Il profeta Gioele

IL PROFETA GIOELE

di  Daniele Calamai

Commentario apparso a puntate sul mensile IL MESSAGGERO CRISTIANO dell’anno 2012

Introduzione

 Gioele è il secondo dei cosiddetti profeti minori; la sua profezia riguarda in modo particolare Giuda e Gerusalemme di cui fa più volte menzione (2:32 – 3:1 –3:6 – 3:16, 17 ,18, 19, 20 – cfr anche: “Sion” 2:1, 5, 23, 32 – 3:16, 17). Israele è menzionato tre sole volte (2:27 – 3:2, 16) e sempre per definire l’intero popolo di Dio e non le sole dieci tribù scismatiche alle quali altri profeti si rivolgono.

Il suo messaggio è chiaro fin dall’inizio: un giudizio annunciato si abbatterà tremendo sul popolo di Dio: è il giudizio del “gran giorno del SIGNORE” menzionato cinque volte in questa breve profezia (1:15 – 2:1, 11, 31 – 3:14). Ma, come sempre, una porta di speranza resta aperta a condizione che ci sia un ravvedimento. La restaurazione porterà benedizioni ancora più grandi di quelle precedenti, così come nel millennio tutto Israele, e non solo lui, godrà di una pace e di una giustizia come mai prima ha gustato, neppure nei tempi d’oro sotto lo scettro di Salomone.

Siamo abituati a considerare questi Libri, e in generale tutti i Libri profetici, come argomenti che non ci riguardano da vicino, poiché ci proiettano in un futuro che non ci appartiene. Spesso queste profezie fanno riferimento ad avvenimenti successivi al ritorno del Signore per prendere la Chiesa, e riguardano in particolare Israele che dovrà essere ricondotto sotto lo scettro di Cristo, nel regno milleniale. Queste profezie, realizzate in parte e che troveranno un pieno compimento nella “settantesima settimana” (Daniele 9:20-27), noi le vedremo realizzate dal cielo; per questo non le sentiamo “nostre” e siamo spesso tentati di trascurarle.

Ma “tutta la Parola di Dio è utile” (2 Timoteo 3:16) ed anche in queste parti, che poco ci riguardano e che, a causa di un linguaggio figurativo e spesso di non facile interpretazione, ci appaiono difficili, possiamo trovare qualche utile insegnamento per il nostro cammino in questo mondo.

È mio desiderio, in questa meditazione, fare alcune riflessioni sulla profezia di Gioele, considerandola non tanto da un punto di vista profetico, quanto da un punto di vista morale.

 CAPITOLO 1

Un castigo senza precedenti

“Parola del SIGNORE rivolta a Gioele, figlio di Petuel” (1:1)

Nessun cenno storico viene dato all’inizio di questo breve libro profetico il che non ci consente di datare gli avvenimenti narrati; però ci viene detto con chiarezza che siamo di fronte a Dio che parla.

Qual è l’atteggiamento che prendiamo quando Dio parla? Siamo pronti a rimanere in silenzio ad ascoltare quello che ha da dirci? Dovremmo far tesoro del consiglio di Proverbi 1:23: “Volgetevi ad ascoltare la mia riprensione” affinché non vi sia poi del rimorso e non si debba dire: “Come ho fatto a non ascoltare la voce di chi m’insegnava e a non porgere l’orecchio a chi m’istruiva?” (Proverbi 5:13).

Quando ci allontaniamo dal Signore, le cose del mondo, anche quelle legittime (il lavoro, lo sport, la carriera e qualche distrazione) ci fanno perdere di vista il nostro vero obiettivo e ci portano a trascurare le cose di Dio.

Ma il Signore, poiché ci ama, si affianca a noi e, come con i discepoli sulla via di Emmaus, parla ai nostri cuori per riscaldarli e farci tornare sui nostri passi; ma se lo lasciassimo proseguire invece di dirgli “Rimani con noi” (Luca 24:29), sarebbe costretto a intervenire con altri mezzi, addirittura con  prove che si susseguono e che ci tolgono sempre qualcosa, anche se non ce ne rendiamo conto.

Gioele invita tutti a porgere orecchio (1:2-3): per prima i vecchi, che per esperienza dovrebbero essere gli esempi, ma poi anche tutto il popolo. Nessuno è escluso dal messaggio che seguirà.

Il primo invito è a riguardare indietro, al passato, per considerare se un tale giudizio era già avvenuto; il secondo ad annunciarlo alle future generazioni perché facciano tesoro della passata esperienza.

Quando il credente passa per la disciplina non deve mai dimenticare che Dio gli ha già in passato manifestato il Suo amore; se, al presente, sembra averlo lasciato per colpirlo, è sempre a causa di un peccato commesso. Quando Dio parla, e parla più volte anche attraverso la Sua verga, non dovremmo mai restare indifferenti fino ad arrivare a toccare il fondo!

“Un popolo forte ed innumerevole” (1:6)

L’Eterno aveva ricordato più volte al popolo, tramite il profeta Geremia, di aver mandato i Suoi profeti “ogni giorno, fin dal mattino”(Geremia 7:13, 25 – 11:7 – 25:3-4 – 29:19 – 26:5 – 35:14 –  44:4), ma Israele aveva irrigidito il collo comportandosi peggio di prima (Geremia 7:26). Dio non poteva che sentenziare: “La tua ferita è incurabile” (Geremia 30:12) quando “il popolo arrivò al punto che non ci fu più rimedio” (2 Cronache 36:16).

È proprio questo che ci viene descritto nei v. da 4 a 6a. Dio aveva mandato il bruco che aveva divorato, lasciando però un avanzo; poi era arrivato il grillo che, anche lui, aveva lasciato qualcosa; e così la cavalletta e poi la locusta, ma il popolo sembrava non aver compreso il messaggio. Perciò Dio avrebbe mandato “un popolo forte ed innumerevole” che non si limita a “mangiare”, ma che “devasta”.

La differenza sta nel fatto che la prima prova lascia ancora la possibilità di produrre nuovi frutti, la seconda invece impedisce ogni ricrescita.

Sembra quasi un punto di non ritorno; si incomincia con lo smettere di dare quei frutti che il Signore si aspetta, per arrivare ad un punto in cui non si possono più dare, neppure volendo, poiché non esistono più le condizioni necessarie. Questo è il triste stato nel quale un credente o un gruppo di credenti possono venire a trovarsi se non vivono in comunione con Lui e non vegliano costantemente sui richiami del Signore.

Lo scopo del giudizio di Dio non è mai fine a se stesso. Quando Dio esercita un giudizio ha in vista tre cose fondamentali: la prima è glorificare Se stesso poiché è stato disonorato; la seconda è abbassare l’orgoglio e la presunzione del peccatore; la terza è portare a ravvedimento un’anima in vista di ristabilirla.

“Svegliatevi, ubriachi, e piangete!” (1:5).

Lamentati come una vergine… che piange lo sposo” (1:8).

Qui il profeta invita tutti ad umiliarsi, a piangere, come farebbe un ubriaco a cui è tolto il vino e come una donna a cui è stato tolto lo sposo.

Nella Parola il vino rappresenta la gioia, l’allegrezza (Giudici 9:13 – Salmo 104:15) e abbiamo molti passi che ci invitano a rallegrarci di molte cose. Nella Lettera ai Filippesi c’è una lunga serie di motivi per cui gioire:

– in rapporto alla preghiera (1:4)

– in rapporto alla predicazione dell’Evangelo (1:18)

– in rapporto alla fede (1:26)

– in rapporto ad avere un medesimo sentimento (2:2)

– in rapporto al servizio (2:17-18)

– in rapporto all’accoglienza (2:2)

– in rapporto alla sollecitudine negli aiuti (4:10)

e siamo chiamati a farlo sempre e nel Signore (3:1 – 4:4).

Il Signore stesso vuole che la Sua gioia dimori in ogni credente affinché possa rallegrarsi in Lui in modo completo (Giovanni 15:11), Lui che ha fatto tutto in vista della gioia che gli era posta dinanzi (Ebrei 12:2).

La vergine rappresenta la purezza di colei che vuole donarsi completamente al suo sposo; ma che delusione quando, dopo tante aspettative, lo sposo le viene tolto, colui sul quale la vergine aveva fatto conto per coronare il suo sogno d’amore viene a mancare! Ella è, per così dire, vedova ancor prima di maritarsi.

C’è veramente di che piangere ed umiliarsi quando la gioia e il sostegno spirituale vengono a mancare nella nostra vita a causa della perdita di comunione col Signore. La tristezza si insinua nell’anima; Colui nel quale possiamo confidare sembra essere distante da noi e, se non vi poniamo rimedio, questi sono solo i primi passi in un cammino di declino spirituale.

“Offerte e libazioni sono scomparse” (1:9)

In uno stato di così grande povertà spirituale cosa possiamo offrire nella casa del Signore? Quando ci rechiamo alle riunioni e diciamo di essere alla Sua presenza, cosa possiamo offrirgli se “la campagna è devastata”(v. 10)? Dove potremo raccogliere quel cesto di primizie da offrire a Dio (Deuteronomio 26), risultato della nostra vita in comunione con Lui?

La “libazione” era un’offerta supplementare versata sopra un sacrificio. Era di vino e poteva variare di misura. Paolo parla di se stesso come di una libazione offerta sul sacrificio e sul servizio della fede dei Filippesi (2:17), e al termine della sua corsa poteva dire: “Sto per essere offerto in libazione” (2 Timoteo 4:6).

È la gioia che dovrebbe accompagnare le nostre offerte, quei “frutti” che la nostra vita cristiana produce e che vengono offerti al Signore perché li possa apprezzare in tutto il loro valore.

“La campagna è devastata” (1:10)

Anche gli agricoltori e i viticultori sono invitati a piangere, a fare cordoglio perché tutto ciò che la terra ha prodotto è andato perduto.

Che triste quadro quando, benché molti servizi siano svolti, i risultati mancano! Se abbiamo lavorato per il nostro interesse, il Signore vi ha soffiato sopra (Aggeo 1:9); qui invece è andato tutto distrutto: “Il raccolto dei campi è andato perduto” (1:11).

Mancano “il grano” e “l’orzo”, entrambi figure del nutrimento, di quel cibo che occorre alle nostre anime per crescere dallo stato di bambini a quello di uomini fatti.

“Tutti gli alberi della campagna sono secchi” (1:12)

Il quadro che viene descritto di questa campagna è esaminato nei dettagli ed ogni albero ci parla di un carattere particolare di questa perdita.

La vite

Isaia 5:1/7 è un simbolo di quella che è la vigna per eccellenza, cioè Israele, e tutti i dettagli dati in questi versetti ci parlano delle cure di Dio per il Suo popolo. Il Signore stesso dice di Se stesso: “Io sono la vera vite” (Giovanni 15:1); e nei versetti che seguono ci viene spiegato quale sia la condizione essenziale per portare “del frutto” (v. 2a), “più frutto” (v. 2b) e “molto frutto” (v. 5), o meglio ancora “un frutto permanente” (o: “che rimanga”) (v. 16): dimorare in Lui e lasciare che Lui dimori in noi (v. 4).

Se la linfa vitale della comunione col Signore non scorre ogni giorno ci sarà scarsità di frutti ma, a lungo andare, la vite stessa si seccherà, come quella descritta nelle parole del profeta Gioele. In quest’immagine possiamo anche aggiungere che se, come abbiamo già detto, il vino è figura della gioia, la vite è sicuramente una figura di ciò che la produce.

Il fico

Il fico rappresenta il frutto che portiamo per il Signore. Nella parabola di Iotam il fico dice: “Dovrei rinunciare alla mia dolcezza e al mio frutto squisito?” (Giudici 9:11). Il Signore stesso parla più volte del fico in rapporto ai frutti, frutti che dimostrano ciò che si è (“Si raccoglie forse uva dalle spine o fichi dai rovi?”, Matteo 7:16) e frutti che non vengono prodotti (“Vedendo un fico sulla strada… non trovò altro che foglie”, Matteo 21:19).

Il libro dei Proverbi ci fa sapere che “chi si prende cura del fico ne mangerà i frutti e chi veglia sul suo padrone ne sarà onorato” (27:18). Il Signore riserva un’approvazione particolare al servitore che avrà a cuore i Suoi interessi, la Sua testimonianza e la Sua gloria.

Il melograno

Le melagrane, frutti di quest’albero, sono citate insieme all’uva e ai fichi della valle d’Escol (Numeri 13:23); vennero portate anche al popolo d’Israele nel deserto dagli esploratori mandati in Canaan. Compaiono altresì come i prodotti del paese in cui l’Eterno stava per fare entrare il Suo popolo (Deuteronomio 8:8).

Nei paramenti sacri del Sommo Sacerdote ritroviamo questo frutto ricamato nel manto dell’efod (Esodo 28:31-35). Fatte di filo ritorto nei colori violaceo, porporino e scarlatto, le melagrane erano alternate, al bordo di questo mantello, a sonagli d’oro. Quest’alternanza di melagrane e di sonagli ci parla del frutto e della testimonianza dello Spirito Santo. Il gran numero di chicchi presenti all’interno della melagrana sono una bella immagine di fertilità e di forza, poiché “il frutto dello Spirito” comprende una pienezza di caratteri che manifestano agli uomini le glorie di Cristo nel cammino e nella vita di ciascun credente (Galati 5:22, Giovanni 15:8).

La palma

Il salmista dice: “il giusto fiorirà come la palma” (Salmo 92:12) e della Sulamita è detto: “la tua statura è simile alla palma” (Cantico dei Cantici 7:8). Oltre che della dignità, la palma ci parla di riposo e di trionfo. Nei giorni della festa dei Tabernacoli, festa per eccellenza delle vittorie riportate e del riposo da gustare, si dovevano prendere “dei frutti di bell’aspetto e dei rami di palma” (Levitico 23:40) per farne delle capanne; cosa che fecero coloro che ritornarono dalla cattività di Babilonia ai tempi di Neemia (8:15).

Quando il Signore Gesù entra in Gerusalemme, una folla trionfante lo accoglie agitando rami di palma e salutandolo come il Re d’Israele (Giovanni 12:13). Quei rami erano dunque l’espressione del trionfo di un regno che avrebbe dovuto essere inaugurato.

In Apocalisse 7:9, Giovanni vede una folla immensa composta di uomini “vestiti di bianche vesti e con delle palme in mano”. Essi rappresentano i testimoni fedeli di tutte le nazioni che sono rimasti incrollabili durante “la grande tribolazione” ed ora celebrano la vittoria dell’Agnello.

Il melo

Solo altri due passi, nel Cantico dei Cantici, ci parlano di questo albero, ma senza lasciarci nel dubbio sul suo significato allegorico. “Quale è un melo tra gli alberi del bosco, tale è l’amico mio fra i giovani” (2:3). E a chi potrebbe essere paragonato un solo albero, unico e così diverso in mezzo a tanti altri, se non a Colui che si distingue fra diecimila (5:10)? È il Signore stesso, dal quale i credenti attingono tutte le benedizioni che accompagnano la vita che ha donato loro: “Io ti ho svegliata sotto il melo, dove tua madre ti ha partorito” (8:5).

Il quadro descritto dal profeta è dunque un quadro tragico nel quale stentiamo a riconoscerci, anche se non siamo privi di difetti e di mancanze. Ma questa è la condizione finale di coloro che, non avendo ascoltato i tanti appelli al ravvedimento, sotto la disciplina del Padre, cadono in questo stato di inutilità spirituale.

Se, come dice Pietro, da parte nostra non mettiamo “ogni impegno” per aggiungere alla fede la virtù, la conoscenza, l’autocontrollo, la pazienza, la pietà, l’affetto fraterno e l’amore, rischiamo di diventare pigri e sterili nella conoscenza del Signore. Questo potrebbe portarci fino a dimenticare di essere stati purificati dei nostri vecchi peccati (2 Pietro 1:5-9). Che triste condizione quella di un credente che teme di aver perso la salvezza! A giusta ragione può essere paragonato a “una campagna devastata”.

“Convocate una solenne assemblea” (1:14)

“Solenne assemblea” è un’espressione usata nella Parola poche volte.

La prima volta compare nel libro del Levitico per dirci che l’ottavo giorno della festa delle capanne era “giorno di solenne assemblea”, nel quale non si doveva fare alcun tipo di lavoro ordinario (Levitico 23:36), cosa che fu poi realizzata ai tempi di Neemia (Neemia 8:18).

Questa festa durava sette giorni, come quella dei “pani azzimi”, che è intimamente legata alla Pasqua (la prima delle sette feste dell’Eterno). Queste due feste sono legate fra loro da un percorso preciso e ben delineato nella Parola di Dio. Per Israele è tutta la storia che va dall’uscita dall’Egitto al Millennio, di cui la festa delle Capanne (o dei Tabernacoli) è una figura come piena benedizione terrena. Volendo fare un’applicazione per noi credenti, potremo dire che queste due feste rappresentano il progresso della vita cristiana che va dalla separazione dal male (festa dei pani senza lievito) alla gioia della piena comunione con Lui (festa delle capanne).

La solenne assemblea di questo ottavo giorno doveva essere caratterizzata dalla gioia, una gioia per tutti, nessuno escluso: “Ti rallegrerai in questa tua festa, tu, tuo figlio, tua figlia, il tuo servo, la tua serva, il Levita, lo straniero, l’orfano e la vedova che abitano nelle tue città” (Deuteronomio 16:14).

Il motivo di questa gioia doveva essere il godimento delle benedizioni di Dio sul raccolto dei campi e sull’opera di ognuno: “Poiché il SIGNORE, il tuo Dio, ti benedirà in tutta la tua raccolta e in tutta l’opera delle tue mani, e ti darai interamente alla gioia” (Deuteronomio 16:15).

Che differenza fra queste due occasioni di “solenne assemblea” e la situazione reale al tempo del profeta!

Qui, nel profeta Gioele, tutto è capovolto. Anziché festa di gioia per un raccolto, frutto delle benedizioni di Dio date ad un popolo fedele, c’è la mancanza totale di benedizioni; al posto della gioia ci sono pianto e disperazione, e tutti sono coinvolti, ognuno secondo la propria responsabilità. Si inizia coi sacerdoti, i ministri dell’altare (v. 13), che sicuramente avrebbero dovuto essere i primi a constatare la mancanza di offerte e libazioni nella casa di Dio (v. 13); poi gli anziani, i più rispettati tra il popolo (Proverbi 31:23), la cui esperienza avrebbe dovuto farsi sentire per tempo (Giobbe 32:7); ed anche tutto il popolo, che avrebbe dovuto accorgersi dei “depositi vuoti”, dei “granai che cadono in rovina” (v. 17).

“Anche gli animali selvatici si rivolgono a te” (1:20)

Gli uomini non sono i soli ad essere coinvolti in questo giudizio “governamentale” che Dio esercita. Anche la vegetazione ed il bestiame sono coinvolti in questo stato di cose.

Paolo poteva dire: “Tutta la creazione geme ed è in travaglio… non di sua propria volontà ma a causa di colui che ve l’ha sottoposta” (Romani 8:19-22). Il peccato dell’uomo si riflette su tutto il creato, così come il nostro peccato spesso coinvolge coloro che ci sono vicini.

Se la nostra vita di credenti sarà benedetta dal Signore avremo anche di che farne parte ad altri. Coloro che vivono in comunione col Signore trasmettono agli altri parte della loro gioia, frutto delle benedizioni divine e dei risultati ottenuti nelle buone opere compiute per il Signore. Intorno al credente si creerà una sfera di benedizioni di cui tutti, anche gli increduli, potranno in qualche misura beneficiare. Il solo parlare della sorgente di tante benedizioni sarà una testimonianza dell’amore di Dio in noi.

La “campagna”, anziché deserta e arida, sarà rigogliosa e fertile e tutti ne potranno godere. I corsi d’acqua non saranno inariditi (v. 20) e l’azione dello Spirito sarà una “una fonte d’acqua che scaturisce a vita eterna” (Giovanni 4:14) e che diventerà quel “fiume d’acqua viva” che sgorgherà dal seno di ogni credente (Giovanni 7:38).

“A te, SIGNORE, io grido” (1:19)

In tempi di grande crisi spirituale, la responsabilità è certo da attribuire all’insieme, ma questo non esclude la responsabilità individuale. Ogni credente che vede lo stato di miseria attuale deve, come il profeta Gioele, gridare a Dio.

Questo “grido” rende bene l’idea dell’allontanamento che è avvenuto tra il credente e il Signore.

Il “grido” è un richiamo urgente di colui che ha bisogno di un soccorso immediato e che teme di non essere udito, se si limitasse ad usare il solito tono di voce. Egli grida per attirare l’attenzione di Colui che lo può soccorrere.

Giobbe si chiedeva: “Dio presterà orecchio al grido di lui quando gli piomberà addosso l’angoscia?” (Giobbe 27:9). A questa domanda il Salmista avrebbe risposto: “Con la mia voce io grido al SIGNORE, ed Egli mi risponde dal suo monte santo” (Salmo 3:4).

Il profeta Giona aveva “gridato” dal fondo della sua angoscia e l’Eterno gli aveva risposto (Giona 2:3).

Se siamo coscienti della necessità di questo grido, se capiamo che l’intervento di Dio è più necessario che mai, gridiamo a Lui, con la piena consapevolezza che il nostro grido non rimarrà  inascoltato.

Davide, interpretando per lo spirito profetico, i sentimenti del Signore Gesù sulla croce, poteva dire: “Dio mio, io grido di giorno, ma tu non rispondi, e anche di notte, senza interruzione” (Salmo 22:2).

Quando è stato detto al popolo: “Gridate al SIGNORE” (1:14) uno solo ha risposto: “Io grido a te” (1:19), e questo sarà sufficiente per Dio. Un solo giusto si è levato in mezzo a questa situazione disastrosa; è a lui che Dio risponderà.

Abbiamo perciò, in questo capitolo, due cose che sono messe in evidenza e che sono indispensabili per evitare i castighi di Dio: il pentimento e l’umiliazione da una parte, e la grazia di Dio dall’altra. Una grazia che può rispondere al grido del giusto, perché essa riposa interamente sulla persona di Cristo: l’unico “giusto” (Atti 3:14 – 1 Giovanni 2:1) davanti a Dio.

CAPITOLO 2

Due squilli di tromba: adunarsi per pentirsi

Nel capitolo 10 del libro dei Numeri troviamo l’ordine dell’Eterno di fare due trombe d’argento battuto. Il suono di queste due trombe serviva a radunare il popolo in alcune circostanze particolari o a dare l’ordine di partenza per una nuova tappa nel deserto.

Al suono di una sola tromba, i capi delle migliaia si sarebbero dovuti radunare presso Mosè, all’ingresso della tenda di convegno.

Se queste due trombe avessero squillato insieme una volta, ma con lunghi squilli, acuti e prolungati, allora tutto il popolo avrebbe dovuto radunarsi all’ingresso della tenda di convegno.

Se gli stessi squilli, acuti e prolungati, delle due trombe fossero stati ripetuti, quello era il segnale di partenza nel cammino nel deserto e, una volta entrati nel paese della promessa, lo stesso doppio squillo di entrambe le trombe avrebbe segnalato l’avvicinarsi della guerra, oppure poteva essere un segno di gioia durante le solennità, mentre si offrivano dei sacrifici a Dio.

Chiunque, nel popolo, conosceva bene il significato di questi suoni perché, prima o poi, li aveva uditi e aveva imparato a riconoscerli, nell’arco dei lunghi anni nel deserto, e a tenerli a mente per quando sarebbero entrati nel paese.

Il profeta Gioele parte dal presupposto che lo squillo di tromba di cui parla sia conosciuto da tutto il popolo e, allo stesso modo, sia sentito da tutti.

La prima tromba (2:1-14)

“Suonate la tromba a Sion! Date l’allarme sul mio monte santo!” (v. 1)

Nel nostro capitolo troviamo una sola tromba che suona. Il fatto che non ci sia detto “con squilli acuti e prolungati” significa che quello squillo avrebbe dovuto richiamare i capi, i primi delle migliaia, allo scopo di radunare insieme la parte responsabile. Come nel deserto l’ingiunzione era di presentarsi a Mosè, qui il luogo di ritrovo è Sion, il monte santo, il luogo che Dio aveva scelto e che aveva desiderato come Sua dimora (Salmo 132:13).

In quale altro luogo, se non alla presenza di Dio, si poteva essere messi davanti alla dura realtà di ciò che li attendeva? Se il capitolo 1 ci ha descritto il triste stato in cui era venuto a trovarsi questo popolo a causa dell’abbandono del suo Dio, questo secondo capitolo ci mostra le risorse che Dio offre per ristabilirlo e benedirlo.

Anche i credenti oggi potrebbero essere chiamati a fare la medesima esperienza. Se, come abbiamo visto nel primo capitolo, abbiamo perso di vista la comunione col Signore e la nostra vita spirituale è andata sempre più decadendo, tuttavia non siamo lasciati senza una porta aperta alla speranza. La punizione fine a se stessa non è ciò che il Signore ha in vista per noi, e la disciplina, se è punitiva, ha sempre lo scopo di farci riflettere e farci del bene alla fine.

Davide poteva dire: “Sto in silenzio, non aprirò bocca, perché sei tu che hai agito… Castigando la sua iniquità tu correggi l’uomo” (Salmo 39:9-11).

Inoltre Dio ha in vista di riportaci nelle condizioni di poter ricevere benedizioni anche maggiori delle prime e di farci esclamare, come il salmista: “Prima di essere afflitto andavo errando, ma ora osservo la tua parola” (Salmo 119:67). Anche il profeta Osea poteva incoraggiare il popolo dicendo: ”Venite, torniamo al SIGNORE, perché egli ha strappato, ma ci guarirà; ha percosso, ma ci fascerà… e noi vivremo alla sua presenza” (Osea 6:1-2).

Ora, tutti coloro che hanno delle responsabilità in mezzo al popolo sono sul monte santo, presso l’Eterno e possono assistere, da un punto di vista più elevato, a quello che sta per accadere. Davanti a loro passa in rassegna quell’esercito che sarà la verga nella mano di Dio per esercitare il Suo giudizio.

La descrizione che il profeta fa è quella di un esercito ben compatto (v. 7), inarrestabile (v. 8), devastante come il fuoco per la stoppia (v. 3) e, davanti a tale imponenza, come non fermarsi a riflettere?

Tuttavia, ciò che più colpisce in questa panoramica è scoprire chi è che guida questo esercito. Il v. 11 indica con chiarezza che questo nemico che si abbatte sul popolo è guidato da Dio stesso! Niente accade ai Suoi che non sia approvato o voluto da Lui.

Satana, il nemico per eccellenza, sarebbe sempre pronto ad intervenire nella vita dei credenti, se ciò gli fosse possibile. Nella Parola troviamo però alcuni casi nei quali si capisce bene che Satana può sì intervenire nella vita del credente, ma solo nella misura e per il tempo che Dio stesso gli concede. Il caso di Giobbe è uno di quelli; ma come non ricordare le parole che il Signore Gesù disse a Pietro: “Simone, Simone, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano” (Luca 22:31)? L’apostolo Paolo, colpito da quella malattia che definisce “una spina nella carne”, dice che gli è stato mandato un angelo di Satana per schiaffeggiarlo affinché non insuperbisse (2 Corinzi 12:7).

Nulla accade senza l’assenso di Dio, anche se spesso non vediamo come certe circostanze possano essere utili a farci riflettere.

Il soggetto della disciplina di Dio verso i Suoi è molto vasto, ma ciò che conta è che noi dovremmo sempre pensare: cosa mi vuole insegnare il Signore, attraverso questa circostanza? Le circostanze, non sempre belle, della nostra vita ci devono far riflettere sul fatto che potrebbero essere un richiamo di Dio ad una maggiore comunione con Lui e con  il Suo Figlio.

Ma non ogni avversità della vita dev’essere considerata una disciplina di Dio e, tanto meno, una disciplina punitiva. Inoltre, nessuno di noi è autorizzato a considerare punitiva la disciplina del Signore verso qualcuno dei nostri fratelli; ciò che conta è che ognuno abbia sempre l’umiltà di chiedersi il perché delle cose che gli avvengono; potrebbe essere un bel modo per ascoltare la voce di Dio.

Dio ci parla principalmente attraverso la sua Parola, ma questo vale per coloro che la leggono ogni giorno in preghiera e sottomissione, traducendo in azioni quello che ogni volta imparano. Per tutti gli altri, Dio è costretto ad usare altri mezzi, e questi, spesso, non sono indolori.

“Nondimeno, anche adesso… tornate a me con tutto il vostro cuore” (v. 12)

L’invito fatto è sempre lo stesso: “tornare” a Dio. Per incoraggiare questo dietro-front, Egli si presenta come il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e pieno di bontà (v. 13), gli stessi caratteri rivelati a Mosè subito dopo l’episodio del vitello d’oro (Deuteronomio 34:6).

La confessione e il pentimento devono essere sinceri e completi. L’umiliazione davanti a Dio non deve essere esteriore, ma deve sgorgare dal cuore. Non dobbiamo “curvare la testa come un giunco” (Isaia 58:5) per rialzarla poi con orgoglio subito dopo che il giudizio è passato! Dio non vuole l’esteriorità, ma vuole che tutto inizi dalla parte interna di noi stessi: il cuore.

Il Signore, parlando dei Farisei, li paragonava a dei sepolcri la cui apparenza esteriore era una facciata di perbenismo religioso, mentre l’interno era ripieno di “ogni immondizia” (Matteo 23:27).

A conferma di questo desiderio di Dio, Gioele poteva dire: “Stracciatevi il cuore, non le vesti; tornate al SIGNORE, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira e pieno di bontà” (v. 13); sarebbe stata la prova che il proprio stato di peccato era riconosciuto e che si era pronti ad abbandonarlo. Il sacrificio gradito a Dio è “uno spirito afflitto”, poiché Egli non disprezza “un cuore abbattuto ed umiliato” (Salmo 51:17)

Questa prima tromba ha dunque uno scopo ben preciso: radunare tutti coloro che sentono la responsabilità di questa disastrosa condizione e che, di fronte alla verga di Dio, non si schierano in battaglia, ma si rivolgono a Lui con umiltà, mostrando afflizione e pentimento, dopo aver preso coscienza del grave stato delle cose.

La seconda tromba (2:15-17)

“Suonate la tromba a Sion! Proclamate un digiuno, convocate una solenne assemblea!” (2:15)

Se la prima tromba ha invitato coloro che, con senso di responsabilità, avevano a cuore un risveglio, la seconda invita all’azione: “Proclamate un digiuno” per tutta l’assemblea!

Già nel primo capitolo, commentando il v. 14, abbiamo avuto modo di riflettere sull’espressione “solenne assemblea”. Là era stata proclamata per mostrare a tutto il popolo la triste condizione in cui era caduto, qui invece per porvi rimedio attraverso l’umiliazione e il pentimento.

Tutti sono convocati, nessuno escluso, dai vecchi ai bambini, anche “quelli che poppano ancora” (v. 16). Niente doveva essere d’impedimento o di pretesto per non  presentarsi davanti a Dio: né l’età né la circostanza unica e felice come il giorno del matrimonio (v. 16). Nessuno doveva dire sono troppo vecchio o troppo giovane o troppo occupato.

“Risparmia, o SIGNORE, il tuo popolo” (2:17)

Questa preghiera doveva essere rivolta a Dio dai sacerdoti, stando fra “il portico e l’altare”.

Il Tempio rendeva testimonianza al solo vero ed unico Dio, in contrasto con la moltitudine di templi pagani che vi erano in mezzo agli altri popoli. Era quello l’unico luogo in cui Dio voleva incontrare l’adoratore che gli offriva olocausti (Deuteronomio 12:13), perché era quello il luogo che Dio aveva scelto.

Prima di arrivare al portico, si incontrava un altare che era stato costruito ai tempi di Salomone (2 Cronache 8:12) e che il re Asa aveva ristabilito (2 Cronache 15:8); quello ora avrebbe dovuto essere il luogo del pianto e della preghiera.

Ezechiele parla dello stesso luogo, ma in termini ben diversi. Egli viene condotto “all’ingresso della porta della casa del SIGNORE” e da lì vede “venticinque uomini che voltavano le spalle alla casa del SIGNORE” (Ezechiele 8:16). Benché più avanti (9:6) siano identificati come “anziani”, questi venticinque uomini sono sicuramente dei sacerdoti; purtroppo, anziché invocare la misericordia di Dio a favore del popolo li troviamo intenti a prostrarsi “verso l’oriente, davanti al sole”!

Ora, poiché l’ingresso del Tempio guardava ad oriente, in modo tale che una persona che fosse rivolta all’altare guardava l’occidente, possiamo dedurre che questi sacerdoti avevano voltato le spalle a Dio. Questo gesto era già di per sé un disprezzo per il Dio d’Israele, anche se non fosse stato unito al culto idolatra del sole, in aperta violazione della legge del SIGNORE (Deuteronomio 4:19).

Benché Ezechiele ne parli in questi termini, questo luogo rimaneva sempre il luogo in cui Dio voleva incontrare colui che lo cercava. Per quanto ci riguarda, se la nostra vita personale o collettiva ha preso una brutta strada, non esiste altro luogo nel quale possiamo ritrovare la comunione con Dio e la forza per riprendere il giusto cammino se non alla croce, dove l’opera di Cristo è stata perfettamente compiuta. È lì che dobbiamo tornare col nostro pensiero e col nostro cuore per ritrovare, attraverso l’umiliazione e la preghiera, la comunione col Padre e col Figlio; e farlo con la consapevolezza che Dio può perdonarci in Cristo perché, “se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo il giusto. Egli è il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati” (1 Giovanni 2:1-2).

Questa preghiera del v. 17 contiene due richieste: “risparmia” e “non esporre all’infamia”. La prima esprime una necessità personale, quella del perdono per evitare le conseguenze del castigo; la seconda si riferisce alla buona testimonianza che è venuta a mancare.

“Perché dovrebbero dire fra i popoli: Dov’è il loro Dio?” (2:17)

Un aspetto del cattivo stato spirituale di un credente, che non sempre teniamo nella dovuta considerazione, è quello della brutta testimonianza che diamo agli altri. Spesso non ci si rende conto del “danno d’immagine”, per usare una espressione attuale, che ne deriva per il credente e per il Signore, perché il mondo, benché non lo notiamo, ci osserva e trae le sue considerazioni.

Un credente che perde la comunione col Signore finirà col dare un’immagine distorta della sua fede. Gli increduli non noteranno alcuna differenza fra loro stessi e il credente; e nel momento in cui sorgeranno delle difficoltà, quando Dio interverrà con la disciplina, l’atteggiamento del mondo sarà quello di chiedersi: “Ma il suo Dio, quello di cui mi parlava e che diceva di amare tanto, dov’è?”.

Nell’episodio del vitello d’oro (Esodo 32) Dio, a seguito di quell’atto di idolatria, si rivolge a Mosè dicendogli: “Ho considerato bene questo popolo; ecco, è un popolo dal collo duro. Dunque, lascia che la mia ira s’infiammi contro di loro e che io li consumi, ma di te io farò una grande nazione” (Esodo 32:9-10). Mosè, benché messo di fronte ad una prospettiva per sé umanamente lusinghiera, antepone gli interessi di Dio ai propri, e intercede per il popolo. Inoltre, fa presente a Dio che gli Egiziani non si capaciterebbero di un tale giudizio e direbbero: “Egli (Dio) li ha fatti uscire per far loro del male, per ucciderli tra le montagne e per sterminarli dalla faccia della terra!”(Esodo 32:12), facendosi un’idea errata del Dio d’Israele.

Il mondo non comprende il linguaggio che Dio usa coi Suoi figli, ma vede gli effetti che la Parola di Dio ha sulle loro vite.

Paolo invita Tito ad esortare i vecchi, le donne anziane e le giovani ad un comportamento tale da produrre negli altri un serio motivo di riflessione; e lo sollecita ad essere egli stesso “esempio di buone opere”, “perché la parola di Dio non sia disprezzata”. Lo scopo di tutto questo non è solo di essere un esempio per altri credenti, ma di rendere una testimonianza che porti “l’avversario” ad essere confuso “non avendo nulla di male da dire di noi” (Tito 2:8).

Il Signore ci lascia in questo mondo per testimoniare di Lui. Ci ha fatti “sale della terra” e “luce del mondo,” ma a volte manchiamo al nostro dovere e il mondo, che ci osserva, può avere una vasta gamma di reazioni negative che vanno dall’indifferenza verso le cose di Dio alla bestemmia del Suo nome (Romani 2:24).

Di tutto questo siamo responsabili. Ogni volta che la nostra testimonianza non è quella che dovrebbe essere, non solo rechiamo un danno a noi stessi, ma anche al nome di Cristo, ponendo inconsapevolmente degli ostacoli alla salvezza di altri, dei quali dovremo rendere conto come la sentinella di Ezechiele 33:6.

Le promesse di Dio

Dal v. 18 in poi la scena cambia totalmente. Dio, dopo aver invitato il popolo ad umiliarsi e pentirsi, sembra aver già pronte le benedizioni.

Egli non resta insensibile alle preghiere, perché “è vicino a quelli che hanno il cuore afflitto, salva gli umili di spirito” (Salmo 34:18). È solo “sul monte Sion e a Gerusalemme” che vi sarà la salvezza, solo chi “invocherà il nome del SIGNORE sarà salvato” (v. 32). Come scrive il profeta Malachia (3:10): “Mettetemi alla prova… vedrete se io non vi aprirò le cateratte del cielo e non riverserò su di voi tanta benedizione che non vi sia più dove riporla”.

Tutto ciò che leggiamo dal v. 18 in poi contrasta col capitolo 2; non ci sarà più mancanza di grano, di vino e di olio (v. 19), i nemici saranno tenuti lontani e respinti fuori dai confini del paese (v. 20), gli alberi, una volta seccati e resi sterili (1:12), ora producono un frutto abbondante (v. 22), i corsi d’acqua, una volta inariditi (1:20), potranno riprendere il loro corso per irrigare, perché approvvigionati dalla pioggia d’autunno e di primavera (v. 23), e le benedizioni divine compenseranno le perdite (v. 25) delle annate quando tutto andò distrutto dagli insetti divoratori (1:4).

Noi pensiamo spesso alla Chiesa nel suo inizio. Essa era veramente alla gloria di Dio (Atti 2:42-47) e tutto sembrava prosperare; purtroppo, però, il nemico ha lavorato: si è cominciato a “lasciare il primo amore” (Apocalisse 2:2-4) per fare poi alleanza col mondo fino a permettere a questo di prendere il sopravvento (id. v. 12-16). Se ciò è vero della cristianità, è pur vero anche di ciascuno di noi individualmente perché corriamo il grosso rischio di lasciare che la concupiscenza ci attragga e ci seduca (Giacomo 1:14), che l’amore per il denaro, per il mondo, per il prestigio prendano il primo posto nel nostro cuore, finché Dio non è costretto ad intervenire in giudizio.

Il nemico, ovviamente, trae profitto da situazioni come queste e spesso insinua nei credenti il dubbio della irreparabilità del declino, facendo leva sulle mille difficoltà e sulla fatica di una ricostruzione (cfr. Neemia 2:13-14 e 4:10).

Dio è geloso del Suo popolo e nella Sua gelosia ha avuto pietà (2:18). “Geloso” è il Suo nome (Esodo 34:14), geloso perché non vuole che il suo popolo adori altri dei (Deuteronomio 6:14-15), geloso del Suo Santo Nome (Ezechiele 39:25), geloso di Sion (Zaccaria 8:2). Ed è così tanto geloso da non perdonare le ribellioni e i peccati (Giosuè 24:19). La Sua gelosia “è dura come il soggiorno dei morti” (Cantico dei Cantici 8:6) che non restituisce ciò di cui si è appropriato.

Le promesse qui elencate avranno un’applicazione letterale nel futuro Israele, durante il Regno del Signore, ma ne hanno anche una morale per noi oggi. Noi pure possiamo sperimentare che il Signore è in mezzo a noi (v. 27), che non saremo più coperti di vergogna (v. 27) e che possiamo gloriarci in Dio (Romani 5:11). Ci aiuti il Signore a realizzare tutto questo! Nella misura in cui ricercheremo la Sua presenza e faremo la Sua volontà, potremo gustare l’abbondanza delle Sue benedizioni; allora, “la pioggia” (v. 23) ci sarà elargita in “giusta misura” e “come prima”. Niente è cambiato in Lui; l’ingiunzione a non lasciarsi ingannare e “a non abbandonare la retta via” (Deuteronomio 11:14-17) è valida oggi come ieri, perché la Sua mano non si accorcia (Numeri 11:23, Geremia 59:1).

CAPITOLO 3

Non insuperbirti ma temi

Se il primo capitolo ha messo in evidenza il peccato del popolo e il giudizio di Dio, e il secondo capitolo l’invito al pentimento, che porta ad una ripresa della comunione con Dio in vista delle sue benedizioni, questo terzo capitolo ci pone di fronte alle responsabilità della conoscenza di queste cose.

Abbiamo così davanti l’amore di Dio per il Suo popolo e il giudizio dei nemici i quali, nel compiere i castighi di Dio, non hanno avuto limiti ma hanno agito con inaudita crudeltà.

“A proposito della mia eredità” (3:2)

Ogni riferimento al popolo d’Israele è caratterizzato dal possessivo “mio”: “il mio paese” (v. 2), “il mio popolo”(v. 3), “il mio argento ed il mio oro… i miei tesori più preziosi” (v. 5). Tutto è Suo, tutto gli appartiene. Gli appartiene il paese, figura del luogo nel quale può elargire le benedizioni; gli appartiene il popolo, figura delle persone alle quali può elargirle, l’oro e l’argento figura delle ricche benedizione che elargisce.

Tutto questo ci parla di quanto siano preziosi i fedeli agli occhi di Dio. Così è per Israele e così è per ogni riscattato anche oggi (cfr. Esodo 19:6, 1 Pietro 1:9). Quanta consapevolezza abbiamo di tutto ciò? Forse il nemico e il mondo che ci circonda non se ne rendono conto, ma in noi resta questa preziosa consapevolezza.

Essere dei riscattati, appartenere al Signore, vivere la nostra vita in una sfera di grande benedizione è certamente un immenso privilegio, ma dobbiamo tenere presente anche la nostra responsabilità. In questa sfera nella quale il Signore vuole benedirci, si trovano tutti i credenti e non solo una parte.

Le benedizioni per Israele erano condizionate alla fedeltà e, per certi versi, è così anche per noi oggi, senza dimenticare però di essere parte della Chiesa del Signore, un “popolo” che Dio ha tanto amato e ama.

“Le nazioni… le chiamerò in giudizio” (3:2)

Le nazioni vicine a Israele, Tiro, Sidone e la Filistia (v. 4), hanno un conto in sospeso con Dio, per aver approfittato del compito loro affidato per punire Israele, e aver commesso una serie di atrocità per le quali Dio a loro volta li chiamerà in giudizio (nei capitoli 1 e 2:1-2 del profeta Amos ne abbiamo un resoconto dettagliato).

Il fatto che Dio giudicherà il mondo che ha odiato il Signore Gesù e  i Suoi santi (Giovanni 15:18) deve farci riflettere; come credenti dobbiamo far di tutto perché non tutti gli increduli cadano sotto il giudizio, strappandone quanti più possibile da quel terribile avvenimento predicando loro l’Evangelo; senza però dimenticare che c’è un giudizio che “deve cominciare dalla casa di Dio”, della quale facciamo parte (1 Pietro 4:17)!

La lezione di questi versetti è solenne e ci porta a riflettere sulle parole del Signore stesso: “Con il giudizio con il quale giudicate, sarete giudicati; e con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi” (Matteo 7:2); lezione spesso dimenticata che talvolta ci fa essere molto severi con gli altri, ma molto “indulgenti” con noi stessi. La “pagliuzza” nell’occhio del fratello (Luca 6:42) certamente gli impedisce di vedere bene le vie di Dio e dev’essere tolta, ma il Signore avverte che dobbiamo prima togliere la “trave” dai nostri occhi. Se siamo consapevoli di essere sfuggiti, per la grazia di Dio, alla Sua condanna e abbiamo gustato il Suo amore, capiamo bene di non avere il diritto di innalzarci a giudici per condannare gli altri (Romani 14:4). Questo, tuttavia, non vuol dire essere indifferenti e insensibili verso il fratello che sbaglia (Matteo 18:15) e che dobbiamo esortare, aiutare, riprendere.

Qualcuno ha giustamente detto: “Se la conoscenza che possiamo avere della verità la usiamo solo per giudicare i nostri fratelli, dimostreremo di essere ipocriti e senza  cuore”.

Esaminiamo, dunque, noi stessi (1 Corinzi 11:31) per essere con gli altri “misericordiosi come è misericordioso il Padre” (v. 36).

C’è una folla, una moltitudine” (3:14)

Che differenza fra queste folle! La prima era una “solenne assemblea” (1:14) per avvertire del giudizio, la seconda invitava al pentimento (2:15), e qui è in vista del giudizio ormai decretato.

Sotto l’aspetto profetico questo giudizio sarà la premessa alle benedizioni per Israele e per le Nazioni, ma l’insegnamento pratico è molto importante. Questa folla rappresenta tutti gli uomini che non hanno tenuto conto di Dio e della Sua volontà, e se ne sono così tanto allontanati che Dio li ha “abbandonati” (Romani 1:18-32). Il giudizio delle Nazioni sarà la premessa per le benedizioni future, così come quello che è detto in Romani 1 sullo stato dell’uomo colpevole è la premessa per lo sviluppo della grazia di Dio, manifestata nel Figlio. Il riconoscimento del peccato e la consapevolezza del meritato castigo saranno il presupposto per ricevere la grazia attraverso l’Evangelo!

Questa folla è sotto giudizio perché, dopo essere stata come una verga nelle mani di Dio per colpire Israele, si è inorgoglita, e la sua superbia l’ha portata ad innalzarsi e a prendere un posto che non le spettava.

Talvolta, a causa del peccato di un fratello o di una sorella, l’assemblea è costretta ad esercitare la disciplina nei loro confronti; l’ordine, tuttavia, è di farlo nella consapevolezza che non sono i fratelli che esercitano il giudizio, ma il Signore stesso; essi non sono che strumenti nelle Sue mani e devono, se è il caso, riprendere e giudicare con lo stesso metro che il Signore usa.

A questo riguardo potremmo correre due rischi: il primo è quello di tollerare il male, di mancare al nostro dovere nei confronti di un peccato di cui siamo a conoscenza; il secondo è di esagerare nella severità, come hanno fatto queste nazioni nei confronti del popolo terreno di Dio. Questi nostri giudizi non passeranno inosservati agli occhi del Padre, che a sua volta ci riterrà responsabili di un tale comportamento. Perciò dobbiamo sempre più spesso applicare a noi stessi, individualmente e collettivamente, le parole di Romani 11:20: “Non insuperbirti, ma temi”.

Anche questa è una delle utili lezioni che il Libro del profeta Gioele ci impartisce.