La nostra lingua… un fuoco

Pubblicato con il permesso di Edizioni Il Messaggero Cristiano
 
di Alfredo Apicella
 

Prefazione

Riuscire a comunicare un pensiero attraverso la parola è un privilegio grandissimo del quale dobbiamo ringraziare Dio. La nostra lingua può essere usata per lodare Lui e per portare al nostro prossimo incoraggiamento, consolazione, esortazione, testimonianza. Ma può anche fare del male, molto male. 

La maldicenza è una delle più frequenti cause di tristezza e di divisione. Noi tutti, chi più chi meno, l’abbiamo subita e, purtroppo, l’abbiamo anche fatta. Ecco perché non mi è facile parlarne, e confesso al lettore il mio disagio. La mia stessa lingua potrebbe essere stata causa di molti mali messi in rilievo in questo scritto. Nessuno pensi dunque che si voglia rilevare le debolezze “degli altri”. Anzi, ciò che è scritto evidenzia prima di tutto le mie debolezze e ha lo scopo di produrre in tutti una sincera umiliazione e un vivo desiderio di piacere al Signore adeguando il nostro comportamento alla sua santa volontà.

Nelle pagine che seguono troverete due parti: la prima dedicata al cattivo uso della lingua (maldicenza, calunnia, disprezzo, adulazione, parole che fanno male), la seconda al buon uso della lingua (parole di lode, di testimonianza, di incoraggiamento, di sapienza, parole dette a proposito e nel tempo opportuno).

Un consiglio al lettore: legga sulla propria Bibbia tutte le citazioni indicate e, se lo ritiene, le evidenzi con una sottolineatura. Le ritroverà più facilmente nelle sue letture quotidiane e saranno per lui un continuo ricordo del pensiero del Signore e dei suoi incoraggiamenti, e un richiamo da parte Sua all’ubbidienza e alla sottomissione.

Introduzione

Tutto il nostro corpo deve essere messo con gioia al servizio del Signore, perché, da quando abbiamo creduto, non è più nostro ma Suo. Lui è il padrone. Quando sulla croce ha pagato il prezzo della nostra liberazione si è acquistato tutti i diritti su di noi, ha “comprato” l’intero nostro essere; non solo le nostre anime e il nostro spirito, ma anche il nostro corpo.

Pensate: il nostro corpo “è di Cristo” (Col. 2:17)! Non solo, ma è anche il tempio, cioè l’abitazione dello Spirito Santo. Lo leggiamo in 1 Corinzi 6:19 dove Paolo scrive: “Non sapete voi che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi?”. Se dobbiamo ricevere un ospite di riguardo ci teniamo che la nostra casa sia trovata in ordine, tanto più se sappiamo che quella persona è molto pulita e precisa. Ma Dio non è un ospite occasionale dentro di noi, uno che viene ogni tanto a farci visita e poi se ne va. Egli abita dentro di noi per mezzo del suo Spirito, ed è un Dio di ordine, un Dio che ama la “pulizia” perché è santo. C’è un piano di Dio per la nostra vita che deve compiersi. Noi siamo suoi servi incaricati di mantenere la sua abitazione bella e accogliente perché i meravigliosi progetti che ha fatto per noi possano realizzarsi, per la sua gloria e per la nostra felicità.

Ecco il perché di queste esortazioni:

“Che ciascuno di voi sappia possedere il proprio corpo in santità ed onore” (1 Tess.4:4);

“Non regni dunque il peccato nel vostro corpo” (Rom. 6:12);

“Foste comprati a prezzo; glorificate dunque Dio nel vostro corpo” (1 Cor. 6:20).

La nostra debolezza umana non può essere addotta come scusante per una vita di peccato, perché in ogni credente c’è lo Spirito Santo, quella “persona” divina che è potenza ed energia per vivere secondo Dio. Ma lo Spirito è a disagio se in noi vi sono dei vizi e dei comportamenti corrotti, e si rattrista. E quando lo Spirito è rattristato siamo dei cristiani in crisi, senza potenza, incapaci di rendere una testimonianza efficace verso gli increduli, incapaci di edificare e rallegrare i nostri fratelli, senza gioia, non realizzati come credenti, senza forza per sormontare le difficoltà della vita e superare i momenti difficili.

Sia chiaro, nessuno di noi arriverà mai ad essere perfetto sulla terra. E la scuola che Dio ci fa nella vita ha in vista proprio la nostra santificazione, per renderci sempre più conformi all’immagine del suo Figlio, al quale saremo resi “simili” solo quando “lo vedremo come Egli è” (1 Giovanni 3:2). Per questo Paolo scrive ai Tessalonicesi: “L’Iddio della
pace vi santifichi Egli stesso completamente; e l’intero essere vostro, lo spirito, l’anima e il corpo, sia conservato irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (1 Tess. 5:23).

Il nostro corpo è per il Signore perché è “del Signore”. Il nostro cuore è suo. Gliel’abbiamo dato con gioia quando abbiamo capito quanto era sporco e abbiamo creduto al suo amore e al suo perdono. Sono sue le nostre mani e i nostri piedi, e dobbiamo fare attenzione a dove andiamo e a quello che facciamo. Sono suoi i nostri occhi e le nostre orecchie, e ci dobbiamo impegnare a selezionare, secondo “i Suoi gusti”, quello che guardiamo e che ascoltiamo. Ma è sua anche la nostra lingua. Ed è proprio della lingua che vi parlerò in questo libretto; del privilegio che abbiamo di averla, del bene che fa quando la usiamo bene e del male che fa quando la usiamo  male. Un membro con delle caratteristiche speciali che spesso sfugge al nostro controllo e crea dei grandi disastri. Un piccolo fuoco che può incendiare una grande foresta! (Giacomo 3:5).

Capitolo 1 – Il privilegio di parlare

La comunicazione verbale è la più evoluta di ogni altro tipo di comunicazione. Con le parole esprimiamo dei concetti, delle idee, dei sentimenti; possiamo far sapere agli altri quello che pensiamo, che la nostra mente ha elaborato, o riferire cose che abbiamo letto o udito. Se abbiamo facilità nel parlare e una certa ricchezza di vocabolario, con le semplici parole siamo in grado di far rivivere agli altri con grande intensità le nostre impressioni visive, descrivere paesaggi, ambienti, persone e cose di ogni genere; possiamo suscitare negli altri delle emozioni complesse, imprimere dei pensieri capaci anche di trasformare, in bene o in male, la vita di chi ascolta. Basta l’inflessione della voce, il tono, il volume, perché una stessa parola o una stessa frase acquisti significati diversi ed evidenzi differenti obiettivi. Certamente, anche ciò che si scrive e che si legge ha simili poteri, ma il parlare li supera di gran lunga.

Il pensiero di Dio nella Bibbia è scritto; ma noi non diciamo che Dio ha scritto, diciamo che ha parlato, e quel che ha detto è stato scritto ed è giunto fino a noi. E noi, quando leggiamo la sua Parola, sentiamo che è una comunicazione diretta di Dio e diciamo che è Lui che ci parla, come se udissimo la sua voce.

In natura, ogni essere vivente comunica in qualche modo, con vocalizzazioni, moduli di comportamento, emissioni di segnali ottici o chimici. Gli studiosi sono impegnati non poco per chiarire ciò che è ancora oscuro e cercare di interpretare le scoperte fatte. Ma la capacità di esprimere il pensiero con la parola Dio l’ha data solo all’uomo, la sua creatura fatta alla sua immagine e secondo la sua somiglianza (Genesi 1:26-27).

La scienza ha ampiamente dimostrato che tutto quello che diciamo viene dal cervello, dove si formano i pensieri e da cui provengono anche gli impulsi per far funzionare la lingua. La lingua non fa che esprimere le idee. Ma la Parola di Dio non è un trattato di fisiologia, e Dio, con un modo di esprimersi semplice e comprensibile a tutti, dice: “Chi ha fatto la bocca dell’uomo?… Non sono io, l’Eterno? Or dunque va’, e io sarò con la tua bocca, e t’insegnerò quello che dovrai dire “ (Esodo 4:11). La lezione che Mosè imparò nel deserto di Madian, alla montagna di Horeb, alla luce del pruno in fiamme che non si consumava mai, è la stessa che il Signore vuole insegnare a noi. Da Lui, dalla sua Parola, impariamo quello che dobbiamo dire e come va detto, e impariamo anche ciò che non dobbiamo dire e perché non dobbiamo dirlo. Se saremo disposti ad uniformarci alle istruzioni che Dio ci dà su come usare la nostra lingua, siate pur certi che cambierà qualcosa nella nostra vita personale e nella vita delle nostre famiglie e delle nostre chiese.

Vogliamo assumerci questo impegno?

Dio non parla sempre bene della nostra lingua

Forse siamo stupiti quando leggiamo nella Scrittura dei giudizi tanto negativi sulla nostra lingua. Uniti al termine lingua troviamo gli aggettivi più terribili: bugiarda, fraudolenta, micidiale, perversa … E’ paragonata a un fuoco che divora, a una spada acuta che ferisce, a un dardo mortale, al veleno di una serpe. Com’è possibile, dal momento che è Dio. che l’ha fatta? La risposta è semplice. “La bocca parla dall’abbondanza del cuore “ (Luca 6:45). E poiché il cuore dell’uomo è cattivo, pieno di brutti pensieri che portano a “fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidige, malvagità, frode, lascivia, sguardo maligno, calunnia, superbia, stoltezza’’ (Marco 7:20), non c’è da stupirsi che dalla bocca escano cose cattive, parole, frasi, discorsi che fanno del male.

La preghiera di Davide: “Siano grate nel tuo cospetto le parole della mia bocca e la meditazione del cuor mio, o Eterno”, dobbiamo farla anche noi, ogni giorno. Ma perché Dio possa darci risposta bisogna che il nostro cuore sia stato completamente rinnovato, che sia un cuore nuovo, purificato dalla fede (“… purificando i cuori loro mediante la fede”, Atti 15:9), e nel quale, per mezzo della fede, Cristo abita (“… e faccia sì che Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori”, Efesini 3:17).

E’ rinnovato il nostro cuore? Se sì, il dono che Dio ci ha fatto della lingua possiamo utilizzarlo alla sua gloria e per il bene di chi ci ascolta. Di ogni parola, anche solo “oziosa” (cioè vana, inutile) che avranno detta, “gli uomini renderanno conto”, dice il Signore (Matteo 12:36). Quanto più noi credenti!

Piccola ma molto influente

La Parola di Dio tratta ampiamente il soggetto della lingua e di come usarla. Se ne teniamo conto, vi saranno benedizioni per noi e per i nostri simili, e la nostra vita darà gloria a Dio e testimonierà degnamente di Lui.

Apriamo l’epistola di Giacomo. Quando la leggiamo ci sembra di sentir parlare il Signore Gesù. L’uso frequente di paragoni tratti dalla natura, la sua autorità, il richiamo alla riflessione personale ci ricordano i discorsi del Signore. Se quest’epistola fosse più letta, più predicata e seguita, il nostro Padre non avrebbe da deplorare tante incoerenze fra i suoi figli, e noi non avremmo da subire tanti giustificati rimproveri da parte degli increduli.

Giacomo non usa mezzi termini. Il suo parlare è chiaro e di grande realismo. Se la pillola è amara, non ci mette lo zucchero, ma vuole che la ingoiamo così com’è e che ne sentiamo l’amarezza. Che si tratti dei riguardi personali, o della fede senza le opere, o del leggere la Parola senza metterla in pratica, o della vanagloria dei ricchi, i suoi insegnamenti sono drastici e vanno dritti alla coscienza. Così è anche quando tratta della lingua. Con molti coloriti ed efficaci paragoni la raffigura alla bocca di un cavallo che, sotto l’azione del morso, guida l’andatura di tutto l’animale; al piccolo timone di una nave che ne dirige il percorso; al dente di un serpente che inietta un veleno mortale; la rassomiglia a una belva indomabile, a una fontana, a un albero da frutto (Giacomo 3:1-12), a un piccolo fuoco che si può estendere fino a mandare in fiamme un’intera foresta.

E’ bene che ognuno di noi rifletta su questa frase di Giacomo: “Se uno non sbaglia nel parlare è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo”.

E’ tipico del bambino il non saper controllare l’uso della lingua perché, non misurando e non conoscendo le conseguenze di quel che dice, parla come pensa, senza riflettere. Ma raramente il bambino hai’ astuzia e la malignità dell’adulto. Così, il suo parlare senza riflessione diventa una piacevole e apprezzabile sincerità, frutto dell’innocenza. Ora, al credente “completo” (o perfetto), diventato “uomo” in Cristo e non più bambino, Dio chiede la semplicità, la spontaneità e la trasparenza di un bambino abbinata però alla saggezza e alla prudenza di un adulto, istruito alla scuola di Dio e guidato dal suo Spirito.

“Fratelli, non siate fanciulli per senno; siate pur bambini quanto a malizia, ma quanto a senno siate uomini fatti “ (1 Corinzi 14:20).

Chi sa controllare la propria lingua saprà anche controllare i propri comportamenti. Chi ha la forza di resistere all’impulso di parlare quando è il momento di tacere, avrà anche la forza di resistere al male quando le occasioni sono favorevoli per farlo cadere.

La lingua è un piccolo membro in grado di condizionare la direzione che prende la nostra vita. Non dobbiamo sotto valutarla. Ecco perché Giacomo la paragona al timone che pur essendo piccolissimo è in grado di imprimere la direzione a una nave, anche se grande e “sospinta da fieri venti”. Ma il timone, se mal manovrato, porta la nave alla deriva e la fa naufragare. Allo stesso modo un fuoco, un piccolo fuoco, può incendiare una grande foresta se non è circoscritto in tempo e subito spento. Ma per chi conosce il Signore la nave non deve naufragare. L’incendio non deve esserci. Una fontana non può gettare, dalla medesima apertura, “il dolce e V amaro”. Un fico non può fare ulive né una vite fichi.

“Chi è nato da Dio non pecca”. Questo è il linguaggio di Giovanni (1 Giovanni 5:18) altrettanto drastico e preciso quanto quello di Giacomo. Queste parole ci stupiscono perché sembrano essere in contraddizione con la triste esperienza che facciamo ogni giorno della nostra inclinazione al peccato e della poca energia che abbiamo per vincerlo. Ma non c’è contraddizione. Immaginiamo un mulino a vento che debba, con la rotazione delle sue pale, estrarre acqua da un pozzo. Se il vento cessa il mulino si ferma. Lo si può azionare a mano, ma è uno sforzo enorme e i risultati sono scarsi. Così è di noi. Le poche energie che abbiamo si esauriscono rapidamente. C’è bisogno del vento. Bisogna che lo Spirito Santo ci guidi, che “soffi” nella nostra vita come un vento energico e costante. La nostra unica forza sta nel farci guidare dallo Spirito, che è la potenza della nuova natura che Dio ha creato in noi quando abbiamo creduto, e nel tenere lo sguardo fisso sul perfetto Modello, il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo. Lui solo ha potuto dire: “Colui che mi ha mandato non mi ha lasciato solo perché faccio sempre le cose che gli piacciono “ (Giovanni 8:29).

Affronteremo ora, con maggiori dettagli, un argomento che ci tocca tutti molto da vicino: quello degli errori che commettiamo con la lingua. Studieremo la maldicenza, il disprezzo e l’adulazione; i motivi che ci spingono a commettere questi peccati e le loro inevitabili conseguenze. Non per scoraggiarci e deprimerci, ma per fare una verifica sul nostro comportamento e, approfittando del ricco insegnamento che troviamo nella Parola di Dio su questi argomenti, centrare lo scopo che il Signore si prefigge per ognuno di noi.

Capitolo 2 – Maldicenza e calunnia

Cos’è esattamente la maldicenza? E in cosa differisce dalla calunnia? La maldicenza è, genericamente, il parlar male degli altri. Le cose riferite possono anche essere vere ma, se sono fine a se stesse e non sono dette per aiutare il fratello, vanno a scapito della reputazione della persona che è oggetto di quelle chiacchiere. Diventa calunnia quando le cose riferite sono coscientemente false e attribuiscono a una persona delle colpe, delle parole o dei fatti che ne ledono la dignità e l’onore. La calunnia quindi è più grave, tanto che anche per la legge dei paesi civili è ascritta fra i reati perseguibili penalmente.

La valanga da una palla di neve

E’ bene ricordare che il racconto di un fatto che diffama un nostro fratello, anche se è vero, passando da una bocca all’altra quasi sempre si deforma. Ad ogni passaggio si arricchisce di particolari inesistenti, o perché non è ben riferito o perché non è ben compreso; oppure anche perché ognuno ritiene bene di aggiungere qualche dettaglio probabile, quasi sicuro, per colorire la cosa. Alla fine, come una piccola palla di neve che rotolando sui pendii innevati di una montagna diventa una disastrosa valanga, così una piccola maldicenza si può trasformare in calunnia, senza che lo si voglia.

“O Eterno, chi abiterà nella tua tenda, chi abiterà sul monte della ma santità? Colui che cammina in integrità ed opera giustizia e dice il vero come l’ha nel cuore; che non calunnia con la sua lingua né fa male alcuno al suo compagno” (Salmo 15:1-2).

“Gettando lungi da voi ogni malizia e ogni frode e le ipocrisie, e le invidie ed ogni sorta di maldicenze, come bambini pur ora nati appetite il puro latte spirituale, onde per esso cresciate per la salvezza” (1 Pietro 2:1-2).

Come piume al vento

Un credente aveva fatto per molto tempo della maldicenza sul conto di un suo fratello. Un giorno, pentito, si recò da lui e gli disse: “Ti chiedo scusa. Sono dispiaciuto di ciò che ho fatto. Spero che vorrai perdonarmi e mi piacerebbe che fosse tutto finito…”. Il fratello lo guardò fisso per qualche istante. “Io ti perdono e desidero anch’io che sia mito finito; specialmente il Signore lo desidera. Ma devi prima fare una cosa: prendi questo cuscino di piume e sali sulla torre della piazza. Quando sarai lassù, apri il cuscino e spargi le piume al vento. Poi scendi, valle a raccogliere una ad una e rimettile nel cuscino. A lavoro ultimato, me lo riporterai…”. Per la prima volta quel fratello si rese conto di come sono irrimediabili i danni della maldicenza.

Quante volte dimentichiamo gli insegnamenti della Parola di Dio! Forse perché la leggiamo poco, o perché, non lasciando agire in noi lo Spirito Santo, non siamo veramente liberi dal dominio della nostra carne e dei suoi impulsi naturali. Eppure, il Signore ci ha affrancati dal peccato, ci ha liberati da ogni schiavitù perché lo potessimo servire con integrità di cuore.

Le piume non si raccolgono più

Le critiche e le maldicenze passano di bocca in bocca e trovano quasi ovunque delle orecchie fin troppo attente. Così si sparpagliano rapidamente, varcano la soglia di tante case, i confini di tanti paesi e non si fermano mai. Anche se c’è stato un ripensamento, se tutto è veramente finito fra il diffamatore e la sua vittima, o se chi ha commesso il fatto se n’è umiliato e ha ottenuto il perdono del Signore, le voci continuano a vagare. Come capitò a quei soldati fuggiti dal fronte che si rifugiarono nelle foreste. Anche quando la guerra era finita da un pezzo continuarono a vagare per anni vivendo come se ci fosse ancora, perché nessuno era riuscito a scovarli per
informarli che la guerra non c’era più!

Vengono ancora a proposito le parole di Giacomo: “Non parlate gli uni contro gli altri, fratelli. Chi parla contro il fratello o giudica il suo fratello, parla contro la legge e giudica la legge. Ora, se tu giudichi la legge, non sei un osservatore della legge, ma un giudice. Uno soltanto è il legislatore e il giudice…” (4:11).

Si può fare della maldicenza anche tacendo

Non è sempre il caso di dire molte parole per fare della maldicenza. A volte sono più dannosi i silenzi che i lunghi discorsi. Faccio un esempio: se invece di prendere le difese di qualcuno che è accusato ingiustamente io non apro bocca, è come se confermassi le accuse e mi schierassi dalla parte di chi sparla. Una maldicenza accolta senza reagire è un tacito consenso. Vi sono poi i gesti, gli sguardi, le espressioni del viso che a volte sono più eloquenti delle parole. “Io non ho
detto nulla!”, “Io non ho neanche parlato!”. E’ una difesa abbastanza frequente, ma non sempre valida per giustificarci davanti al Signore che sa tutto e vede tutto, comprese le nostre intenzioni. Può darsi che il silenzio sia dovuto non a cattiva intenzione ma a timidezza, a vigliaccheria o a vergogna. Il Signore anche qui ci viene in aiuto con la sua Parola: “Dio ci ha dato uno spirito non di timidezza ma di forza, d’amore e di correzione (o di saggezza, di buon senso)” (2 Timoteo 1:7).

Il primo calunniatore della storia

Il primo calunniatore della storia fu nientemeno che Satana, e la sua calunnia fu addirittura nei confronti di Dio. Leggendo il racconto di Genesi 3:1-6, vediamo che il suo scopo era quello di mettere Dio sotto una cattiva luce, di farlo passare come un Dio esigente ed egoista, che non vuole il bene della sua creatura; di far credere ad Eva che li avesse ingannati e che la proibizione di mangiare il frutto dell’ albero della conoscenza del bene e del male fosse solo un pretesto
per impedire alle sue creature di diventare come Lui.

Ecco il suo astuto e perverso discorso, un misto di verità e di menzogna: “No, non morrete affatto (falso!); ma Dio sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri si apriranno (vero!) e sarete come Dio (falso!), avendo la conoscenza del bene e del male (vero!)”. L’insinuazione era terribile. Lì per lì poteva apparire come una disinformazione. La donna avrà potuto pensare che Satana non fosse bene al corrente delle cose. Ma subito dopo la maldicenza prese corpo e si smascherò come una vera e propria calunnia. Dicendo: “No, non morrete affatto”, Dio era fatto passare per bugiardo, perché aveva detto molto chiaramente: “Nel giorno che tu ne mangerai, per certo morirai”.


Satana sapeva benissimo che le cose non stavano come lui le presentava. Ma la donna, che ormai aveva perso la fiducia nel suo Creatore, raccolse l’insinuazione e la calunnia, diede credito al serpente e gli ubbidì, disubbidendo a Dio. Fu una tragedia, per lei, per Adamo e per tutta l’umanità. Le conseguenze le conosciamo bene: “Il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato vi è entrata la morte” (Romani 5:12).

Ma noi abbiamo ben altro modello da seguire: il Signore Gesù, il nostro Salvatore. Leggendo i Vangeli, vediamo la perfezione del suo comportamento e delle sue parole. Ma anche negli scritti dei profeti dell’Antico Testamento ci sono descrizioni precise delle sue virtù. Un passo interessante è quello di Isaia 11:2-3: “Lo spirito dell’Eterno riposerà su Lui; spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di forza, spirito di conoscenza e di timor dell’Eterno. Respirerà come un profumo il timore dell’Eterno, non giudicherà dall’apparenza, non darà sentenze stando al sentito dire”.

La maldicenza e la calunnia sono peccato

La maldicenza e la calunnia sono peccato. Di questo bisogna che ne siamo convinti. Il fratello o la sorella maldicenti finiranno per essere ripresi, da Dio e dalla fratellanza, come si deve fare verso chi cade in un qualsiasi altro peccato. Ma se veramente li amiamo, non ci limiteremo a disapprovare il loro peccato e a dir loro che anche il Signore lo disapprova; avremo desiderio di aiutarli. Questo dev’essere il nostro impegno. Col soccorso del Signore e spinti da un sentimento di misericordia, che sempre il Signore esige nelle nostre relazioni gli uni con gli altri (“Siate misericordiosi com’è misericordioso il Padre vostro”, Luca 6:36), dovremo allora cercare di capire perché la maldicenza è fatta e quali problemi ci possono essere dietro un simile comportamento.

Perché viene fatta la maldicenza? Credo che sia utile una breve analisi su questo argomento. Lo scopo non è certo quello di diventare più tolleranti con noi stessi ma di acquisire qualche nozione che ci metta in grado di capire noi e gli altri, per poterci aiutare a vicenda con cognizione di causa. Se si va alla radice del problema è più facile risolverlo definitivamente ed estirpare il male. Se si tolgono soltanto le manifestazioni esterne, più appariscenti, presto o tardi riapparirà, magari anche sotto un’altra forma.

Sappiamo tutti che in una pianta le radici sono importanti, come sono importanti il terreno in cui si affondano e le sostanze che assorbono. Se la radice è malata o si affonda su terreni contaminati, anche i rami saranno malati, le foglie rade e accartocciate, i frutti scarsi e rattrappiti. E la malattia si propagherà ad altre piante fino a distruggere l’intero frutteto. Per noi è la stessa cosa. Anche noi abbiamo delle “radici”: sono le idee e i pensieri, lo stato spirituale e il nostro rapporto intimo con Dio, i travagli interiori e le motivazioni profonde. Di lì provengono i nostri comportamenti e le nostre parole. E’ molto utile, su questo argomento, l’esortazione dell’epistola agli Ebrei: “Badate che nessuna radice velenosa venga fuori a darvi molestia, sì che molti di voi restino infetti” (Ebrei 12:15).

Perché si fa della maldicenza?

Finora si è parlato “degli altri”, di un nostro fratello o di una nostra sorella. Ma prima di tutto dobbiamo esaminare noi stessi. Chi di noi non ha mai fatto maldicenza scagli la prima pietra! Vogliamo allora farci un esame di coscienza e metterci, in tutta sincerità, a confronto con la Parola del Signore? E’ bello lasciarsi invadere dalla luce che lo Spirito di Dio ha messo nei nostri pensieri e nella nostra coscienza.  Perché ho fatto maldicenza? Quali sono i motivi che mi hanno spinto a farla? L’ho fatta per orgoglio, o per valorizzare la mia personalità debole, o per eccessiva intransigenza, o pensando di difendermi da presunti attacchi?…

L’orgoglio e la superbia

L’orgoglio e la superbia sono la principale causa di maldicenza, come avvenne nel caso di Satana con Èva. Il desiderio di essere “qualcuno”, di prevalere, di farsi un nome, o anche solo di voler imporre un pensiero personale, sintomo sempre di un basso livello spirituale, spinge sovente a parlare male degli altri. In questo caso, le vittime sono quelli che noi riteniamo essere più in alto, più in vista, oppure quelli che non hanno le nostre stesse idee. La maldicenza o la calunnia hanno allora lo scopo di sminuire la stima che li circonda, di abbassarli di livello per poterli superare, o anche solo di ridurre il divario fra noi e loro. Sono sentimenti carnali che purtroppo covano nei nostri cuori.

Di accuse ingiuste e di questo tipo di maldicenza sono stati vittime moltissimi uomini di Dio, anche nei tempi passati. In tanti bei salmi Davide chiede all’Eterno di esserne liberato: “I superbi hanno nascosto per me un laccio e delle funi… m’hanno teso una rete… Non concedere agli empi quel che desiderano… Il maldicente non sarà stabilito sulla terra” (Salmo 140). Un episodio sconcertante, ma molto istruttivo, è quello di 2 Samuele 16 nel quale è raccontato di Tsiba, il servo di Mefibosheth, che calunniò il proprio padrone, riferendo a Davide cose false, per impossessarsi di tutti i suoi beni. Vale la pena leggerlo e meditarlo.

Quasi tutti i profeti sono stati diffamati e calunniati. Ma chi più ne ha sofferto è stato il Signore Gesù, sia nella sua vita, da parte dei farisei e degli scribi ai quali “faceva ombra”, sia alla fine, quando fu condannato sulla deposizione di falsi testimoni. “Iniqui testimoni si levano; mi domandano cose delle quali non so nulla. Mi rendono male per bene; derelitta è l’anima mia” (Salmo 35:11-12). Non ci stupiamo se anche noi credenti dobbiamo soffrire queste cose da parte di quelli del mondo. “Dove sparlano di noi”, scrive Pietro, saranno svergognati “quelli che calunniano la nostra buona condotta in Cristo”. Purtroppo, però, non sono solo quelli del mondo,
che non conoscono Dio, a parlare male dei Suoi figli. L’apostolo Paolo fu criticato dai suoi stessi fratelli al punto di doversi difendere da quelli che lui definisce “gonfi d’orgoglio” e che erano ben capaci a “parlare”, ma non avevano “potenza” nella loro vita (1 Corinzi 4:19:20).

E’ sbagliato non avere di sé nessuna stima. Ma avere di sé una stima più grande di quella che si conviene è una brutta cosa che rende molto difficili le relazioni fraterne, le quali si armonizzano meravigliosamente solo sulla base dell’umiltà di ciascuno. Paolo ci esorta a non avere di noi stessi un concetto più alto di quel che si deve avere, ma un concetto sobrio “secondo la misura della fede che Dio ha assegnata a ciascuno” (Romani 12:3). Con la vanagloria arrivano le guerre. Ecco perché è scritto: “Non siamo vanagloriosi, provocandoci e invidiandoci gli uni gli altri ”. Ed anche “ Non facendo nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascun di voi, con umiltà, stimando altrui da più di se stesso…” ( Galati 5:26, Filippesi 2:3). Ricordiamoci che per stimare gli altri più di noi stessi non dobbiamo confrontare la nostre debolezze con le loro debolezze, ma con frutti che la grazia del Signore ha prodotto in loro, i loro lati positivi, le loro manifestazioni di amore, di impegno, di fedeltà.

Se, per esultare la mia personalità, ho diffamato altri. Il peccato che ho commesso è grave e il Signore me chiederà conto. Devo allora andare alla radice del male e confessare subito a Dio ogni sentimento di superiorità e ogni presunzione, prima che mi ricadano addosso le tristi conseguenze del mio comportamento, perché è scritto: “Il malvagio ha concepita malizia e partorisce menzogna. Ha scavato una fossa e l’ha resa profonda, ma è caduto nella fossa che ha fatto” (‘Salato 7:15). Se non sono caduto in questo peccato ma, esaminandomi alla luce di Dio, scopro in me dei sentimenti di questo tipo, di sicuro c’è qualcosa che non va nelle mie personali relazioni col Signore, e devo subito correre ai ripari. Non c’è da scoraggiarsi. Dio ci offre sempre un rimedio, l’umiliazione. “Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché Egli vi innalzi a suo tempo” (1 Pietro 5:6).

Bisogna allora che ci poniamo queste domande: A che punto è il mio livello spirituale? Com’è la mia comunione personale col Signore? C’è della potenza dello Spirito in me? Dò io una buona testimonianza con il mio modo di fare? Ho vero amore per Dio e per gli altri? Il livello di conoscenza o la posizione che possiamo avere nell’ambito della chiesa non sempre ci preservano da simili cadute, anche perché la conoscenza o una posizione in vista non sempre corrispondono a un elevato grado di spiritualità. Anzi, spesso “la conoscenza gonfia” (1 Corinzi 8:1) e un posto eminente può rendere presuntuosi. Tutto questo fa parte della nostra umanità. Dobbiamo quindi aiutarci, con amore (“la carità edifica”), sempre tenendo presente che il nostro Padre, anche se è santo e giusto, è un Dio misericordioso e pieno di compassione.

L’insicurezza

Non sempre quelli che fanno della maldicenza sono dei presuntuosi e degli orgogliosi. Spesso diventano maldicenti anche gli insicuri, quelli che hanno continuamente paura di sbagliare o di aver sbagliato, che si fanno l’idea che tutti rilevino i loro difetti, e non si sentono capiti, né amati, né stimati. Non si tratta solo di piccole e più o meno inconsce vendette. La loro maldicenza è fatta con l’illusione di acquistare sicurezza perché, parlando male degli altri, sminuendoli, essi cercano di affermare la loro personalità di fronte a se stessi e agli altri, e di rialzare la poca stima che hanno di sé. Dentro a loro c’è questo pensiero, quasi sempre inconsapevole: io sbaglio sempre, non sono buono a nulla, però sbagliano anche gli altri. E di questo cercano di convincersi. Forse stimano molto i fratelli o le sorelle bersagli dei loro attacchi; ma è proprio la loro superiorità, ch’essi riconoscono, che li spinge a sminuirli con giudizi severi e critiche inopportune.

Queste persone hanno bisogno di molto aiuto e di molta comprensione. Non sarà mai disubbidendo al Signore che risolveranno i loro problemi. E’ necessario incoraggiarli a trovare la loro sicurezza in Cristo, se sono delle nuove creature, degli uomini nuovi, e far loro comprendere cosa significa: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Calati 2:20). Se impareranno a lasciar vivere Cristo in loro, sapranno anche accettare con gioia e riconoscenza ciò che sono e ciò che hanno. Se riusciranno a pensare di più a Lui, alla gloria che Lui può trarre dalla loro vita, al fatto che li vuole adoperare così come sono fatti e nella situazione nella quale si trovano, potranno smettere di arrovellarsi nella ricerca incessante di se stessi.

Buttarsi interamente nelle braccia di Dio e abbandonarsi all’azione del suo Spirito vuol dire aver finito di lottare con se stessi e quindi anche con gli altri. Ricordo l’episodio di quell’indiano d’America convertitosi alla predicazione di un evangelista. Gli chiesero quali risultati ebbe nella sua vita la sua conversione. Sapete come rispose? “Indiano avere deposto pipa, indiano avere deposto ascia… indiano avere deposto indiano”!

L’intransigenza

C’è un passo della Scrittura che ci può stupire. E’ quello di Ecclesiaste 7:16: “Non essere troppo giusto”. A noi verrebbe da dire: Magari fossimo troppo giusti! Il pericolo che coniamo è quello di esserlo troppo poco. Eppure, se quest’esortazione c’è è perché ne abbiamo bisogno. Essere troppo giusti vuol dire andare oltre la misura stabilita da Dio, imporre a noi stessi e specialmente agli altri dei pesi che nemmeno Dio ci impone, puntare a livelli ai quali nemmeno Dio pretende che arriviamo. Dio sa il nostro limite e non ci chiede mai di più di quello che possiamo dare. Se questo valeva per l’Israelita che viveva sotto il regime della Legge, quanto più è vero per noi che viviamo in un’epoca di grazia! Il credente che vuol essere troppo giusto tradisce il carattere di grazia del Signore, diventa intransigente e legalista, e assume posizioni di autorità che spettano solo al Signore e al suo Spirito. L’intransigenza ha sempre un fondo di presunzione e diventa autoritarismo quando è applicata agli altri.

Non dobbiamo però pensare che, poiché siamo sotto la grazia, il male possa essere preso alla leggera e la tolleranza dell’amore debba farci passare sopra tutto. Ogni credente spirituale capisce che non è così. Il male va sempre identificato e tolto, in noi stessi, per incominciare, e poi dove il Signore ci chiede di farlo: nella nostra famiglia e nella chiesa. Ma la tendenza ad essere troppo giusti ostacola il manifestarsi del frutto dello Spirito che è, fra le altre cose, “longanimità, benignità, dolcezza” (Gal. 5:22).

Se sono intransigente sono anche ipercritico. Questo mi può portare a fare della maldicenza perché, quando vedo negli altri qualcosa che a mio giudizio non va (e qualcosa che non va la troverò sempre), non riuscirò a trattenermi dal rilevarlo. Quello che gli altri dicono, passato al colino dalle maglie troppo strette della mia valutazione, contiene sempre delle “impurità”. Quello che gli altri fanno, visto al microscopio della mia intolleranza, non è mai esente da errori, o, quantomeno, è sempre passibile di modifica e di miglioramento. 

I miei giudizi saranno quindi sempre severi e raramente positivi nei confronti degli altri. Immaginiamo una conversazione sul conto di uno stesso fratello, servitore del Signore, ma col difetto di essere impulsivo e di riflettere poco prima di parlare. Io, intransigente, dirò: Conosco quel fratello; è molto impulsivo e ha il grosso difetto di non riflettere abbastanza prima di parlare. E’ vero, è un servitore del Signore seriamente impegnato, ma quel suo modo di fare non riesco a sopportarlo. Non capisco come faccia a servire il Signore e poi a comportarsi così. Il suo servizio difficilmente porterà del frutto… Un altro, con più amore e più misericordia, dirà: E’ un uomo ammirevole. Il suo zelo per servire il Signore e il suo impegno è d’esempio a tutti. Peccato che è un po’ impulsivo e a volte non riflette abbastanza prima di parlare. Ma è meraviglioso vedere come ama il Signore e quanti frutti il Signore, nella sua grazia, gli permette di raccogliere. Dobbiamo pregare molto per lui e per il suo lavoro…

Com’è bello il senso della misura che la Parola di Dio ci dà! Essa ci aiuta ad avere un giusto equilibrio nei nostri giudizi, insegnandoci da un lato i diritti della santità e della giustizia di Dio, e questo ci fa essere attenti e severi, e dall’altro il limite della nostra natura umana e il bisogno che abbiamo della sua grazia, e questo ci rende comprensivi e misericordiosi.

“Siate misericordiosi com’è misericordioso il Padre vostro” (Luca 6:36).

“Beati i misericordiosi perché a loro misericordia sarà fatta” (Matteo 5:7).

“Perché il giudizio è senza misericordia per colui che non ha usato misericordia” (Giacomo 2:13).

La suscettibilità

E’ molto difficile trattare coi permalosi. L’insospettirsi per nulla, il sentirsi subito offesi, rende i rapporti con loro complicati e a volte pieni di tensione. Il permaloso nasconde quasi sempre una dose eccessiva di amor proprio, che è come una corazza con cui cerca di proteggere la sua fragilità. Se sono permaloso potrei essere tentato di dire: Sono fatto così, non ci posso far nulla. Non è vero. Il mio carattere naturale può venire modificato con l’aiuto del Signore e i miei difetti
possono e devono essere tolti. Più si è giovani, più il cambiamento è possibile, ma comporta un lavoro continuo, che si protrae nel tempo. Paolo afferma che la nostra mente ha subito un rinnovamento che ci ha trasformati (Romani 12:2) quando i nostri pensieri sono stati fatti prigionieri e tratti all’ubbidienza di Cristo (2 Corinzi 10:5).

Ogni credente deve imparare, come avevano fatto gli Efesini, a spogliarsi del vecchio uomo che si corrompe e ad essere rinnovato nello spirito della sua mente, rivestendo l’uomo nuovo che è creato all’immagine di Dio (Efesini 4:22-24). Se c’è da “imparare” è una scuola. Noi siamo ammaestrati a questo “secondo la verità che è in Cristo Gesù”. Se non abbiamo ancora imparato la lezione, la scuola andrà avanti, perché il nostro Maestro, che ci ama, non si stanca mai. Possono essere necessari anni ed anni, come per una preparazione universitaria, ma saranno anni benedetti perché Lui vuole portarci al livello che ha programmato per la vita di ognuno di noi.

Un comportamento esemplare lo ebbe Saul, nei primi giorni della sua investitura a re d’Israele, quando ancora era umile e sottomesso a Dio. Tutto il popolo era dalla sua parte e lo acclamava con grida di gioia dicendo: “Viva il re!”. Ma 1 Samuele 10:27 ci racconta che “ci furono uomini da nulla che dissero: Come ci salverebbe costui? E lo disprezzarono e non gli portarono alcun dono”. Saul non reagì, non si offese, non punì quegli uomini come avrebbe potuto fare essendo re.
La Parola ci dice che Saul “fece vista di non udire”. Non è un bell’esempio per noi?

Se sono permaloso non mi sentirò mai amato abbastanza e non solo mi offenderò a morte per ogni minima critica ma avrò facilmente l’idea di essere oggetto di critica anche quando non è vero. Basterà un niente per farmi credere che ce l’abbiano con me, che parlino male di me, che mi disapprovino, che mi diffamino. E così, spesso senza alcun motivo, mi difenderò attaccando e criticando quelli dei quali mi ritengo vittima. Poiché la mia suscettibilità è ferita, non esiterò ad addossare ad altri intenzioni e colpe che in realtà non hanno.

Il carattere sospettoso è uno di quelli che fanno più soffrire, ma c’è una medicina efficace che lo può guarire: l’amore. “L’amore non sospetta il male” (1 Cor. 13:5). La conoscenza dell’amore di Dio e l’energia che lo Spirito dà devono aiutare il sospettoso a superare questo grave handicap. Perché pensare sempre male? Perché soffermarsi con diffidenza su ogni parola, su ogni gesto degli altri verso di noi e interpretare tutto come un dispetto o una mancanza di rispetto o una cattiveria? No. Dobbiamo vincere questa guerra! E le armi non mancano. Quand’anche si trattasse di un vero torto, la Parola ci dice: “Perché non patite piuttosto qualche torto?” (1 Corinzi 6:7). Se un fratello o una sorella ci fanno un torto, dobbiamo subito pensare che può aver agito per impulso, senza riflettere abbastanza, che si è lasciato andare, che la sua intenzione non era quella di danneggiarci.
Ed anche che, con tutta probabilità, se ne è già addirittura pentito e il Signore lo ha perdonato. Così mostreremo di avere amore reale e concreto.

Teniamo presente questi due punti:

  1. Non attribuiamo mai agli altri delle cattive intenzioni nel loro rapporto con noi.
  2. Se anche le intenzioni fossero davvero cattive, non diamo troppo peso.

Il Signore sa ogni cosa e prenderà le nostre difese, se lo riterrà opportuno, al momento giusto. E ci sia sempre in noi questo pensiero: Se fosse proprio il Signore ad aver permesso che venissimo attaccati per darci una lezione? In questo caso il fratello sarebbe stato uno strumento in mano al Signore per la nostra disciplina! Un bellissimo esempio lo abbiamo in Davide quando venne oltraggiato pubblicamente da Scimei, il beniaminita, mentre fuggiva piangendo da Gerusalemme. Abishai, il capo del suo esercito, gli chiese insistentemente il permesso di andare ad ucciderlo, ma il re rispose: “Se egli maledice, è perché l’Eterno gli ha detto: Maledici Davide. E chi oserà dire: Perché fai così?… Lasciate ch’ei maledica, giacché gliel’ha ordinato l’Eterno. Forse l’Eterno avrà riguardo alla mia afflizione, e mi farà del bene in cambio delle maledizioni di oggi” (2 Samuele 16:5-12).

Abbiamo tutti bisogno di aiuto

Di fronte a queste debolezze di carattere, nessun fratello, anche se è più forte, può rimanere indifferente o arroccarsi su ima posizione di superiorità. Tutti abbiamo bisogno di aiuto, perché tutti abbiamo dei difetti. Il Signore ha fatto dei doni alla Chiesa non solo in vista di una crescita numerica, ma anche di un perfezionamento spirituale e morale di ciascuno dei suoi membri.

Incoraggiamento e consolazione possiamo portarli miti, fratelli e sorelle, giovani e anziani. Ma tanto meglio potrà farlo un vero “pastore”, chiamato dal Signore proprio per portare a chi ha bisogno l’aiuto necessario per capire gli insegnamenti di Dio e trovare l’energia per risolvere i suoi problemi. Sono pochi, oggi, quelli che hanno questo dono. Forse perché non se ne è capita la necessità. Preghiamo il Signore che dia dei “pastori” alle nostre chiese! Il vero pastore, secondo la Scrittura, non è uno che ha la responsabilità dalla chiesa e che accentra in sé tutti i ministeri. No. E’ un credente saggio e discreto, che sa ascoltare con pazienza i problemi degli altri e farsene carico, come se fossero suoi, perché la partecipazione e l’amore alleggeriscono i pesi. E poi, saprà pregare per le sue “pecore” malate e portare loro da parte del Signore quel versetto a proposito, quella parola giusta che dà forza, che getta un raggio di luce nel buio, che indica la soluzione. Chi ha il dono di pastore non incute soggezione. A lui ci si deve sentire liberi di raccontare qualunque situazione, sicuri che comprenderà, che sarà delicato e discreto, che non andrà a raccontare le cose ad alcuno, ma ne parlerà solo col Signore. Beata la chiesa che può vantare questi doni! Sarà difficile che ci siano in essa fratelli e sorelle depressi. Saranno rari e di breve durata le incomprensioni e i conflitti. Ci sarà più gioia a stare insieme.

Un altro valido aiuto sono gli incontri di preghiera e di lettura della Parola. Non parlo qui delle riunioni dell’assemblea di cui non metto minimamente in discussione il valore e l’importanza. Penso piuttosto a quegli incontri informali, a piccoli gruppi, che si svolgono nella semplicità e con la partecipazione di tutti, dove c’è spazio per parlarsi, per confrontare le proprie idee con quelle degli altri, per raccontare le proprie esperienze e scambiarsi pareri e consigli. Dove si dedica del tempo per la preghiera, liberi di portare al Signore, senza timore, dei bisogni attuali, precisi, concreti.
Lo Spirito utilizza questi mezzi per infondere coraggio e sicurezza, e creare fra i fratelli dei veri legami di amicizia. La comunicazione, lo scambio di idee, il semplice “parlarsi” facilita enormemente la rimozione dei sospetti ed evita certe posizioni di estremismo che sono all’origine di tante incomprensioni e di tanti scontri.

La maldicenza non va raccolta

Si racconta che Socrate, ad un amico che stava per riferirgli in gran segreto una notizia sul conto di un altro, abbia chiesto: Hai passato la tua intenzione ai tre colini? Interpellato su cosa volesse dire con questa frase, Socrate spiegò: 1. Sei sicuro che la cosa che stai per dirmi è vera? 2. Sei sicuro che ciò che stai per dirmi sia una cosa buona? 3. Sei sicuro che sia proprio utile che io la sappia? L’amico comprese e rinunciò al suo proposito!

La maldicenza, la calunnia, la critica, oltre a non dover essere praticate, non vanno nemmeno recepite. Blocchiamo sul nascere ogni discorso maldicente; facciamolo subito cadere, non concediamogli spazio. Questo ci ordina il Signore; e dobbiamo impegnarci a fondo, proprio perché è contrario alla nostra naturale tendenza. In Proverbi è scritto, per ben due volte: “Le parole del maldicente sono come ghiottonerie e penetrano fino nell’intimo delle viscere” (18:8, 26:22).

Che strano gusto c’è ad ascoltare le maldicenze! E’ un gusto cattivo che va giudicato e soppresso. Più saremo spirituali, più questo tipo di ghiottonerie ci saranno disgustose e indigeste. Non permettiamo allora che penetrino “nell’intimo delle viscere”; perché una volta insinuate nel nostro interiore compirebbero un lavoro subdolo e pericolosissimo di cui noi stessi potremmo non renderci conto. “Non t’immischiare, scrive Salomone, con chi apre troppo le labbra” (Proverbi 20:19).

Se la critica è seria e ha l’aria di un’informazione necessaria, accogliamola come informazione ma andiamo a fondo prima di accettarla per buona e, soprattutto, prima di trasmetterla ad altri, se proprio ne fosse il caso (vedremo fra poco che non sempre è maldicenza riferire una brutta notizia sul conto di un altro).

Abbiamo nella Parola degli esempi straordinari che ci fanno capire come dobbiamo comportarci. Uno è quello di Genesi 18:20-21. L’Eterno annuncia ad Abramo la prossima distruzione di Sodoma e gli spiega il metodo da Lui seguito: “Siccome il grido che sale da Sodoma e Gomorra è grande e siccome il loro peccato è molto grave, io scenderò e vedrò se hanno interamente agito secondo il grido che n’è pervenuto a me; e se così non è, lo saprò”. Pensate! Dio che sa tutto scende sulla terra per vedere di persona se le cose stanno davvero come il “grido” le presentava. E’ chiaro che Dio non aveva bisogno di fare questo, ma è scritto per noi, per insegnarci che dobbiamo verificare di persona le notizie, con tutta la discrezione e l’amore possibile, prima di dare credito a una voce che ci è giunta alle orecchie. Se l’ha fatto Dio, non dobbiamo farlo anche noi?

Wesley, noto servitore di Dio del XVIII secolo, soleva dare sei severe regole ai credenti:

  1. Non ascoltiamo mai cose cattive riguardo un fratello, e non cerchiamo volontariamente di venirle a sapere.
  2. Se ci capita di sentir parlare male di un fratello non dobbiamo essere pronti a crederci.
  3. Appena ci è possibile, mettiamo al corrente di ciò che abbiamo udito la persona interessata.
  4. Finché non abbiamo fatto questo, non trasmettiamo ad altri nemmeno una parola di quel che abbiamo udito.
  5. Quando l’abbiamo fatto, non parliamone con nessun altro.
  6. Non facciamo alcuna eccezione a queste regole, a meno che la nostra coscienza ci obblighi per una questione di vita o di morte!

A quanto detto finora potremmo ancora aggiungere un consiglio: dimentichiamo l’eventuale maldicenza fatta sul nostro conto; non diamo troppa importanza alla cosa; perdoniamo, come il Signore ha perdonato a noi.

I danni della maldicenza

I danni della maldicenza sono incalcolabili. Avete mai visto cosa rimane di un bosco incendiato? Nulla. La distruzione è totale. Solo cenere, tronchi carbonizzati e nessuna forma di vita. E il più delle volte la fiamma è partita da un piccolo fiammifero acceso, buttato volutamente o distrattamente, o da un banale mozzicone di sigaretta.

“Vedete un piccolo fuoco che grande foresta incendia! Anche la lingua è un fuoco, è il mondo dell’ iniquità” (Giacomo 3:5).

Un amico del patriarca Giobbe, un certo Elifaz di Teman, elenca in un suo discorso le liberazioni che l’Onnipotente accorda ai suoi fedeli : liberazioni da malattie, carestie, guerre… Ma poi aggiunge un’altra speciale liberazione, e dice: “Sarai sottratto al flagello della lingua” (Giobbe 5:21).

C’è un bel proverbio di Salomone che dice: “Il maldicente disunisce gli amici migliori” (16:28). Così è nella famiglia e nella chiesa.

I danni della maldicenza nella famiglia

Avete mai conosciuto quei mariti che non fanno altro che rilevare i difetti delle loro mogli? O quelle mogli che ad ogni occasione parlano male dei loro mariti? Non dico che siano molti a farlo, grazie a Dio, ma ve ne sono. Escludiamo i piccoli rilievi sui difetti dell’altro fatti senza cattiveria e spesso con una punta di umorismo; il più delle volte questi non lasciano tracce. Ma molte volte le critiche diventano pesanti e non sono motivate; questi mariti e queste mogli dicono le cose come le vedono loro, a volte deformate da visioni distorte, tirando l’acqua al loro mulino, e riferiscono gli atteggiamenti o le parole per loro insopportabili senza però raccontare le circostanze che possono averli prodotti e delle quali forse essi stessi sono responsabili. Una moglie o un marito che sanno di essere oggetto di maldicenza o si chiuderanno in se stessi, amareggiati e delusi, o reagiranno ripagando con la stessa moneta. E la frattura fra i due si farà sempre più grande.

Gli stessi danni affettivi e psicologici si hanno nei figli, quando il padre o la madre hanno la brutta abitudine di parlare in giro dei loro difetti. La fiducia nei genitori viene così a mancare; col loro modo di fare, i genitori invece di essere un appoggio diventano un terreno infido e insicuro. Come oseranno confidare un segreto se sanno che in breve tempo tutti lo verranno a sapere? Come metterli al corrente di un problema, di un errore commesso, di una debolezza, se
temono che queste confidenze vengano riferite ad altri? Le distanze che si producono possono essere molto grandi e a volte incolmabili. “Padri, non provocate ad ira i vostri figli, ma allevateli in disciplina e in ammonizione del Signore” (Efesini 6:4).

La stessa cosa vale per i figli nei confronti dei genitori. Il biasimo, le critiche, i giudizi negativi, a volte motivati ma molto spesso no, vengono fatti con leggerezza. E’ la loro immaturità che li porta a questo. I ragazzi che criticano il genitore solo raramente cercano di giocare il ruolo dell’adulto con un’eccessiva libertà di giudizio e di valutazione (a volte imitando i genitori stessi, se hanno la brutta abitudine di fare così); quasi sempre lo fanno per affermare la propria
personalità e trovare la propria collocazione; può essere necessario lasciare loro questa libertà di critica che li aiuta ad acquisire convinzioni e certezze personali, che sono indispensabili. Il tempo passa, i ragazzi maturano e rivedono i loro modi di fare. Purtroppo, però, le critiche lasciano una triste eredità che continuerà a pesare su loro per molto tempo. Anche per loro il Signore ha dato degli ordini: “Onora tuo padre e tua madre, affinché ti sia bene e tu abbia lunga vita sulla terra” (Efesini 6:1-3).

Anche fra fratelli e sorelle di una stessa famiglia può verificarsi della maldicenza. Citerò solo un brano del Salmo 50, lasciando ad ognuno il compito di riflettere: “Tu siedi e parli contro il tuo fratello, tu diffami il figlio di tua madre. Tu hai fatto questo ed io mi son taciuto, e tu hai pensato ch’io fossi del tutto come te; ma io ti riprenderò e ti metterò tutto davanti agli occhi” (v.20-21).

I danni della maldicenza nella chiesa

“Temo di non trovarvi quali vorrei… temo che vi siano fra voi contese, gelosie, ire, rivalità, maldicenze…” (2 Corinzi 12: 20).

La maldicenza è una delle principali cause di amarezza, di liti, di disunione nella famiglia di Dio. La maldicenza ha rovinato la reputazione di tanti fedeli servitori del Signore.
L’apostolo Paolo, come si sa, l’ha subita pure lui; e quando fu costretto a difendersi disse: “Or alcuni si sono gonfiati come se io non dovessi recarmi da voi; ma, se il Signore lo vorrà, mi recherò presto da voi e conoscerò non il parlare ma la potenza di coloro che si sono gonfiati; perché il regno di Dio non consiste in parlare ma in potenza” (1 Cor. 4:18-20). E anche: “Ma quello che faccio lo farò ancora per togliere ogni occasione a coloro che desiderano un’occasione” (2 Cor. 11:12).

La vita comunitaria è molto difficile se c’è l’abitudine di fare maldicenza. La comunione degli uni con gli altri è interrotta, e i rapporti di amicizia si inaridiscono, per la diffidenza e il timore, fino a scomparire del tutto. Persino il ministerio ne risente, perché i fratelli che ne hanno la responsabilità si sentono vincolati e non godono di quella serena libertà che consente loro di svolgere un servizio “con allegrezza, e non sospirando” (Ebrei 13:17). Potrebbero
anche esserci dei giovani credenti dotati dal Signore e in grado di edificare la chiesa; ma come avrebbero il coraggio di parlare in un ambiente dove si critica troppo? Chissà quanti fratelli non hanno mai aperto bocca per questo motivo! La Parola del Signore ci preavvisa e ci richiama con un’espressione colorita e significativa: “Se vi mordete e vi divorate gli uni gli altri, guardate di non essere consumati gli uni dagli altri” (Gal .5:13-15).Il riferimento ad animali che si addentano è molto crudo. Ad ogni morso, strappano un brandello di carne; tanti morsi danno, tanti ne ricevono; tanta carne strappano, tanta ne viene strappata a loro… Alla fine sono tutti sbrindellati e sanguinanti. Non ha vinto nessuno; hanno perso tutti! E’ bene dunque che esaminiamo i nostri comportamenti. Che vantaggio c’è a distruggere gli altri e ad essere distrutti? E’ forse questo il piano del Signore per noi? Al tribunale di Cristo, dice Paolo ai Corinzi, tutto verrà messo in luce e ciascuno riceverà la retribuzione delle cose fatte durante la sua vita sulla terra. Studiamoci di essergli graditi! (2 Cor. 5:9-10).

E che dire delle persone che si stanno avvicinando al Signore e alle quali forse noi stessi abbiamo presentato l’Evangelo? Esse ci guardano, osservano il nostro agire, pesano le nostre parole, cercando in noi la realtà al di là delle apparenze, e quella coerenza che è logico pretendere in chi professa di conoscere e di amare Dio. La maldicenza li terrebbe lontani e li demoralizzerebbe. Li terrebbe lontani da quel Signore che noi predichiamo ma che imitiamo così poco; lontani da quella chiesa che dovrebbe essere una “culla” di piume per i nuovi nati e che qualche volta è, invece, un ruvido nido di spine!

Poveri e senza gioia

Sarà bene che ci soffermiamo ancora su due passi del Libro dei Proverbi. Uno dice: “Il chiacchierare mena all’indigenza” (14:23). Non significa solo che chi si perde in chiacchiere impoverisce perché non lavora. Vuole anche dire che c’è povertà spirituale dove ci si lascia andare alle critiche e alla maldicenza. Il nostro livello di fede, di conoscenza, di zelo per l’opera del Signore, sia personale che collettivo, può essere buono e in continua crescita solo se lo Spirito che è in noi è libero di agire con potenza. Se è “rattristato” (Efesini 4:30) non ci potrà essere nella nostra vita quel “trionfo in Cristo” (2 Corinzi 2:14) per il quale Paolo rendeva grazie a Dio. Ci sarà invece un pericoloso immobilismo e un’ipocrita esteriorità, il misero trionfo dell’apparire sull’essere, della forma sul contenuto.

L’altro passo dice: “La lingua che sparla di nascosto fa oscurare il viso” (25:23). Credo che questo sia vero sia per chi sparla sia per chi è bersaglio delle critiche. Il viso scuro è Io specchio fedele della tristezza del cuore, dell’angoscia, della paura, della delusione. Forse siamo credenti senza gioia anche perché non abbiamo ancora confessato il peccato della maldicenza e non l’abbiamo abbandonato. “Fammi udire gioia e allegrezza… Rendimi la gioia della tua salvezza”. Che questa bella preghiera, che Davide ha fatto dopo la confessione all’Eterno del suo peccato (Salmo 51:12), sia anche la nostra ogni volta che scopriamo di non essere su un sentiero che il Signore possa approvare.

Il rimedio

Sono convinto che ci sia un solo rimedio veramente efficace: crescere in Cristo. Mi spiego meglio. La crescita è un fenomeno normale dove c’è la vita. Il nostro Padre, come ogni padre fra noi, segue con trepidazione lo sviluppo dei suoi figli e li aiuta in questo processo di continue trasformazioni, di rinnovamento, di innovazione nel modo di pensare e di fare. Ma se la crescita non si verifica c’è patologia e bisogna intervenire con cure appropriate. Così è nel campo
della fede. Nel Nuovo Testamento è molto chiaro il piano di Dio per ognuno di noi e lo possiamo vedere in un passo meraviglioso, quello di Efesini 4:13-15: “Finché tutti siamo arrivati… allo stato di uomini fatti, all’altezza della statura perfetta di Cristo; affinché non siamo più dei bambini, sballottati e portati qua e là da ogni vento di dottrina… ma cresciamo in ogni cosa verso Colui che è il capo, cioè Cristo”.

Siccome, purtroppo, questa crescita non avviene sempre come il nostro Padre vorrebbe, non mancano i rimproveri e gli incoraggiamenti. Un rimprovero lo fa Paolo ai Corinzi: “Io, fratelli, non ho potuto parlarvi come a spirituali, ma ho dovuto parlarvi come a carnali, come a bambini in Cristo. Vi ho nutriti di latte, non di cibo solido, perché non eravate ancora da tanto” ( 1 Corinzi 3:1-2). L’adulto smette le cose del bambino. In 1 Corinzi 13, lo stesso apostolo, sebbene in un
altro contesto e con altri scopi, dice che quando era bambino parlava da bambino, pensava da bambino, ragionava da bambino; ma aggiunge che poi, quando è diventato uomo, ha “smesso le cose da bambino”. Il termine “smesso” è la traduzione del greco “katargheo” che significa lasciare da parte attivamente, distruggere. Non è un bell’insegnamento per noi? I comportamenti di cui parlavamo prima sono tipici dei bambini e li dobbiamo “smettere”, con l’aiuto del
Signore. Crescere nella grazia e nella conoscenza del Signore e Salvatore Gesù Cristo (2 Pietro 3:18) è il progetto di Dio per ognuno di noi. Sia dunque anche la nostra ambizione!

Parlare di un peccato commesso da altri non è sempre maldicenza

Se così stanno le cose, potrebbe pensare qualcuno, non riferirò mai più un peccato di un mio fratello o di una mia sorella, non ne parlerò con nessuno, fingerò di ignorarlo. Questo pensiero è sbagliato. La Parola di Dio ci insegna che non possiamo ignorare i peccati dei nostri fratelli. La chiesa è una famiglia, una grande famiglia, dove tutti si amano, si proteggono, si aiutano. Ed è anche un “corpo” vivente dove tutte le membra e gli organi funzionano non indipendentemente ma in un’armonica dipendenza gli uni agli altri.

Ignorare il male porterebbe a due gravi inconvenienti:

  1. Il mio fratello o la mia sorella “malati” non sarebbero curati.
  2. Il male del mio fratello o della mia sorella potrebbe contagiare gli altri con un grave danno per tutto il “corpo”.

E’ l’amore che deve spingerci ad interessarci gli uni degli altri. Se so che nel mio fratello ci sono pensieri o comportamenti che non piacciono al Signore, non posso ignorare la cosa. Devo aiutarlo. Se non lo faccio, lo espongo a tutte le conseguenze del suo peccato, alle tristezze, ai dolori della disubbidienza. E poiché il nostro Padre celeste sottopone a disciplina e castiga i suoi figli disubbidienti, il mio mancato intervento non gli permette di evitare il castigo divino.

Il male del mio fratello devo sentirlo come “mio” perché sono un solo “corpo” con lui. Non ha senso quindi che io vada a riferire ad altri la caduta del mio fratello, magari colorando i fatti e le parole, ma dovrei agire secondo le istruzioni che il Signore stesso ci dà in Matteo 18. Esula un po’ dal soggetto che sto trattando, ma credo possa essere di utilità ricordare la prassi da seguire nel caso che un fratello pecchi.

  1. “Se il tuo fratello ha peccato contro di te, va’ e riprendilo fra te e lui solo”. Ecco il primo passo da fare. A tu per tu col fratello, con tutta l’umiltà, la grazia, la franchezza che il Signore ci ha insegnato. Il “contro di te” implica, qui, un’offesa personale o un torto, ma certamente la stessa regola dobbiamo applicarla anche quando l’offesa fatta non ci coinvolge in prima persona. “Se ti ascolta avrai guadagnato il tuo fratello”. E nessuno ne saprà niente. Il tuo fratello non sarà diffamato e tu, col tuo amore per lui, sembra dire il Signore, avrai “coperto” il suo peccato, perché “l’amore copre moltitudine di peccati” (1 Pietro 4:8). Chi di noi può dire di aver sempre agito così?
  2. “Ma se non ti ascolta, prendi con te ancora una o due persone, affinché ogni parola sia confermata”. Si è dunque costretti a parlarne ad altri. Non è maldicenza. Se il fratello ascolta, i due o tre terranno la cosa per sé, non ne parleranno con nessuno, e il problema sarà risolto.
  3. “Se poi rifiuta di ascoltarli, dillo alla chiesa”. In questo modo, evidentemente, la notizia si diffonde perché tutta la chiesa viene messa al corrente. Non è maldicenza, non è “l’incendio di una grande foresta”. Ci saranno incontri, discussioni forse, ma è una necessità dettata dall’ostinazione e dal rifiuto, di chi ha peccato, di riconoscere il proprio errore e di abbandonarlo.
  4. Se nemmeno un tale passo raggiunge lo scopo, il Signore dice: “Ti sia come il pubblicano e il peccatore”, vale a dire come uno con cui non si hanno relazioni fraterne, sempre con lo scopo che rientri in sé, rifletta sul suo modo di agire e riconosca il suo peccato.

Paolo non teme di dire che “quelli della casa di Cloe” gli avevano riferito le contese che c’erano nella chiesa di Corinto (1 Corinzi 1:11). Avevano fatto bene ad avvisarlo perché potesse dare a quella chiesa, e a noi pure, gli avvertimenti necessari e i suggerimenti sul modo d’agire. Quando ci fu, in quella stessa chiesa, un grave peccato di fornicazione (1 Corinzi 5), l’apostolo reagì con molta fermezza contro l’indifferenza dei fratelli. Perché non avevano preso posizione
nel giudicare il peccato? Perché non avevano preso verso il peccatore gli opportuni provvedimenti? Paolo parla di questo caso su una lettera che andava letta a tutti, mettendo tutti al corrente dell’accaduto. Non è maldicenza; è il Signore che gli ordina questo. “Non sapete che un po’ di lievito fa lievitare tutta la pasta? Purificatevi dal vecchio lievito…” (v. 6-7).

Capitolo 3 – Il disprezzo

“Quanto all’onore prevenitevi gli uni gli altri”. Questo passo di Romani 12:10 ci insegna due cose: primo, che i nostri fratelli e sorelle sono degni di onore; secondo, che dovremmo fare a gara per renderci onore reciprocamente. Quando io tratto con un membro della famiglia di Dio, dovrei sempre pensare che mi trovo di fronte ad uno che il Signore non ha vergogna di chiamare suo fratello, uno che è membro della famiglia di Dio di diritto, perché ha creduto in Gesù Cristo (1 Giovanni 3:3). Dio è suo Padre, e lo ama. Ho il diritto di disprezzarlo? Sarà contento suo Padre? Il mio disprezzo non ricadrebbe anche su di Lui?

Ma tu, perché disprezzi il tuo fratello?

“Ma tu, perché disprezzi il tuo fratello? Poiché tutti compariremo davanti al tribunale di Dio” (Romani 14:10).

“Guardatevi dal disprezzare alcuno di questi piccoli” (Matteo 18:10).

Il disprezzo è una mancanza di rispetto, di stima e di fiducia verso i nostri simili; è la svalutazione degli altri, il rifiuto a volerne riconoscere i pregi. Il disprezzo si manifesta non soltanto con maldicenze e critiche, come spesso avviene, ma anche con parole poco gentili, dure o addirittura arroganti.Non lo vediamo, purtroppo, anche nei nostri rapporti fra fratelli e sorelle? Le risposte, qualche volta, sono distaccate e presuntuose, gli atteggiamenti prepotenti; le proposte dei più semplici non vengono prese in considerazione coni’ amore dovuto, le loro obiezioni rifiutate con senso di superiorità. In fondo c’è del disprezzo. Vengono a proposito, in situazioni del genere, le severe parole di Giacomo: “Ma voi avete – disprezzato il povero!” (2:6).

Non possiamo proprio dire che nella Parola del Signore manchino i consigli e le direttive su questo argomento. Nel Libro dei Proverbi il disprezzo è presentato come peccato e sintomo di stupidità!

“Chi sprezza il prossimo pecca” (14:21). “Chi sprezza il prossimo è privo di senno” (11:12).

Bisogna riconoscere che non tutti hanno le stesse capacità né la stessa intelligenza né lo stesso livello culturale. Alcuni sono più dotati di altri, sia intellettualmente che fisicamente. Ma il Signore non fa le differenze che facciamo noi; ci ha comprati tutti pagando lo stesso prezzo, ci ama tutti dello stesso amore. Se rileva delle differenze, queste riguardano piuttosto il nostro amore per Lui, la nostra consacrazione, la devozione con la quale lo serviamo. Non per niente Paolo fa ai Filippesi questa preziosa raccomandazione: “Non facendo nulla per vanagloria, ma ciascuno di voi, con umiltà, stimando altrui da più di se stesso… Abbiate lo stesso sentimento che è stato in Cristo Gesù” (Filippesi 2:3).

Dirò, per inciso, che lo stimare gli altri più di noi stessi presuppone una corretta stima di sé, cosa che anche la Scrittura ci insegna. Se abbiamo delle doti in più, riconosciamolo, ringraziamo il Signore e mettiamole umilmente a sua disposizione. Non svalutiamoci. Perché disprezzare i doni che il Signore ci ha fatto? Ma allora, e tanto più, non svalutiamo gli altri! “Infatti, chi ti distingue dagli altri? E che hai tu che non 1 ’abbia ricevuto? E se pur l’hai ricevuto, perché ti glori come se non l’avessi ricevuto?” (1 Corinzi 4:7).

La mancanza di rispetto è un male tipico del mondo di oggi che, purtroppo, ha invaso anche la famiglia di Dio. “Egocentrismo” e “individualismo”, che sono poi il frutto dell’egoismo e dell’orgoglio, sono termini che ricorrono spesso nelle analisi dei mali della nostra società. Non li
scopriamo anche dentro di noi? Dobbiamo chiedere l’aiuto al Signore per estirparli, e ricuperare quei valori che più hanno risentito del generale crollo della moralità, e della debolezza degli individui e delle istituzioni. La Chiesa è come un corpo composto da molte membra. La sua solidità e il suo buon funzionamento dipendono da un giusto equilibrio fra le varie funzioni a cui ognuno dei suoi organi è devoluto. Se ogni parte svolge bene il suo lavoro armonizzandosi e integrandosi nell’insieme, godrà “buona salute”. “Infatti il corpo non si compone di un membro solo, ma di molte membra… Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito?… E l’occhio non può dire alla mano: Io non ho bisogno di te, né il capo può dire ai piedi: Io non ho bisogno di voi. Al contrario, le membra del corpo che paiono essere più deboli sono invece più necessarie” (1 Corinzi 12:12-25).

Sembrerà strano, ma i più colpiti dalla mancanza di rispetto sono proprio coloro verso i quali Dio obbliga il rispetto: genitori, superiori, persone anziane, servitori di Dio. E’ un segno dei tempi, un carattere degli ultimi giorni. Rileggiamo quello che la Parola ci insegna: “Maledetto chi disprezza suo padre o sua madre” (Deuteronomio 27:16). “Quelli che hanno dei padroni credenti non li disprezzino perché sono fratelli, ma tanto più li servano” ( 1 Timoteo 6:2). “Gli anziani che tengono bene la presidenza siano reputati degni di doppio onore, specialmente quelli che si affaticano nella predicazione e nell’insegnamento” (1 Timoteo 5:17).

Se un fratello o una sorella cadono nel peccato, è compito degli altri di riprenderlo; ma lo dovranno fare con spirito di mansuetudine (“E bada bene a te stesso che talora anche tu non sia tentato”, Galati 6:1-2) e con una giusta dose di amore e di umiltà. Lo dovranno fare per il suo bene e per ubbidire al Signore, ma portando anche il “peso” del fratello caduto perché non si senta solo e non si scoraggi. Però, riprendere un fratello non significa disprezzarlo. Quand’anche fosse ostinato e si fosse obbligati a rimetterlo al castigo e alla scuola del Signore, il rispetto gli va pur sempre reso, perché è un riscattato del Signore.

L’onore e il rispetto, oltre che alle categorie di persone che abbiamo sopra citato, vanno resi a tutti, fratelli, sorelle, anziani, giovani. “Onorate tutti” scrive Pietro (1 Pietro 2:17).

Sì, perché anche i giovani devono essere rispettati, specialmente se amano il Signore e desiderano servirlo. Paolo dice al giovane Timoteo: “Nessuno disprezzi la tua giovinezza”. E, raccomandandolo ai fratelli di Corinto, scrive loro: “Guardate che stia tra voi senza timore; perché egli lavora nell’opera del Signore come faccio anch’io. Nessuno dunque lo disprezzi” (1 Corinzi 16:10-11).

I medesimi insegnamenti li troviamo anche nell’Antico Testamento. Elihu, l’amico di Giobbe, dice: “Dio è potente, ma non disdegna (lett. non disprezza) alcuno” (Giobbe 36:5). Se non lo fa Lui, possiamo farlo noi, povere creature mortali?

Come dicevamo della maldicenza, così possiamo dire del disprezzo: ne hanno sofferto gran parte degli uomini di Dio, dei suoi profeti e dei suoi servitori, in tutti i tempi. Il patriarca Giobbe, nei giorni della sua grande sofferenza, ha patito il disprezzo da parte dei suoi stessi amici che erano lì con l’intenzione di consolarlo e di aiutarlo a superare la crisi; e si sfoga con queste parole: “Aprono larga contro di me la bocca, mi percuotono per obbrobrio (lett. con disprezzo) le guance” (16:10). Ma il nostro Signore ne ha sofferto più di tutti, al punto che si definisce il vituperio degli uomini, il disprezzato dal popolo (Salmo 22:6). Di Lui scrive il profeta: “Disprezzato e abbandonato dagli uomini, uomo di dolore, familiare col patire… era disprezzato, e noi non ne facemmo stima alcuna” (Isaia 53:3).

Le conseguenze del disprezzo nella chiesa

Tutti abbiamo bisogno di sentirci amati e apprezzati. Soltanto così potremo dare il meglio di noi. Chi è disprezzato si chiude in se stesso, prova vergogna, assume un atteggiamento di difesa verso gli altri, e non potrà essere di utilità a nessuno nella comunità in cui vive.

Già abbiamo letto che dovremmo fare a gara per onorarci l’un l’altro, e che l’onore va reso a tutti. E’ facile capire quanto più questo principio valga per quelli che si impegnano per il Signore e per la Chiesa. Guardate il caso di Epafrodito. Paolo lo presenta alla chiesa di Filippi, dicendo: “Ho stimato necessario di mandarvi Epafrodito, mio fratello, mio collaboratore e commilitone… Accoglietelo dunque nel Signore con allegrezza, perché per l’opera di Cristo egli è stato vicino alla morte, avendo arrischiata la propria vita per supplire ai servizi che voi non potevate rendermi voi stessi”. Lo descrive così non per esaltare la sua persona, ma perché lo ricevessero con tutto l’affetto e la considerazione dovuta a un servitore di Dio. Poi dice anche: “Abbiate stima di persone come lui”, includendo in questo termine “persone” tutti i fratelli e le sorelle consacrate al Signore e disponibili per servire la fratellanza (Filippesi 2:25-29).

Nel Libro dei Numeri, al cap. 12, c’è un racconto molto istruttivo. Maria ed Aronne, la sorella e il fratello di Mosè, “parlarono contro a Mosè, a motivo della donna etiope che aveva sposato” (v. 1). Alla contestazione seguì il disprezzo. Chi si credeva di essere questo Mosè? L’Eterno aveva parlato solo tramite lui? Non aveva anche parlato tramite lei, Maria, e tramite lui, Aronne? Lì per lì poteva sembrare cosa di poca importanza, una banale lite fra fratelli nella quale le parole avevano superato le intenzioni. Ma l’Eterno intervenne immediatamente e con molta severità. La Scrittura precisa, in quella circostanza, che “Mosé era un uomo molto mansueto, più di chiunque altro sulla faccia della terra”. “L’Eterno quindi disse: Ascoltate le mie parole… Mosè è fedele in tutta la mia casa. Con lui io parlo faccia a faccia, facendomi vedere… Perché dunque non avete temuto di parlare contro il mio servo, contro Mosè?”. Il castigo non si fece aspettare. Maria, all’improvviso, si riempì di piaghe di lebbra, e ci volle l’intercessione di Mosè perché l’Eterno la guarisse.

In una chiesa del primo secolo viveva un certo Diotrefe, un cattivo cristiano che cercava di “avere il primato” e dominava «sugli altri membri della chiesa. Era un gran male, tanto che l’ apostolo Giovanni prevede di rimproverarlo pubblicamente in occasione di una sua prossima visita. Nella sua presunzione, quell’uomo disprezzava i fratelli e specialmente quelli che erano “partiti per amore del nome di Cristo”. Lui non li riceveva, parlava contro di loro con “malvagie parole”, e a
quelli che avrebbero voluto riceverli impediva di farlo e li cacciava fuori della chiesa (3 Giovanni 8:11). Quanti Diotrefe ci sono oggi nelle chiese? Quanti che disprezzano gli altri per esaltare se stessi, volendosi imporre come se fossero loro i padroni della chiesa e non il Signore? “Carissimo” dice l’anziano apostolo al fratello Gaio, “non imitare il male ma il bene. Chi fa il bene è da Dio, ma chi fa il male non ha visto Dio”.

Ho insistito prima nel dire che il nostro dovere nei confronti degli altri è di onorare tutti. Ma quando siamo noi, non dico a pretendere, ma a desiderare l’onore degli altri nei nostri confronti, dobbiamo sempre ricordarci che la stima e l’apprezzamento vanno meritati e guadagnati. Meritati con la nostra ubbidienza alla Parola del Signore e con una vita che la onora; guadagnati con un amore sincero per gli altri che si manifesti concretamente, senza ipocrisia, e quale diretta conseguenza dell’ amore che abbiamo per il Signore.

Se un fratello, che svolge bene un ministerio nella chiesa, non è stimato come dovrebbe esserlo, anche il suo ministerio viene automaticamente disprezzato. Ai Tessalonicesi, Paolo ordina di non disprezzare le profezie, ma di provare ogni cosa e ritenere il bene (1 Tessalonicesi 5:20). Le profezie qui non sono gli scritti profetici del Vecchio Testamento, ma i messaggi di edificazione, esortazione e consolazione (1 Corinzi 14:3) che i fratelli col dono di profeta trasmettono alla chiesa da parte di Dio. Riconosciamo pure che a volte quelli che parlano non sempre sono dotati, e così i loro messaggi sono poveri ed edificano poco. Allora, invece di disprezzare le profezie, tre cose possiamo fare:

1. Desiderare di più di avere il dono di profeta e chiederlo al Signore.

2. Pregare che Egli ravvivi i doni che già ci sono e che, o per indolenza o per mancanza di libertà, non vengono esercitati.

3. Prima di recarsi alle riunioni, domandare con insistenza al Signore che guidi col suo Spirito coloro che parleranno, affinché sappiano trasmettere con potenza il messaggio affidato loro da Dio. Dico “coloro” e non “colui” perché 1 Corinzi 14:29 insegna chiaramente che non dovrebbe essere uno solo a parlare, ma “due o tre”. Se questo fosse osservato ci sarebbe molta più
ricchezza e una messe più abbondante di benedizioni! Disprezzare le profezie spegne Io Spirito (v.19) con gravi conseguenze per lo sviluppo spirituale di tutta la comunità.

Le conseguenze del disprezzo nella famiglia

Se è vero che le mogli devono essere sottomesse ai loro mariti, è anche vero che i mariti devono amare le loro mogli. Paolo, quando dà queste istruzioni (Efesini 5), fa addirittura l’esempio di Cristo e della Chiesa. Cristo l’ha amata così tanto fino a dare se stesso per lei; la Chiesa si sottomette a Lui, riconoscendolo non solo come il suo amato Salvatore, ma anche come il suo Signore.

Pietro, dando anch’egli consigli ai credenti sulle relazioni coniugali, aggiunge un’importante indicazione per i mariti: “Convivete con esse con la discrezione dovuta al vaso più debole che è il femminile. Portate loro onore perché sono anch’esse eredi con voi della grazia della vita, affinché le vostre preghiere non siano impedite” (1 Pietro 3:7). “Onoratele”; come dobbiamo ricordarcelo noi mariti! Se non lo facciamo, c’è una prima tragica conseguenza: le nostre preghiere sono impedite (v.7) e non trovano risposta. Chissà che non sia anche questa la causa di tanta povertà nelle famiglie, di tante richieste rimaste insoddisfatte. Il Signore avrebbe voluto esaudire, ma la mancanza di rispetto fra i membri della famiglia ha creato un ostacolo che solo un sincero pentimento potrà rimuovere. Poi subentrano la passività e il negativismo, le difficoltà a capirsi, la mancanza di incentivo a far piacere all’altro, i problemi di convivenza.

L’essere umano è fatto così, uomo o donna che sia, a qualsiasi età: se continuamente gli vengono rinfacciati i difetti, si sente svalutato e rifiutato, e finisce col demoralizzarsi e perdere ogni stimolo. Così, un figlio allevato nel disprezzo diventerà insicuro e non arriverà mai ad esprimere le capacità che ha dentro, né a strutturare la propria identità.

Sono problemi gravi e attuali nei quali l’umanità si dibatte, comprese le famiglie dei credenti. Le direttive e i consigli non ci mancano perché il Signore ce ne dà in abbondanza.
Purtroppo, nella nostra debolezza, a volte non li comprendiamo, oppure li comprendiamo ma non vogliamo accettarli. Ci serve il suo aiuto in ogni momento, chiesto con una preghiera fervente e perseverante.

In 1 Samuele 25, una donna virtuosa emerge per la sua saggezza; è Abigail, la moglie di Nabal. Ella non può fare a meno di riconoscere la nullità del marito e dire che è uno “stolto”, ma non ne parla con l’atteggiamento di chi disprezza l’altro per innalzare se stesso. Anzi, si accolla le sue colpe.
Nelle sue parole c’è tutta l’angoscia di una convivenza difficile e una profonda malinconia: “O mio signore, la colpa è mia! Deh, lascia che la tua serva parli in tua presenza, e tu ascolta le parole della tua serva! … Deh, perdona la colpa della tua serva!” (v .24 e 28). Davide è stupito da tanto buon senso, e risponde: “Sia benedetto l’Eterno, il Dio d’Israele, che oggi ti ha mandato incontro a me! Benedetto il tuo consiglio (o il tuo senno) e benedetta tu…” (v.32). La prenderà per moglie, dopo la morte del marito.

Capitolo 4 – L’adulazione

Quando penso all’adulazione non posso fare a meno di ricordare una frase di Elihu, il più saggio degli amici di Giobbe: “Lasciate che io parli senza riguardi personali, senza
adulare alcuno; perché adulare io non so; se lo facessi, il mio Fattore presto mi toglierebbe di mezzo” (Giobbe 32:21-22). E’ vero, gli adulatori non piacciono a Dio, perché adulare è un atto di falsità, è lodare qualcuno senza sincerità, senza amore, per puro interesse personale. “Ciascuno mentisce parlando col prossimo”, scrive Davide nel Salmo 12, “parlano con labbro lusinghiero e con cuore doppio. L’Eterno recida tutte le labbra lusinghiere”.

Chi lusinga il prossimo gli tende una rete

L’adulazione non ha in vista il bene del prossimo; è invece un laccio insidioso che presto o tardi lo farà cadere, come ci ricorda Proverbi 29:5: “L’uomo che lusinga il  prossimo gli tende una rete davanti ai piedi”. Davide l’aveva sperimentata e lo temeva. Per questo in una bella preghiera dice: “O Eterno, che io veda diritta innanzi a me la tua via; poiché in bocca loro non v’è sincerità, il loro interno è pieno di malizia; la loro gola è un sepolcro aperto; lusingano con la loro lingua. Condannali, o Dio! “ (Salmo 5:8-10).

Una breve citazione di un testo profetico ci può ancora essere utile. Nel cap. 11 del suo libro, Daniele parla in anticipo, con una visione profetica, di un re abominevole che sarebbe vissuto molti anni dopo. Questo re ci fu, in effetti, al tempo dei Maccabei, circa 150 anni prima di Cristo. Era un siriano di nome Antioco Epifane, della dinastia dei Seleucidi, il quale, entrato in Palestina, abbatté le mura di Gerusalemme, distrusse gli scritti sacri, mise nel tempio una statua di Giove e fece persino sacrificare dei maiali sull’altare dell’Eterno per profanarlo. Di lui è scritto: “Verrà senza rumore, e si impadronirà del regno a forza di lusinghe” (v.21). Anche questo deve farci capire che la lusinga, l’adulazione e ogni falso elogio, non devono proprio aver posto nelle relazioni fra credenti!

L’elogio è utile se è sincero e in giusta misura

Ma, come già accennavo, la lode è buona e l’elogio è utile se sono sinceri e in giusta misura. Il Signore, nella parabola li Matteo 25:14-30, loda il servo fedele e gli dice: “Buono e fedele servitore”. Anche nelle lettere alle sette chiese dell’Asia Minore (Apocalisse 2 e 3), lo Spirito Santo, almeno in cinque i esse, mette prima in evidenza le cose buone, il loro amore, loro opere, le qualità morali. Solo successivamente fa i meritati rimproveri, dove è il caso di farli.

Alcuni sono molto restii a fare elogi perché hanno paura di stimolare l’orgoglio; e non si può dire che abbiano completamente torto. Chi ha di sé “un concetto più alto di quello che deve avere” (Romani 12:3) si compiace degli elogi, e sarebbe bene che non ne ricevesse molti perché gli farebbero del male. Dobbiamo essere saggi nel lodare gli altri, e il nostro livello spirituale si manifesterà anche in questo.

E’ risaputo che tutti, fin da bambini, abbiamo bisogno di riconoscimenti. Il consenso degli altri, se è sincero, ci fa sentire amati e ci incoraggia. Ci aiuta a capire che non siamo inutili. Ci dà energia per superare complessi di inferiorità o momenti di crisi e di solitudine. Ma dobbiamo essere umili quando riceviamo le lodi e, per così dire, dirottarle sul Signore dando a Lui la gloria e l’onore poiché, se abbiamo qualche merito, lo dobbiamo a Lui e solo a Lui. Ricordiamoci che il rifiuto di ogni apprezzamento è una falsa umiltà. Se dubitiamo sempre della sincerità di chi ci elogia, gli altri se ne accorgeranno e finiranno per rinunciare ad esprimerci il loro affetto. Non priviamoci della bella esperienza di essere amati perché solo se ci sentiamo amati impariamo ad amare noi stessi e gli altri.

Paolo, nelle sue lettere, loda ripetutamente i credenti. Il cap.16 dell’Epistola ai Romani è un meraviglioso elenco di fratelli e sorelle che si erano distinti per fedeltà e consacrazione e che Paolo elogia per un atto di giustizia e perché anche altri imparino a farlo. L’apostolo non ha timore di rilevarne i pregi, e nemmeno si fa scrupolo di dire che, se Trifena e Trifosa si affaticavano nel Signore, la cara Perside si era molto affaticata nel Signore. Era la verità, non una lusinga. Anzi, proprio Paolo, parlando anche a nome dei suoi collaboratori, rivendica la sincerità del loro modo d’agire dicendo: “Non abbiamo mai usato un parlare lusinghevole, né pretesti ispirati da cupidigia; Iddio ne è testimone” (1 Tessalonicesi 2:5). Che sia sempre questo il nostro modo d’agire!

Capitolo 5 – Le parole che fanno male

Lingua e spada

C’è un’antica massima popolare che dice: Uccide più la lingua che la spada. Se potessimo fare il conto di quante persone abbiamo “ucciso” o anche soltanto “ferito” con la nostra lingua ne avremmo vergogna. Ma non possiamo farlo perché il più delle volte non ci accorgiamo nemmeno del male che fanno le nostre parole. Non per nulla la Scrittura ci esorta a non parlare troppo (“Nella moltitudine delle parole non manca la colpa” Proverbi 10:19), e a riflettere sempre prima di parlare (“Il cuore del giusto medita la sua risposta” Proverbi 15:28).

Lingua e spada sono due termini che, purtroppo, molto spesso vanno insieme; li troviamo citati a più riprese sia nei Salmi che nei Proverbi, perché lo Spirito vuole sensibilizzarci su questo argomento. Noi viviamo in un mondo malvagio che non conosce il Signore e che è sotto il potere del nemico delle anime. Quante volte ci sarà capitato di dire, come Davide, “Io dimoro fra gente che vomita fiamme e la cui lingua è una spada acuta” (Salmo 57:4). E’ normale per il mondo, ma non deve esserlo per noi credenti. Eppure anche fra noi “c’è chi, parlando inconsultamente, trafigge come spada” (12:18). Non l’ho mai fatto io? Non l’hai mai fatto tu?

Un buon esercizio per evitare di “ferire” il nostro prossimo è quello di pensare sempre, prima di parlare, a come le nostre parole potranno venire interpretate; se conosciamo bene la persona che ci sta vicino, le idee che ha e i problemi che la turbano, non ci sarà difficile risparmiarle le ferite della
nostra lingua. Ma c’è del male quando volutamente diamo risposte che feriscono gli altri; parole dure, senza misericordia, oppure malignamente allusive, pronunciate con derisione o con alterigia. Quando siamo eccitati o adirati dovremmo sempre tacere, perché in quelle condizioni le parole escono senza controllo; e invece è proprio allora che parliamo di più e che commettiamo i più grossolani errori!

Quante lotte, quanti conflitti si verificano nelle famiglie e nella chiesa per le parole dure! “La parola dura eccita l’ira” dice Salomone (Proverbi 15:1), e sappiamo per esperienza quanto ciò è vero. Un amore più intenso e più sincero fra noi eviterebbe sicuramente tutte queste cose!

Essere forti nel Signore

Essere forti nel Signore dà una visione completamente nuova delle cose. Solo in Cristo ci si può elevare al di sopra di ogni debolezza e conflitto umano per godere la vera libertà di figli di Dio. Più si sale il pendio di una montagna, più le cose della valle, allontanandosi, diventano piccole e insignificanti, fino a non essere nemmeno più distinguibili. Così, le parole di adulazione o di maldicenza o di disprezzo avranno poco impatto se la nostra vita spirituale si svolge sulle “vette”
e non nella “valle”. Ma qual è il segreto per essere “forti” nel Signore? Direi che si possa riassumere in due parole chiave: comunione e servizio . La comunione ci avvicina a Lui perché stabilisce una relazione vivente e costante fra Lui e noi; e la sua Persona, conosciuta a fondo e gustata intimamente, diventa cara e preziosa ai nostri cuori, ci eleva con gioia al di sopra delle cose visibili e conferisce energia ed entusiasmo alla nostra vita. Il servizio è il risultato immediato della comunione, del nostro amore per Lui, del valore ch’Egli ha per noi. Le due cose devono andare insieme. Ma se mancano, o se ne manca una delle due, siamo inevitabilmente concentrati su noi stessi, sui nostri diritti, sulla difesa della nostra personalità. Allora siamo deboli e diventiamo suscettibili.

Quanto bisogno abbiamo di essere incoraggiati e fortificati! Dobbiamo ringraziare il Signore se nella nostra chiesa vi sono dei veri “pastori”, qualificati dallo Spirito per consolare e contribuire alla crescita dei credenti. Ma se non ve ne sono, possiamo chiedergli questo dono offrendo con devozione la nostra piena disponibilità.

Capitolo 6 – Come usare bene il dono della parola

Se ritorniamo ai versetti dell’epistola di Giacomo che hanno fatto da traccia iniziale alle riflessioni di questo scritto (3:1-12), scopriamo degli aspetti positivi dell’uso della lingua che, dopo tutto ciò che è stato detto finora, ci danno una “boccata d’ossigeno”. E’ vero che la lingua può essere “un male senza posa, piena di mortifero veleno”, ma è anche vero che con essa “benediciamo il Signore e Padre”, che dalla bocca “procede benedizione”, che una fonte getta “il dolce” e non solo l’amaro. Anzi, questo dovrebbe essere la regola, l’uso normale della nostra lingua che esprime i sentimenti di un cuore rigenerato dalla fede in Cristo.

Anche se non è lo scopo principale di questo libro, è quasi d’obbligo terminare su una nota positiva e fare una breve carrellata su un argomento più incoraggiante di quello che abbiamo trattato fin qui: quello del buon uso della lingua.

Questo capitolo contiene sei argomenti:

  1. Parole di lode al Signore
  2. Parole di testimonianza
  3. Parole di incoraggiamento e di consolazione
  4. Parole di esortazione
  5. Parole di edificazione
  6. Parole di sapienza e di conoscenza
  7. Parole dette a proposito e al momento giusto

Parole di lode al Signore

Metto volentieri questo soggetto al primo posto perché i primi doveri che abbiamo sono nei confronti di Dio. Prima il Signore, poi il mio fratello, e da ultimo io; è una scala di valori esattamente all’opposto di quella in uso nel mondo. Non “io, tu, egli”, come nelle declinazioni dei verbi, ma “Egli, tu, io”. Dio si glorifica nel capovolgere i princìpi dell’uomo e nel mettere i suoi princìpi nel cuore dei suoi riscattati!

“Offriamo del continuo a Dio un sacrificio di lode; cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome” (Ebrei 13:15). La lode è dovuta al Signore. Però il credente che adora e ringrazia non Io fa per assolvere un obbligo, ma per una necessità interiore, un impulso che nasce spontaneo dal cuore e che non si può trattenere. Come tacere conoscendo come Padre Colui che è il creatore di tutte le cose, grande, potente, eterno? Come non lodarlo per l’amore del quale ci ha amati e la grandezza del dono che ci ha fatto? Per poterci avere per sempre nella sua casa Dio non ha risparmiato il suo proprio Figlio “ma l’ha dato per tutti noi”. E Lui, il Figlio di Dio, per consentire al Padre di perdonare dei peccatori colpevoli, ha accettato di subire la morte infamante della croce! Potremmo non dirgli grazie? La nostra bocca dovrebbe aprirsi continuamente per pronunciare parole di gratitudine e di riconoscenza, e proclamare la grandezza della sua misericordia.

La lode può anche essere offerta insieme ai nostri fratelli e sorelle, nell’assemblea radunata; e quanto sono preziosi questi incontri di adorazione comune, quando tutte le bocche si aprono con un unico scopo all’indirizzo del medesimo Padre e Signore! Ci incoraggi l’esortazione che Paolo fa ai Romani: “Ora, il Dio della pazienza e della consolazione vi dia di avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù, affinché d’un solo animo e d’una stessa bocca glorifichiate Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo” (15:6).

La grandezza della gloria di Dio e la sua grazia sono, indiscutibilmente, i principali motivi di lode. Ma un credente fedele, che ha fatto entrare il Signore in tutti i dettagli della sua vita terrena, trova ogni giorno dei motivi di riconoscenza nella sua protezione continua, nella sua guida in grandi e piccole cose, nelle innumerevoli risposte alle preghiere, nei suoi interventi miracolosi. I Salmi sono pieni di parole di lode proprio perché esprimono i sentimenti del cuore di uomini pii e le loro esperienze. Davide scrive: “Poiché la tua benignità vai meglio della vita, le mie labbra ti loderanno. Così ti benedirò finché io viva, e alzerò le mani invocando il tuo nome” (Salmo 63:3-4).

La lode può salire a Dio anche nel segreto, senza che nemmeno sia pronunciata. Ma la lingua è fatta per tradurre in modo concreto le idee e i pensieri, ed è bene che sia usata per questo scopo. Il Signore dice che “dall’abbondanza del cuore la bocca parla” (Matteo 12:34-35). Se il nostro cuore trabocca di gioia e di adorazione, la nostra lingua non può rimanere inattiva. Il giorno che il Signore entrò in Gerusalemme montato su un puledro d’asina (Luca 19:36-40), moltissimi discepoli lo attorniarono e, gettando i loro mantelli sulla via davanti a Lui, cominciarono “con allegrezza a lodare Dio a gran voce” e a dire: “Benedetto il re che viene nel nome del Signore”. E quando i Farisei, increduli e invidiosi, dissero al Signore che sgridasse i suoi discepoli, Egli rispose: “Io vi dico che se costoro si tacciono, le pietre grideranno”!

La lode può essere espressa con parole pronunciate oppure anche cantate; anzi, si può dire che il canto è un mezzo sublime per esprimere la lode a Dio : “Io canterò e salmeggerò…Io ti celebrerò fra i popoli, o Signore, a te salmeggerò fra le nazioni perché grande fino al cielo è la tua benignità” (Salmo 57:7-10). Dovrà essere un canto serio, sereno, dolce e festoso nello stesso tempo, adatto alla dignità della Persona a cui è rivolto e alla solennità delle parole che contiene.

Gli angeli lodano continuamente Dio, nel cielo. La loro voce fu udita sulla terra quando, all’annuncio della nascita del Salvatore, vi fu ad un tratto “una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: Gloria a Dio nei luoghi altissimi, pace in terra fra gli uomini ch’Egli gradisce” (Luca 2:12-14). Il Signore stesso, nei giorni della sua umanità, lodò Dio apertamente, a gran voce, perché tutti potessero udire: “Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose ai savi e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli fanciulli” (Luca 10:21).

La lode non avrà mai fine. Oggi, quando adoriamo il nostro Padre e il nostro Salvatore con preghiere e canti, anticipiamo ciò che faremo nel cielo per tutta l’eternità.

Parole di testimonianza

Un famoso medico, il dr. H.A.Kelly, portava sempre all’occhiello un distintivo costituito da un punto interrogativo. Stimolati dalla curiosità, molti gli chiedevano cosa significasse, ed egli rispondeva: Cosane pensi di Gesù Cristo? Era un modo per produrre un occasione di testimonianza, e molte persone conobbero la salvezza.

La lode va al Signore, la testimonianza agli uomini. Se la lode è sincera e motivata, la testimonianza non può mancare. Se siamo zelanti nel ringraziare Dio per la salvezza che ci ha offerto, non possiamo non esserlo per annunciare questa salvezza a chi ancora non la conosce. Che grande privilegio poter usare la nostra lingua per proclamare al mondo le meraviglie di Colui che ci ha chiamati dalle tenebre alla sua meravigliosa luce! (1 Pietro 2:9). Filippo l’evangelista, quando si trovò di fronte all’eunuco etiope sulla strada che da Gerusalemme scende a Gaza (Atti 8:26-39), “prese la parola e gli annunciò Gesù”. E’ interessante che il testo greco dica “aprendo la bocca”, e che la stessa espressione sia usata nel racconto della predicazione di Pietro al centurione Cornelio  (Atti 10): “Allora Pietro, aprendo la bocca, disse…”.

Aprire la bocca per parlare del Signore è il compito che ci è affidato sulla terra. Non tutti siamo evangelisti, qualificati dallo Spirito per predicare con potenza, ma tutti possiamo parlare di Lui, e raccontare “le grandi cose” ch’Egli ha fatto per noi. E’ la semplice ma straordinaria missione che il Signore Gesù affidò all’indemoniato gadareno, una volta liberato dalla legione di demòni: “Va’ a casa tua dai tuoi e racconta loro quali grandi cose il Signore ti ha fatto e come ha avuto pietà di te” (Marco 5:19).

Ma perché le nostre parole siano convincenti, ci vuole un amore sincero per il Signore. Se il lavoro è di un certo rilievo, è anche indispensabile un’accurata preparazione spirituale, in preghiera e nella lettura della Parola. Pietro esorta ad essere sempre “pronti” a rispondere a nostra difesa a chiunque ci domanda spiegazione della speranza che è in noi ( 1 Pietro 3:15). Il Signore ci rincuora garantendoci che, nel momento in cui dovremo parlare, lo Spirito Santo ci insegnerà ciò che dovremo dire. Le occasioni non mancheranno, perché Dio stesso ce le farà trovare. Allora potremo dire come il salmista: “Venite e ascoltate, voi tutti che temete Dio, e io vi racconterò quel che Egli ha fatto per l’anima mia” (Salmo 66:16).

Non è necessario avere una grande esperienza per testimoniare dell’amore del Signore; basta averlo gustato! E non è necessario avere una certa età; anche un bambino può essere un testimone. Come è stata utile per Naaman, l’ufficiale siriano affetto da lebbra, la testimonianza della ragazzina ebrea che era serva in casa sua! Per quell’uomo, e non solo per lui, fu la guarigione fisica e anche la salvezza.

La predicazione è compito di ogni singolo credente, ma il lavoro è tanto più efficace se c’è collaborazione fra i fratelli e le sorelle. Non c’è niente che unisca di più come un lavoro fatto insieme perii Signore. E che gioia produce! Quanta lotta nella preghiera e quanti motivi di lode! Molte chiese si spengono per mancanza di una testimonianza collettiva. E finiscono col morire, dilaniate da conflitti interni, avendo perso la visione della loro missione nel mondo.

“Quanto sono belli sui monti i piedi del messaggero di buone novelle, che annuncia la pace, che reca belle notizie di cose buone, che annuncia la salvezza!” (Isaia 52:7). Non sempre l’annuncio del vangelo porta la gioia. Un buon messaggero di Cristo deve portare consolazione a chi è rattristato e deve rattristare chi se ne sta comodo! Ciò non toglie che l’Evangelo è una “buona notizia”, e oggi è ancora un giorno di notizie liete perché Dio fa grazia ai peccatori che ricevono il Signore Gesù come loro Salvatore. Non dobbiamo quindi tacere. Ricordate il racconto dei quattro lebbrosi che vivevano all’ingresso della porta di Samaria? Il giorno in cui i Siri assediarono la città, furono i primi a scoprire che l’Eterno li aveva fatti fuggire spaventandoli con uno strano rumore di eserciti in arrivo. Al crepuscolo, nell’accampamento abbandonato, trovarono ogni sorta di alimenti e di tesori lasciati dai nemici in fuga. Mangiarono, bevvero, si riempirono le tasche di cose preziose, le andarono a nascondere… Poi un certo rimorso li assalì, e si dissero l’un l’altro: “Noi non facciamo bene; questo è un giorno di buone novelle, e noi ci tacciamo… Or dunque venite, e andiamo ad informare la casa del re” (2 Re 7:3-10). Sbrighiamoci, fratelli e sorelle, e andiamo ad informare i nostri parenti, i colleghi, gli amici, che il nemico è stato vinto alla croce del Calvario dal nostro Signore, e che ora la salvezza è offerta a tutti gratuitamente, non per opere ma mediante la fede in Cristo (Efesini 2:8).

Inutile dire che la nostra testimonianza non sarà solo fatta di parole ma anche di vita vissuta. Parole e opere sono un binomio inscindibile. Con le parole testimoniamo della nostra fede e dell’opera di Cristo in noi, con le opere diamo prova che la testimonianza è vera. Anche il Signore Gesù ha “parlato”, ma poi ha pure “fatto” le opere di Dio a conferma di ciò che diceva. E che conferma! Oltre alle guarigioni e alle risurrezioni, è arrivato fino al sacrificio di se stesso, prova suprema e inoppugnabile del suo amore e dell’amore infinito del Padre.

Parole di incoraggiamento e di consolazione

“Ora, fratelli, vi esortiamo a confortare gli scoraggiati, a sostenere i deboli” (1 Tessalonicesi 5:14).

Lo scoraggiamento è un’esperienza comune, perché comuni sono i lutti, le malattie, le disgrazie, i rimorsi. Il diavolo sa che lo scoraggiamento indebolisce la fede e produce un certo rallentamento nel cammino del credente. Così ne approfitta, mettendo nella nostra mente pensieri cattivi, previsioni catastrofiche, paure. Ma noi abbiamo il privilegio di spuntare la sua arma prima di tutto buttandoci nelle braccia del nostro Padre e facendo pieno affidamento sul suo amore e sulla sua potenza. Poi anche incoraggiandoci gli uni gli altri. E’ un servizio prezioso che ci è affidato, e che dà grandi soddisfazioni e grandi gioie. L’amore e la capacità di “simpatizzare” (nel suo significato etimologico di “soffrire con”) sono le due grandi virtù che lo Spirito di Dio metterà in noi se desideriamo contribuire al sollievo e al conforto dei nostri simili.

Il Signore Gesù stesso, nei momenti più cruciali della sua esistenza terrena, ha cercato dei consolatori. Ma non ne ha trovati. Lo sappiamo dal Salmo 69:20 dove è scritto: “Ho aspettato chi si condolesse con me, ma non v’è stato alcuno; ho aspettato dei consolatori, ma non ne ho trovati”. Solo in Getzemani, nell’angoscia più profonda, con l’anima oppressa da tristezza mortale al pensiero del giudizio di Dio, “un angelo gli apparve dal cielo a confortarlo” (Luca 22:43).

La consolazione, anche quella che noi possiamo portare agli altri, viene da Dio che è “il Padre delle misericordie e il Dio di ogni consolazione”. Anzi, è proprio la sua consolazione che noi già abbiamo esperimentato che ci rende capaci di consolare quelli che si trovano in qualsiasi afflizione (2 Corinzi 1:3-4). Paolo ha avuto la gioia di gustare il conforto dei fratelli e, da come ne parla, capiamo quanto gli sia stato prezioso. “Conceda il Signore misericordia alla famiglia di Onesiforo, perché spesse volte egli mi ha confortato e non si è vergognato delle mie catene… Gli conceda il Signore di trovare misericordia presso di Lui, in quel giorno” (2 Timoteo 1:16-17). “Tichico, il caro fratello…, ve l’ho mandato affinché sappiate lo stato nostro ed egli consoli i vostri cuori; e con lui ho mandato il fedele e caro fratello Onesimo… Vi salutano Aristarco e Marco e Gesù detto Giusto…; sono i soli miei collaboratori per il regno di Dio che mi sono stati di conforto” (Colossesi 4:7-11).

A volte non si pensa che un credente caduto nel peccato, o che attraversa un momento di crisi o di debolezza spirituale, ha bisogno di conforto e di incoraggiamento quanto un malato. Così può avvenire che si vada da lui per riprenderlo e per stimolarlo, dimenticando di portargli anche la consolazione del perdono di Dio e della comprensione dei suoi fratelli. Conosciamo tutti il racconto di Giuseppe, il figlio di Giacobbe; come fu odiato dai suoi fratelli e da loro venduto a mercanti di passaggio e portato in Egitto. Là, sostenuto e miracolosamente guidato dall’Eterno, divenne grande fino ad occupare il posto di viceré. Quando poi rivide i suoi fratelli, prima di farsi riconoscere fece in modo che prendessero coscienza della loro malvagità e se ne pentissero davanti a Dio. Poi li abbracciò, piangendo e confermando loro il suo amore. Ma, molti anni dopo, alla morte del padre Giacobbe, i fratelli furono presi dal timore che il grande Giuseppe non li avesse perdonati e che potesse vendicarsi. Si prostrarono ai suoi piedi, implorarono il perdono… Giuseppe pianse di tristezza, in quell’occasione, e disse loro: “Non temete; io sostenterò voi e i vostri figliuoli. E li confortò, e parlò al loro cuore” (Genesi 50:20-21).

Gli amici di Giobbe, invece, non furono dei buoni consolatori. Intrapresero un lungo viaggio per fargli visita, “per condolersi con lui e consolarlo” (Giobbe 2:11), ma finirono per amareggiarlo con delle accuse ingiustificate. A tal punto che il povero Giobbe dovette dire: “Di cose come queste ne ho udite tante ! Siete tutti dei consolatori molesti! Non ci sarà una fine alle parole vane?” (16:2-3).

Le parole di conforto dovrebbero essere parte integrante delle cure che un padre ha per i suoi figli. Per Paolo, nella sua veste di padre spirituale, era così, tanto che può dire ai Tessalonicesi: “E sapete anche che, come fa un padre verso i suoi figli, noi abbiamo esortato, consolato, e scongiurato ciascuno di voi a camminare in modo degno di Dio” (1 Tessalonicesi 2:11). Anche il profeta, che parla nella chiesa, “parla agli uomini un linguaggio di edificazione, di esortazione e di consolazione” (1 Corinzi 14:3). Che il Signore ci dia di essere degli strumenti di conforto per i nostri fratelli!

Parole di esortazione

“Sopportate, vi prego, la mia parola d’esortazione” (Ebrei 13:22). Perché può essere difficile da accettare una parola di esortazione? Perché deve essere “sopportata”? Cosa si ribella in noi quando un altro cerca di convincerci a fare il bene o a prendere una buona risoluzione? E’ l’orgoglio, il nostro “io”. “So io quello che devo fare! Non ho bisogno che me lo dica tu!”. E magari commettiamo un errore di cui ci pentiremo amaramente, per non esserci voluti “abbassare” a seguire il consiglio saggio di un nostro fratello. Eppure, l’esortarsi a vicenda fa parte della nostra vita cristiana. In questa stessa epistola agli Ebrei per due volte ci è chiesto di esortarci gli uni gli altri. “ Esortatevi gli uni gli altri tutti i giorni finché si può dire ‘oggi’ onde nessuno di voi sia indurito per inganno del peccato” (3:13); “Esortandovi a vicenda, tanto più che vedete avvicinarsi il gran giorno” (10:25).

Quando ci lasciamo andare o perdiamo entusiasmo per le cose di Dio, un’esortazione fatta con amore è un’infusione di vigore e di energia, ci scrolla dal letargo, ci apre gli occhi socchiusi dal sonno. All’inizio della storia della Chiesa, quando Satana faceva di tutto per scoraggiare i nuovi convertiti e per disorientare i credenti, Pietro, Paolo, Barnaba e molti altri fedeli servitori del Signore si sono impegnati con accanimento in un opera di esortazione. Bisognerebbe trascrivere qui una buona parte del nuovo Testamento se si volessero citare tutti i passi in cui vi sono delle esortazioni! Ma in alcuni di essi troviamo l’espressione “Io vi esorto” che rivela quanto le cose dette stessero a cuore a chi le scriveva. Può essere utile vedere alcuni di questi passi. Le cose che erano dette a quei primi cristiani sono dette tanto più a noi, nei giorni di debolezza e di indifferenza nei quali viviamo. Ecco a cosa erano e a cosa siamo esortati:

  1. Ad attenersi al Signore con fermo proponimento di cuore (Atti 11:23)
  2. A perseverare nella grazia di Dio (Atti 13:43)
  3. A perseverare nella fede (Atti 14:22)
  4. A presentare i nostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio (Rom. 12:2)
  5. A combattere nelle preghiere per i servitori del Signore (Rom. 15:30)
  6. A tenere d’occhio quelli che fomentano le dissensioni e gli scandali (Rom. 16:17)
  7. Ad avere tutti un medesimo parlare, a non avere divisioni, a stare perfettamente uniti (1 Cor. 1:10)
  8. A sottomettersi a chiunque lavora e fatica nell’opera comune (1 Cor. 16:15)
  9. A condursi in modo degno della vocazione che ci è stata rivolta (Efes. 4:1)
  10. A progredire in una vita che piace a Dio (1 Tess. 4:1)
  11. Ad ammonire i disordinati, a confortare gli scoraggiati, a sostenere i deboli, ad essere longanimi verso tutti (1 Tess. 5:14)
  12. A mangiare il proprio pane, quietamente lavorando (2 Tess. 3:12)
  13. A fare intercessioni, preghiere, supplicazioni, ringraziamenti per tutti gli uomini (1 Tim. 3:1)
  14. Ad essere assennati (Tito 2:6)
  15. Ad essere sottomessi ai padroni (Tito 2:9)
  16. A non fare poca stima della disciplina del Signore e a non perdersi d’animo quando si è da Lui ripresi (Ebrei 12:5)
  17. Ad astenersi dalle carnali concupiscenze che guerreggiano contro l’anima (1 Pie. 2:11)
  18. A pascere il gregge di Dio non forzatamente ma volenterosamente (1 Pi.5:2)
  19. A combattere strenuamente per la fede (Giuda 3)

In tutti i passi citati in quest’elenco, nel testo originale c’è il verbo “parakaleo” che, in questi casi, significa esortare ma, altrove, anche consolare e ammonire. E’ interessante che “Paracleto” (il Consolatore) sia il nome dato dal Signore allo Spirito Santo, nelle ultime conversazione fatte coi discepoli prima di morire in croce.

“Applicati all’esortazione” scrive Paolo a Timoteo nella prima lettera (1 Tim4:13). “Esorta” gli ripete nella seconda, scongiurandolo a farlo con grande pazienza e sempre istruendo (2 Tim. 4:2). Prendiamo per noi questi consigli, e che il Signore ci benedica nel nostro lavoro!

Parole di edificazione

Edificare è sinonimo di “costruire”, ed è esattamente questo il significato del verbo greco “oikodomeo”. Il Signore aveva detto a Pietro: “Io edificherò la mia Chiesa”. E il fedele apostolo, nella sua prima Epistola, riprende questa immagine dell’edificio dicendo che ogni credente è una pietra vivente di quella “casa spirituale”. E’ un uso metaforico del termine edificare. Ma questa stessa parola, pur conservando il significato base di costruire, è anche usata nel Nuovo Testamento in senso morale, e sta ad indicare l’incitamento, il rafforzamento e l’approfondimento della vita religiosa e morale, prodotti negli altri dal nostro esempio e dalle nostre parole. Quanto ciò sia importante lo capiamo da molti passi delle epistole, specialmente di quelle dell’apostolo Paolo dove questo termine ricorre una trentina di volte. Nessuno è escluso da questo compito e da questo privilegio; infatti è scritto: “Ciascuno di noi compiaccia al prossimo nel bene, in vista dell’edificazione” (Romani 15:2).

Nella chiesa, quando si è radunati, ogni cosa dev’essere fatta “per l’edificazione” (1 Corinzi 14:26). Le parole che edificano e istruiscono non hanno bisogno di essere tanto numerose. Non è necessario un fiume impetuoso per togliere la sete; basta un bicchiere d’acqua! “Nell’assemblea – dice Paolo – preferisco dire cinque parole intelligibili per istruire anche gli altri, che dirne diecimila in altra lingua” (14:19). Cinque parole! Come dovrebbero ricordarselo quelli che hanno un ministerio di insegnamento! L’edificazione è lo scopo principale del ministerio del “profeta”. “Chi profetizza parla agli uomini un linguaggio di edificazione… Chi profetizza edifica la chiesa” (14:3-4). Ecco perché, fra i doni spirituali, quello da ricercare principalmente è proprio il dono di profezia (14:1).

La chiesa, dove c’è edificazione in senso spirituale, crescerà anche di numero, come un edificio che si completa e si rafforza, e godrà della pace del Signore. Era quello che avveniva al tempo della conversione dell’apostolo Paolo, quando “la Chiesa, per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria, aveva pace, essendo edificata ; e camminando nel timore del Signore e nella consolazione dello Spirito Santo, moltiplicava” (Atti 9:31).

Ma non è necessario essere profeti per edificare gli altri. L’edificazione non si riceve solo nell’assemblea. Abbiamo già visto che “ciascuno”, vale a dire tutti, possiamo edificare ed essere edificati. Due sorelle che si incontrano al mercato possono, in pochi minuti di conversazione, scambiarsi parole di edificazione tali da riceverne una potente carica per tutto il resto della giornata! “Cerchiamo dunque le cose che contribuiscono alla pace e alla reciproca edificazione” (Romani 14:19). Negli incontri di famiglia, quando ci intratteniamo con fratelli e sorelle, non perdiamoci in discorsi inutili e non ci lasciamo sfuggire parole di maldicenza. “Nessuna mala parola esca dalla vostra bocca; ma se ne avete alcuna buona che edifichi, ditela, affinché conferisca grazia a chi l’ascolta” (Efesini 4:29). Questo richiede un impegno non indifferente da parte nostra e una continua verifica: Ciò che sto per dire porterà incitamento al mio fratello? gli darà della forza spirituale? lo renderà più saldo nelle cose del Signore? Se il nostro cuore è ben disposto, riceveremo certamente la volontà e la capacità necessaria per compiere questo meraviglioso servizio. Il nostro Padre desidera sopra ogni altra cosa l’edificazione dei suoi figli!

Parole di sapienza e di conoscenza

Leggendo, all’inizio del Libro degli Atti, la vita e il servizio degli apostoli, notiamo che la promessa fatta dal Signore era per loro una gloriosa realtà: “Io vi darò una parola e una sapienza alle quali tutti i vostri avversari non potranno contrastare né contraddire” (Luca 21-15). Erano stati con Gesù! Non c’era alcun dubbio; tutti se ne rendevano conto. Anche il Signore, infatti, aveva meravigliato le folle per la sapienza di cui erano impregnati i suoi discorsi e le sue conversazioni.

Anche noi “siamo stati” con Gesù, non in carne ed ossa, ma per fede. Ed è giusto che anche in noi gli altri vedano brillare qualche raggio della sapienza divina. La conoscenza della verità, che per grazia ci è stata data, ci distingue da quelli del mondo come la luce è distinta dal buio. E sono proprio i nostri discorsi saggi ed equilibrati a rivelare la percezione esatta che abbiamo non solo delle cose di Dio ma anche dei problemi umani, perché la Scrittura ce li fa conoscere come
sono in realtà, in modo corretto. Ecco perché il Signore diceva, in Matteo 5:13: “Voi siete il sale della terra”. Marco aggiunge: “Il sale è buono”. E a queste parole segue una solenne domanda che vale per noi come un invito alla riflessione: “Ma se il sale diventa insipido, con che gli darete sapore? Abbiate del sale in voi stessi”.

Salomone, che aveva chiesto a Dio “sapienza” invece che ricchezze, gloria o lunga vita (2 Cronache 1:10), parla molto delle parole dei savi nei suoi scritti poetici. Dice che “recano guarigione” (Proverbi 12:18), che sono “fonte di vita per schivare le insidie della morte “ (13:14), che “sono come degli stimoli “ (Ecclesiaste 12:13), degli incitamenti a fare il bene, a trovare le soluzioni giuste. Come fu entusiasta la regina di Sceba di udire le parole di quest’uomo! La meraviglia fu così grande che rimase fuori di sé, estasiata da tanta sapienza. E disse: “Beata la tua gente, beati questi tuoi servi che stanno del continuo dinanzi a te e ascoltano la tua
sapienza” (1 Re 10). Invece, suo figlio Roboamo perse il regno di Israele perché non ascoltò i consigli saggi degli anziani che erano stati al servizio di suo padre, ma quelli dei suoi coetanei, sprovveduti di sapienza e senza conoscenza della realtà delle cose.

Le parole di sapienza e di conoscenza dovrebbero uscire dalla bocca di tutti i credenti, come “l’acqua dolce” della fontana di Giacomo 3. Però c’è un dono speciale dello Spirito, un carisma, compreso nell’elenco di 1 Corinzi 12:4-11, che è la “parola di sapienza”. Beata quella chiesa che può vantare la presenza di tanti di questi doni! Ma mi sembra di constatare che, in questi tempi di superficialità e di esteriorità, le parole di sapienza e di conoscenza non siano apprezzate nel modo giusto. Ad esse si preferiscono discorsi leggeri su argomenti insignificanti, poco impegnativi, che non coinvolgano più di tanto, che non richiedano riflessione. Oppure si dà eccessivo spazio alle esperienze e alle emozioni. Così si rimane “bambini” nelle cose di Dio. Paolo e i suoi collaboratori, fedeli al mandato del Signore e spinti dal sincero desiderio di veder crescere i credenti, potevano dare questa testimonianza: “Noi proclamiamo Cristo, ammonendo ciascun uomo e ciascun uomo ammaestrando in ogni sapienza, affinché presentiamo ogni uomo perfetto in Cristo. A questo
fine io m’affatico, combattendo secondo l’energia sua che opera in me con potenza” (Colossesi 1:28).

Parole dette a proposito e al momento giusto

Ci sono delle occasioni speciali nelle quali una parola detta a proposito può risolvere un problema o riequilibrare una situazione che si è fatta difficile. Lo Spirito sa dettare di queste parole; e quanta benedizione portano! La pace può venire ristabilita in un momento, si può raggiungere un accordo, si può aprire uno spiraglio di speranza. Era il momento giusto, e quella parola, quella frase, ci voleva. Detta prima, forse non sarebbe stata ascoltata; detta dopo sarebbe stato troppo tardi… Salomone scrive che “le parole dette a tempo sono come pomi d’oro in vasi d’argento cesellato” (Proverbi 25:11). Un vero gioiello, opera di un “artista” quale solo lo Spirito di Dio può essere!

Nicodemo, un dottore della Legge, era andato dal Signore di nascosto ed era stato colpito dalle sue parole. Forse in quella notte si era convertito, ma per paura dei Giudei, delle loro critiche e della loro opposizione, rimase sempre un “discepolo nascosto”. Un giorno, i Farisei mandarono delle guardie per prendere Gesù, e queste tornarono a mani vuote giustificandosi così: “Nessuno parlò mai come quest’uomo”!

Alla rabbia e agli insulti dei capi, Nicodemo, uno di loro, prese le difese del Signore con una semplice frase: “La nostra legge giudica essa un uomo prima che sia stato udito e che si sappia quel che ha fatto?”. Bastò questa frase, non per far cambiare idea ai Farisei ma almeno per far loro sospendere, per il momento, il loro piano criminoso.

C’è un principio generale che troviamo non solo nel Libro dei Proverbi ma in tutta la Scrittura: quando ci comportiamo bene il primo vantaggio viene a noi, non fosse altro per la gioia che questo ci dà. Poi c’è un vantaggio anche per gli altri che vedendo il nostro modo di agire o ascoltando le nostre parole possono trarre insegnamento, incoraggiamento, entusiasmo, a seconda dei casi. Ciò è valido anche per le risposte appropriate, per le parole dette “ad hoc”. “Uno prova allegrezza quando risponde bene…” (Proverbi 15:23): è il frutto che raccoglie chi ha seminato buona semenza; “e com’è buona una parola detta a tempo!”: è il frutto che raccolgono gli altri. Non c’è mai una perdita ad agire secondo il Signore e seguendo il suo esempio. Il giorno che questo dubbio sorse nel cuore dei discepoli, Pietro chiese al Signore: “Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito; che ne avremo dunque?” (Matteo 19:27-28). Il Signore rispose: “Io vi dico in verità che non v’è alcuno che abbia lasciato casa, fratelli o sorelle… per amore di me e per amore dell’evangelo, il quale ora, in questo mondo, non ne riceva cento volte tanto, e nel secolo a venire la vita eterna” (Marco 10:29-30).

Conclusione

Vorrei concludere con due semplici racconti che illustrano bene i pericoli che corriamo a lasciarci andare a peccati che riteniamo insignificanti, come quelli commessi con la lingua, e la ricompensa che avremo dal Signore se ci adoperiamo in questa vita al bene e all’edificazione dei nostri fratelli.

  1. Una piccola folla è raccolta sull’argine del fiume. Sta seguendo i lavori di demolizione di un grande ponte in cemento considerato da tutti il più solido della regione. “Come mai fanno una cosa simile?” domanda un passante stupito. “E’ diventato pericoloso e si teme che la sua struttura non regga più il peso dei veicoli che vi transitano”. Ma il passante vuole sapere di più. “Come mai è diventato pericoloso? Ci hanno sempre detto che avrebbe resistito alle più terribili piene, tanto era robusto”. La gente non sa dare risposta, ma un amministratore del comune lì presente racconta la brevissima storia del “male” del ponte. “In una piccolissima fessura, qualche anno fa, è penetrato un seme di betulla. E’ nata una pianticella a cui nessuno ha fatto caso; poi la pianticella è cresciuta ed è diventata un albero, ha approfondito le sue robuste radici nella struttura del ponte e ne ha compromesso la resistenza. Per questo ora si è costretti a demolirlo”.
  2. Alcuni secoli fa, in un piccolo paesino di una sperduta contea, un ricco signore fa mettere, di notte, nel bel mezzo della via principale, una pietra così grossa da occupare gran parte della carreggiata. Al mattino è una sorpresa generale. I carrettieri sono costretti ad una fastidiosa deviazione e si lamentano. “Chi sarà stato a fare questo? Cerchiamolo e diamogli ciò che si merita!”. Tutti inveiscono contro il colpevole, fanno congetture, reclamano, ma nessuno si dà da fare per togliere la pietra e ristabilire l’ordine. Verso mezzogiorno arriva il ricco signore il quale, fra lo stupore di tutti, dichiara ad alta voce di essere lui l’autore del misfatto. In presenza della folla ordina allora ai suoi servi di togliere il masso, ed ecco che, sotto ad esso, c’è un sacchetto pieno di monete d’oro. “Era per chi si fosse dato da fare per rimuovere l’ostacolo – dichiara rattristato il signore – ma visto che non c’è stato uno che l’abbia fatto, mi riprendo il mio denaro”. E così fece.

“La sapienza che viene da alto prima è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di frutti buoni, senza parzialità e senza ipocrisia… Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Rinfrancate i vostri cuori perché la venuta del Signore è vicina” (Giacomo 3:18, 5:7-8).