La chiesa di Antiochia, un modello da imitare

di Daniele Calamai

Nel libro degli Atti c’è la storia della Chiesa agli inizi, e per questo possiamo trovare indizi utili per conoscere ciò che caratterizzò la nascita, la crescita e la vita di singole chiese locali, quali furono i loro problemi e di come vennero risolti per imparare, sul loro modello, come vivere oggi nella realtà di una chiesa locale.

La nascita della chiesa di Antiochia (*)(Atti 11:19-23)
Benché il mandato dato agli Apostoli fosse quello di essere testimoni in Gerusalemme, in Giudea, in Samaria e fino all’estremità della terra (Atti 1:8), sembra che questo compito sia stato all’inizio alquanto disatteso. I discepoli non si erano certo tratti indietro dal predicare l’evangelo, ma sembra di capire che fino al martirio di Stefano si erano mossi poco per andare al di là di Gerusalemme e delle zone circostanti.
È dopo la morte di Stefano e a causa delle persecuzioni che seguirono, che leggiamo che “quelli che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, portando il lieto messaggio della Parola” (Atti 8:4).
Dopo una parentesi che racconta la conversione di Cornelio, la Parola dice che questi credenti che erano stati dispersi cominciarono ad annunciare la Parola “fino in Fenicia, in Cipro e in Antiochia”. Questa predicazione fu tuttavia circoscritta nella sua espansione, in quanto molti si limitavano a parlare soltanto ai Giudei.

Ma alcuni di loro andarono al di là delle consuetudini e delle barriere culturali, e per la prima volta ai Greci fu annunziato “il Signore Gesù”. Questa predicazione non tardò a dare i suoi frutti alla gloria del Signore, perché il Signore era con coloro che Lo annunciavano. A questa predicazione seguì la conversione di un gran numero di persone. La chiesa di Antiochia, terza città dell’Impero Romano, non poteva vantarsi di essere stata fondata dalla predicazione di un apostolo.

Spesso ci chiediamo dove e come predicare l’Evangelo. Siamo così presi dall’attesa di queste risposte che dimentichiamo il mandato che abbiamo ricevuto di farlo in ogni luogo, verso tutti e con i mezzi che il Signore stesso ci dà. Dovremo forse aspettare che il Signore permetta una persecuzione per spingerci a parlare agli altri della nostra fede? Non è molto meglio entrare per quelle porte che il Signore così spesso ci apre ma che noi, se non proprio chiudiamo, quanto meno ci rifiutiamo di oltrepassare? O forse pensiamo che il Signore non sia più con noi come altra volta lo fu con quei discepoli? È ben vero che sono i tempi delle piccole cose, ma siamo per questo dispensati dal compiere neppure quelle?

I rapporti con la chiesa di Gerusalemme (Atti 11:22-30).
Precedentemente un’altra notizia era giunta alla Chiesa di Gerusalemme ed era quella della conversione di Cornelio ad opera di Pietro. In questo primo caso alcuni fratelli avevano “contestato” il modo di fare di Pietro che dovette giustificare il suo comportamento e lo fece raccontando le cose “per ordine fin dal principio” (11:2-4). Nel nostro passo l’atteggiamento dei fratelli di Gerusalemme è ben diverso, segno che la lezione era stata imparata: non si doveva giudicare “per sentito dire”, ma dopo aver accertato i fatti e soprattutto non prima di sapere le cose nell’ordine e sulla base di quali circostanze i fatti si erano svolti.
È per questo che fu deciso di mandare Barnaba, “figlio di consolazione” (4:36-37) a verificare di persona la situazione; ed egli non poté che constatare “la grazia di Dio” che aveva operato nelle anime di quei credenti. È bello notare che non vi è alcun accenno al lavoro svolto “da quelli che predicarono l’evangelo in quella città, ma tutti i risultati sono attribuiti alla “grazia di Dio”. Nessuno avrebbe potuto gloriarsi.
La sensazione che Barnaba ne ricava è di allegrezza e non può far altro che esortare tutti “ad attenersi al Signore con cuore risoluto”. Da ciò che leggiamo in questi versetti deduciamo che Barnaba non lasciò più questa chiesa. Vede il lavoro che può essere svolto e senza perdere tempo cerca un compagno per il servizio per il Signore a favore dei credenti in quella località. Cercò Paolo a Tarso e lo prese con sé per svolgere il ministerio in quella città. Per un anno intero essi parteciparono alle riunioni della chiesa senza trascurare il loro servizio volto ad ammaestrare i fratelli del luogo. I risultati non tardarono ad arrivare; ne vedremo alcuni più avanti, ma già possiamo notare che la Parola ci dice che fu in quella città che i credenti vennero chiamati per la prima volta “cristiani”. È evidente che se gli increduli li chiamarono così era perché si vedeva dal loro comportamento che erano veramente “dei seguaci del Cristo” e questo soprannome è molto di più che un’etichetta per classificare un gruppo di persone. Questo soprannome mostra da una parte, che quei credenti non attiravano l’attenzione su se stessi ma su Cristo, e dall’altra che, benché differenti per origine, per cultura, razza o ceto sociale, seguivano Cristo e non degli uomini. Barnaba ha così lasciato la sua assemblea per mettersi al sevizio del Signore in un’altra. Voglia il Signore darci di tali fratelli che, constatando i bisogni, abbiano questa piena disponibilità, anche se questo dovesse comportare di lasciare la propria città per trasferirsi in un’altra rinunciando, in parte, ad eventuali legami di parentela e di amicizia e, forse, anche ad un lavoro ben retribuito. Qualche volta il Signore potrebbe chiamarci a farlo. Saremmo tutti disponibili a tal punto?

Ma non fu solo Barnaba a muoversi da Gerusalemme per andare ad Antiochia. Vi andarono anche alcuni profeti ed il nostro passo ci dice che uno di loro, di nome Agabo, predisse che vi sarebbe stato una grande carestia su tutta la terra.

È senz’altro interessante soffermarsi sull’atteggiamento dei credenti di Antiochia i quali anziché prepararsi a quell’evento in maniera egoistica si preoccuparono di organizzare una sovvenzione “per i fratelli della Giudea”, ciascuno secondo le proprie possibilità.

C’è da chiedersi se saremmo capaci di tanto altruismo e di così grande amore fraterno nei confronti dei nostri fratelli più poveri. Vi sono realtà locali, spesso non lontane da noi, di estrema indigenza, a causa di guerre, terremoti, sconvolgimenti naturali che dovrebbero essere sempre davanti ai nostri occhi. Chissà se il nostro “mettere mano al portafoglio” è davvero “secondo le proprie possibilità”! Solo noi e il Signore lo possiamo sapere e sarà Lui solo che ci chiederà conto di come abbiamo gestito tutte le benedizioni materiali che ci ha elargito nella sua grazia.

Vita della Chiesa locale (Atti 13:1-4; 14:26-28)
Abbiamo già avuto modo di constatare alcune caratteristiche della vita di questa assemblea: riunioni d’assemblea, riunioni d’insegnamento da parte di alcuni fratelli, visite di credenti di altre assemblee e sensibilità ai bisogni altrui. Ma vi è dell’altro.
Il cap. 13 degli Atti apre una finestra sulla vita locale di questa Chiesa, finestra alla quale è opportuno affacciarsi per fare alcune considerazione.
Prima di tutto, il nostro passo ci dice che vi erano dei profeti e dei dottori. La chiesa era nata dalla predicazione di alcuni discepoli, ma il Signore non aveva permesso che la sua crescita si fermasse. L’insegnamento dato da Barnaba e Saulo aveva portato del frutto ed ora questa chiesa può vantare ben cinque fratelli che sono profeti e dottori, e tutto questo sembra essere il frutto di un solo anno di lavoro (11:26). C’è da chiedersi come mai nelle nostre realtà locali non solo non cresciamo di numero, ma spesso neppure di conoscenza. Come mai certi “ministeri” sembrano essere appannaggio di pochi fratelli mentre la maggior parte rimane come in una zona d’ombra, senza crescita, almeno apparente, e, per conseguenza, disutile alla vita dell’assemblea. Le cause non possono essere che due: o mancano fratelli che possono svolgere un servizio d’insegnamento, oppure mancano allievi disposti ad imparare. Questo dovrebbe far riflettere tutti noi, esaminando ciascuno se stesso e chiedendosi che cosa si aspetta il Signore da noi. Quanti sono disposti, fra quei fratelli qualificati a tale servizio, a dedicare del tempo all’insegnamento per formare altri che siano capaci di trasmettere ad altri ancora (2 Tim. 2:2)? E quanti di noi sono disposti a dedicare del tempo per imparare ciò che la Parola di Dio ci vuole insegnare per essere poi a nostra volta utili all’assemblea? Credo vi siano mancanze da entrambe le parti! Voglia, perciò, il Signore metterci a cuore di colmare questa grossa lacuna per non disattendere quei compiti che ci vuole affidare.

Nel nostro passo leggiamo che questi fratelli “celebravano il culto del Signore”. Non si sa bene se si riferisce alla lista dei nomi precedentemente elencati, oppure a tutti i membri della chiesa. Ma è preferibile pensare che le decisioni che seguirono furono prese dell’intera assemblea e non da alcuni fratelli, benché qualificati. Resta comunque il fatto che ciò che avvenne fu “mentre stavano attendendo al sevizio del Signore” (lett.), posizione benedetta nella quale dovremmo trovarci sempre, perché è allora e solo allora che lo Spirito Santo può rivelare la volontà di Dio.

“Mettetemi da parte Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati”. Niente di più ci viene detto, ma questo è sufficiente per mettere in evidenza due cose:
– la prima è che questi fratelli sono chiamati ad un’opera particolare direttamente dallo Spirito Santo,
– la seconda, che tutti ne furono convinti, sia coloro che erano gli incaricati della missione, sia tutti gli altri. La convinzione che ciò che era stato rivelato fosse la volontà del Signore fu dunque unanime.
Quanto siamo capaci di avere tali convinzioni unanimi nella nostra vita di assemblea? Spesso siamo divisi nelle nostre convinzioni e occorre molto tempo prima che si riesca a raggiungere l’unanimità, se si riesce a trovarla. Forse è dovuto al fatto che mancano i presupposti perché la voce dello Spirito Santo possa farsi udire. Se fossimo più spesso impegnati ad “attendere al servizio del Signore”, facendo ciascuno la propria parte, allora lo Spirito avrebbe maggiore libertà di agire in noi e nell’assemblea.
Se la convinzione è dallo Spirito, non vi può che essere unanimità. Coloro che sono chiamati hanno piena approvazione e riconoscimento da parte di tutti; non vengono posti limiti al tipo di ministerio da svolgere, né al luogo in cui svolgere il servizio, né ai mezzi da usare; la fiducia è totale. Se ci confrontiamo a un tale modello non possiamo che trovarci mancanti. Può capitare che i fratelli e le sorelle, coi quali siamo vissuti per anni, non ci accordino piena fiducia per un servizio che abbiamo a cuore di fare; dovremmo allora chiederci il perché. Cosa abbiamo fatto per meritare tale sfiducia? Se non partiamo di lì corriamo il rischio di contristare, se non spegnere, lo Spirito Santo.

Questi versetti ci insegnano anche che per questi servizi non basta essere dei “volontari”, ma occorre una chiamata da parte del Signore”

La nostra disponibilità: “Eccomi, manda me” (Isaia 6:8), è il primo passo, ma occorre che il servitore attenda la chiamata per partire, così come agli altri occorrerà la piena certezza che sia lo Spirito a chiamare. Se i fratelli dell’assemblea sono spirituali e in grado di capire il pensiero del Signore, il servitore, se è il Signore che lo chiama, avrà la piena comunione dell’assemblea che è così necessaria.

Non entreremo nell’esperienze fatte da questi servitori durante il loro viaggio missionario, ma ci soffermeremo solo sul loro ritorno. Al termine del loro primo viaggio missionario, i fratelli che erano stati “raccomandati alla grazia di Dio, per l’opera che avevano compiuta” ritornano nell’assemblea dal quale sono partiti e ”riferiscono tutte le cose che Dio aveva compiute per mezzo di loro” alla chiesa radunata.

Quadro veramente invidiabile! Missionari che partono, in perfetta comunione con un’assemblea che prega per loro e che è ben felice di ascoltare i risultati ottenuti alla gloria del Signore. C’è veramente da chiedersi che cos’è che ci manca per poter realizzare tutto questo.

Se queste cose fossero vissute fra noi, certamente saremo anche capaci di affrontare nel modo giusto tante altre situazioni che potrebbero sorgere nella vita di un’assemblea.

Problemi dottrinali (Atti 15:1-3, 30-35)

Il cap. 15 ci presenta le prime difficoltà. Arrivano dall’esterno e vengono a turbare il buon andamento di quest’assemblea.

Da chi provengono? “Alcuni venuti dalla Giudea” (v. 1), che Paolo definirà nell’epistola ai Galati, “falsi fratelli, infiltratisi di nascosto fra di noi per spiare la libertà che abbiamo in Cristo” – che i credenti di Antiochia avevano in Cristo – “con l’intenzione di renderci schiavi”  (Galati 2:4). L’affermazione che questi fanno è addirittura: “Se non siete circoncisi… non potete essere salvati”, e la chiesa di Antiochia non può rimanere insensibile a simili dichiarazioni. La posta in gioco è alta. Si rischia una divisione con quelli di Gerusalemme coi quali, come abbiamo visto in precedenza, esisteva una perfetta comunione. La cosa dev’essere risolta ed al più presto.
Paolo, Barnaba ed altri (Tito – Galati 2:3) sono mandati a Gerusalemme per definire la questione.
Nell’epistola ai Galati Paolo dirà che vi è salito per rivelazione (2:2), qui in Atti che vi fu mandato; non è che un’apparente contraddizione, perché una volta di più possiamo constatare la perfetta comunione dell’assemblea con chi ha ricevuto la chiamata ad un servizio.
Non sappiamo quanto tempo sia occorso per affrontare questo viaggio; sappiamo solo che fermandosi in altre assemblee, i servitori del Signore inviati da Antiochia parlavano di conversioni portando allegrezza nella fratellanza. È certamente utile notare che là dove passarono non parlarono dei problemi con l’assemblea di Gerusalemme; perché turbare altri fratelli prima di aver definito la questione con i diretti interessati? Questo modo di fare ci sia d’esempio!
A Gerusalemme la questione viene definita nei modi che conosciamo. Una lettera “circolare” viene scritta a tutti per sancire che la cosa è chiarita, che a Gerusalemme si è ancora in perfetta comunione con quelli di Antiochia; la lettera non contiene l’opinione dei fratelli, ma “dello Spirito Santo” (15:28). Come poteva una tale lettera non portare in Antiochia allegrezza e consolazione (15:31)?
Da Gerusalemme, i fratelli di Antiochia non tornarono soli. A loro si erano uniti Giuda e Sila, “uomini autorevoli tra i fratelli” (15:22), “anch’essi profeti” (15:32) i quali portarono il loro contributo esortando e fortificando i loro fratelli.

Disaccordi fra fratelli

Paolo e Barnaba (Atti 15:36-40)

Anche Antiochia non è esente da problemi. Ecco che due fratelli si trovano in disaccordo. Il problema non è dottrinale, ma non per questo meno importante. Paolo fa una proposta al suo compagno Barnaba che sembra accettarla. Ma il disaccordo nasce successivamente sulla scelta di altri compagni da prendere con loro. Barnaba sembra voler dare una seconda possibilità a Giovanni detto Marco (suo cugino – Colossesi 4:10), già loro precedente compagno, ma che durante il viaggio era tornato indietro (Atti 13:13), Paolo, invece, ritiene che chi non aveva mostrato determinazione fin dall’inizio non potesse partire nuovamente. Ciò che ne nasce è “un’aspro dissenso” e la separazione di questi due fratelli che avevano lavorato tanto insieme alla gloria del Signore.

Non vogliamo esaminare qui le motivazioni di entrambi, ma constatare, piuttosto, l’atteggiamento dell’assemblea che sembra restare al di fuori della faccenda. Gli altri fratelli non entrano nel merito, non sembra che vi fossero schieramenti di parte. L’assemblea non si spacca in due scegliendo i loro beniamini. Solo quando la questione è risolta allora raccomanderà Paolo e i suoi nuovi compagni “alla grazia del Signore”. Che altrettanto non sia detto nei confronti di Barnaba sembra far pendere la bilancia a favore di Paolo. L’assemblea non ha preso le parti di nessuno, ma si è solo limitata a dare, ancora una volta, la completa comunione ad un fratello che lavora per il Signore.

Siamo sovente al centro di aspre contese, ma quanto ci lasciamo coinvolgere? I credenti di Antiochia riuscirono a starne fuori fin quando non furono in grado di vedere quella che sicuramente era la volontà del Signore.

Paolo e Pietro (Galati 2:11-14).
Anche in questa circostanza la chiesa di Antiochia sembra essere assente. È certo che tutti erano coinvolti in questo caso di simulazione e di ipocrisia da parte di un fratello dell’autorevolezza di Pietro, che aveva “trascinato” anche Barnaba. Ma in quell’assemblea vi era un fratello come Paolo che non si lascia coinvolgere.
Anche in questo caso abbiamo motivi di riflettere se sentiamo la mancanza di fratelli che non si lasciano trascinare dalle circostanze, ma sono ben fermi nella verità e non si assoggettano ad altri eminenti fratelli, ma confidano nel Signore e resistono in faccia a coloro che sono da condannare.

Conclusione

Passiamo in rassegna ciò che abbiamo visto fin qui di quest’assemblea:

– Nasce dalla predicazione di alcuni discepoli e non per la predicazione di qualche apostolo (11:19),
– Cresce di numero (11:21),
– È ammaestrata dagli apostoli (11:26),
– È visitata da profeti (11:27),
– Fa beneficenza (11:29),
– È là che per la  prima volta i credenti vengono chiamati cristiani (11:26)
– Quando vi sono problemi sia per un “servizio”, sia per “motivi dottrinali”, riesce a rimanere unita, senza divisioni o separazioni.

Che il Signore ci metta a cuore il desiderio di seguire l’esempio della chiesa di Antiochia!


(*) Antiochia
(di Siria) il cui nome significa: “appartenente ad Antioco” fu fondata circa nel 300 a.C. da Seleuco Nicatore che le diede il nome di suo padre. Quando la Siria divenne provincia romana verso il 64 a.C. questa città fu elevata al rango di capitale. Fu anticamente definita “Antiochia l’ammirabile”, “Corona dell’oriente” e anche “Terza capitale dell’Impero Romano” a causa delle bellezze del suo circondario, dell’importanza dei suoi commerci e della posizione strategica e commerciale dato che vi si intersecavano strade che provenivano dai quattro punti cardinali. Ai tempi apostolici Antiochia contava circa 500.000 abitanti.