo il pane.
Il corpo di Cristo è un organismo vivente e non una organizzazione di cui si fa parte a piacimento perché si aderisce ad una certa professione di fede o perché si è d’accordo su alcuni punti. Che lo si sappia o no, che lo si voglia o no, tutti i riscattati del Signore, individualmente, sono membra del corpo di Cristo in virtù di ciò che il Signore ha fatto per loro e di loro. Si tratta dunque di mettere in evidenza ciò che si è, e non di sforzarsi per diventarlo.
1.2 Come funziona?
Efesini 4:15 e 16 e Colossesi 2:19 ci fanno vedere che il corpo trae tutto dal capo, da Cristo nel cielo. È da Lui che, per l’opera di ciascuna parte nella sua misura, «tutto il corpo… trae il proprio sviluppo». Nel corpo «ben collegato e ben connesso», vi è prosperità solo se ogni «giuntura», ogni parte nella misura che le è data, compie ciò che le è stato affidato; se così non avviene non può che risultarne debolezza e confusione.
Tutto dipende dalla Testa, ma il Signore vuole servirsi delle membra del corpo per il suo funzionamento pratico sulla terra. Il corpo è uno, ma si compone di molte membra che hanno grande diversità nelle loro funzioni e nei loro doni (Romani 12; 1 Corinzi 12; Efesini 4).
Nessuno ha da scegliere il servizio che desidera «ma ora Dio ha collocato ciascun membro nel corpo, come ha voluto» (1 Corinzi 12:18); Egli vuole che i membri abbiano ugual cura gli uni per gli altri. Dei doni sono stati dati all’assemblea e così pure ogni sorta di funzioni: gli aiuti, il servizio, la distribuzione, il ministerio della misericordia.
Tre pericoli minacciano le membra del corpo.
- Primo, e più frequente, è quello di non discernere né adempiere la funzione che il Signore ha affidata. Ci si addormenta, si è indifferenti agl’interessi della Chiesa di Dio, non si è esercitati né per discernere quale dono il Signore abbia affidato né per desiderarne con ardore uno più grande (1 Corinzi 12:31). Che perdita non solo per se stessi ma per l’insieme!
- Il secondo pericolo è la gelosia (1 Corinzi 12:15 e 17): il servizio che mi è accordato è così poco importante! Vorrei quello di un altro, più in evidenza…
- Il terzo pericolo è quello di essere tanto imbevuti della funzione ricevuta da disprezzare i deboli (1 Corinzi 12:21 a 23): il mio dono solo è importante e non ho più bisogno degli altri. E questo è un pericolo più frequente di quanto potrebbe sembrare. Dimenticheremo forse la esortazione di 1 Corinzi 4:7: «Che cosa possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché ti vanti come se tu non l’avessi ricevuto?».
Ma questi pericoli non devono farci perdere di vista la bellezza di questo organismo unico che il Signore e la fede considerano reale oggi come ai primi giorni della Chiesa sulla terra. «Vi è un corpo solo». La fede non ne dubita, anzi abbraccia in questo medesimo organismo tutti i riscattati del Signore, di ogni paese, di ogni condizione, di ogni appartenenza umana, anche se nascondono il loro vero carattere.
Perché lo Spirito di Dio ha voluto porre tra 1 Corinzi 12, che ci parla del corpo e delle sue membra, e 1 Corinzi 14 che ce ne mostra il funzionamento pratico nell’assemblea, il cap. 13? È perché nulla può prosperare senza l’amore. È il quadro di Efesini 4:15-16: «Seguendo la verità nell’amore… per edificare sé stesso nell’amore». Non l’amore che si pretende dagli altri, né quello che ci si lamenta di non trovare nel nostro radunamento, ma l’amore del Signore di cui si è compenetrati e che ci spinge ad amare «perché egli ci ha amati per primo». Amore senza il quale io sono come «un rame risonante o uno squillante cembalo…», io non sono nulla. Amore che è la cosa più grande del mondo e che «non verrà mai meno».
2. La casa di Dio (1 Pietro 2:4-7)
La Parola ci insegna, inoltre, che i credenti formano la casa di Dio quaggiù.
Gli assi del tabernacolo ce ne danno una figura: ogni tavola era stata presa da un albero che cresceva sulla terra, lavorata, ricoperta d’oro, innalzata sulla base d’argento. Così pure il riscattato, tratto da questo mondo, è rivestito della giustizia di Dio in Cristo e fondato sulla redenzione. Ma un asse solo non avrebbe potuto stare diritto; bisognava unirli in un tutto unico per formare il tabernacolo, che diventava la casa di Dio.
Così era stato delle pietre del tempio di Salomone. Tratte dalla cava, tagliate alle dimensioni volute, erano poi portate all’edificio che progressivamente si innalzava.
E oggi ci è detto: «Anche voi, come pietre viventi, siete edificati per formare una casa spirituale». Questa è una «dimora di Dio per mezzo dello Spirito», a un dato momento sulla terra, come pure «un tempio santo nel Signore» che va crescendo fino a che sia terminato e che il Signore lo prenda con sé (Efesini 2:21-22).
Sotto questo aspetto, la casa di Dio è:
2.1 Così come il Signore la costruisce
È detto in Matteo 16: «Io edificherò la mia chiesa». Lui voleva costruirla; ma questo edificio era ancora futuro. In Atti 2 noi lo vediamo, per la prima volta, venire all’esistenza. Lui stesso ne è la rocca del fondamento, la pietra angolare. Col passar del tempo Egli aggiunge le pietre viventi, le une dopo le altre, finché, terminato il suo lavoro, la Chiesa diventi la santa città che vediamo brillare alla fine dell’Apocalisse.
Ma la costruzione di quest’edificio è stata, sotto un altro aspetto,
2.2 Affidata all’uomo
1 Corinzi 3:9-17 ce ne dà il quadro: Il fondamento è stato posto: Gesù Cristo. Gli apostoli e poi i servitori attraverso le età, hanno edificato sul fondamento. Ma non tutti vi hanno portato «oro, argento, pietre di valore», insegnamenti secondo la Parola che «producono» anime aventi la vita di Dio, rivestite della giustizia di Dio in Cristo, fondate sulla redenzione, e che riflettono qualcuna delle glorie di Gesù. Altri, con cattivi insegnamenti, non hanno prodotto che «legno, fieno, paglia»: molta apparenza, un grande volume (al contrario di una pietra preziosa!), ma nessuna realtà. Quando il fuoco mette alla prova una tale opera, questa è consumata, anche se il servitore — se veramente possiede la vita di Dio — è salvato come attraverso il fuoco. Altri, infine, non solo hanno portato cattivi materiali, ma hanno corrotto il tempio di Dio e «Dio li guasterà» (v. 17).
In un tale edificio, la cristianità, v’è dunque un insieme di persone che hanno la vita di Dio, altri che hanno forse una vita morale e ordinata ma non sono nati di nuovo, altri ancora che sono veramente corrotti. La casa di Dio diventa come una «grande casa», secondo quel che vediamo in 2 Timoteo 2.
Il «corpo di Cristo» ci ha dato il concetto predominante dell’indissolubile unione, dell’unità dei riscattati; la casa di Dio pone l’accento sulla responsabilità di coloro che la edificano e di coloro che pretendono di farne parte.
3. La rovina
3.1 Riconoscere la rovina e umiliarsene
Perché questa casa, così ben fondata e così bene edificata al principio, è stata guastata a tal punto da presentare la confusione attuale? Un nemico ha fatto questo, «mentre gli uomini dormivano» (Matteo 13:24-29).
Il Signore l’aveva anticipatamente annunziato nelle parabole di Matteo 13. Quella della zizzania ci parla della mescolanza dei figli del regno con quelli del maligno. Il granello di senape dallo sviluppo contro natura che diventa un grande albero che ospita il male nei suoi rami. Quella del lievito ci fa vedere come le tre misure di farina — perfezione e purezza della persona del Signore Gesù e di tutto ciò che si riferisce a Lui — sono state contaminate in modo che tutta la pasta ne è rimasta impregnata. 1 Corinzi 5:6 ci mostra il pericolo del lievito come male morale nella condotta di coloro che sono «chiamati fratelli»; Galati 5:9 applica la medesima espressione agli insegnamenti erronei che fanno scadere le anime dalla grazia.
Anche gli apostoli avevano predetto questa rovina. Paolo parla agli anziani di Efeso di «lupi» che sarebbero entrati in mezzo a loro e non avrebbero risparmiato il gregge; uomini sorti in mezzo a loro insegnando «cose perverse per trascinarsi dietro i discepoli».
Molte epistole, come la seconda a Timoteo, la seconda di Pietro, quella di Giuda e di Giovanni, ci mettono davanti il quadro di questo male, che va ingrandendosi. E le lettere alle sette chiese, in Apocalisse 2 e 3, ci mostrano come, dopo aver abbandonato il primo amore, la Chiesa si sia sempre più allontanata dal Signore per giungere allo stato di Laodicea dove Egli non ha neanche più il suo posto (Apoc. 3:20).
Questa rovina è anche visibile intorno a noi; in molti ambienti l’incredulità e il razionalismo hanno fatto delle distruzioni. In altri, il ministerio dell’uomo e la gerarchia; un po’ dappertutto, il formalismo e le divisioni.
È inutile voler negare questa rovina. Bisogna riconoscerla, umiliarsene ed accettarne le conseguenze. Credere di poter «ricominciare» vorrebbe dire esporsi a una nuova rovina, poiché l’uomo rimane uomo, nonostante tutto ciò che la grazia gli ha portato.
Non dobbiamo dunque attendere la restaurazione della Chiesa come testimonianza sulla terra. Dio non ripara mai ciò che l’uomo ha guastato. Ma possiamo comunque essere sicuri che ciò che Cristo ha fatto rimane: «Le porte dell’Ades non la potranno vincere».
Bisogna dunque distinguere ciò che è rovinato, ed è la casa di Dio affidata alla responsabilità dell’uomo, da ciò che rimane, ed è il corpo di Cristo, la sua Sposa, la promessa della presenza del Signore in mezzo ai due o tre radunati nel suo nome.
3.2 Che fare?
Bisogna rimanere isolati? È un pensiero che ha dell’attrattiva per alcuni. J. N. Darby scriveva una volta: È più facile camminare da soli che prendere la propria parte delle tristezze della Chiesa di Dio sulla terra! Ma il desiderio del Signore è quello di radunare i suoi.
È con dolore che Gesù dice loro in Giovanni 16:32: «Sarete dispersi, ciascuno per conto suo». Ma con quale gioia, alla sera della risurrezione, Egli viene in mezzo ai suoi e mostra loro le sue mani e il suo costato! «I discepoli dunque, veduto il Signore, si rallegrarono».
Ezechiele 43:10 ci dà un insegnamento pratico, applicabile alla situazione attuale: «Mostra questa casa alla casa d’Israele e si vergognino delle loro iniquità». Il Signore pone davanti a noi ciò che Egli ha fatto: la casa di Dio come Lui l’ha costruita. «Se si vergognano di tutto quello che hanno fatto, fa’ loro conoscere la forma di questa casa, la sua disposizione, le sue uscite e i suoi ingressi, tutti i suoi disegni».
Se i nostri cuori sono umiliati e rattristati nel vedere ciò che noi abbiamo fatto — poiché siamo tutti responsabili — di quello che il Signore ci aveva affidato, se siamo veramente confusi, il Signore ci mostrerà una via d’uscita.
Oggi come sempre, ci chiama ad uscire verso di Lui, fuori del campo, ed a farlo come membra del suo corpo. Per capire la posizione che possono prendere oggi i riscattati del Signore che desiderano, nonostante tutto, riunirsi intorno a Lui, bisogna considerare due principi fondamentali che chiameremo:
- il principio del «residuo»;
- il principio secondo il quale ciò che è di Dio sussiste.
1) Principio del «residuo»
Quando Israele fece il vitello d’oro, la giustizia di Dio avrebbe dovuto distruggere il popolo. Tuttavia Egli rispose all’intercessione di Mosé e lo risparmiò. Questi prese una tenda, la piantò fuori del campo e la chiamò tenda di convegno; così tutti coloro che cercavano l’Eterno uscivano e andavano alla tenda di convegno che era fuori del campo. Il popolo, nel suo insieme, non usciva; tutti seguivano con gli occhi Mosé, dall’ingresso della loro tenda, quando andava alla tenda del convegno (Esodo 33:8). Ma alcuni uscivano effettivamente fuori del campo (v. 7); un residuo che era attaccato al suo Dio.
In Ezechiele 9 vediamo l’uomo vestito di fino lino fare un segno sulla fronte di coloro che sospiravano e gemevano a causa delle abominazioni che si commettevano in Gerusalemme. La massa doveva essere colpita dal giudizio, ma un residuo che temeva l’Eterno sarebbe stato risparmiato.
In Malachia 3:16 ritroviamo lo stesso principio. Un secolo era trascorso dal ritorno dalla cattività. Di tutti coloro che un giorno avevano acclamato con gioia la fondazione del tempio, non rimanevano, in mezzo a una massa che si era sviata, che alcuni pochi che temevano l’Eterno e parlavano l’un altro. Un residuo che rispettava il Suo nome e per il quale un libro di memorie è stato scritto.
È il medesimo principio che troviamo in 2 Timoteo 2:17-22. Molti disputavano sénza alcun profitto e per la sovversione degli ascoltatori; erano fatti «chiacchiere profane». Coloro che si davano ad essi progredivano nell’empietà, le loro parole andavano rodendo come una gangrena. Sono poi rivelati casi specifici di falsi insegnamenti, come quelli di Imeneo e Fileto; alcuni li ascoltavano e la loro fede era sviata. Grande è la responsabilità di coloro che insegnano cose false e anche di coloro che li ascoltano. Che fare in una tale situazione?
Ciò che Dio ha stabilito sussiste, come vedremo fra breve, e «il Signore conosce quelli che sono suoi». Duplice è allora la responsabilità di coloro che si attaccano a Lui: «ritrarsi dall’iniquità», cioè da tutto ciò che l’uomo ha stabilito e che non è conforme alla Parola di Dio, e «conservarsi puro» dai vasi che sono a disonore.
Per analogia, in 1 Corinzi 3 si potrebbe vedere, nei vasi d’oro e d’argento, i riscattati che hanno la vita di Dio e sono fondati sulla redenzione, e nei vasi di legno e di terra, materiali che non sopportano il fuoco, coloro che non hanno la vita.
Si potrebbe inoltre, secondo il contesto dei versetti precedenti, in 2 Timoteo 2 intendere per «vasi a disonore» (o «vasi destinati a un uso ignobile») quelli che insegnano false dottrine e quelli che li ascoltano. Infine, non si tratta solo di realtà interiore della vita divina, che a volte solo il Signore discerne (v. 19), ma anche di testimonianza resa (v. 22).
Ma il rimanere soli non è secondo Dio: «Ricerca — dice l’apostolo — la giustizia, la fede, l’amore, la pace con quelli che invocano il Signore con un cuore puro». Così si forma un residuo secondo i medesimi principi dell’Antico Testamento, per attaccarsi al Signore e non pronunciare il suo nome invano.
Ma se bisogna, secondo Ebrei 13, uscire fuori dall’accampamento, la Parola sottolinea che è verso Lui che dobbiamo dirigerci: Cristo come centro del radunamento rimane, oggi ancora, come ai primi tempi della Chiesa; è il medesimo Nome che raduna.
2) Principio secondo il quale ciò che è di Dio sussiste
Abbiamo visto che se la casa di Dio affidata alla responsabilità dell’uomo è stata guastata, lo stesso non è del «corpo di Cristo» che comprende tutti i riscattati e che, agli occhi del Signore e della fede, sussiste oggi come ai primi giorni della Chiesa. Se si è riuniti realizzando il principio del residuo, bisogna dunque che questo avvenga come membra del corpo di Cristo e non per formare una congregazione basata sull’accordo dei membri tra di loro. È perché il Signore Gesù ci ha riuniti insieme che abbiamo il diritto e il dovere di radunarci come membra del suo corpo; non vi è altra base del radunamento. Non si tratta di creare qualche cosa ma di «dare espressione a ciò che è». In tale radunamento si sarà sottomessi al Signore che solo, «Testa» del corpo e «Capo» della Chiesa, conferisce i doni e chiama i suoi servitori. Non vi sarà consacrazione ufficiale né gerarchia umana. Si sarà sottomessi alla Parola, a tutta la Parola, evitando attentamente le vedute particolari. Lo Spirito Santo, e non un clero, sarà quello che dirigerà l’azione nei radunamenti.
Nella pratica è un problema difficile e sovente doloroso fare la sintesi di questi due principi. L’applicazione separata del primo principio conduce ad una posizione settaria. Affidarsi unicamente al principio che ciò che è di Dio sussiste si sarebbe spinti ad unirsi con tutti i credenti, senza discernimento.
Di fatto, il corpo di Cristo include tutti i riscattati e ci si può radunare solo perché si è membra di questo corpo e non perché si è d’accordo su certe idee o su certi punti comuni. Dopo essere usciti verso Lui «fuori dall’accampamento», ci si raduna perch’Egli ci ha messi insieme.
Un tale radunamento esprime l’unità del corpo con la rottura del pane secondo 1 Corinzi 10:17; esclude ogni organizzazione umana o congregazione su un’altra base; include tutti i credenti in quanto membra del corpo; riceve tutti coloro che sono membra del corpo di Cristo e vogliono riunirsi intorno al Signore Gesù come tali, che apportano la dottrina di Cristo non contaminata da false dottrine, che non sono associati a chi le mantiene, e che camminano nel timore di Dio.
Frequentare un altro radunamento stabilito su un diverso fondamento e, più ancora, rompere là il pane, significa misconoscere il fondamento stesso del radunamento secondo l’unità del corpo e riconoscere in pratica delle congregazioni fondate su altri principi.
Tutto ciò non infirma le relazioni individuali dei figliuoli di Dio tra di loro, secondo l’unità della famiglia di Dio, figliuoli che hanno tutti il medesimo Padre, la medesima vita; questa unità di principio sussiste pienamente e la comunione fraterna che ne dipende è a volte realizzata, anche assai vivamente, da figliuoli di Dio ecclesiasticamente separati.
Mai dobbiamo comportarci verso i veri figliuoli di Dio che camminano nel Suo timore — anche se non ci possiamo riunire intorno al Signore a causa della posizione che essi prendono — come ci comportiamo verso le persone del mondo; un incredulo è quello che la Parola chiama «un figlio del diavolo», «estraneo alla vita di Dio» (1 Giov. 3:10; Efesini 4:18), e con lui non possiamo in alcun modo metterci sotto un giogo «che non è per voi», dice l’apostolo.
Sappiamo come, in pratica, specialmente dopo una o due generazioni, il nemico sia purtroppo riuscito ad oscurare e a guastare la testimonianza resa a queste verità; ma non è una ragione per abbandonarle. Accettare la rovina e le sue conseguenze, essere certi che ciò che è di Dio sussiste, realizzare umilmente tutto ciò che si può avere per la grazia essendo coscienti e rattristati di ciò che manca, contare sulla promessa del Signore Gesù, di essere presente dove due o tre sono riuniti nel Suo nome — tutto questo può essere nostra parte, e possiamo esserne convinti, ma vegliamo attentamente a non elevare alcuna pretesa fuor di luogo, che non può che condurci al giudizio di Colui che solo ha il diritto di dire: «Io conosco le tue opere».
Se per la grazia di Dio già ci troviamo in un tale radunamento, quanto bisogna apprezzarlo: nonostante le debolezze e le incoerenze che possono farsi strada! Si avrà a cuore, nella dipendenza del Signore e sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo, di essere ognuno uno strumento di benedizione che apporti il bene, che aiuti, edifichi, incoraggi (Romani 14:19), un vaso atto al servizio del Padrone, preparato per ogni opera buona (2 Timoteo 2:21).
Attenersi al Capo (Colossesi 2:19), cioè a Cristo, è il mezzo per essere preservati dallo scoraggiamento e dall’orgoglio.
4. Riuniti in assemblea
La Parola prevede delle occasioni nelle quali l’assemblea è riunita alla presenza del Signore avendo fede nella sua promessa di essere fra i due o tre che si radunano nel suo Nome.
Queste riunioni hanno quattro caratteri:
- per offrire: è l’adorazione;
- per domandare: è la preghiera;
- per ricevere: è l’edificazione;
- per umiliarsi.
Altri incontri occasionali o limitati non hanno questo carattere di riunione d’assemblea, come la scuola domenicale o gli incontri per i giovani. Altri incontri, secondo le circostanze, potranno o no avere il carattere di riunioni d’assemblea (Atti 11:26; 14:27 e 15:7-12).
4.1 La riunione di adorazione
Possiamo leggere Giovanni 4:23-24; 1 Pietro 2:5; Ebrei 13:13-16; Filippesi 3:3.
L’adorazione è il servizio più elevato del cristiano sulla terra; essa risponde al desiderio del Padre che, come diceva il Signore Gesù alla donna samaritana (Giovanni 4:23-24), cercava degli adoratori che l’adorassero «in spirito e verità». Il Signore stesso ha intonato la lode, il giorno della risurrezione (Salmo 22:22). È per lo Spirito di Dio soltanto che possiamo offrire le nostre lodi (Filippesi 3:3) (*).
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(*) L’espressione «offrire culto» di Filippesi 3:3 non allude, tuttavia, solo all’adorazione, ma implica tutto il «culto» che il cristiano offre a Dio, rappresentato, oltre che dal «sacrificio di lode» (Ebrei 13:15), anche dal «sacrificio» di se stesso (Romani 12:1, vale a dire una totale consacrazione à Dio) e dal «sacrificio» dei suoi beni (Ebrei 13:16), in pratica, tutta la sua vita di uomo nuovo, rigenerato, vissuta per Dio sotto l’impulso, la guida, la potenza dello Spirito Santo (nota del traduttore).
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L’oggetto dell’adorazione è il Padre e il Figlio. L’adorazione non si rivolge allo Spirito Santo che ne è la potenza.
Il soggetto dell’adorazione non è soltanto la riconoscenza che noi proviamo verso Dio e verso il Signore Gesù per ciò che è stato fatto per noi, specialmente alla croce, ma si eleva per adorare ciò che Dio è in sé stesso, ciò che ha fatto di Cristo, per mezzo di Lui e per Lui. Si celebrerà ciò che il Signore Gesù è in se stesso, la sua devozione a Dio, la sua opera per noi; si adorerà l’eterno amore del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre.
I sacrifici del levitico ci aiutano a penetrare meglio nei diversi aspetti dell’adorazione in rapporto con l’opera della croce.
In cosa consiste la riunione di adorazione?
«Dio è Spirito; e quelli che l’adorano, bisogna che l’adorino in spirito e verità». Pietro ci parla di «sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pietro 2:5). Ebrei 13:15 parla di «un sacrificio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome».
Nella Parola, soltanto li riscattati cantano. Troviamo il primo cantico quando Israele, liberato dall’Egitto e ormai al di là del Mar Rosso, intona la lode a Colui che lo ha riscattato.
Certi cantici o strofe parlano di Dio o di Cristo; altri si rivolgono al Padre o al Figlio, direttamente.
Nella riunione di adorazione, un fratello esprimerà delle «azioni di grazie» come bocca dell’assemblea; se è veramente un fratello spirituale, lo Spirito lo condurrà ad esprimere i sentimenti di tutti, e rimarrà nella linea di pensiero che altre lodi e i cantici cantati, sotto la direzione dello Spirito, hanno impresso in quel giorno alla riunione di adorazione.
Ma dei momenti di silenzio possono anche far parte dell’adorazione: «A te, o Dio, nel raccoglimento (o nel silenzio), sale la lode in Sion» (Salmo 65:1 versioni Luzzi e Darby francese). Quando Maria ruppe il suo vaso, non disse nulla, ma «la casa fu piena del profumo dell’olio» (Giovanni 12).
Una lettura appropriata di qualche versetto della Parola potrà stimolare, orientare la lode e aiutare ad esprimerla meglio. Il «ministerio» della Parola propriamente detto non ha posto in una riunione destinata alla lode. Ma alla fine dell’ora consacrata all’adorazione può esercitarsi in modo utile e proficuo, in rapporto coi pensieri che lo Spirito ha messo nei cuori e nelle bocche.
La carità, che fa parte del culto nel senso più generale (*), è associata all’adorazione, secondo Ebrei 13:16: «È di tali sacrifici che Dio si compiace»; questo ci ricorda Deuteronomio 26:12-13, dove i bisogni dei servitori di Dio, come anche quelli degli orfani, della vedova e dello straniero sono posti davanti al cuore dell’Israelita che veniva a offrire il paniere delle primizie.
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(*) Vedere la nota precedente.
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Più ancora che parole, cantici e preghiere, l’atto stesso della cena esprimerà la riconoscenza e l’adorazione. Essa è il centro nello svolgimento della riunione, il suo punto culminante, quantunque si possa concepire una riunione di adorazione senza la cena.
Quando la riunione si svolge sotto la direzione dello Spirito, e l’adorazione è veramente offerta per mezzo dello Spirito, c’è armonia di pensiero e, come già si è accennato, si può stabilire una certa linea di pensiero, un certo indirizzo di lode: verso il Padre, per il suo amore, o verso l’Agnello, per il suo sacrificio; si ricorderà come è stato aperto il santuario (Ebrei 10:19-20) o si celebrerà l’abbassamento e l’elevazione di Colui «che riempie ogni cosa».
Non si partecipa all’adorazione in comune per ricevere una benedizione o per trovarvi il perdono dei propri peccati; anzi, è perché queste cose già si sono ricevute che si esprime a Dio la riconoscenza. Non si può offrire a Dio una vera adorazione se non si ha la pace con Lui, se non si entra nel santuario «con piena certezza di fede» (Ebrei 10:22).
Tutti i credenti sono «sacerdoti». Quando ci si trova insieme, è bene che la lode, sotto forma di cantici o di preghiere, sia espressa da diversi fratelli e non riservata a due o tre soltanto. Se abbiamo il sentimento profondo dell’insufficienza delle nostre lodi, ricordiamoci che esse sono offerte a Dio «per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pietro 2:5), il nostro grande Sommo Sacerdote (Ebrei 10:21). Grazie a lui le nostre lodi sono gradite (cfr. Esodo 28:36-38).
Non c’è sulla terra ora più preziosa di quella trascorsa insieme nell’adorazione di Dio e nella commemorazione della morte di Cristo; si risponde al desiderio del Padre che cerca adoratori che l’adorino in ispirito; si risponde al desiderio del Signore che dice: «Fate questo in memoria di me». Di Maria, che aveva cosparso i piedi del Signore di profumo di gran prezzo, Gesù ha detto: «Ha fatto un’azione buona verso di me» (Marco 14:6).
4.2 La riunione di preghiera
«Se due di voi sulla terra si accordano a domandare una cosa qualsiasi, quella sarà loro concessa dal Padre mio che è nei cieli» (Matteo 18:19).
Questa promessa precede l’assicurazione che il Signore dà ai suoi di essere presente fra i due o tre radunati nel suo nome. Si comprende, quindi, quanto sia importante questa riunione e il frequentarla.
Quelli che pregano «s’accordano» nel domandare. Non è un accordo raggiunto in precedenza (*): non si sono messi d’accordo. È lo Spirito Santo che produce in loro quest’accordo al quale il fratello che pronuncia la preghiera non fa che dare espressione. Come sono inique le preghiere che esprimono disaccordo fra i fratelli! Dio giudicherà (Giacomo 5:9).
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(*) È d’altra parte normale che se un fratello conosce, od ha a cuore, un particolare soggetto, questo venga portato a conoscenza degli altri fratelli, che «si accordano» per presentarlo al Signore nella riunione di preghiera che seguirà (nota del traduttore).
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Come l’adorazione, anche la preghiera dev’essere fatta per lo Spirito Santo (Giuda 20). Le preghiere devono essere brevi; il fratello che prega avrà il discernimento di evitare una lunga enumerazione di soggetti che finisce per togliere gli argomenti a quelli che, dopo di lui, vorrebbero pregare. La preghiera in assemblea, inoltre, non è fatta per esporre a Dio delle verità, anche se capiterà di far menzione, nel corso della preghiera, di quelle promesse e di quegli insegnamenti della Parola che sono il fondamento dei bisogni esposti. Non sono nemmeno le circostanze e i problemi personali a dover essere presentati, a meno che siano sentiti da tutta l’assemblea. Si presenteranno a Dio i bisogni dell’assemblea e dei credenti che la compongono; si pregherà per l’opera del Signore, per le anime perdute, per tutti i problemi e le necessità che l’assemblea come tale sente di dover mettere davanti al Signore per la bocca di quelli che pronunciano la preghiera.
Più che in ogni altra riunione, tutti i fratelli sono chiamati a pregare; è quivi presente una particolare responsabilità da parte dei giovani, che saranno sicuramente incoraggiati dagli anziani se ce l’hanno a cuore, nella dipendenza del Signore, con tatto e misura, di prendere parte all’incontro attivamente.
Infine, aggiungiamo che tutti, fratelli e sorelle, non solamente possono, ma devono, dire “amen”, a meno che la preghiera sia inintelligibile (1 Cor. 14:16) o sia proprio fuori dal contesto. L’amen non deve essere solo pensato, ma detto.
Per esprimersi durante la riunione di preghiera, bisogna aver preso l’abitudine di pregare con altri: tra amici, in famiglia, in occasione di visite. Non c’è niente di meglio dell’avvicinarsi al Signore nella preghiera per cementare,rafforzare un’amicizia in Cristo. Che non si abbia timore di esercitarci già dalla nostra giovinezza.
La distrazione
È un’arma potente nelle mani del diavolo per farci perdere il beneficio di una riunione di adorazione o di preghiera. Per evitare la distrazione, provocata, di solito, dalle nostre occupazioni della settimana, prendiamo l’abitudine, come faceva Nehemia, di chiudere le porte, quelle della nostra mente, a tutte le altre cose, non appena cade «l’ombra» del sabato, alla vigilia del giorno del Signore, per riaprirle soltanto al lunedì, quando questo giorno è passato. Se si conterà su lui, con preghiera, egli ci darà l’energia per farlo (Nehemia 13:19-21).
Specialmente prima della riunione di adorazione, è importante, per ciò che concerne le nostre preoccupazioni e i nostri problemi, imparare a esporre le nostre richieste a Dio «in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori — dice l’apostolo — e i vostri pensieri in Cristo Gesù» (Filippesi 4:7). Promessa preziosa di cui possiamo appropriarci, mettendo in pratica l’esortazione.
Una volta riuniti intorno al Signore, concentriamo i nostri pensieri e le nostre anime su di Lui e non su ciò che ci circonda. Si può, con lo spirito, uscire dal locale prima della fine della riunione, anche se fisicamente si rimane seduti al proprio posto!
4.3 La riunione di edificazione
1 Corinzi 14 ce la descrive. L’assemblea è riunita e, per mezzo dell’uno o dell’altro, il Signore dà «un salmo, o un insegnamento, o una rivelazione». Non si tratta solo dell’esercizio dei doni, ma «tutti potete profetare a uno a uno», non nello stesso incontro, ovviamente, perché la norma è «due o tre» (I «due o tre» di 1 Corinzi 14:29 non è limitativo come al v. 27 per il parlare in «lingue», dove dovevano essere «due o tre al più» a farlo). Nell’arco di un certo tempo, ognuno può essere lo strumento di cui il Signore si serve per edificare i credenti.
Tutto dev’essere fatto «per l’edificazione»: lettura pubblica della Parola (1 Timoteo 4:13), esortazione e consolazione che ne vengono tratte. Anche i cantici possono «edificare» (Colossesi 3:16), come pure le preghiere (1 Corinzi 14:17).
Se si vuole trovare benedizione in una tale riunione bisogna andarvi col pensiero di trovarvi il Signore in persona e avendo fiducia nell’opera dello Spirito nel radunamento dei santi. Bisogna che tutti i fratelli siano esercitati quanto al prendere parte attiva; non ci si dovrà affidare all’azione di uno o due che hanno dei doni particolari, o di qualcuno che si trova di passaggio. Ma come si potrà portare ad altri qualcosa di cui non si è stati nutriti in precedenza? Come si potrà dipendere dal Signore, quando si è nel locale delle riunioni, se non si è camminato giornalmente nella sua comunione e seguendo le sue orme?
Dobbiamo anche ricordarci che colui che parla lo fa come oracolo di Dio (1 Pietro 4:11). Solenne responsabilità per lui ma anche per quelli che lo ascoltano!
«Non spegnete lo Spirito», scrive Paolo ai Tessalonicesi (1 Tessalonicesi 5:19). Lo si può fare parlando a sproposito e fuori posto, ed anche astenendosi dal parlare quando lo Spirito invita a farlo. Inoltre, le critiche — fin troppo frequenti — di chi ascolta e lo spirito denigratore sono l’ostacolo più grande alla libera azione dello Spirito nel radunamento. Anche un’osservazione fatta senza il tatto necessario, o senza amore, può spegnere lo Spirito.
È ovvio che i «doni» particolari che il Signore ha dato si eserciteranno liberamente nelle riunioni di assemblea, però non con esclusiva.
5. Il ministerio e i doni
Leggere: 1 Corinzi 12; Efesini 4:7-16; Romani 12:4-8; 1 Pietro 4:10-11.
Da tutti questi passi emerge un principio fondamentale: è il Signore che dà. In Efesini, Cristo «ha dato»; in Corinzi, Dio ha «posto nella chiesa»; in Romani, come in 1 Pietro, vi sono doni differenti.
Non è per la scelta degli uomini, fosse anche di un fratello eminente o di un gruppo di fratelli, o di una assemblea, che qualcuno è chiamato al ministerio della Parola o ad una funzione qualunque, ma è Dio che conferisce i doni come «ha voluto», come gli piace. Non vi è dunque né investitura, né consacrazione, né successione; l’assemblea darà l’accordo a colui che è stato così dotato; riconoscerà ciò che Dio ha fatto, ma non conferirà nulla.
5.1 Qual’è il fine di questo ministerio?
Efesini 4:12-16 ce ne dà la risposta:
- «Per il perfezionamento dei santi in vista dell’opera del ministero e dell’edificazione del corpo di Cristo» (v. 12). Lo scopo del ministerio è dunque, prima di tutto, l’edificazione, la costruzione di questo edificio che il Signore ha affidato ai suoi: l’evangelista, nell’opera del servizio che gli è assegnato, condurrà, per la grazia del Signore, delle anime di questo mondo fino al radunamento; come il samaritano che trova il ferito sul ciglio della strada: si china, mosso a compassione, su di lui, lo medica, lo carica sul suo asino e lo conduce all’albergo. Là, lo affida alle cure dell’albergatore, figura dello Spirito Santo che agisce per mezzo dei doni dei «profeti», dei «pastori» e dei «dottori» nell’assemblea, per il perfezionamento e l’edificazione.
- «Fino a che tutti giungiamo all’unità della fede e della piena conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomini fatti» (v. 13). Si tratta di crescere. Un piccolo fanciullo in Cristo, che è da poco «nato di nuovo», possiede già in sé tutto ciò che avrà per sempre; ma non conosce né la posizione, né l’eredità. Lo scopo del ministerio è appunto di farlo crescere, affinché egli, e tutti gli altri come lui, pervengano allo stato di uomini fatti, di credenti che hanno veramente afferrato la loro posizione in Cristo, ne hanno la certezza e ne godono («Voi in Me, e Io in voi»).
- «Affinché non siamo più come bambini sballottati e portati qua e là da ogni vento di dottrina» (v. 14). Colui che non è confermato nella verità e non ha appreso a discernere il bene dal male è facilmente sviato da diverse influenze. Perciò, da un lato c’è la necessità del ministerio, per confermare nella verità, e, d’altro lato, il pericolo di leggere o ascoltare insegnamenti di cui non si è sufficientemente sicuri che siano secondo il pensiero del Signore. Quanto facilmente dottrine estranee penetrano e fanno il loro cammino nello spirito, finendo per sviare chi non ha vegliato come avrebbe dovuto.
- «Ma, seguendo la verità nell’amore, cresciamo in ogni cosa verso colui che è il capo, cioè Cristo» (v. 15). Ecco il fine supremo del ministerio: «crescere verso Lui»; «allo scopo di conoscere Cristo», diceva l’apostolo. Al di sopra del nutrimento e dell’edificazione, al di sopra dell’essere confermati nella verità, al di sopra della conoscenza, v’è la persona del Signore. Non si può crescere sino a Lui se non essendo sinceri nell’amore, amore per Lui e per i suoi.
5.2 Qual’è la forza di tale ministerio?
1 Corinzi 13, così notevolmente posto tra il cap. 12 e il cap. 14; ce ne mostra il segreto: l’amore. Il più bel dono senza l’amore non è che un cembalo tintinnante; non è nulla, non serve a nulla. L’altra motivazione è la gloria di Dio, secondo 1 Pietro 4:11: «Affinché in ogni cosa sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo». La ricerca di sé stesso, la ricerca di notorietà, la vanità, possono rendere sterile un dono per altro eminente; a meno che, giudicando queste cose, non si ritorni alla sorgente.
5.3 Quali doni sono affidati?
Efesini 4 ci dice che «a ciascuno di noi la grazia è stata data secondo la misura del dono di Cristo». E 1 Corinzi 12:7 precisa: «A ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per il bene comune». Ne deriva che ogni membro del corpo ha ricevuto qualche cosa da parte del Signore da fare valere «a servizio degli altri» (1 Pietro 4), «per il bene comune». Una grazia ricevuta implica la responsabilità di rispondere a questa grazia, rimanendo coscienti che nulla è da noi: «Che cosa possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché ti vanti come se tu non l’avessi ricevuto?» (1 Corinzi 4:7).
Ma vi sono dei doni specifici fondamentali, che non sono affidati a tutti, conferiti dal Signore per il bene dell’assemblea:
- Gli apostoli ed i profeti (1 Corinzi 12:28; Efesini 4:11) che hanno posto il fondamento (Efesini 2:20). Non vi è stata successione apostolica; nulla nella Parola lo dimostra; ma gli apostoli agiscono tuttora per mezzo degli scritti ispirati che ci sono pervenuti nelle Sacre Scritture.
- Gli evangelisti, i pastori, i dottori, continuano, ancora oggi, ad esercitare il loro ministerio. L’evangelista per condurre le anime; i pastori e i dottori — e anche i profeti che secondo 1 Corinzi 14:3 parlano per l’edificazione, l’esortazione, la consolazione — per edificare i santi, parlare al loro cuore, alla loro coscienza, alla loro intelligenza.
Anche questi servitori ci hanno lasciato un ministerio scritto, che non è in alcun modo da porre sul medesimo piano della Parola ispirata, ma che pure è utile per coloro che hanno a cuore di crescere nelle cose di Dio.
Sono poi menzionati doni miracolosi: miracoli, lingue, dono di guarigione; il loro fine essenziale, nei primi tempi, era di accreditare il cristianesimo, secondo Marco 16:20: «Il Signore operava con loro confermando la Parola con i segni che l’accompagnavano». Tali doni possono ancora trovarsi in certi paesi pagani in cui l’Evangelo, ai suoi inizi, ha bisogno di essere «confermato».
Vi sono anche altri doni, che non hanno la medesima importanza di quelli fondamentali: la parola di sapienza, la parola di conoscenza, la fede, il discernimento, secondo 1 Corinzi 12:8 e 10. Non dimentichiamo (Romani 12:8) colui che esorta, colui che distribuisce, colui che presiede, colui o colei che fanno opere di misericordia.
Una falsa umiltà può far pensare che non bisogna ricercare i doni. Ma la Parola è chiara: «Desiderate ardentemente l’amore, non tralasciando però di ricercare i doni spirituali» (1 Corinzi 14:1) e: «desiderate ardentemente i carismi (o doni) maggiori» (1 Corinzi 12:31). È dunque buono e secondo Dio farne un soggetto di preghiera, e nella dipendenza del Signore essere spinti a discernere ciò che Egli ci può confidare.
Si è potuto anche ricevere qualche dono e averlo lasciato indebolire e quasi spegnere per mancanza d’uso; di qui l’esortazione a Timoteo: «Ti ricordo di ravvivare il carisma di Dio che è in te» (2 Timoteo 1:6).
Si può anche giungere — e i casi sono più numerosi e frequenti di quanto non lo si creda — a trascurare completamente il dono ricevuto. Quale dovette essere lo stupore di Archippo quando, per la prima volta, la lettera ai Colossesi fu letta davanti all’assemblea e nella quale, dopo alcuni saluti, risuona tutt’a un tratto questa esortazione diretta: «Dite ad Archippo: Bada al servizio che hai ricevuto nel Signore, per compierlo bene». Il figlio (?) di Filemone ha dovuto certamente ricordarsene!
Ricordiamo, infine, che la Parola esorta ad « aver riguardo per coloro che faticano in mezzo a voi, che vi sono preposti nel Signore e vi istruiscono, e di tenerli in grande stima e di amarli a motivo della loro opera» (1 Tessalonicesi 5:12-13). Non critiche distruttive, non denigrazione, bensì stima, affezione, amore, obbedienza, affinché coloro che «vegliano per le nostre anime» possano fare ciò «con gioia e non sospirando» (Ebrei 13:17).
6. La Cena e la Tavola del Signore
I passi relativi all’istituzione della cena, nei primi tre evangeli e in 1 Corinzi 11, parlano in primo luogo ai nostri cuori. Il Signore aveva «vivamente desiderato» mangiare un’ultima volta la Pasqua coi suoi discepoli; non tanto per la Pasqua in se stessa quanto invece perché, in questa occasione, Egli avrebbe istituto la Cena che, attraverso le età, avrebbe ricordato ai suoi quanto Egli li ha amati. Le espressioni «prima di soffrire» e «nella notte in cui fu tradito», segnano i momenti in cui si fece udire la voce: «Fate questo in memoria di me». E noi, non vogliamo rispondere col profeta Isaia (26:8): «Al tuo nome, al tuo ricordo anela l’anima [nostra]»?
Perché dunque lo Spirito di Dio ha voluto collocare innanzi a noi, in Luca 22:24, immediatamente dopo l’istituzione della cena, la controversia che ebbe luogo tra i discepoli per sapere quale di loro fosse il maggiore ? Non prevedeva forse che, attraverso le età, e troppo sovente, proprio a proposito della cena, vi sarebbero state, tra coloro che tuttavia l’amavano, di simili dispute? Egli dunque volle mostrare quale attitudine i suoi debbano tenere tra di loro. Senza dubbio, bisogna difendere la verità ed allontanarsi da ogni deviazione o deformazione dell’insegnamento del Signore; ma con quale spirito bisogna farlo? Egli stesso ce ne dà un commovente esempio: «Io sono in mezzo a voi come colui che serve». «Io sono»; l’Eterno stesso era in mezzo a loro. Grazia infinita di essersi così abbassato. Ma più ancora: Egli non era in mezzo a loro in tutta la sua potenza e la sua gloria, ma «come colui che serve ». Non ci ha forse lasciato un modello dell’attitudine umile che dobbiamo avere davanti a tutto ciò che concerne il memoriale delle sue sofferenze? Un’umiltà che non è però in contrasto con la fedeltà alla sua Parola e col combattimento per «la fede, che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre» (Giuda 3).
Considereremo quattro aspetti della Cena:
- La festa dei cristiani
- Il memoriale
- L’annunzio della sua morte
- L’espressione dell’unità del corpo
6.1 La festa dei cristiani
I Giudei celebravano la Pasqua in ricordo della liberazione dall’Egitto. Solo l’Israelita di nascita, debitamente circonciso e che non era impuro, era ammesso a mangiare l’agnello arrostito sul fuoco. Se uno straniero voleva avvicinarsi doveva essere circonciso ed accettare tutto ciò che contrassegnava la posizione di separazione di Israele. Così pure oggi la Cena è riserbata unicamente ai figli di Dio, riscattati dal sangue prezioso di Cristo.
La Pasqua era celebrata una volta all’anno; nessuna regola è data circa la celebrazione della Cena, ma fu al primo giorno della settimana, alla sera della risurrezione, che il Signore venne in mezzo ai suoi e mostrò loro le mani e il costato. Egli attese otto giorni prima di ritornare nella stessa maniera. E anche il primo giorno della settimana che vediamo, in Troade, Paolo rompere il pane con i discepoli (Atti 20:7).
Molte volte nell’Esodo e altrove è ripetuto che la Pasqua è la Pasqua dell’Eterno. 1 Corinzi 11 insiste che la Cena è del Signore, che in essa si annunzia la morte del Signore, e si ha dinanzi agli occhi il corpo del Signore, il sangue del Signore, il calice del Signore.
Egli è, certamente, il Salvatore, ma i suoi diritti di Signore, la gloria e l’autorità che gli si riferiscono, sono particolarmente messi in risalto in rapporto con la Cena.
6.2 Il memoriale
Ma la Cena è, più particolarmente, il memoriale, cioè il ricordo del Signore: «Fate questo in memoria di me». È dunque per lui, per ricordarci di Lui, e non per ottenere una grazia o una benedizione, che noi prendiamo la Cena. Questo ricordo non si estende soltanto alla sua morte, alla sua opera, alla liberazione che ne è risultata per noi, ma alla sua stessa persona: «… in memoria di me».
«Questo è il mio corpo», dice il Signore ai suoi discepoli radunati nella sala. Poteva il pane essere altra cosa se non del pane, dal momento che il Signore stesso era vivente e lo porgeva ai discepoli dicendo: «Questo è il mio corpo» ? E quando Gesù risuscitato ed innalzato alla gloria ricorda, in certo modo, a Paolo l’istituzione («Ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso»), il suo corpo glorioso e risuscitato non era forse nei cieli? Come dunque il pane avrebbe potuto essere «fisicamente» il suo corpo?
Quando, mostrando una fotografia od un quadro, diciamo: «Questo è mio padre», nessuno si inganna; quando il Signore dice: «Questo è il mio corpo», esprime dunque il concetto che il pane è il simbolo del suo corpo, e così il vino quello del suo sangue. Indubbiamente vi è di più: per le nostre anime e spiritualmente il pane della Cena e il calice del Signore, sono, per la fede, «la comunione con il corpo ed il sangue di Cristo».
«Questo è … per voi», dice il Signore. Io ho preso su di me il giudizio, l’abbandono, la sofferenza; «Questo è per voi». Disprezzeremo noi ciò che Egli ci offre e ci chiede di fare in memoria di Lui?
«Fate questo». Non è forse una grande cosa che possiamo fare per Lui sulla terra? Il Signore, dopo la sua glorificazione, apprezzerà tutti coloro che, in qualche modo, sovente con molta ignoranza o avendo perso di vista una parte del significato di questo memoriale, lo hanno fatto, tuttavia, in ricordo di Lui.
Ma, pur impegnandoci a rispondere al suo desiderio più attentamente possibile e secondo la sua Parola, guardiamoci dal disprezzare coloro che lo fanno con cuore sincero in ambienti dove c’è confusione o in modo che rivela la loro scarsa conoscenza. Ciò non vuoi dire che si debbano accettare le deformazioni dell’istituzione del Signore; lungi da questo: bisogna, invece, difendere la verità contro ogni deformazione e ogni impiego fuori posto o abusivo, che viene fatto di tale memoriale. Ma questo è tutt’altra cosa che guardare dall’alto al basso coloro che nell’ignoranza, più o meno responsabili su molte cose, hanno tuttavia a cuore di ricordarsi della morte del Signore.
6.3 L’annunzio della sua morte
«Ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore» (1 Corinzi 11:26).
Alla morte del Signore è dunque resa senza parole una testimonianza davanti al mondo e agli angeli. Si capisce come Satana faccia tutto il possibile per velare, oscurare e deformare una tale testimonianza, e come cerchi di far cadere coloro che la rendono per gettare discredito su di loro. Produrre dispute e contestazioni tra i fratelli è opera diretta del nemico, che tenta di distogliere gli animi da questo memoriale e da Cristo stesso. Dobbiamo dunque stare attenti, in modo particolare, a non dare motivo all’avversario, ma a vegliare con umiltà e fermezza affinché sia mantenuta questa testimonianza resa alla morte del Signore.
Nonostante tutto ciò che la Parola ci dice della rovina,annunziata dal Signore e dagli apostoli, non è parlato di alcuna epoca — non parliamo di circostanze locali — in cui non sia possibile prendere la Cena; anzi, espressamente, ci è detto: «… finché egli venga». Quando il Signore sarà venuto, sarà troppo tardi per rispondere al suo desiderio e per rendere codesta testimonianza della sua morte!
6.4 L’espressione dell’unità del corpo
Vale la pena leggere con cura tutto il passo di 1 Corinzi 10, da 14 a 22 e di considerarlo con il contesto che precede e che segue. Dal cap. 8 l’apostolo ha in vista l’idolatria e le cose sacrificate agli idoli; dopo alcune digressioni, vi ritorna più particolarmente nel versetto 14: «Perciò, miei cari, fuggite l’idolatria». Dà poi, nelle frasi che seguono, le ragioni per le quali bisogna fuggire l’idolatria.
Così come i cristiani hanno comunione col sangue e il corpo di Cristo, e comunione gli uni con gli altri, nella rottura del pane, così il sacerdote, in Israele, che mangiava i sacrifici, aveva comunione con l’altare; dunque coloro che mangiavano una cosa sacrificata agli idoli avevano comunione coi demoni che si nascondono dietro gli idoli. Ecco perché non si può bere al calice del Signore e a quello dei demoni.
Tutto il passo ha lo scopo di dimostrare che partecipando ad una tavola, ad un altare, si è in comunione con l’altare, con ciò che vi è offerto e con coloro che vi partecipano. Questo «principio di comunione» dal quale derivano la solidarietà e la responsabilità comune, è il terzo principio la cui sintesi, con quello del «residuo» e con quello che «ciò che è di Dio sussiste», ci mostrano quale sia oggi il cammino del radunamento secondo Dio.
Usando l’apostolo, in questa occasione, l’espressione «tavola del Signore», noi siamo venuti a designare con questo vocabolo questo aspetto della Cena in cui, in modo particolare, è espressa la comunione.
Questa comunione è duplice: da una parte, la comunione del sangue di Cristo e del corpo di Cristo; dall’altra, la comunione degli uni con gli altri. Partecipando al solo e medesimo pane, mettiamo in evidenza che siamo «un unico pane», «un unico corpo». È, oggi, il solo ed unico mezzo per esprimere pubblicamente, sulla terra, l’unità di tutti i credenti in un solo corpo.
Non bisogna perciò opporsi a codesta unità radunandosi su un altro fondamento o per altri motivi, od associandosi per la rottura del pane a tali radunamenti. Questo sarà inoltre un rendersi solidali agli errori che possono esservi insegnati o mantenuti. È dunque necessario tenersi da parte da ogni organizzazione che, nel suo stesso fondamento, contraddice il radunamento come membra del corpo di Cristo. Ma bisogna che nei nostri pensieri, nel nostro cuore, nelle nostre visioni, abbracciamo tutti i riscattati come il Signore li vede: membra di un sol corpo, anche se pochi soltanto esprimono tale unità con la rottura del pane.
6.5 Come partecipare alla Cena?
Chi è degno di prendere parte a questo memoriale? Nessuno. Se riguardiamo a noi stessi. Ma non è forse il Signore degno che noi ci ricordiamo di Lui? Egli ha compiuto ogni cosa, offrendosi in sacrificio, per rendere «perfetti per sempre quelli che sono santificati»! È dunque come frutti della fatica dell’opera sua e resi accettevoli nel Diletto che possiamo avvicinarci alla Sua tavola.
Però è richiesto uno stato morale, come lo esprimono i versetti da 27 a 34 di 1 Corinzi 11. «Ora ciascuno esamini sé stesso… »; per vedere se è degno? Assolutamente no, bensì: «e così mangi»! Provando sé stessi ci si vedrà indegni; nella luce si sarà spinti a giudicare i propri errori e se stessi; ma ci si ricorderà inoltre dell’opera del Signore che ha tutto cancellato; ci si soffermerà sulla sua promessa che «Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità». E così si mangerà il pane e berrà il vino, nel sentimento della grazia che ci permette di aver parte a cotesta cena.
Si deduce da questo che i giovani, anche se sono del Signore, non sembra debbano partecipare alla cena. Occorre un certo discernimento morale, bisogna saper «camminare», «giudicare», come anche essere «persone intelligenti» (1 Corinzi 10:15) in grado di discernere ciò che si fa. Non si tratta di un bagaglio di conoscenze, ma piuttosto di uno stato morale capace di discernere.
Siamo messi in guardia dal mangiare o bere al calice del Signore «indegnamente ». Il significato letterale è «in maniera indegna», cioè come lo facevano i Corinzi, con un comportamento e un’attitudine incompatibili con l’atto compiuto.
Ma si vede dal contesto che accostarsi senza giudicare se stessi vuol dire farlo indegnamente. Venite alla tavola del Signore con un sentimento diverso da quello della grazia, per esempio con quello della propria giustizia — dopo tutto, io sono degno tanto quanto un altro! — o con leggerezza, vuol dire esporsi ad essere considerati «colpevoli» verso il corpo e il sangue del Signore
Con la propria attitudine, col proprio stato morale o con dispute o contestazioni si può arrivare a «disprezzare la Chiesa di Dio». Trascurare di giudicarsi significa esporsi al castigo del Signore: «Per questo motivo molti fra voi sono infermi e malati, e parecchi muoiono». Codesto castigo si verifica sia dal punto di vista fisico sia da quello spirituale.
6.6 Chi può partecipare?
«La Cena del Signore» appartiene al Signore ed è dunque Lui che decide chi può parteciparvi.
È chiaro che solo i riscattati, quelli che sono stati lavati dal sangue dell’Agnello, sono invitati al memoriale. Vediamo negli Atti che all’inizio le conversioni erano così evidenti e la manifestazione della vita tale che non era possibile esitazione alcuna. Coloro che ricevevano la Parola erano senz’altro «aggiunti». Sennonché, facendosi il male rapidamente strada, accorsero delle istruzioni. 1 Corinzi 5 ci mostra come il «malvagio» debba essere tolto; colui dunque che porta questo carattere non può essere ricevuto alla tavola del Signore; vi porterebbe un lievito che contaminerebbe tutta l’assemblea. Ma il lievito non rappresenta solo il male morale bensì anche quello dottrinale, secondo Galati 5:9. Colui che non professava la dottrina di Cristo non doveva essere ricevuto nella casa dei credenti, e soltanto a salutarlo si «partecipava alle sue opere malvagie » (2 Giovanni 10 e 11). Quanto più, esprimendo con lui la comunione alla tavola del Signore, si parteciperebbe alla sua condizione di male! 2 Timoteo 2 ci ha fatto notare che avanzando la rovina bisogna ritirarsi dall’iniquità e purificarsi dal male prima di poterci unire con coloro che di cuor puro invocano il nome del Signore.
La Parola pone, perciò, delle limitazioni di modo che, se fondamentalmente tutti i membri del corpo di Cristo hanno il loro posto alla tavola del Signore, sovente si presentano ostacoli diversi che impediscono la realizzazione pratica di una tale comunione. Chi potrà decidere se colui che desidera partecipare alla rottura del pane risponde al pensiero del Signore a questo riguardo? Non un fratello, né molti fratelli, ma l’assemblea sola ha ricevuto dal Signore l’autorità amministrativa quaggiù (Matteo 18:18).
Se l’assemblea di Gerusalemme faceva difficoltà a ricevere il giovane Saulo senza essersi in antecedenza assicurata della sua conversione, quanto più oggi è difficile discernere a prima vista se una persona risponde all’insegnamento della Parola circa la rottura del pane. Non si tratta solo dell’affermazione di qualcuno che dice di aver fede, ma delle opere che ne dipendono (Giacomo 2:18); a volte occorre del tempo per discernere chiaramente, così come per assicurarsi se non vi sono ostacoli del genere di quelli di cui sopra abbiamo trattato. Perciò, bisogna oggi domandare «il proprio posto» alla tavola del Signore; ma forse passerà un tempo più o meno lungo sino a che la coscienza dell’assemblea sia al chiaro per accettare. All’atto pratico, l’assemblea può mancare sia per precipitazione sia anche per eccessiva lentezza. Ma in quest’ultimo caso il tempo sarà usufruito dall’interessato per approfondire particolarmente gli insegnamenti della Parola relativi all’assemblea ed alla Cena: è un momento più adatto che mai per farlo! L’assemblea, una volta convinta che colui che domanda è veramente un figliuolo di Dio, in cui non si presentano ostacoli, lo riconoscerà come tale. Egli allora prenderà la Cena non «perché è stata ricevuto» o «perché è diventato un membro dell’assemblea», ma perché è un figlio di Dio, membro del corpo di Cristo.
In un’associazione professionale, per esempio, un candidato all’ammissione deve essere della professione richiesta; egli allora sarà, dietro sua domanda, ammesso con una decisione del comitato o dell’assemblea generale di codesta associazione di cui, da quel momento, egli sarà membro. Se un giorno l’associazione non gli piace più, egli darà le sue dimissioni che verranno accettate alla fine del periodo stabilito. Ma non è così dell’assemblea di Dio. Si diventa membro del corpo di Cristo per la nuova nascita e il suggello della Spirito Santo: così, quando un credente chiede il suo posto alla tavola del Signore, l’assemblea non fa che riconoscere ciò che esiste già. Ne è, in quel momento, data una pubblica testimonianza, e colui che prende il proprio posto alla tavola del Signore lo fa come membro del corpo di Cristo e nient’altro.
«Se una corporazione di cristiani riconoscesse come aventi diritto di prendere la cena solo i suoi membri, vi sarebbe un’unità formalmente opposta all’unità del corpo di Cristo. Si camminerebbe in una spirito settario se quelli soli fossero riconosciuti in maniera pratica, anche se nessuno volesse dirsi propriamente membro di una corporazione» (G.V.W. o J.N.D ?)
Perché molti, che tuttavia sono figli di Dio, si tengono lontani da questa memoriale? Hanno forse paura di perdere una parte della loro cara libertà? O temono di non camminare alla gloria del Signore e di esporsi alla disciplina dell’assemblea? Forse sono solo indifferenti e vedono ostacoli immaginari. Da dove vengono tutte queste reticenze? Non è forse il nemico che le sa suscitare, anche sotto buoni pretesti, affinché non si risponda all’ultimo desiderio del Signore? Soltanto l’amore per il Signore, posto al di sopra di ogni considerazione umana, può spingere a «fare questo in memoria di Lui». È per Lui solo che si prende la Cena, non sotto l’influenza di qualcuno o perché «bisogna» farlo, o anche come «salvaguardia».
Se rispondiamo al suo desiderio con amore per il Signore, noi possiamo contare con fede sulla sua potenza che ci guarderà dal male, ci spingerà a camminare nel giudizio di noi stessi e nel sentimento della grazia.
6.7 La disciplina
Vi sono diverse responsabilità in rapporto alla Cena: dapprima, quella di parteciparvi. Poi, quella di giudicare sé stesso e discernere il corpo del Signore. Inoltre, di non portare del «lievito» che svii l’assemblea, l’intera pasta. Infine, la responsabilità dell’assemblea di togliere «il vecchio lievito», «togliere il malvagio» di mezzo a sé. È la disciplina nel vero senso.
Ma questa non è che l’ultima fase. Vi è una disciplina preventiva ed una correttiva; e solo quando tutto il resto è risultato inefficace e il carattere del «malvagio» manifesto, viene la separazione netta.
La disciplina paterna esorterà, laverà i piedi secondo Giovanni 13; riprenderà secondo 1 Timoteo 5; raddrizzerà secondo Galati 6; avvertirà come in 1 Tessalonicesi 5:14.
Se questa disciplina paterna si rivela insufficiente, la Parola ci presenta l’ammonizione pubblica: agli anziani, in 1 Timoteo 5:20; all’uomo settario, in Tito (a due riprese) 3:10 e 11. Essa prelude la messa da parte di coloro che camminano nel disordine secondo 2 Tessalonicesi 3:6 a 15; in Romani 16:17 e 18 essa va ancora più in là riguardo coloro che causano divisioni e partiti.
Nei casi di errore personale, Matteo 18:15 a 17 ci mostra il cammino da seguire.
Solo quando tutto questo è fallito si arriva, in ultima fase, alla scomunica, secondo 1 Corinzi 5.
V’é un male manifesto, un lievito, da cui tutta la assemblea è contaminata (cf. Giosuè 7). L’assemblea deve dunque purificarsi, togliere da se stessa il male, ma dapprima facendolo suo davanti a Dio e «facendo cordoglio» perché, come scrive Paolo, «colui che ha commesso quell’azione fosse tolto di mezzo a voi».
Si vede, in Levitico 13 a proposito della lebbra, con quale cura e con quale prudenza il sacerdote doveva procedere prima di giungere alla decisione finale. Se sotto la legge tali cose erano necessarie, quanto più sotto la grazia; la grazia non vuole dire indifferenza al male.
La disciplina è esercitata dall’assemblea come tale, non da uno o da più fratelli, anche se questi procederanno ad un esame preliminare. Nel suo potere apostolico, l’apostolo poteva consegnare quell’uomo a Satana «per la rovina della carne», ma non era lui che poteva togliere il vecchio lievito; bisognava che lo facesse l’assemblea di Corinto. È quello che l’assemblea può fare; consegnare a Satana non è di sua competenza.
La decisione dell’assemblea, una volta pronunciata, è confermata nel cielo secondo Matteo 18:18; essa è dunque valevole per tutte le assemblee. Il suo scopo è duplice: «Per essere una nuova pasta, come già siete senza lievito», e affinché il colpevole sia ristabilito da quando il male sarà stato veramente giudicato. Questo è ciò che ci insegna 2 Corinzi 2:5-11. Là ancora, codesta ristorazione non poteva essere fatta da un fratello, né da molti fratelli, né da un apostolo, ma unicamente dall’assemblea, la sola che può «slegare» ciò che ha precedenteménte «legato».
È molto serio e grave arrivare ad una tale necessità, e sovente bisogna domandarsi se tutti gli sforzi della disciplina paterna e correttiva siano prima stati compiuti. Ma, se si è dovuti arrivare a questa triste fine, bisogna tuttavia conformarsi a ciò che la Parola insegna: «Con quelli non dovete neppure mangiare» (1 Corinzi 5:11).
Bisogna aggiungere che da quando si è manifestata nella coscienza e nel cuore l’opera dello Spirito, l’attitudine cambia e come dice la parola: «Dovreste piuttosto perdonarlo e confortarlo… confermargli il vostro amore» (2 Corinzi 2:7 e 8). Non dovremmo forse avere, in tali circostanze, l’attitudine del padre in Luca 15, che era come «in agguato», ad attendere il ritorna del figlio? E quando lo scorse «mentre egli era ancora lontano», mosso da compassione corse verso di lui, si gettò al collo e lo coprì di baci? Virtù della grazia che vuole salvare, ricondurre, perdonare e che quando il ristabilimento è completamente avvenuto, non ritorna più sulle cadute passate.
7. La sposa
Leggere Efesini 5:22 a 32; Matteo 13:45; Apocalisse 19:7-9 e 21.
La Parola di Dio adopera l’esempio del corpo per mostrare l’unione di Cristo con i suoi riscattati, come la produsse lo Spirito Santo. Abbiamo visto la figura della casa, edificio che il Signore costruisce ma anche affidata all’uomo, e che la rovina ha colpito. Ci voleva un’altra immagine per farci cogliere la profondità dell’amore di Cristo per la Chiesa. Dove prenderla?
Per renderci chiare, in qualche modo, le relazioni della divinità come si è a noi rivelata, lo Spirito di Dio adopera i nomi di Padre e di Figlio. Conosciamo per esperienza il valore che tale relazione ha sulla terra.
L’affezione tra i fratelli risulta dal fatto di avere la medesima vita, la stessa natura, il medesimo Padre, di discendere dalla stessa origine. Ma il legame dello sposo con la sposa proviene da un’altra sorgente. Essi hanno tutti e due la medesima origine; ciascuna viveva nella propria sfera, senza avere la stessa vita né la stessa famiglia; cos’è che li avvicina ed unisce più indissolubilmente che fratelli? È l’amore: «Cristo ha amato la Chiesa». Ecco la sorgente di tutto.
Egli « ha dato sé stesso per lei». Non la santifica per farla sua, ma la fa sua per santificarla. Egli ha dato per lei tutto ciò che era in se stesso, ed ora tutto ciò che è in Lui è consacrato al bene della Chiesa. Non vi sono qualità né eccellenze in Cristo che non siano nostre, in conseguenza del dono ch’Egli ha fatto di se stesso.
Avendola acquistata, Egli la santifica, la forma per le realtà celesti presentandole queste cose di cui Egli stesso è la pienezza e la gloria. Lo fa per mezzo della Parola, comunicandole per amore tutto ciò che appartiene alla natura, alla maestà e gloria di Dio.
Ma più ancora, la purifica; Egli applica la Parola anche per giudicare tutto ciò che, nelle affezioni attuali della Chiesa, è in disaccordo con ciò ch’Egli comunica. Egli lavora per renderci atti a godere del suo amore.
V’è dunque un’opera passata: Egli ha dato se stesso; un’opera presente: Egli santifica e purifica; un fine futuro: Egli presenterà a sé stesso la Chiesa gloriosa.
Tutto ciò era già riassunto nella piccola parabola della perla, in Matteo 13. Consideriamo sempre con tristezza le parabole che trattano della rovina: l’opera del nemico nel campo, il male che si stanzia nei rami dell’albero che è cresciuto eccessivamente, il lievito che è penetrato nelle tre misure di farina. Ma il Signore non si è fermato là; Egli ha avuto la gioia di parlarci di quel mercante che «trovata una perla di gran valore, se n’è andato, ha venduto tutto quello che aveva, e l’ha comperata». Bella figura di Colui che ha dato ogni cosa per comprare la Chiesa, traendola dalle profondità del mare di questo mondo, dove è stata lentamente formata, «andandosene» per riscattarla, come il becco Azazel se ne andava nel deserto carico dei peccati di Israele (Levitico 16), dando per lei tutto ciò che aveva per renderla santa ed irreprensibile.
Un giorno Egli la presenterà a sé stesso. Nel vangelo, il Signore parlò già in parabola di un re che fece le nozze per il suo figlio (Matteo 22:2). È bello pensare all’opera del Signore per noi, ma non dimentichiamo mai che tutto è « da Lui, per mezzo di Lui e per Lui» (Romani 11:36).
Apocalisse 19:7 a 9 ci dà in qualche modo il primo quadro di questa Chiesa gloriosa ch’Egli presenta a se stesso. È come dice il Cantico (3:11): «Il giorno della gioia del suo cuore». L’Agnello che ha tanto sofferto riceve il frutto della fatica dell’anima sua, fa ricompensa del suo amore.
«La sua sposa si è preparata». In quest’espressione si possono scoprire due significati. Il banchetto delle nozze nel cielo può corrispondere alla Cena sulla terra. Per prepararsi alla Cena bisogna giudicare se stessi, così come prima di partecipare al banchetto nel cielo bisognerà passare davanti al tribunale dì Cristo; non per essere condannati, ma perché tutto ciò che abbiamo fatto nel corpo, sia bene sia male, sia manifestato; perché scompaia tutto ciò che è di nostro. Allora coglieremo pienamente il valore del sangue che ha tutto cancellato. Non rimarrà così ombra alcuna tra il nostro Signore e noi; preparazione indispensabile ed ammirabile alla piena gioia del Suo amore! Ma vi è in questa «preparazione» un pensiero in rapporto con il vestito di fino lino che sono «le opere giuste dei santi» Non si tratta dell’abito di giustizia quale Dio l’ha dato in Cristo, ma del vestimento che, filo a filo, avremo intessuto sulla terra: ogni atto, ogni parola, ogni attitudine, frutto della vita divina in noi, sarà come uno dei fili di questo vestito, un punto di codesto ricamo. Quali pensieri non riempirebbero il cuore di una fanciulla che preparasse così il suo corredo di nozze? Come gioirebbe a pensare al giorno che la porterà al lato del suo sposo! Tutto questo getta una dolce luce sulla fedeltà che si deve al Signore quaggiù: non l’obbedienza legale a comandamenti, ma il desiderio di un cuore che vuole piacergli, fare ciò che al Signore è accetto, un comportamento con diligenza e circospezione per amore per Lui.
Vi sono infine le nozze dell’Agnello. Quaggiù abbiamo la Cena del Signore: noi gli dobbiamo ubbidienza; ma nella gloria è il suo carattere di «Agnello» che risplende agli occhi di tutti in mezzo al trono ed al banchetto di nozze: Colui che ha sofferto, che è stato ubbidiente fino alla morte, che ha compiuto ogni cosa per i suoi riscattati.
Apocalisse 21 ci presenta infine la Sposa nella gloria: i vers. da 2 a 5 nello stato eterno, i vers. da 9 a 22 durante il millennio. E c’è un contrasto notevole con la grande meretrice del capitolo 17; per considerarla, Giovanni fu trasportato in ispirito in un «deserto», un luogo dove non vi è nulla per Dio, ma per vedere la santa città fu trasportato su di «una grande e alta montagna», lontano dal mondo, dalla sua agitazione, dalle sue concupiscenze, dalle sue preoccupazioni. Così anche il Signore fu trasfigurato «sopra un alto monte» dove i suoi discepoli videro la sua gloria.
La città santa «scende». L’apostolo Paolo ci presenta uomini morti nei loro falli e nei loro peccati che Dio strappa da questo mondo, riscatta, vivifica, risuscita, fa sedere nei luoghi celesti in Cristo. La Chiesa di Dio sarà portata da questo mondo nella gloria. L’apostolo Giovanni, al contrario, ci parla della Parola che era presso Dio, è divenuta carne ed ha abitato in mezzo a noi. Egli ci dà nelle sue epistole lo spiegamento della natura divina in questo mondo; e qui ci presenta la Sposa che discende da Dio, durante l’amministrazione del regno, per riflettere la luce: i raggi della gloria di Cristo!
Nella santa città tutto parla di Lui; il diaspro, Dio conosciuto nella sua gloria; le pietre preziose, le varie glorie di Cristo; le porte della città, perle che ricordano il valore che questa Chiesa ha per lui. Tutto è purezza, trasparenza, luce: «la gloria di Dio la illumina, e l’Agnello è la sua lampada».
Ma alla fine del quadro c’è, solenne, il v. 27: «E nulla di impuro né chi commetta abominazioni o falsità, vi entrerà». Chi dunque potrà entrare nella città santa? «Soltanto quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello», che hanno lavate le loro vesti e le hanno imbiancate nel suo sangue (Apocalisse 21:27; 22:14; 7:14).
Nello stato eterno vediamo nuovamente, come la sposa adorna per il suo sposo, città santa, nuova Gerusalemme, la Chiesa che «scende». A qual fine? «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio». È allora che, secondo 1 Corinzi 15, «Dio sarà tutto in tutti».
La presenza di Dio era stata perduta alla caduta dell’uomo; parzialmente ritrovata al tabernacolo e poi al tempio, brillò in Gesù su questo mondo; realizzata inoltre nella Chiesa essa sarà la benedizione eterna di tutti gli uomini che popoleranno i nuovi cieli e la nuova terra.
Un’ultima volta la Parola menziona la Sposa per dirci: «Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni» (Apocalisse 22:17). Il sacro Libro sta per chiudere le sue pagine, ma bisogna ancora che questo grido riecheggi: «Vieni». «Amen! Vieni, Signore Gesù!».
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