La prima Lettera ai Tessalonicesi – commentario

Tratto da “Le due lettere di Paolo ai Tessalonicesi”
Pubblicato con il permesso di Edizioni IL MESSAGGERO CRISTIANO 
 
di E. R. Pigeon
 

Introduzione

Tessalonica è una città del nord della Grecia. Al tempo dell’apostolo Paolo era la più popolata città della Macedonia e capitale di una delle quattro Province di quella regione. Partecipava attivamente, con Efeso e Corinto, al commercio marittimo del Mar Egeo.

Tessalonica è stata uno dei punti di partenza della predicazione del Vangelo in Europa e, da questo punto di vista, offre un interesse particolare per il Cristianesimo. Leggiamo, al cap. 16 degli Atti degli Apostoli, che l’apostolo Paolo e i suoi compagni Sila e Timoteo erano stati impediti dallo Spirito Santo, in due occasioni, di annunciare la Parola in Asia. In seguito ad una visione notturna, conclusero che il Signore li chiamava ad evangelizzare gli abitanti della Macedonia, e così si misero in viaggio verso quella destinazione. La prima città visitata fu Filippi. Il Vangelo venne predicato, delle anime furono salvate e battezzate malgrado gli ostacoli di Satana; Paolo e Sila, presto accusati di mettere la città in subbuglio, vennero trascinati davanti ai magistrati, frustati e gettati in prigio-ne. A dispetto di queste circostanze apparentemente avverse, la Parola del Signore fu annunciata al carceriere e alla sua casa con felici risultati. Quando le autorità della città si resero conto di aver contravvenuto alle leggi romane, pregarono Paolo e i suoi amici di lasciare la città.

Da Filippi, Paolo e Sila si recarono a Tessalonica. Durante questa visita, riferita in Atti 17:1-9, vediamo che Paolo, per tre sabati, spiegò e dimostrò con le Scritture che bisognava che il Cristo soffrisse e risuscitasse dai morti. Il risultato fu meraviglioso: alcuni Giudei, una moltitudine di Greci e un certo numero di donne dell’alta società, persuasi da questa predicazione, si unirono a Paolo e a Sila.

La gelosia dei Giudei interromperà questo lavoro così bene incominciato. Paolo e Sila dovettero lasciare Tessalonica di notte per recarsi a Berea. Anche lì delle anime sono guadagnate a Cristo. Ma il nemico è di nuovo attivo, non potendo sopportare una tale testimonianza. Paolo fu congedato dai fratelli di Berea e condotto fino ad Atene, da dove si recherà a Corinto. È durante questo soggiorno a Corinto, nell’anno 52 circa, che Paolo scrisse questa prima Lettera ai Tessalonicesi. Il cuore dell’apostolo, malgrado la distanza, è rimasto con i suoi cari Tessalonicesi. Al cap. 2 di questa Lettera, veniamo a sapere che Paolo aveva voluto andare da loro ma Satana gliel’aveva impedito; al cap. 3, che aveva inviato Timoteo per rinsaldarli e consolarli.

Avendo ricevuto da Timoteo buone notizie riguardo alla loro fede, Paolo fu a sua volta consolato. Ecco l’occasione per lui di scrivere questa lettera, la prima, d’altronde, di tutte le sue lettere conservate nel Nuovo Testamento.

Lo scopo di questa prima Lettera di Paolo ai santi di Tessalonica è di incoraggiare quei giovani credenti e, certamente, di incoraggiare anche noi. La parola «incoraggiamento» – paraklèsis – appare nove volte nella lingua originale, tradotta anche con «esortazione» o «consolazione».

Questo tema dominante della Lettera ci suggerisce sette divisioni per facilitarne lo studio:

– Paolo incoraggiato dal ricordo di quelli di Tessalonica (cap. 1).

– I Tessalonicesi incoraggiati dalla visita di Paolo (cap. 2).

– Paolo incoraggiato dalle notizie di Timoteo (cap. 3).

– I Tessalonicesi incoraggiati:

– alla santità nel cammino (cap. 4:1-12),

– ad attendere la venuta del Signore per i suoi (cap. 4:13-18),

– a vegliare e ad edificarsi prima del giorno del Signore (cap. 5:l-1 l),

– e ancora incoraggiati da diverse esortazioni come fratelli nel Signore (cap. 5:12-28).

Il ritorno del Signore Gesù è certamente l’incoraggiamento per eccellenza che lo Spirito Santo pone davanti a noi in questa Lettera.

Che sia per i santi o con i santi, la prossima venuta del Signore è la vera speranza cristiana, il nostro incoraggiamento e la nostra consolazione. Notiamo le cinque menzioni della venuta del Signore e dei suoi effetti su colui che l’attende:

– essa ci libera dall’ira imminente (1:10),

– manifesta la gloria e la gioia del servitore fedele (2:19-20),

– rende i nostri cuori saldi, irreprensibili in santità (3:13),

– ci consola riguardo ai santi “addormentati” (4:18),

– ci incita a conservarci irreprensibili nell’attesa del ritorno del Signore (5:23).

Per mezzo della lettura della sua Parola e dei commenti che seguono, il Signore Gesù ci incoraggi a perseverare finché Egli venga. Egli viene presto.

«Amen! Vieni, Signore Gesù!»

Capitolo 1

Il primo capitolo della Lettera mette in evidenza tre punti importanti della vita cristiana: la fede, l’amore e la speranza.

La fede è di tutti coloro che credono al Signore Gesù e alla Sua opera alla croce. Poi, la fede vera si manifesta, in coloro che sono nati di nuovo, con dei frutti visibili: l’amore per Dio, per i propri fratelli e per le anime perdute. Infine, l’amore del Signore Gesù, in particolare, produce l’attesa: è la speranza del ritorno del Signore Gesù per prenderci presso di Sé.

Vedremo che per Paolo il ricordo di queste tre caratteristiche preziose della vita cristiana dei Tessalonicesi era un motivo d’incoraggiamento personale e di riconoscenza verso Dio.

Saluti (1:1)

«Paolo, Silvano e Timoteo, alla chiesa dei Tessalonicesi, che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: grazia a voi e pace…»

Ecco dei saluti semplici e calorosi, da parte di tre fratelli, alla chiesa dei Tessalonicesi. Paolo non fa cenno al suo titolo ufficiale di apostolo, come nella maggior parte delle altre sue Lettere. Egli associa a sé anche i due fratelli che hanno lavorato con lui a Tessalonica: Timoteo, il suo vero figlio nella fede, come lo chiama, era ritornato per incoraggiare e affermare i Tessalonicesi; Silvano, verosimilmente conosciuto come Sila negli Atti, aveva accompagnato pure lui Paolo la prima volta; molto probabilmente è di lui che Pietro parla come di un «fratello fedele» (1 Pietro 5:12).

Tutti i credenti a Tessalonica formavano in quel tempo la chiesa, o assemblea, di quella città. L’assemblea locale non è, propriamente parlando, un luogo. Essa è il radunamento dei veri credenti nel nome del Signore, secondo il principio di Matteo 18:20.

La chiesa di Tessalonica conosceva già Dio, rivelato dal Signore Gesù, nella sua relazione più intima, quella di Padre. Nessuno vide mai Dio; il Figlio unico «che è nel seno del Padre» ce l’ha fatto conoscere (Giovanni 1:18). L’uomo religioso è limitato dalla sua teologia, mentre il vero credente conosce non soltanto Dio, ma il Padre, per mezzo della rivelazione del Figlio. Non si tratta di comprensione intellettuale, ma di una relazione personale il cui apprezzamento e godimento sono il privilegio dei «fanciulli» nella fede. Si noti che nelle lettere di Paolo, soltanto della chiesa di Tessalonica l’apostolo dice: in Dio Padre. Questa chiesa era anche vista come nel Signore Gesù Cristo, non semplicemente nel Salvatore. Pur essendo giovane, quella chiesa riconosceva l’autorità del Signore e i suoi diritti su di essa, su ciascuno dei fratelli e sorelle riuniti nel Suo Nome.

Il saluto propriamente detto, grazia e pace, è lo stesso in tutte le lettere di Paolo. Nelle sue lettere individuali a Timoteo e a Tito, Paolo aggiunge la «misericordia», poiché essa ha a che fare maggiormente con il soccorso divino per l’individuo. La grazia può definirsi come un favore non meritato di Dio verso noi: è essa che porta la salvezza (Tito 2:11), che ci «basta» nel cammino (2 Corinzi 12:9), che ci «sarà recata al momento della rivelazione di Gesù Cristo» (1 Pietro 1:13).

La pace, è la pace con Dio quando abbiamo confessato i nostri peccati e ci siamo rivolti con fede a Lui (Romani 5:11); ma è anche la pace di Dio che guarda i cuori ed i pensieri del credente in Cristo Gesù (Filippesi 4:7). In questo primo versetto si tratta più della pace di Dio che della pace con Dio.

Motivi di ringraziamento (1:2-4).

«Noi ringraziamo sempre Dio per voi tutti, nominandovi nelle nostre preghiere.» (v. 2).

Le buone notizie circa la fede, l’amore e la speranza dei Tessalonicesi, portate da Timoteo, offrono a Paolo l’occasione di rivelare il suo impegno di cuore per i credenti di Tessalonica; non ringraziava soltanto per qualche fratello e sorella, forse più cari degli altri, ma per tutti. Che bella lezione per noi, ora! Ciascuno di noi può, nei momenti passati alla presenza del Signore, parlargli dei suoi fratelli e sorelle, e rendere grazie per loro. Un risultato sarà che si rinsalderanno i legami di affetto fraterno che ci uniscono. Ma siamo perseveranti! Paolo dirà più tardi ai Filippesi che serbava il ricordo di loro in ogni sua preghiera (Filippesi 1:3-4).

«Ricordandoci continuamente, davanti al nostro Dio e Padre, dell’opera della vostra fede, delle fatiche del vostro amore e della costanza della vostra speranza nel nostro Signore Gesù Cristo.» (v. 3).

Ricordandosi del tempo trascorso con i Tessalonicesi, Paolo ha tre motivi di riconoscenza: la loro fede, il loro amore, la loro speranza. Come qualcuno ha già scritto, questi tre grandi principi erano i motivi potenti e divini della vita di quei credenti. Questa vita pratica dipendeva dalla loro stretta relazione con Dio Padre e col suo Figlio, il Signore Gesù. In Apocalisse 2, alla chiesa di Efeso riconosce le opere, la fatica e la costanza. Ma sembra che, con l’abbandono del suo primo amore (che le è rimproverato) Efeso abbia poi perso i principi cristiani di fede, d’amore e di speranza.

La fede cristiana sostituisce la legge. Le opere della legge di Mosè data da Dio a Israele, non potevano giustificare nessuno, poiché per mezzo della legge è data la conoscenza del peccato. Ma per mezzo della fede nel sangue versato dal Salvatore, vale a dire nella Sua opera alla croce, siamo giustificati gratuitamente per la grazia di Dio. L’opera della fede è la manifestazione pratica della fede che è in noi. Una tale opera glorifica il nostro Padre (Matteo 5:16).

L’amore si oppone all’odio. Prima della nostra conversione eravamo «odiosi e odiandoci a vicenda» (Tito 3:3). Colui che crede diventa partecipe della natura divina ed è capace di amare, poiché Dio è amore (1 Giovanni 4:8). Questo amore nei nostri cuori si esprime con la fatica (o il lavoro) che ne risulta. Non un faticare per obbligo o da mercenario, ma con consapevole sottomissione e amore per Colui che ci ha amati e che ha dato se stesso per noi (Galati 2:20).

Quanto alla speranza, Paolo dirà agli Efesini che noi non ne avevamo nessuna, perché eravamo in quel tempo senza Cristo. Ora il Cristo è la nostra speranza (1 Timoteo 1:1). Dalla loro conversione i Tessalonicesi perseveravano nella costanza (o pazienza) della speranza nel Signore Gesù Cristo. La speranza del credente è dimostrata dalla sua pazienza: non nell’agitazione febbrile, ma nella calma e ferma certezza che il Signore viene presto.

Come ad Efeso nel tempo in cui 1’Apocalisse fu scritta, alcuni hanno solo le opere, la fatica e la pazienza che sono visibili dall’uomo. Ma quelli di Tessalonica possedevano l’energia procurata dalla fede, l’amore e la pazienza. L’opera, il lavoro (o la fatica) e la pazienza che ne risultano non passano inosservati agli occhi del nostro Dio e Padre.

«Conosciamo, fratelli amati da Dio, la vostra elezione.» (v. 4).

Paolo ebbe subito modo di vedere i frutti prodotti dalla predicazione del Vangelo. Ciò gli bastava per riconoscere che Dio, nei suoi disegni eterni, aveva scelto questi fratelli e sorelle prima ancora della fondazione del mondo (Efesini 1:4) e che li amava. Anche noi, fratelli, siamo amati da Dio!

Carattere del Vangelo (1:5).

«Infatti il nostro Vangelo non vi è stato annunziato soltanto con parole, ma anche con potenza, con lo Spirito Santo e con piena convinzione; infatti sapete come ci siamo comportati fra voi per il vostro bene.».

Questo Vangelo che era stato predicato da Paolo, e che aveva prodotto l’opera della fede, la fatica dell’amore e la costanza della speranza, non era un messaggio comune. Il Vangelo, leggiamo in Romani 1, è «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (v. 16). La parola «dinamismo» deriva dalla parola greca tradotta con potenza. Lo Spirito Santo, una Persona divina, permette alla potenza del Vangelo di spiegarsi al momento della predicazione. Il risultato dell’azione dello Spirito Santo nella predicazione del Vangelo produce la certezza nell’uditore, e persino una grande pienezza di convinzione, come nel caso dei Tessalonicesi.

Il portavoce del Vangelo, a seconda della sua santità personale, permetterà o intralcerà lo spiegamento della potenza della Parola di Dio, la libera attività dello Spirito Santo e la convinzione di coloro che ascoltano. La condotta dell’apostolo Paolo era stata irreprensibile, e i Tessalonicesi lo sapevano. Essa aveva favorito la predicazione del Vangelo e la sua credibilità.

L’evangelista è, inoltre, caratterizzato dal suo amore per le anime. Non possiamo aspettarci che il Signore si serva di noi efficacemente se sappiamo solo vedere, in quelli che non sono salvati, i loro peccati, il loro appartenere a tale o tal altro sistema religioso e le loro debolezze. Come quelli di Efeso e di Pergamo (Apocalisse 2), possiamo, per così dire, «detestare le opere» dei Nicolaiti e non tollerare la loro dottrina; ma non dobbiamo disprezzare i Nicolaiti stessi. Amiamo piuttosto le anime nella misura in cui Cristo ci ha amati, ricordandoci che un tempo eravamo noi pure nelle tenebre.

Conseguenze del Vangelo (1:6-8).

«Voi siete divenuti imitatori nostri e del Signore, avendo ricevuto la parola in mezzo a molte sofferenze, con la gioia che dà lo Spirito Santo,» (v. 6).

Ci si può stupire che Paolo parli dei Tessalonicesi come di «suoi imitatori». Ma non era presunzione. Imitando Paolo, essi diventavano imitatori «del Signore», poiché Paolo seguiva il Signore. Per lui, vivere era Cristo (Filippesi 1:21). Noi siamo esortati a considerare la condotta di uomini come Paolo e ad imitare la loro fede (Ebrei 13:7).

Paolo era un uomo sottoposto alle stesse nostre passioni, e a lui «è stata fatta misericordia»: è un esempio per tutti coloro che diventano credenti nel Signore Gesù (1 Timoteo 1:16).

Quanto al Signore, è chiaro che dobbiamo imitarlo, Lui che ha tutti i diritti su noi, in un mondo che l’ha respinto. Ma c’è un prezzo da pagare quando si vuole imitare il Signore. «Un discepolo non è superiore al suo maestro, né il servo superiore al suo signore» (Matteo 10:24). Molte difficoltà, come ad esempio l’opposizione degli amici e dei parenti, sono inevitabili all’inizio della vita cristiana.

«tanto da diventare un esempio per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia.» (v. 7).

Il versetto 7 è la conseguenza del v. 6. Prendendo il Signore come modello e imitandolo, il credente diventa un modello, egli stesso, per coloro che credono. Non sono soltanto i credenti con doni particolarmente brillanti o che mostrano una grande potenza che diventano dei modelli per altri. Sono anche credenti che lavorano nell’ombra e che forse soffrono in silenzio per il nome del Signore, ma che sono ripieni della gioia dello Spirito Santo. Notiamo anche che non c’era stato uno sforzo per imporsi come modelli: essi erano diventati dei modelli. Il versetto 8 ci spiega come.

«Infatti da voi la parola del Signore ha echeggiato non soltanto nella Macedonia e nell’Acaia, ma anzi la fama della fede che avete in Dio si è sparsa in ogni luogo, di modo che non abbiamo bisogno di parlarne;» (v. 8).

La potenza del Vangelo, che è di Dio, si era dimostrata superiore a quella di Satana. Satana si era accanito a disturbare il lavoro di Paolo fin dall’inizio, a Tessalonica, e a scoraggiare i giovani credenti con grandi tribolazioni. Ma la Parola del Signore aveva continuato a echeggiare in ogni luogo, suffragata dalla testimonianza eloquente dei Tessalonicesi verso Dio. Paolo non poteva che constatare questa impressionante manifestazione della fede. Che strumento potente, la fede dei credenti, per spandere la Parola del Signore!

Testimonianza del Vangelo (1:9-10).

«Perché essi stessi raccontano quale sia stata la nostra venuta tra voi, e come vi siete convertiti dagl’idoli a Dio per servire il Dio vivente e vero,» (v. 9).

Non soltanto Paolo non aveva bisogno di dire qualcosa riguardo alla loro fede verso Dio, ma nemmeno aveva bisogno di raccontare come lo Spirito Santo all’inizio si era servito di lui a Tessalonica. Era una cosa ben conosciuta nella Macedonia e nell’Acaia. Inoltre, si raccontavano tre cose riguardo a questi nuovi credenti: la loro conversione, la loro consacrazione e la loro fiduciosa attesa.

Innanzi tutto la loro conversione. Era, per così dire, un dietro-front, un cambiamento brusco di direzione. Nel greco, leggiamo che essi si erano rivolti verso Dio dagli idoli. Questo ci fornisce la spiegazione migliore di ciò che è la conversione.

Dio prima ci attira a Lui, il che ci conduce ad abbandonare gli idoli. (Non si pensi che l’idolo sia semplicemente una statua muta. Non è forse tutto ciò che nel nostro cuore prende il posto che appartiene a Dio solo?). In questa nuova posizione, colui che è convertito può d’ora innanzi contemplare «a viso scoperto… la gloria del Signore» (2 Corinzi 3:18).

In secondo luogo, si parlava della loro consacrazione: se si erano convertiti, era per servire al Dio vivente e vero. Quale contrasto col servire degli idoli senza vita e falsi! Bisogna riconoscere che Dio non richiede i servizi di nessuno di noi. Ma nella Sua grazia, ci offre questo privilegio di essere Suoi servitori per compiere i Suoi disegni. La nostra responsabilità come servitori (o schiavi, poiché questo è qui il senso della parola) è di mettere da parte la nostra propria volontà e di ricercare quella del Signore per compierla. «Io amo il mio padrone», poteva dire il servitore ebreo, «io non voglio andarmene libero». Abbiamo già considerato ciò per noi stessi? «Ed egli lo servirà per sempre». Che preziosa dedizione! Ricordiamoci che il nostro Maestro è stato anzitutto Colui che ha preso la forma di schiavo, e che è divenuto ubbidiente fino alla morte della croce (leggere Esodo 21:2-6 e Filippesi 2:5-11).

In terzo luogo, si parla dell’oggetto della loro fiduciosa attesa:

«... e per aspettare dai cieli il Figlio suo che egli ha risuscitato dai morti; cioè, Gesù che ci libera dall’ira imminente.» (v. 10).

I Tessalonicesi non erano occupati della prospettiva della morte e di andare così in cielo, ma della prossima venuta dai cieli di un Uomo risuscitato, Gesù. Il sepolcro è vuoto. Dio ha dato la Sua approvazione all’opera del Suo Figlio alla croce risuscitandolo e facendolo sedere alla Sua destra nell’attesa del giorno in cui Lui, il Figlio di Dio, ritornerà a giudicare la terra. Ma non è come tale (cioè Giudice della terra) che i Tessalonicesi l’aspettavano, e che noi dovremmo aspettarlo. Gesù viene a prenderci con sé e con questo atto ci sottrarrà all’ira che si abbatterà su questo mondo che respinge Dio. A nostro conforto, notiamo che il credente non conoscerà questi giudizi terribili: «Dio non ci ha destinati a ira» (5:9). Si può anche leggere a questo riguardo Apocalisse 3:10.

La prospettiva del Figlio di Dio che viene dai cieli per prenderci con sé in qualsiasi momento, è la nostra beata speranza (Tito 2:13). Quanto questa posizione di felice attesa dei nuovi convertiti di Tessalonica aveva dovuto rallegrare il cuore di Paolo e incoraggiarlo nelle sue circostanze difficili! E noi, aspettiamo con ardore Colui che viene?

Capitolo 2

Come abbiamo visto, l’apostolo Paolo era incoraggiato dal ricordo della fede, dell’amore e della speranza manifestate dai Tessalonicesi in sua assenza. Al suo passaggio da loro, aveva esortato e consolato, quindi incoraggiato i Tessalonicesi a camminare in un modo degno di Dio. Questo secondo capitolo ci spiegherà gli stati d’animo e gli esercizi del cuore di Paolo per coloro che gli erano così cari.

Accoglienza di servitori (2:1-2)

«Voi stessi, fratelli, sapete che la nostra venuta tra voi non è stata vana;» (v. 1).

I versetti 9 e 10 del primo capitolo descrivono i risultati della venuta di Paolo presso di loro; il secondo capitolo, la caratteristica del lavoro di Paolo in mezzo a loro. Per riprendere un’espressione da lui usata, “una larga porta a un lavoro efficace” gli era stata aperta (1 Corinzi 16:9). Quando è Dio che apre la porta, il lavoro che viene fatto non è vano, ma produce molto frutto alla Sua gloria. Tuttavia, nel versetto in Corinzi leggiamo anche: «vi sono molti avversari». è quanto constatiamo al vers. 2 di questo capitolo.

«anzi, dopo aver prima sofferto e subito oltraggi, come sapete, a Filippi, trovammo il coraggio nel nostro Dio, per annunziarvi il Vangelo di Dio in mezzo a molte lotte.» (v. 2).

Ricordiamoci che in Atti 16, Paolo e Sila avevano sofferto da parte dei Gentili a Filippi. Dopo essere stati frustati, erano stati gettati in prigione e i loro piedi bloccati nei ceppi. In Atti 17 leggiamo che i combattimenti erano continuati a Tessalonica, questa volta da parte dei Giudei pieni di gelosia. Ma queste sofferenze non avevano diminuito lo zelo di Paolo nell’annunziare il Vangelo, poiché la sua franchezza non traeva origine dalla sua “carne”, ma veniva dal suo Dio.

Troviamo la parola «Vangelo» otto volte nelle due lettere ai Tessalonicesi. Cinque volte è usata in rapporto a Dio (1ª Lettera 2:2, 8, 9 e 3:2; 2ª Lettera 1:8); tre volte Paolo ne parla in rapporto a se stesso (1ª Lettera 1:5 e 2:4; 2ª Lettera 2:14). L’espressione nostro Vangelo in queste lettere è significativa, e suggerisce l’identificazione del servitore col suo Maestro nel servizio. Consideriamo ora cosa caratterizza il Vangelo e l’evangelista.

Caratteristiche del Vangelo predicato (2:3-6).

«Perché la nostra predicazione (o incoraggiamento) non proviene da finzione, né da motivi impuri, né è fatta con inganno;» (v. 3).

Abbiamo in questo versetto per la prima volta la parola «paraclèsis» o «incoraggiamento» tradotta qui con «predicazione». Collegando questo versetto col precedente, comprendiamo che il Vangelo è per così dire, un incoraggiamento ad andare a Gesù rivolto al peccatore perduto. Il suo proposito non è di sedurre, o d’indurre in errore; ciò contraddirebbe il carattere del vero Dio (1:9). Il Vangelo è caratterizzato dalla Sua purezza intrinseca; solo l’uomo può renderlo impuro con ciò che vi aggiunge o vi toglie. Il Vangelo non è un’astuzia; l’uditore non dovrebbe aver motivo per temere qualche insidia abilmente dissimulata. Quanto disonorano Dio coloro che ricercano un guadagno o un prestigio qualsiasi evangelizzando! Hanno dimenticato il modello lasciato da Paolo il quale offriva il Vangelo gratuitamente e disinteressatamente (1 Corinzi 9:18). L’esortazione di Paolo si distingueva per verità, purezza e sincerità. E Dio può solo approvare un tale Vangelo.

«ma come siamo stati approvati da Dio che ci ha stimati tali da poterci affidare il Vangelo, parliamo in modo da piacere non agli uomini, ma a Dio che prova i nostri cuori.» (v. 4).

L’approvazione del Signore è necessaria a colui che debutta nel servizio del Vangelo, come lo è per tutto il servizio cristiano. Il Signore aveva detto di Paolo che era «un vaso eletto» per portare il suo nome davanti alle nazioni e ai re, e ai figli d’Israele (Atti 9:15). Fin dall’inizio, vediamo Paolo predicare Gesù nelle sinagoghe, dicendo che Egli è il Figlio di Dio (Atti 9:20).

In seguito, Dio che ha approvato, deve provare il cuore dei Suoi servitori. Queste prove sono necessarie per due ragioni: affinché il servizio non sia biasimato e affinché nessuno biasimi i servitori (2 Corinzi 6:3; 8:20). È vero che non ogni credente è chiamato a diffondere il Vangelo parlando del Signore, ma è nostro privilegio, e anche nostra responsabilità, svolgere «il compito di evangelista» (2 Timoteo 4:5).

«Difatti, non abbiamo mai usato un parlare lusinghevole, come ben sapete, né pretesti ispirati da cupidigia; Dio ne è testimone.» (v. 5).

I Tessalonicesi potevano testimoniare che non una parola lusinghevole era uscita dalla bocca dell’apostolo; ma Dio è il solo vero testimone che può discernere i pretesti e le motivazioni delle azioni umane. «Io, il SIGNORE, che investigo il cuore, che metto alla prova le reni, per retribuire ciascuno secondo le sue vie, secondo il frutto delle sue azioni» (Geremia 17:10). Come è stato scritto da un fedele servitore, la lealtà assoluta riguardo alla verità deve occupare il primo posto nella vita di ogni servitore di Dio. La verità è assoluta ed esige una lealtà senza deviazioni.

«E non abbiamo cercato gloria dagli uomini, né da voi, né da altri, sebbene, come apostoli di Cristo, avremmo potuto far valere la nostra autorità;» (v. 6).

La gloria umana è come il fiore dell’erba; «l’erba diventa secca e il fiore cade» (1 Pietro 1:24). Quanti servitori si sono lasciati prendere nel laccio della gloria che proviene dagli uomini. La sola gloria del servitore di Dio è l’approvazione del suo Maestro. Paolo andava anche oltre, rifiutando di essere a carico dei Tessalonicesi nel suo servizio. Nulla doveva essere un ostacolo a comunicare la Parola del Signore; se la gloria sparisce, la «parola del Signore rimane in eterno» (1 Pietro 1:25).

Caratteristiche dell’evangelista (2:7-12)

«invece, siamo stati mansueti in mezzo a voi, come una nutrice che cura teneramente i suoi bambini.» (v. 7).

Una delle caratteristiche del servo del Signore dovrebbe essere la sua dolcezza verso tutti (vedere 2 Timoteo 2:24). Questa parola è usata nel greco per descrivere una nutrice alle prese con dei bambini capricciosi, o anche un’insegnante con degli allievi difficili. Se la nutrice dimostra dolcezza, è perché ama i piccoli che le sono affidati. In un certo senso è più di una madre, a causa della relazione intima che si stabilisce fra lei e il bambino che allatta. Questa raffigurazione della presenza di Paolo in mezzo a quei giovani credenti dimostra il suo affetto per loro. Pensiamo anche all’affetto commovente di Cristo che nutre e che ama teneramente la Sua Chiesa (Efesini 5:29).

«Così, nel nostro grande affetto per voi, eravamo disposti a darvi non soltanto il Vangelo di Dio, ma anche le nostre proprie vite, tanto ci eravate diventati cari.» (v. 8).

Ecco fin dove arrivava l’affetto di Paolo e dei suoi compagni per quei giovani credenti; erano pronti a dare la propria vita per loro. Non conosciamo noi uno più grande di Paolo il quale «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Giovanni 13:1)? È per noi, poveri peccatori perduti, che il Signore Gesù ha dato volontariamente la sua vita sulla croce. Quanto è solenne, e prezioso nello stesso tempo, pensare che il «Figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Galati 2:20). Il vero servitore di Dio non ha nulla che gli appartenga in questo mondo; la sua vita stessa, egli è pronto a lasciarla, se tale è la volontà del suo Maestro.

«Perché, fratelli, voi ricordate la nostra fatica e la nostra pena; infatti è lavorando notte e giorno per non esser di peso a nessuno di voi, che vi abbiamo predicato il Vangelo di Dio.» (v. 9).

Quattordici volte nella prima Lettera ai Tessalonicesi e sette volte nella seconda, Paolo interpella quelli dell’assemblea come fratelli. Per noi credenti è il nostro titolo di nobiltà. La nostra libertà di usarlo fra noi proviene dal fatto che il Signore Gesù stesso ci chiama suoi fratelli (Giovanni 20:17). Ma Lui è il «primogenito fra molti fratelli» (Romani 8:29) e, di conseguenza, sarebbe irriverente da parte nostra chiamarlo nostro fratello. Egli è il nostro Signore.

Paolo, dunque, ricorda ai suoi fratelli che, mentre il suo cuore era impegnato a testimoniare loro il suo affetto, le sue mani non erano rimaste oziose. «Pur essendo libero da tutti» quanto ai suoi bisogni materiali, poteva farsi, da quel momento, «servo di tutti, per guadagnarne il maggior numero» (1 Corinzi 9:19). Esercitando con pena e fatica il suo mestiere che consisteva nel fabbricare tende (Atti 18:3), era in grado di provvedere non soltanto per i suoi propri bisogni, ma anche per i bisogni di quelli che erano con lui (Atti 20:34). In 2 Tessalonicesi 3, Paolo è così qualificato per riprendere con autorità morale coloro che camminavano nel disordine, «non lavorando affatto, ma affacendandosi in cose futili» (v. 11).

«Voi siete testimoni, e Dio lo è pure, del modo santo, giusto e irreprensibile con cui ci siamo comportati verso voi che credete;» (v. 10).

Questo versetto spiega maggiormente perché Paolo, al cap. 1 v. 6, poteva essere imitato. Tre aspetti della condotta di Paolo sono oggetto della testimonianza dei Tessalonicesi e di Dio. Innanzitutto la sua condotta: era santa, vale a dire separata dal male, e questo favoriva la sua comunione con Dio. In secondo luogo, la giustizia nelle sue relazioni con gli uomini: i suoi simili non potevano rimproverargli alcun atto ingiusto o disonesto. Poi, riguardo a se stesso, avendo come servitore ricevuto un servizio particolare, non aveva nulla da rimproverarsi. Che modello da imitare! Quali frutti alla gloria di Dio!

«sapete pure che, come fa un padre con i suoi figli, abbiamo esortato, confortato e scongiurato ciascuno di voi…» (v. 11).

Paolo ha usato prima l’immagine della nutrice per descrivere i suoi affetti. Qui, l’immagine di un padre rappresenta bene colui che incoraggia, consola e ammaestra.

Nella nostra società queste responsabilità di padre sono sovente lasciate alla madre, o addirittura ignorate. E se ne conoscono i risultati, nefasti per i figli. È molto serio. Ogni padre, tanto più se è credente, deve esaminarsi e vedere in quale misura egli incoraggia, consola e rende testimonianza ai propri figli. Può darsi che Dio ci dia di incontrare un’anima che ha bisogno di essere incoraggiata, consolata, edificata dalla nostra testimonianza e perché possa proseguire il suo cammino in un modo degno di Dio, e questo può avvenire anche fuori della cerchia della famiglia. Ma nella famiglia questo avviene sempre.

«… a comportarsi in modo degno di Dio, che vi chiama al suo regno e alla sua gloria.» (v. 12).

Gli Efesini sono esortati a camminare in modo degno della vocazione che era stata loro rivolta (Efesini 4:1). Questa vocazione risale all’eternità passata, poiché Dio ci ha eletti in Cristo prima della fondazione del mondo. Paolo domanda a Dio che i Colossesi camminino in modo degno del Signore, per piacergli in ogni cosa (Colossesi 1:10). Egli ha autorità su noi nel tempo presente. Qui, l’apostolo desidera vedere i Tessalonicesi camminare in modo degno di Dio. L’eternità futura è il riferimento, poiché Dio ci chiama a condividere ben presto il Suo regno e lai Sua gloria eterni!

Accoglimento della Parola e sofferenze

«Per questa ragione anche noi ringraziamo sempre Dio; perchè quando riceveste da noi la parola della predicazione di Dio, voi l’accettaste non come parola di uomini, ma, quale essa è veramente, come parola di Dio, la quale opera efficacemente in voi che credete.» (v. 13).

Abbiamo appena visto alcune caratteristiche del Vangelo predicato e dell’evangelista stesso. Ma quale accoglienza i Tessalonicesi hanno riservato alla Parola di Dio? Essi l’hanno ricevuta quale essa è veramente, vale a dire come ispirata da Dio. L’accoglienza di questa testimonianza divina definisce bene quello che è la fede. Che sicurezza per colui che crede! «La testimonianza del SIGNORE è veritiera» leggiamo nel Salmo 19:7. Come ha svolto perfettamente il suo ruolo l’evangelista! Non è la sua parola che è stata ricevuta, ma la Parola stessa di Dio che si è servito di un uomo come di uno strumento per manifestare la Sua grazia. Il contatto diretto fra Dio e l’anima dell’uditore è cosi stabilito. Da quel momento, la Parola agisce in Colui che crede.

«Infatti, fratelli, voi siete diventati imitatori delle chiese di Dio che sono in Cristo Gesù nella Giudea; poiché anche voi avete sofferto da parte dei vostri connazionali le stesse tribolazioni che quelle chiese hanno sofferto dai Giudei,» (v. 14).

I Tessalonicesi, l’abbiamo visto al capitolo primo, erano divenuti imitatori di Paolo, come pure del Signore. Qui, essi sono gli imitatori delle assemblee nella Giudea. Ci si ricorderà che fu in seguito ad una grande persecuzione contro la chiesa di Gerusalemme che «tutti furono dispersi nelle contrade della Giudea e della Samaria, eccetto gli apostoli» (Atti 8:l). È a queste sofferenze, toccate a quei fratelli e sorelle giudei da parte dei loro stessi compatrioti, che fa allusione il nostro versetto. Le stesse sofferenze, vale a dire l’incomprensione e la persecuzione da parte dei loro connazionali, erano state sopportate dai Tessalonicesi. Ma noi siamo persuasi che Dio, nonostante queste sofferenze, aveva nella Sua grazia benedetto l’assemblea di Tessalonica, di modo che, come le assemblee in Giudea, Galilea e Samaria, anche quella era in pace essendo edificata e camminando nel timore del Signore; e cresceva nella consolazione dello Spirito Santo (Atti 9:31). Oggi ancora, parecchi fra noi incontrano, da parte di persone care, dell’opposizione alla loro fede cristiana. Il Signore Gesù lo sa, e simpatizza con noi poiché ha vissuto in prima persona questa sofferenza: «I suoi fratelli non credevano in lui» (Giovanni 7:5), «i suoi non l’hanno ricevuto» (Giovanni 1:11).

«i quali hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, e hanno cacciato noi; essi non piacciono a Dio, e sono nemici di tutti gli uomini,» (v. 15).

Paolo rimprovera cinque cose ai Giudei increduli. Innanzi tutto, d’aver ucciso il Signore Gesù; Pietro ricorda loro, già nel libro degli Atti: «Voi, per mano di iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste» (Atti 2:23). In secondo luogo, erano responsabili della morte dei profeti; il Signore aveva fatto un’accusa simile contro gli Scribi e i Farisei ipocriti e contro Gerusalemme, «la città che uccide i profeti» (Matteo 23:37). In terzo luogo, essi avevano cacciato Paolo perseguitandolo; evidentemente Dio si era servito di queste circostanze per permettere che il Vangelo fosse annunziato altrove, ma la responsabilità dei Giudei di aver perseguitato gli inviati di Dio rimaneva in tutta la sua gravità. In quarto luogo, i Giudei sono accusati di non piacere a Dio: che contrasto con il Figlio di Dio che faceva sempre le cose che piacevano a Suo Padre (Giovanni 8:29)! Più avanti (4:l) l’esortazione di piacere a Dio è rivolta anche a noi. La quinta ed ultima accusa è quella di essere nemici di tutti gli uomini in quanto intralciavano, lo vedremo, la predicazione del Vangelo.

«impedendoci di parlare agli stranieri perchè siano salvati. Colmano così senza posa la misura dei loro peccati; ma ormai li ha raggiunti l’ira finale.» (v. 16).

Non soltanto i Giudei rifiutavano di obbedire al Vangelo, ma non permettevano che altri lo ricevessero. Questo è tanto più serio in quanto, agendo così, si opponevano a un ordine divino: «Dio comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano» (Atti 17:30). La conseguenza di una tale opposizione al lavoro di Dio è che «l’ira finale» è venuta su loro. Attualmente i Giudei sono ancora, per la maggior parte, dispersi fra le nazioni. Fra poco, nella sua ira contro di loro, Dio si servirà dell’Anticristo del «re d’Assiria» (1 Giovanni 2:18 e Isaia 7:17) per castigarli nel loro paese. L’Anticristo, ossia «l’altra bestia» (Apocalisse 13:11-18) sarà il nemico interno; l’Assiria, la verga dell’ira di Dio (Isaia 10:5), il nemico esterno.

Desiderio di Paolo di rivederli (2:17-20).

«Quanto a noi, fratelli, privati di voi per breve tempo, di persona ma non di cuore, abbiamo tanto più cercato, con grande desiderio, di veder il vostro volto.» (v. 17).

Paolo era rimasto a Tessalonica soltanto tre settimane circa. Ma questo breve periodo di tempo era stato sufficiente perché degli stretti legami di affetto si allacciassero fra lui e i Tessalonicesi. Come una nutrice, li aveva amati teneramente; come un padre, li aveva incoraggiati. Ed ora la loro assenza gli era penosa, benché nel suo cuore non fosse separato da loro. Che grande desiderio deve aver avuto di rivederli! Ma ne era stato impedito.

«Perciò più volte abbiamo voluto, almeno io, Paolo, venire da voi; ma Satana ce lo ha impedito.» (v. 18).

Quando lo Spirito Santo aveva impedito a Paolo di annunziare la Parola in Asia e di recarsi in Bitinia, il risultato era stato che molti in altre città, fra le quali Tessalonica, si erano convertiti. In questo versetto, vediamo l’avversario (poiché tale è il significato di «Satana») impedire a Paolo in due occasioni di andare dai Tessalonicesi. Notiamo che una delle attività di Satana è di opporsi ai fratelli assumendo il ruolo di accusatore contro di loro (Apocalisse 12:10). In un giorno futuro, la sua attività si manifesterà nei miracoli fatti dall’Anticristo, nei segni e prodigi di menzogna (2 Tessalonicesi 2:8-9). Ma è consolante sapere che il “Dio della pace” schiaccerà presto Satana sotto i nostri piedi (Romani. 16:20).

«Qual è infatti la nostra speranza, o la nostra gioia, o la corona di cui siamo fieri? Non siete forse voi, davanti al nostro Signore Gesù quand’egli verrà?» (v. 19).

Due domande soltanto sono poste da Paolo nella sua Lettera, ed è in questo versetto che le troviamo. Vedete, dice, in vista di quel giorno futuro, quello della venuta del Signore, voi siete la mia speranza, la mia gioia, la mia corona. Altrove leggiamo che Gesù Cristo è la nostra speranza (1 Timoteo 1:1). Ma che i Tessalonicesi siano la speranza di Paolo e la sua corona suggerisce, forse, l’idea che con la beata speranza di vedere Cristo alla Sua venuta, vi è pure una gloria speciale riservata a coloro che saranno stati degli strumenti nelle mani di Dio per la conversione di molti e l’incoraggiamento dei credenti.

«Sì, certo, voi siete il nostro vanto e la nostra gioia.» (v. 20).

La gloria di Paolo e la sua gioia non sono soltanto collegate alla venuta del Signore. Anche i Tessalonicesi erano per lui un motivo di gloria e di gioia. Paolo si rivolgerà in termini simili ai Filippesi: «Fratelli miei cari e desideratissimi, allegrezza e corona mia» (Filippesi 4:1). Che felicità per il cuore del servitore fedele gloriarsi e rallegrarsi in coloro che sono il frutto del suo lavoro nel Signore!

È su questa nota felice che terminiamo la seconda parte di questo studio. Paolo, durante il suo soggiorno, aveva saputo incoraggiare i Tessalonicesi. Egli era già ricompensato constatando che quei credenti si conducevano in modo degno di Dio. Attendeva ora di essere glorificato dal Signore alla Sua venuta, in rapporto ai frutti della sua fatica. Anche noi possiamo anticipare questo giorno meraviglioso in cui Cristo, il perfetto servitore, «dopo il tormento dell’anima sua vedrà e sarà soddisfatto» (Isaia 53:11).

Capitolo 3

Paolo aveva grandemente desiderato rivedere i suoi fratelli diletti, ma ne era stato impedito da Satana. In questa terza sezione della Lettera, corrispondente al terzo capitolo, vediamo che Paolo aveva inviato Timoteo perché si informasse dello stato dei Tessalonicesi. Timoteo era ritornato con delle buone notizie riguardo alla loro fede e al loro amore. Paolo, incoraggiato, può allora rendere grazie e perseverare nella preghiera per i suoi fratelli e sorelle.

Invio di Timoteo (3:l-5).

«Perciò, non potendo più resistere, preferimmo restar soli ad Atene;» (v. 1).

Certo, in una città straniera come Atene, la presenza di un Timoteo o di un Sila sarebbe stata di grande conforto per l’apostolo. Ma l’amore non cerca il suo proprio interesse (1 Corinzi 13:5). Se è vero che Paolo era “costretto” dall’amore di Cristo (2 Corinzi 5:14), egli amava pure i fratelli al punto di non fare caso a se stesso. È interessante notare che l’amore per i fratelli è più forte degli ostacoli eretti da Satana. Poiché Paolo non poteva recarsi personalmente a Tessalonica, pensò di  mandare quel fratello.

«e mandammo Timoteo, nostro fratello e collaboratore di Dio nel Vangelo di Cristo, per confermarvi e confortarvi nella vostra fede,» (v. 2).

Nel servizio per il Signore, legami stretti univano Timoteo e Paolo. Timoteo non era un fratello, ma il nostro fratello; non era un servitore qualsiasi, ma un compagno d’opera. È da un tale fratello che Paolo accetta di separarsi per gli interessi più pressanti dei Tessalonicesi. Se Timoteo aveva fatto l’opera di evangelista all’inizio, ora era chiamato a fare quella di dottore, raffermando i credenti, e quella di pastore, incoraggiandoli. «Timoteo» significa «caro a Dio». Che Dio nella sua grazia continui a darci dei servitori che gli sono cari, capaci di istruire incoraggiando e di incoraggiare istruendo!

«affinché nessuno fosse scosso in mezzo a queste tribolazioni; infatti voi stessi sapete che a questo siamo destinati.» (v. 3).

I Tessalonicesi, l’abbiamo visto, avevano ricevuto la Parola con grandi tribolazioni procurate loro dai loro stessi compatrioti. Il cuore di Paolo non era insensibile a questo, sapendo molto bene che il nemico può servirsi delle tribolazioni per scuotere la fede dei giovani credenti. Come mai siamo destinati a subire delle tribolazioni? Paolo, in una lettera a Timoteo, scrive che tutti coloro che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati (2 Timoteo 3:12). Vivere «piamente» significa vivere per Dio, una vita di «pietà» che l’uomo non nato di nuovo non può comprendere, né accettare. Le tribolazioni, dunque, sono sovente la parte di coloro che vogliono onorare il Signore nel loro cammino quaggiù.

«Perché anche quando eravamo tra di voi, vi preannunciavamo che avremmo dovuto soffrire, come è poi avvenuto, e voi lo sapete.» (v. 4).

Paolo non aveva nascosto nulla ai nuovi credenti di Tessalonica. Essi avevano appreso dall’apostolo che avrebbero subito delle tribolazioni. Nella sua predicazione del Vangelo, Paolo non aveva mai cercato di ingannare nessuno o di nascondere qualcosa per fare dei nuovi convertiti, e ricavarne così una gloria personale.

Il Signore stesso ci avverte che abbiamo, o avremo, della tribolazione nel mondo. La tribolazione che viene da parte di un mondo che ha rigettato Cristo è necessaria perché così non siamo indotti ad amare questo mondo, e i nostri occhi sono fissati sul Signore nella gloria. Il Signore poteva ancora dire: «Fatevi coraggio, io ho vinto il mondo» (Giovanni 16:33). A questo prezioso incoraggiamento aggiungiamo anche il pensiero che queste afflizioni sono per poco tempo, affinché la prova della nostra fede vada a lode, gloria, ed onore, nella rivelazione di Gesù Cristo (1 Pietro 1:6, 7).

«Perciò anch’io, non potendo più resistere, mandai a informarmi della vostra fede, temendo che il tentatore vi avesse tentati, e la nostra fatica fosse risultata vana.» (v. 5).

È la seconda volta che Paolo usa questa espressione forte: «non potendo più resistere». La prima volta, nel suo desiderio di conoscere la condizione spirituale dei Tessalonicesi, aveva scelto di essere lasciato solo ad Atene. Qui, con lo stesso desiderio, aveva deciso di inviare Timoteo perché si informasse dello stato della loro fede. Paolo sa molto bene che quell’assemblea, in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo, era preservata dalla potenza di Dio. Ma non sottovaluta la potenza del nemico e i danni che esso può causare colpendo la fede dei credenti. È bene che il servitore non si accontenti di compiere il servizio che il Signore gli ha affidato, ma si preoccupi anche dei frutti che risulteranno da questo servizio.

Buone notizie da Timoteo (3:6-8).

«Ma ora Timoteo è ritornato e ci ha recato buone notizie della vostra fede e del vostro amore, e ci ha detto che conservate sempre un buon ricordo di noi e desiderate vederci, come anche noi desideriamo vedere voi.» (v. 6).

Queste buone notizie portate da Timoteo come devono aver calmato l’inquietudine dell’apostolo, e anche rallegrato! Le tribolazioni non avevano scosso la fede dei Tessalonicesi, né raffreddato il loro amore. È vero che vi erano delle difficoltà riguardo alla comprensione della venuta del Signore; Paolo ne parlerà più avanti. Tuttavia, i credenti di Tessalonica non soltanto serbavano sempre un buon ricordo di Paolo, ma desideravano ardentemente vederlo. Per lui, sapere che ricambiavano il suo affetto e che perseveravano nella fede e nell’amore era un grande motivo di incoraggiamento.

«Per questa ragione, fratelli, siamo stati consolati a vostro riguardo, a motivo della vostra fede, pur fra tutte le nostre angustie e afflizioni;» (v. 7).

Sappiamo che Paolo era sempre preoccupato dello stato delle chiese. La sua sollecitudine per esse lo assaliva tutti i giorni (2 Corinzi 11:28); e ciò malgrado i suoi problemi personali. Paolo sapeva molto bene che Satana colpisce la fede dei credenti, particolarmente quella dei giovani (v. 5); aveva dunque inviato Timoteo per incoraggiarli a questo riguardo (v. 2). Le notizie della loro fede, riportate da Timoteo, hanno per effetto di incoraggiare a loro volta l’apostolo nelle sue «angustie» probabilmente i suoi bisogni materiali, e nelle sue afflizioni, probabilmente le persecuzioni.

«perché ora, se state saldi nel Signore, ci sentiamo rivivere.» (v. 8).

Paolo poteva dire che per lui vivere era Cristo. Ma viveva anche per coloro che appartenevano a Cristo. La sua inquietudine riguardo alla giovane chiesa di Tessalonica era talmente grande, che egli era «come moribondo» per usare una sua espressione (2 Corinzi 6:9). Ora, in seguito alle buone notizie riportate da Timoteo, viveva. Ma l’apostolo non si ferma qui, sapendo molto bene che il nemico non rimane inattivo. Così li esorta a stare saldi nel Signore.

Azioni di grazie e preghiere (3:9-13).

«Come potremmo, infatti, esprimere a Dio la nostra gratitudine a vostro riguardo, per la gioia che ci date davanti al nostro Dio,» (v. 9).

Dissipati i suoi timori. Paolo non soltanto può vivere di nuovo, ma può rendere grazie per i suoi cari Tessalonicesi a Dio che li ha preservati. È come se non vi fossero ringraziamenti sufficienti per testimoniare la sua riconoscenza a Dio per tutta la gioia che gli procuravano i suoi fratelli. Dio stesso è testimone della gioia di cui Paolo si rallegrava.

«mentre notte e giorno preghiamo intensamente di poter vedere il vostro volto e di colmare le lacune della vostra fede?» (v. 10).

Alla fine della Lettera, Paolo esorterà i Tessalonicesi a pregare senza posa (5:17). Nel versetto che ci occupa, vediamo Paolo pregare in modo costante, notte e giorno, ma anche in modo molto insistente. Perché tali preghiere? Innanzi tutto per rivederli. Satana, ricordiamocelo gli aveva impedito di andare da loro quando aveva cercato di vederli (2:17-18). Paolo si rimetteva a Dio poiché desiderava supplire a ciò che mancava alla loro fede. Cosa mancava alla loro fede? Non l’amore, poiché essi desideravano ardentemente vederlo, ed avevano imparato da Dio ad amarsi l’un l’altro (3:6 e 4:9). Certo, potevano sempre abbondare in amore (3:12). Ma, forse, la «speranza» faceva difetto, vale a dire quello che essi conoscevano sul ritorno del Signore e sulla sorte dei credenti deceduti prima di quel ritorno.

«Ora Dio stesso, nostro Padre, e il nostro Signore Gesù Cristo ci appianino la via per venire da voi;» (v. 11).

Se la via doveva essere aperta per ritornare a Tessalonica, doveva esserlo da Dio. Due cose sono notevoli in questo breve versetto. Innanzi tutto la dipendenza di Paolo verso il suo Padre celeste e il suo Signore, perché gli sia aperta la strada (infatti, l’apostolo scriverà la seconda lettera ai Tessalonicesi prima di rivederli). Poi, come altri l’hanno fatto notare, la testimonianza resa alla divinità del Signore. Il verbo della frase è, nel testo originale, al singolare (ci appiani) malgrado i due soggetti. Il Signore Gesù, come Dio, possiede la stessa natura del Padre, ma è una personalità distinta. «Nel principio era la Parola; e la Parola era con Dio; e la parola era Dio» (Giovanni 1:l).

«e quanto a voi, il Signore vi faccia crescere e abbondare in amore gli uni verso gli altri e verso tutti, come anche noi abbondiamo verso di voi,» (v. 12).

La preghiera di Paolo per sé è che il Signore gli dia la possibilità di rivedere i Tessalonicesi. La sua preghiera per loro è che il Signore dia loro di accrescere il loro amore. Non soltanto abbondare in amore, ma sovrabbondare. Le norme di vita cristiane sono elevate, poiché la nostra posizione è elevata! Paolo auspica non soltanto di vederli amarsi gli uni gli altri, ma di vederli esercitare il loro amore verso coloro che non sono della famiglia della fede. L’amore che il Signore aveva prodotto nel cuore dell’apostolo per i Tessalonicesi era il modello per raffermare i loro cuori.

«… per rendere i vostri cuori saldi, irreprensibili in santità davanti a Dio nostro Padre, quando il Signore Gesù verrà con tutti i suoi santi.» (v. 13).

Questa terza menzione della venuta del Signore Gesù si riferisce a quando verrà con i santi, e non alla sua venuta per i santi. Il primo ritorno del Signore per venire a prenderci è la beata speranza; il suo secondo ritorno con noi è l’apparizione della sua gloria (Tito 2:13). La grazia di Dio è dimostrata nella venuta del Signore per noi; la nostra responsabilità è in relazione con la sua venuta con noi. Alla Sua venuta con noi, noi saremo manifestati con Cristo in gloria (Colossesi 3:4). Ma prima, noi saremo stati manifestati davanti al tribunale di Cristo (2 Corinzi 5:10), dove non è detto che saremo giudicati, poiché Cristo è stato giudicato al posto del credente. In attesa di queste manifestazioni, è nostra responsabilità il non tollerare nulla di estraneo alla santità di Dio nella nostra vita.

In questo ultimo versetto del capitolo 3, Paolo introduce l’argomento della santità che svilupperà poi al cap. 4. Questa santità è molto importante, come vedremo, nel nostro cammino cristiano. Da una parte, Dio è onorato se nei suoi c’è questo frutto della natura divina. D’altra parte, l’apprezzamento di una verità come la venuta del Signore per noi va di pari passo con un cammino separato dal mondo e dal male.

Possano i nostri cuori e i nostri passi sulla terra essere veramente con Dio, come fece Enoc, uomo di fede di un tempo. Dio lo prese, senza che passasse per la morte, perché era piaciuto a Dio (Genesi 5:24 e Ebrei 11:5).

Capitolo 4

I versetti che seguono presentano delle verità importanti per il credente che attende il ritorno del Signore. Esse sono relative al cammino cristiano in vista di piacere a Dio. Se queste verità sono messe in pratica, dispongono il cuore del credente ad apprezzare le cose che noi ora considereremo, vale a dire gli avvenimenti che accompagnano la venuta del Signore.

Nei primi dodici versetti del quarto capitolo, Paolo esorta i Tessalonicesi con tre comandamenti: riguardo a Dio, camminare secondo la Sua volontà (v. 3-8), riguardo ai fratelli, camminare nell’amore fraterno (9-10), riguardo a quelli di fuori, camminare onestamente (v. 11-12).

Ma innanzitutto c’è un’esortazione, un incoraggiamento: abbondare e progredire in un cammino che piace a Dio.

Camminare e piacere a Dio (4:1-2)

«Del resto, fratelli, avete imparato da noi il modo in cui dovete comportarvi e piacere a Dio ed è così che già vi comportate. Vi preghiamo e vi esortiamo nel Signore Gesù a progredire sempre di più.» (v. 1).

Paolo aveva confermato i suoi insegnamenti ai Tessalonicesi sulla condotta cristiana con la sua condotta personale: santa, giusta e irreprensibile (2:10). Il loro cammino e la loro volontà di piacere a Dio erano buoni, ma non bastavano; Paolo desiderava vederli progredire, poiché aveva davanti a sé la prospettiva della venuta del Signore Gesù con tutti i suoi santi (3:13). Pietro, in rapporto col giorno di Dio, esorterà ad una condotta santa (il cammino cristiano) e alla pietà (la volontà di piacere a Dio) (2 Pietro 3:11-12). Notiamo anche che l’incoraggiamento di Paolo è per mezzo del Signore Gesù o, più precisamente, nel Signore Gesù (in greco «èn»). Il Signore può e vuole veramente incoraggiarci a perseverare nella nostra vita terrena.

«Infatti sapete quali istruzioni vi abbiamo date nel nome del Signore Gesù (letteralmente: per mezzo del Signore Gesù)» (v. 2).

Se gli incoraggiamenti di Paolo sono nel Signore Gesù, i suoi comandamenti sono dati per mezzo del Signore Gesù (in greco «dia»). Sotto l’antico patto, vale a dire la legge, tutti i comandamenti di Dio dovevano assolutamente essere osservati; se no c’era la maledizione. Dio, nella Sua misericordia, aveva previsto dei sacrifici che venivano offerti continuamente, ogni anno; ma non potevano rendere perfetti coloro che si avvicinavano all’altare (Ebrei 10:1). Il Signore Gesù si è offerto in sacrificio per i peccati e, a causa dell’eccellenza della Sua Persona e del Suo sacrificio, il credente è d’ora innanzi purificato: «Il sangue di Gesù Cristo ci purifica da ogni peccato» (1 Giovanni 1:7). Nel tempo attuale della grazia, l’osservanza dei comandamenti dati dal Signore è motivata non più dal timore ma dall’amore per il nostro Salvatore: «Chi ha i miei comandamenti e li osserva, quello mi ama» (Giovanni 14:21). I Tessalonicesi osservavano questi comandamenti che Paolo aveva dato loro da parte del Signore.

Camminare secondo la volontà di Dio (4:3-8)

«Perchè questa è la volontà di Dio: che vi santifichiate, che vi asteniate dalla fornicazione,» (v. 3).

Dio non è affatto indifferente al modo in cui i credenti si comportano nel mondo. Paolo dirà piangendo, a quelli di Filippi, che parecchi camminano da nemici della croce del Cristo (Filippesi 3:18). Dio vuole santificarci, vale a dire separarci dal mondo e da tutto ciò che può contaminarci. Notiamo la parola santità che è ripetuta ai versetti 4 e 7 e, prima, al versetto 13 del capitolo 3. Dobbiamo realizzare praticamente questa posizione di santità nella quale la fede in Gesù ci ha posti. Dio desidera che noi partecipiamo alla Sua santità. La prima esortazione è quella di astenersi dalla fornicazione, segnalata in Galati come una delle prime opere della carne (Galati 5:19).

«che ciascun di voi sappia possedere il proprio corpo in santità ed onore,» (v. 4).

Prima abbiamo visto ciò che non si deve fare, adesso ciò che si deve fare. Paolo ricorderà ai Corinzi che i loro corpi sono membra di Cristo. I nostri corpi non sono per la fornicazione ma per il Signore, poiché siamo Suoi. Di più, essi sono, per i credenti, il tempio dello Spirito Santo che abita in loro. Siamo dunque esortati a glorificare Dio nel nostro corpo (vedere 1 Corinzi 6:13-20). In questi versetti non è detto di resistere, ma di fuggire la fornicazione. Notiamo la condotta di Giuseppe di fronte alle proposte della moglie del suo padrone in Genesi 39: rifiutò (v. 8), non acconsentì (v. 10), fuggì (v. 12).

«senza abbandonarsi a passioni disordinate come fanno gli stranieri (lett. le nazioni cioè i non Giudei) che non conoscono Dio;» (v. 5).

Il cristiano realizza che la sua conoscenza di Dio lo distingue dalla gente del mondo che non conosce Dio. La sua nuova natura gli permette di discernere il peccato, e anche le occasioni che possono trascinare a peccare. Da una parte, il peccato è ciò che produce in noi le concupiscenze (Romani 7:8); d’altra parte, la concupiscenza, avendo concepito, partorisce il peccato (Giacomo 1:15). Ricordiamoci che non apparteniamo più a noi stessi per fare quel che ci pare e piace, poiché siamo stati comprati a prezzo (1 Corinzi 6:20).

«… e che nessuno soverchi il fratello né lo sfrutti negli affari; perché il Signore è un vendicatore in tutte queste cose, come già vi abbiamo detto e dichiarato prima.» (v. 6).

Questo passo può anche essere tradotto così: «Che nessuno raggiri il fratello né gli faccia torto in questo affare».

Continuando questo argomento della santità e dell’astinenza dalla fornicazione, Paolo farebbe cenno ai diritti lesi del fratello la cui moglie sarebbe stata trascinata da un altro a commettere fornicazione. Il Signore stesso potrà vendicare questo fratello di cui si è approfittato. Egli potrà giudicare, e anche castigare, un credente colpevole di un tale peccato. Nessun dubbio che, a Corinto, del gran numero di quelli che si erano addormentati, cioè che erano deceduti, alcuni erano stati colpevoli di fornicazione, poiché questo male morale esisteva disgraziatamente in quell’assemblea.

Se, invece, per «sfruttare negli affari» intendiamo le cose relative al comprare o al vendere, l’insegnamento è assolutamente chiaro.

«Infatti Dio ci ha chiamati non a impurità, ma a santificazione.» (v. 7).

Se il Signore vigila sugli interessi di coloro a cui è stato fatto torto, tanto più noi siamo responsabili di rendere conto delle nostre azioni a Dio che ci chiama ad essere santi. Il nostro Dio è un Dio santo che ha gli occhi troppo puri per vedere il male (Abacuc 1:13). Quando Suo Figlio è “diventato peccato” (2 Corinzi 5:21) al Golgota, Dio ha distolto il Suo volto da Lui. È importante per noi realizzare la santità di Dio; quante volte, malgrado la Sua chiamata, noi trattiamo leggermente la questione del peccato! Questo non è disprezzare Dio?

«Chi dunque disprezza questi precetti, non disprezza un uomo, ma quel Dio che vi fa anche dono del suo Santo Spirito.» (v. 8).

Questo versetto ci presenta un’altra Persona divina: lo Spirito Santo, o lo Spirito di santità, come leggiamo altrove (Romani 1:4). Dio ce l’ha dato perché abiti in noi, come abbiamo visto prima. Dio stima talmente importante la santità che ci fa dono di una persona divina per compiere questo lavoro in noi. Se cediamo alle nostre proprie concupiscenze invece di realizzare la santità nella vita, disprezziamo Dio. Come quel residuo fedele al tempo di Malachia (3:16-18), temiamo Colui che ci ha amati, e ci ha fatto dono del Suo Figlio e del Suo Spirito per fare di noi un popolo separato dal male.

Camminare nell’amore fraterno (4:9-10).

«Quanto all’amore fraterno, non avete bisogno che io ve ne scriva, giacché voi stessi avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri,» (v. 9).

In seno al popolo di Dio, il vero amore che dovremmo incontrare è l’amore fraterno. Questo amore per i fratelli non si impara nel mondo, ma è insegnato da Dio. È ricevuto con la nuova nascita: «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli» (1 Giovanni 3:14). Il Signore, nel Suo amore per noi, ci chiama Suoi fratelli (Giovanni 20:17). Egli desidera che noi siamo dei veri «Filadelfiani» vale a dire di coloro che amano i fratelli (Filadelfia – Apocalisse 3:7 – significa amore fraterno).

«… e veramente lo fate verso tutti i fratelli che sono nell’intera Macedonia. Ma vi esortiamo (o incoraggiamo), fratelli, ad abbondare in questo sempre di più,» (v. 10).

L’amore dei Tessalonicesi per i fratelli non era limitato ad alcuni fratelli solamente della chiesa locale. No, si estendeva a tutti i fratelli. In cosa consiste l’amore fraterno? Esso è, innanzi tutto, affetto gli uni per gli altri (Romani 12:10); ed è tanto grande che dovrebbe renderci disposti a dare la nostra vita per i fratelli (1 Giovanni 3:16). Nella Lettera agli Ebrei, siamo esortati affinché l’amore fraterno continui (13:1); e qui, ad abbondare in questo sempre di più. Come abbiamo notato al versetto 12 del capitolo 3, è il Signore che fa abbondare e sovrabbondare in amore gli uni verso gli altri.

Camminare onorevolmente (4:11-12)

«e a cercare di vivere in pace, di fare i fatti vostri e di lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato di fare,» (v. 11).

L’esortazione di questo versetto mira a favorire un clima nel quale possa svilupparsi l’amore fraterno vero. L’agitazione invece di una vita tranquilla, essere occupato degli affari nostri piuttosto che di quelli degli altri, e l’ozio invece del lavoro onesto, sono tutti elementi che ci impediscono di coltivare l’amore fraterno e che, purtroppo, possono degenerare in eccessi che disonorano Dio. Paolo aveva ordinato, con ragione, di impegnarsi nelle proprie attività della vita quotidiana e nel lavoro. Il verbo del testo originale ha il senso di prefiggersi uno scopo preciso. Lo sforzo è dunque necessario, ma è motivato dal desiderio di coltivare l’amore fraterno

«affinché camminiate dignitosamente verso quelli di fuori e non abbiate bisogno di nessuno.» (v. 12).

Una vita tranquilla, occuparsi dei propri affari e lavorare con le proprie mani producono in primo luogo una buona testimonianza verso quelli del mondo. Siamo certi che questi hanno sufficiente discernimento per distinguere un cammino onorevole da una condotta che non è conforme alla chiamata del cristiano. Un cristiano si nota dalle sue parole, ma lo si riconosce anche dalla sua condotta.

È anche importante non essere di peso agli altri. In questo, Paolo è un esempio per noi; avrebbe potuto vivere del Vangelo (1 Corinzi 9:14), ma aveva scelto di lavorare notte e giorno per non essere a carico dei Tessalonicesi (2:9).

***

Terminando questo brano del capitolo 4, ne ricordiamo le due verità principali: la santità nella nostra condotta e l’amore fraterno gli uni per gli altri. Le verità che riguardano la venuta del Signore, che stiamo per esaminare, non potranno essere veramente apprezzate se il nostro cammino non onora realmente il Signore e se non stimiamo come un dovere e privilegio amare i fratelli.

La venuta del Signore (4:13-18).

In questa parte della Lettera sono spiegati due fatti: la venuta del Signore Gesù con i suoi (v. 13-14) e la sua venuta per i suoi (v. 15-18). Per capire meglio la venuta del Signore con i suoi bisogna leggere i primi versetti del cap. 5 e la 2a Lettera ai Tessalonicesi. Per quanto riguarda la venuta del Signore per i suoi, comunemente chiamata il «rapimento della Chiesa», i vers. 15-18 di questo capitolo sono i più istruttivi, insieme ad alcuni passi del cap. 15 della la ai Corinzi.

Gli insegnamenti dell’apostolo Paolo sulla venuta del Signore sono motivati da una preoccupazione che i Tessalonicesi avevano circa i credenti deceduti. Paolo li incoraggia con questo scritto e, nello stesso tempo, spiega a loro e a noi delle preziose verità.

La venuta del Signore con i suoi (4:13-14).

«Fratelli, non vogliamo che siate nell’ignoranza riguardo a quelli che dormono, affinché non siate contristati come gli altri che non hanno speranza.» (v. 13).

Leggendo questo versetto capiamo il turbamento di quei giovani credenti riguardo i loro confratelli addormentati (la Parola usa questo aggettivo per indicare i credenti deceduti); essi sapevano che il Signore sarebbe ritornato e pensavano che i loro fratelli morti non avrebbero goduto di quel grande avvenimento con tutti i santi. Paolo rinforzerà la loro speranza illuminandoli su questo argomento.

«Infatti, se crediamo che Gesù morì e risuscitò, crediamo pure che Dio, per mezzo di Gesù  ricondurrà con lui quelli che si sono addormentati.» (v. 14).

Questo versetto si riferisce al giorno del Signore (come i primi versetti del cap. 5), quando Egli verrà per giudicare questo mondo ribelle ed essere glorificato nei Suoi santi e ammirato in tutti quelli che hanno creduto (2 Tessalonicesi 1:7-10). Allora tutti i riscattati saranno con Lui, lo accompagneranno. È Dio stesso, come abbiamo letto, che ricondurrà con il Signore Gesù anche quelli che si sono addormentati. Questo avvenimento seguirà, è vero, il rapimento, ma non è lontano; e noi lo crediamo tanto fermamente quanto crediamo alla morte e alla risurrezione del Signore.

La venuta del Signore per i suoi (4:15-18)

«Poiché questo vi diciamo mediante la parola del Signore: che noi viventi, i quali saremo rimasti sino alla venuta del Signore, non precederemo quelli che si sono addormentati;» (v. 15).

Ciò che segue ci dà alcuni dettagli sulla risurrezione dei credenti quando il Signore verrà a prenderci. Anch’essi, risuscitati, insieme a noi viventi, saranno rapiti nelle nuvole a incontrare il Signore nell’aria.

L’espressione «mediante la parola del Signore» significa che Paolo aveva avuto una rivelazione speciale e che aveva, quindi, l’autorità di dare questi insegnamenti. Nei versetti da 15 a 18 è molte volte ripetuto il «il Signore»: la parola del Signore, la venuta del Signore, il Signore stesso, incontrare il Signore, essere col Signore. Non perdiamo mai di vista il posto glorioso che il Signore avrà nel beato momento del rapimento dei suoi fedeli. La nostra vera speranza è l’attesa di quel momento, nella gioia di vederlo presto.

Sappiamo da questi passi che quelli che saranno ancora vivi alla venuta del Signore non precederanno quelli che sono morti. Anzi, i morti in Cristo risusciteranno per primi, poi noi viventi saremo trasformati per incontrare, insieme a loro, il Signore.

«perché il Signore stesso, con un ordine, con voce d’arcangelo e con la tromba di Dio, scenderà dal cielo, e prima risusciteranno i morti in Cristo;» (v. 16).

Lui, che è già venuto sulla terra e che gli uomini hanno respinto, scenderà personalmente dal cielo per incontrare i suoi nell’aria. Era sceso nelle parti più basse della terra (vale a dire nella morte) e poi è salito «al di sopra di tutti i cieli» (Efesini 4:9-10). Che gioia per Lui venire a prendere quelli che gli appartengono, e che momento glorioso quando i santi dell’epoca della Chiesa e quelli dell’Antico Testamento incontreranno il loro Signore!

I tre mezzi usati per chiamare i suoi confermano che non solo la Chiesa sarà convocata. Il grido dello Sposo si farà udire; Cristo presenterà a Se stesso la suo Chiesa «senza macchia, senza ruga o altri simili difetti, ma santa e irreprensibile» (Efesini 5:27). Egli è il capo della Chiesa e il Suo grido, dunque, è un grido potente (o, come altri traduce, «di comando»).

Quanto ad Israele, sappiamo che gli angeli hanno avuto un ruolo importante nella sua storia; la legge stessa era stata promulgata dagli angeli (Galati 3:19). Per loro, i santi dell’antico popolo di Dio, il Signore si servirà della voce d’arcangelo.

Infine, tutti gli altri che sono morti nella fede senza appartenere al popolo di Dio (Abele, Noè, Giobbe, Rut, Naaman, per non citarne che alcuni), saranno convocati dalla tromba di Dio.

A questo appello irresistibile non tutti i morti risusciteranno, ma solo quelli «in Cristo», che durante la loro vita, per la fede, sono “nati di nuovo”. Sono morti sulla terra, ma conosceranno la potenza della risurrezione; come il Signore, che ha conosciuto la morte del corpo e poi la risurrezione. Quale incoraggiamento per noi, come per i credenti di Tessalonica, sapere che i fratelli e le sorelle morti non hanno perso nulla, e non perderanno nulla alla venuta del Signore.

«poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore nell’aria;» (v. 17).

Vi saranno dunque dei credenti sulla terra quando il Signore ritornerà. È prezioso meditare su queste cose che sono la speranza attuale della Chiesa. La nostra generazione potrebbe essere quella della Sua venuta. Cosa sarà per noi, fratelli e sorelle, udire il Suo grido e andare ad incontrarlo! Che emozione, e che incoraggiamento per il cuore dei riscattati!

Alcuni vorrebbero privarci della gioia di incontrare presto il Signore, dicendo che vi saranno diversi rapimenti. Ma l’espressione «rapiti insieme» esclude questa idea; essa significa che i morti in Cristo e tutti i credenti viventi sulla terra saranno presi contemporaneamente; sarà un unico avvenimento. E noi siamo incoraggiati ad attendere il Signore da un momento all’altro; in Apocalisse il Signore dice tre volte: «Io vengo presto».

Dove avverrà l’incontro? «Sulle nuvole», al riparo da ogni sguardo indiscreto. Il mondo che rigetta Cristo non sarà spettatore né testimone di quel momento meraviglioso. Ricordiamoci che Egli stesso, quando fu assunto in cielo, fu ricevuto in una nuvola che lo tolse alla vista dei suoi (Atti 1:9).

Il mondo non vide la Sua ascensione e ne ebbe conoscenza solo per la testimonianza dei discepoli. Dopo il rapimento dei suoi e i terribili giudizi che seguiranno sulla terra, il Signore ritornerà di nuovo, «con le nuvole», come è asceso in cielo, e verrà sulla terra e «ogni occhio lo vedrà» (Apocalisse 1:7). È quella che abbiamo chiamato la sua venuta con i suoi, perché i suoi saranno con Lui.

Il versetto specifica che l’incontro avverrà «nell’aria». Nell’aria abita Satana con i principati, le potestà, i dominatori di questo mondo di tenebre, le forze spirituali della malvagità (Efesini 6:12). Il Signore ha scelto proprio questo luogo per incontrarsi coi suoi riscattati! Che gloriosa manifestazione della Sua potenza sul nemico delle anime nostre!

«e così saremo sempre con il Signore.» (v. 17)

Parecchi credenti affermano che la loro gioia è di andare in cielo. Quello che la Parola dice della felicità del credente è ancora più grande. Al brigante sulla croce, Gesù disse: «Oggi tu sarai con me in paradiso». (Luca 23:43). Era vero che quel malfattore sarebbe andato in cielo, ma la sua vera felicità consisteva nell’essere «con Gesù». Anche per noi, credenti dell’inizio del terzo millennio, questa felice prospettiva non è cambiata: saremo presto, e per sempre, col Signore!

Nulla potrà distrarre i nostri sguardi da Lui o raffreddare i nostri affetti. Vedremo le Sue mani e i Suoi piedi trafitti, e non ci stancheremo di contemplare tutte le Sue glorie magnifiche. E quale sarà il risultato? Per l’eternità renderemo onore e lode all’Agnello che è stato immolato.

«Consolatevi (o incoraggiatevi) dunque gli uni gli altri con queste parole.» (v. 18).

Le dottrine contenute in questa parentesi, in rapporto con la venuta del Signore Gesù per prendere i Suoi, sono adatte a consolarci. È incoraggiante pensare che andremo incontro al Signore con tutti i nostri fratelli e sorelle, e che Satana non potrà per nulla intralciare questo avvenimento unico. Fa del bene incoraggiarci l’un l’altro con queste parole, perché qualcuno di noi potrebbe perdere di vista la beata speranza a causa delle preoccupazioni di questa vita. Ricordiamoci a vicenda, fratelli e sorelle, che Gesù viene presto, secondo la sua promessa. Questa speranza ci guarderà dal mondo e da tutti i suoi inganni e ci predisporrà ad attendere, nella notte, la Stella del mattino, il Signore Gesù. Ma non dovrebbe già essere sorta «nei nostri cuori»? (2 Pietro 1:19).

Capitolo 5

Lo scopo della parentesi del cap. 4 era di descrivere gli avvenimenti inerenti la venuta del Signore per prendere i suoi. Il cap. 5 è la continuazione dell’argomento introdotto da Paolo immediatamente prima di questa parentesi, ed è strettamente legato al fatto che Dio «ricondurrà» con sé coloro che si sono addormentati in Gesù. Lo straordinario avvenimento della «manifestazione» al mondo del Signore con i credenti è conosciuto nella Parola come il giorno del Signore.

I versetti 1-3 ci parlano precisamente del giorno del Signore. Dal v. dal 4 al 7 vediamo il nostro privilegio di essere figli di luce e, di conseguenza, la nostra responsabilità di non dormire, ma di indossare la corazza della fede e dell’amore e l’elmo della salvezza. Infine, nei v. da 9 a 11 c’è quello che Dio ha previsto per noi.

Il giorno del Signore (5:1-3)

«Quanto poi ai tempi ed ai momenti (o le stagioni), fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva;» (v. 1).

Ritroviamo qui l’espressione «i tempi e le stagioni» che compare tre volte nella Parola di Dio. In Daniele 2:21, è Dio che cambia i tempi e le stagioni; in Atti 1:7, riguardo al ristabilimento del regno per Israele, i tempi e le stagioni il Padre li ha riservati alla Sua propria autorità. E poi, questa espressione la troviamo nel versetto che abbiamo appena letto. Possiamo concludere che si parla di tempi e stagioni in rapporto con la terra ed i suoi abitanti (vedere anche Genesi 1:14).

I versetti 1 a 3 del cap. 5 sono erroneamente usati per descrivere il rapimento dei credenti. Ma la Chiesa non è legata a questo mondo e, di conseguenza, è fuori dai tempi e dalle stagioni. Essa è celeste; il suo Capo è glorificato nel cielo (Colossesi 1:18); i suoi membri sono stati eletti «prima della fondazione del mondo» in Cristo (Efesini 1:3-4); essi sono visti come seduti «nei luoghi celesti in Cristo Gesù» (Efesini 2:6); la loro cittadinanza è celeste e dal cielo attendono «il Salvatore, Gesù Cristo, il Signore, che trasformerà» i loro corpi rendendoli conformi al «corpo della sua gloria» (Filippesi 3:20-21).

«perché voi stessi sapete molto bene che il giorno del Signore verrà come viene un ladro nella notte.» (v. 2).

In questo versetto, due cose caratterizzano il giorno del Signore: è un giorno terribile (come quello della venuta di un ladro), ed è un giorno di oscurità (è menzionata la notte). I Tessalonicesi lo sapevano; avevano potuto leggere nel profeta Gioele: «Il giorno del SIGNORE è grande, davvero terribile! Chi potrà sopportarlo?» (Gioele 2:11). E ancora: «È… giorno di tenebre, di densa oscurità, giorno di nubi, di fitta nebbia!» (Gioele 2:2). Amos, un altro profeta, diceva alla casa d’Israele: «Guai a voi che desiderate il giorno del SIGNORE! Che vi aspettate dal giorno del SIGNORE? Sarà un giorno di tenebre, non di luce» (Amos 5: 18).

I versetti seguenti del capitolo in esame dimostrano chiaramente che i credenti non hanno da temere la venuta di quel giorno perché non li riguarda. Essi saranno già stati rapiti quando quei tempi di prova (o tribolazione) verranno su tutta la terra abitata (vedere la lettera alla chiesa di Filadelfia in Apocalisse 3). Come al cap. 4 dell’Apocalisse, noi saremo già nel cielo, ed è dalla gloria che vedremo ciò che avverrà sulla terra. Per conoscere di più ciò che sarà il giorno del Signore, è importante leggere attentamente la seconda Lettera di Paolo ai Tessalonicesi. Basta dire che in quel giorno i santi accompagneranno il Signore (vedere Zaccaria 14:5 e Colossesi 3:4). Il Signore sarà «glorificato nei suoi santi e ammirato in tutti quelli che hanno creduto» (2 Tessalonicesi 1:10).

«Quando diranno: “Pace e sicurezza”, allora una rovina improvvisa verrà loro addosso, come le doglie alla donna incinta; e non scamperanno.» (v. 3).

Sotto la dominazione della «bestia» (vedere Apocalisse 13) a cui è dato, per breve tempo, «autorità sopra ogni tribù, popolo, lingua e nazione» (v. 7), sembra che il mondo godrà di una certa pace, una pace a livello mondiale, come tutti, anche oggi, sperano di ottenere. Inoltre, e questo già lo vediamo oggi, il mondo avrà una sensazione di sicurezza crescente di fronte agli avvenimenti soprannaturali; oggi si temono sempre meno tali fatti, e si respinge l’idea di un qualsiasi intervento di Dio negli affari umani, quando non si respinge del tutto l’idea stessa di Dio.

Sarà un tragico inganno che ha la sua sorgente in Satana, il padre della menzogna! Un’improvvisa distruzione verrà su tutti, inaspettatamente.

La donna di Apocalisse 12, che raffigura Israele, ha già partorito il figlio maschio che «deve reggere tutte le nazioni» e che è stato elevato verso Dio e il Suo trono. È il Signore Gesù, il Figlio di Dio. Ma, nel futuro, il residuo fedele d’Israele sarà conservato nel deserto in un luogo preparato da Dio, e nutrito per tre anni e mezzo, cioè durante la grande tribolazione. Ma il mondo è come una donna incinta che non può evitare le doglie del parto; non potrà sfuggire ai terribili giudizi di un Dio santo e giusto.

Il cristiano non ha nulla da temere. Cristo è la sua pace (Efesini 2:14) e la sua sicurezza (Isaia 33:6). Quando il mondo cerca la pace ad ogni costo e si illude, senza Dio, di aver raggiunto una certa sicurezza, il cristiano sa che Cristo ha compiuto tutto alla croce e si rallegra di questo. E la pace e la sicurezza del cristiano non sono solo per il tempo presente, ma per l’eternità.

Privilegio e responsabilità (5:4-8).

«Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno abbia a sorprendervi come un ladro;» (v. 4).

Questo versetto, che inizia con un «ma», conferma la distinzione che esiste fra il credente e l’incredulo. Noi non siamo nelle tenebre. Le tenebre hanno letteralmente avvolto il mondo quando Cristo sulla croce portava i nostri peccati ed era fatto peccato al nostro posto. Le tenebre morali continuano ancora oggi ad invadere questo mondo che respinge Cristo e l’opera della redenzione. Come nel caso del ladro che preferisce le tenebre per agire, così il giorno del Signore sorprenderà un mondo sprofondato nelle tenebre. Ma per quel che concerne i credenti, così come per i figli di Israele in Goscen (Esodo 10:21-23), vi è della luce nelle loro abitazioni anche se fitte tenebre avvolgono il mondo.

«perché voi tutti siete figli di luce e figli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre.» (v. 5)

Il primo giorno della creazione, Dio separò la luce dalle tenebre. «Dio chiamò la luce “giorno”, e le tenebre “notte”» (Genesi 1:5). Questa distinzione, importante nella natura, si ritrova ugualmente nella sfera morale. Il credente appartiene alla luce e al giorno; l’incredulo, alle tenebre e alla notte. Il Signore è veramente il primo uomo che abbia manifestato questo carattere di luce, ossia di santità, ma non è stato compreso e non è stato ricevuto da coloro che sono delle tenebre (vedere Giovanni 1:1-13). Quanto a noi, Dio ha inviato il Suo Figlio per riscattarci perché ricevessimo l’adozione come figli (Galati 4:4-6). Questo attributo divino di santità è dunque ora impresso su noi. Un tempo, eravamo della notte e delle tenebre, come Satana; dal giorno della nostra conversione, siamo della luce e del giorno, come Cristo.

«Non dormiamo dunque come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri;» (v. 6).

È un principio importante della vita del credente che ogni privilegio sia accompagnato da una responsabilità. Al vers. 4, abbiamo visto che noi non siamo nelle tenebre; al vers. 5, quello che siamo: dei figli di luce, e quello che non siamo: non della notte né delle tenebre.

Al vers. 6, di conseguenza, c’è la nostra responsabilità: contrariamente agli increduli che, dal punto di vista spirituale, dormono, i credenti sono chiamati a vegliare e ad essere sobri. A vegliare, perché aspettano di vedere apparire presto il Signore Gesù come Stella del mattino, prima che sorga il giorno. Ad essere sobri, per non offuscare la testimonianza agli occhi del mondo, prima di essere tolti da questa scena terrestre ed essere introdotti nella loro patria celeste. Che responsabilità verso il Signore e verso quelli che periscono!

«poiché quelli che dormono, dormono di notte, e quelli che si ubriacano, lo fanno di notte.» (v. 7).

Questo versetto ci informa maggiormente sugli «altri», citati al versetto precedente, che dormono. Il loro “sonno” corrisponde al triste stato del mondo dal punto di vista spirituale. Moralmente, in questo mondo è notte, e quelli di questo mondo dormono. Non hanno nessuna capacità di vegliare. L’ubriachezza non fa che sprofondare sempre più l’uomo in queste tenebre della notte. Noi, cristiani, non siamo al riparo dal pericolo di cadere in questo stato di sonno e di ebbrezza. La carne in noi è la stessa che è negli increduli. Ma, grazie a Dio, abbiamo delle risorse che sono messe a nostra disposizione.

«Ma noi, che siamo del giorno, siamo sobri, avendo rivestito la corazza della fede e dell’amore, e preso per elmo la speranza della salvezza.» (v. 8).

Coloro che sono del giorno devono essere sobri, moderati, devono avere un autocontrollo per quanto riguarda la loro vita sulla terra, nel corpo. Quanto alle loro anime, devono custodire i loro affetti per il Signore Gesù, rivestendo la corazza della fede e dell’amore. La speranza della salvezza è come un casco per il loro spirito, perché tiene i loro pensieri occupati di Colui che aspettano durante la notte e delle cose che sono in alto, non di quelle che sono sulla terra (Colossesi 3:2). Come al cap. 1 vers. 3, queste tre qualità della vita cristiana, la fede, l’amore e la speranza, sono menzionate insieme. Che queste virtù dei Tessalonicesi, preziose per il Signore, possono trovarsi nella nostra vita mentre aspettiamo Colui che viene!

Il proponimento di Dio a nostro riguardo (5:9-11)

«Dio infatti non ci ha destinati a ira, ma ad ottenere salvezza per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, il quale è morto per noi…» (v. 9).

La descrizione della manifestazione dell’ira di Dio verso questo mondo empio per mezzo dei sette sigilli, delle sette trombe e delle sette coppe dell’Apocalisse, è veramente spaventosa. Dio, a causa della Sua santità, ha il dovere di castigare questo mondo che ha rigettato e messo a morte il Suo Figlio. Ma grazie a Lui, il credente non è destinato all’ira. Quei giudizi terribili non lo colpiranno, poiché Cristo gli ha già acquistato la salvezza e la liberazione morendo per lui alla croce. Questo versetto, e quello di Romani 8 («non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù»), dovrebbero rassicurarci riguardo alla nostra posizione di fronte ai giudizi di Dio su questa terra.

La questione dell’ira di Dio è stata risolta per il credente nel passato: «Dio non ci ha destinati a ira». Cristo l’ha subita al nostro posto. Per gli increduli, benché non ancora scatenata, l’ira di Dio è già al presente su di essi: «Ormai li ha raggiunti l’ira finale» (2:16). Quanto all’ira che sarà manifestata nel futuro non abbiamo da temere: «Gesù ci libera dall’ira imminente» (1:10).

«… affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui.» (v. 10).

Ciò che preoccupava i Tessalonicesi era di essere separati, alla venuta del Signore, dai loro cari che si erano addormentati. Qui sono quelli che si sono addormentati in Gesù (4:14), o, se si preferisce, i morti in Cristo (4:16); non sono «quelli che dormono» nel peccato, che camminano in questo mondo senza possedere la vita di Dio (5:6-7). Paolo aveva già incoraggiato i Tessalonicesi dicendo loro che i credenti vivi sulla terra e i morti in Cristo sarebbero stati insieme rapiti nelle nuvole ad incontrare il Signore nell’aria (4:17). In questo versetto si va oltre: non soltanto saremo rapiti insieme, ma vivremo insieme con Lui. Il rapimento è il mezzo che il Signore adopera per raggiungere il Suo scopo finale: averci sempre con Sé. Ecco un prezioso motivo di incoraggiamento per ciascuno di noi.

«Perciò, consolatevi a vicenda ed edificatevi gli uni gli altri, come d’altronde già fate.» (v. 11).

L’incoraggiamento della parentesi del cap. 4 aveva in vista la beata speranza della venuta del Signore Gesù per noi. L’incoraggiamento, qui, ha in vista l’apparizione del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo. E siamo esortati ad intrattenerci delle cose che concernono la manifestazione del Signore al mondo, ma anche del comportamento che dobbiamo tenere nell’attesa del Signore, vale a dire vegliare ed essere sobri. Occuparsi insieme di tali cose non è riservato soltanto a qualche fratello o a qualche sorella più anziani, o più fondati sulla Parola; tutti possiamo e dobbiamo edificarci l’un l’altro. È quello che facevano i giovani credenti della chiesa di Tessalonica.

Il giorno del Signore è una verità sulla quale lo Spirito Santo ci ha dato parecchi versetti nella Parola. La conoscenza e l’apprezzamento di questo avvenimento senza pari dovrebbe avere due risultati molto pratici nelle nostre vite:

1 – la nostra luce, cioè la nostra testimonianza, dovrebbe essere tale da brillare nelle tenebre alla gloria di Dio e da consentire al Signore di servirsene per risvegliare delle anime che periscono e fortificarne altre che già gli appartengono;

2 – poi, dovremmo rallegrarci al pensiero che presto saremo, per l’eternità nella presenza di Colui che ci ha amati e che si è dato per noi. Che Dio ci dia di essere incoraggiati da queste preziose verità del ritorno del Signore.

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In questi ultimi versetti della prima Lettera di Paolo ai Tessalonicesi, si notano almeno venti esortazioni che è possibile raggruppare; esse sono in rapporto:

– alla vita di assemblea (v. 12-14),

– alla vita cristiana in generale (v. 15-18),

– alla attività dello Spirito Santo (v. 19-22).

La Lettera termina con le raccomandazioni a Dio e le esortazioni finali (v. 22-28).

È sempre con la libertà di un fratello in Cristo verso i suoi fratelli e sorelle che Paolo si rivolge a quelli di Tessalonica. Queste esortazioni, anche qui, hanno lo scopo di incoraggiare i santi. I versetti 23 e 24 occupano un posto particolare in mezzo a queste esortazioni; Paolo raccomanda a Dio stesso quei giovani credenti affinché siano mantenuti irreprensibili. Noi siamo deboli, è vero, ma Dio è pronto a soccorrerci e a sostenerci nell’attesa del ritorno del Signore.

La vita di assemblea (5:12-14).

«Fratelli, vi preghiamo di aver riguardo per coloro che faticano in mezzo a voi, che vi sono preposti nel Signore e vi istruiscono,» (v. 12).

Non leggiamo che Paolo avesse stabilito dei fratelli responsabili di certe funzioni nella chiesa di Tessalonica. Tre cose caratterizzano questi fratelli: lavoravano in mezzo all’assemblea, avevano un’autorità spirituale, essendo «preposti», e istruivano (o ammonivano) gli altri. Questi fratelli che sono «preposti», cioè in testa (vedere anche Romani 12:8), erano mossi semplicemente dal desiderio di servire il Signore e di essere utili, come strumenti di Dio per il bene dell’assemblea. Si dovevano stimare tali fratelli.

«e di tenerli in grande stima ed amarli a motivo della loro opera. Vivete in pace tra voi.» (v. 13).

È vero che l’operaio è degno del suo nutrimento (Matteo 10:10), e che colui che è ammaestrato nella Parola deve mettere i suoi beni materiali a disposizione di colui che insegna (Galati 6:6). Ma non è su questi principi divini, sull’aiuto da dare ai servitori, che l’apostolo insiste qui. Se è doveroso avere delle mani aperte per dare, è necessario anche avere dei cuori aperti nei confronti di questi fedeli servitori. Vi sono dei fratelli e delle sorelle che servono il Signore in modo permanente, e altri che hanno conservato il proprio lavoro ma servono ugualmente il Signore. Dio sa quanto gli uni e gli altri hanno diritto di essere ricompensati della loro dedizione con una parola affettuosa e di incoraggiamento da parte dei loro fratelli e sorelle. È importante discernere le qualità morali di questi servitori e apprezzare la loro opera, per potergli testimoniare la nostra stima e i1 nostro amore.

La pace fra i membri di un’assemblea è indispensabile per poter riconoscere l’autorità morale di coloro che il Signore ha posto alla testa fra noi. Tutti i sentimenti di gelosia, di orgoglio, di ricerca di prestigio personale e dei propri interessi, piuttosto di quelli di Gesù Cristo (Filippesi 2:21), devono essere tolti. Allora, terremo in grande stima e ameremo coloro che si dedicano al Signore e all’assemblea locale.

La pace caratterizzava le assemblee della Giudea, della Galilea e della Samaria. Si può pensare che fosse grazie a un clima favorevole che esse erano edificate, che camminavano nel timore del Signore e crescevano per la consolazione dello Spirito Santo (Atti 9:31).

«Vi esortiamo, fratelli, ad ammonire i disordinati, a confortare gli scoraggiati, a sostenere i deboli, a essere pazienti verso tutti.» (v. 14).

Questo versetto ci offre due principi importanti per il funzionamento di una radunanza cristiana. Innanzi tutto, l’assemblea di Dio non deve essere un raggruppamento di persone che fanno ciò che sembra loro bene. Bisogna sapere come ci si deve comportare nella chiesa del Dio vivente (1 Timoteo 3:15): si devono ammonire i disordinati, vale a dire coloro che non si comportano secondo l’ordine che conviene; poi la preoccupazione per le anime deve essere tale da fare cogliere tutte le occasioni date dal Signore per consolare e venire in aiuto.

Davide aveva ricevuto, nella caverna d’Adullam, tutti coloro che si erano riuniti presso di lui; era gente in angoscia, nei debiti o scontenti (1 Samuele 22:1-2). Fratelli e sorelle con tali problemi si trovano oggi ancora fra coloro che si radunano attorno alla Persona del Signore Gesù. Se Egli li ha ricevuti, noi dobbiamo rispondere ai loro bisogni avendo ben presente che siamo membra di un solo corpo. Per quelli di noi che hanno difficoltà ad occuparsi di fratelli e sorelle sregolati, scoraggiati, o deboli, rimangono le occasioni di manifestare la pazienza verso tutti.

Notiamo infine, ed è un altro privilegio importante, che gli incoraggiamenti di Paolo sono indirizzati ai fratelli e sorelle in generale, e non solamente a coloro che lavorano e che sono alla testa. Che ogni fratello e sorella possa essere incoraggiato a svolgere questi diversi servizi per il Signore e per i santi nella Chiesa di Dio.

La vita cristiana (5:15-18).

«Guardate che nessuno renda ad alcuno male per male; anzi cercate sempre il bene gli uni degli altri e quello di tutti.» (v. 15).

La grazia eleva al disopra dei principi e delle pratiche in uso nel mondo. Sarebbe talmente naturale, e accettabile dalla società, rendere il male per il male! Ma dobbiamo fare attenzione a queste perverse inclinazioni della carne. E non basta; fermarsi a questo farebbe di noi semplicemente degli uomini religiosi. Noi dobbiamo non solo rendere il male ma perseguire ciò che è buono; e questo nei confronti non solamente di quelli della propria assemblea, ma di tutti i credenti, anche al di là della nostra cerchia di comunione, ed anche di tutti gli uomini.

Altrove, siamo esortati a ricercare la giustizia (1 Timoteo 6:11 e 2 Timoteo 2:22), l’amore (1 Corinzi 14: l), la pace (Ebrei 12:14 e 1 Pietro 3:11) e le cose che tendono alla pace e all’edificazione (Romani 14: 19). La nostra ricerca di ciò che è buono dev’essere contrassegnata dalla perseveranza: «cercate sempre».

«Siate sempre gioiosi;» (v. 16).

Questa esortazione, come pure quelle che seguono, hanno lo scopo di incoraggiare il cristiano nel suo cammino verso il cielo. Facendo nostre queste parole, non solamente la nostra vita individuale sarà trasformata, ma lo sarà anche quella della nostra assemblea. Siamo incoraggiati a rallegrarci sempre; evidentemente non si tratta della gioia che procura il mondo, poiché essa dipende dalle circostanze più o meno favorevoli. La gioia di cui si parla qui è quella che lo Spirito mette nel cuore. Questa gioia, particolarmente quella di vedere presto il Signore Gesù, nessuno ce la deve togliere (Giovanni 16:22).

Lo Spirito Santo, per mezzo delle Lettere di Paolo, ci incoraggia a rallegrarci nel Signore (Filippesi 3:11 e 4:4) e con coloro che si rallegrano (Romani 12:15). Anche ai Corinzi, che si erano comportati come uomini carnali, ma che poi si erano pentiti ed avevano corretto il loro comportamento, Paolo poteva scrivere: «Del resto, fratelli, rallegratevi» (2 Corinzi 13:11).

«non cessate mai di pregare;» (v. 17).

È bene considerare la lettura e la meditazione della Parola come il nutrimento del cristiano. Ma della preghiera è stato detto che è come il respiro dell’anima. Colui che si priva della preghiera disprezza, possiamo dirlo, il mezzo messo a sua disposizione da Dio per comunicare con lui; e non soltanto noi ci rivolgiamo a Lui nella preghiera, ma per Lui è un’occasione per intrattenersi con noi. Questo «non cessate mai di pregare» sottintende uno stato permanente di dipendenza. Sappiamo dunque riservare dei momenti prioritari per questa santa attività!

Che cos’è che caratterizza la preghiera? Si può imparare dal Signore in Getsemani, in Luca 22:39-46.

  1. Aveva un luogo abituale per pregare: «Andò, come al solito, al monte degli Ulivi».
  2. Pregava solo: «Egli si staccò da loro circa un tiro di sasso».
  3. Era dipendente: «E postosi in ginocchio…».
  4. Pregava ad alta voce: «pregava, dicendo:».
  5. Si rivolgeva a Suo Padre: «Padre…».
  6. Ricercava la volontà del Padre: «… se vuoi… Però non la mia volontà, ma la tua sia fatta».
  7. Pregava con fervore, senza stancarsi: «Pregava ancor più intensamente».

Che modello per noi, e che lezione da parte del divino Maestro! Che il Signore ci dia di perseverare nella preghiera e di «vegliare in essa con rendimento di grazie» (Colossesi 4:2).

«in ogni cosa rendete grazie, perché questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.» (v. 18).

Se noi ci rallegriamo della gioia del Signore e se abbiamo comunione con Dio con la preghiera, possiamo essere certi che i motivi per rendere grazie non mancheranno. È vero che può essere difficile rendere grazie in ogni cosa, eppure questa è «la volontà di Dio» a nostro riguardo. Anche se la nostra percezione non è sempre a tale livello, «tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno» (Romani 8:28). Sovente la nostra visione delle circostanze avviene come attraverso un vetro semitrasparente: vediamo in modo oscuro (1 Corinzi 13:12). Ma, quando saremo nella gloria, realizzeremo che queste circostanze penose erano state permesse per il nostro bene da un Dio di amore e di sapienza. Sappiamo già da adesso rendere grazie in ogni cosa!

L’attività dello Spirito Santo (5:19-22)

«Non spegnete lo Spirito.» (v. 19).

In Efesini 4:30 leggiamo di non rattristare lo Spirito Santo di Dio. Se ha un comportamento che disonora il Signore, il credente può rendere triste lo Spirito Santo che dimora in lui (leggere 1 Corinzi 6:19-20).

Isaia dice, riguardo a Israele, che essi contristarono il suo Spirito santo (Isaia 63:10), e causarono della tristezza a Dio.

I Tessalonicesi sono esortati a non spegnere lo Spirito, vale a dire a non agire in modo tale che l’azione e la potenza dello Spirito Santo siano impedite quando l’assemblea si riunisce.

È molto serio pensare che se lo Spirito Santo deve essere continuamente occupato a correggermi nella mia vita personale, non può arricchirmi di benedizioni spirituali, quale, ad esempio, un più grande apprezzamento di Cristo. È importante anche capire gli effetti nefasti che può avere sulla vita dell’assemblea una condotta personale ribelle allo Spirito Santo.

«Non disprezzate le profezie;» (v. 20).

Le profezie degli inizi della Chiesa, prima che il Nuovo Testamento fosse completato, erano delle rivelazioni fresche e nuove fatte dallo Spirito Santo ai cristiani per l’edificazione dei fratelli e delle sorelle. Oggi che i1 Nuovo Testamento è scritto e completo, la parola a carattere profetico consiste in un messaggio presentato da un fratello, sotto la direzione dello Spirito Santo, che dà il pensiero di Dio su un soggetto particolare, secondo le circostanze del momento, agli altri fratelli e sorelle. Potrà essere una parola di esortazione, di consolazione, di edificazione, ma sempre sotto la direzione dello Spirito Santo per mezzo della Parola di Dio. Le profezie non sono da disprezzare, poiché vengono da Dio; nello stesso modo si deve rispettare colui che parla, che dovrà farlo «come si annunziano gli oracoli di Dio» (1 Pietro 4:11), come vaso utile al Maestro; e poco importa la sua debolezza personale.

«ma esaminate ogni cosa e ritenete il bene;» (v. 21).

Per i Tessalonicesi, le norme per provare ogni cosa si trovavano nell’Antico Testamento e nelle istruzioni di Paolo. Noi siamo privilegiati perché possediamo tutta la Parola di Dio. Per quanto riguarda particolarmente le profezie sugli avvenimenti futuri, sorgono oggi parecchi sedicenti profeti e commentatori della profezia. Dobbiamo essere vigilanti, e fare come quei credenti di Berea i quali «ricevettero la Parola con ogni premura, esaminando tutti i giorni le Scritture per vedere se le cose stavano così» (Atti 17:11). Se le cose stanno così, se sono buone, dobbiamo ritenerle per il nostro profitto.

«astenetevi da ogni specie di male.» (v. 22).

A questi giovani credenti Paolo si rivolge in modo categorico. Non si tratta di conoscere a fondo le diverse forme che può prendere il male. Se le profezie devono essere esaminate, e quel che è buono ritenuto, il male sotto tutte le sue forme deve essere respinto. Siamo «saggi nel bene e incontaminati dal male» (Rom. 16: 19)! Questa è la nostra salvaguardia.

Raccomandazioni alla grazia di Dio ed esortazioni finali (5:23-28)

«Or il Dio della pace vi santifichi egli stesso completamente; e l’intero essere vostro, lo spirito, l’anima ed il corpo, sia conservato irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo.» (v. 23).

Il soggetto della santità e quelli dell’incoraggiamento e della venuta del Signore, costituiscono un tema importante di questa Lettera. Santità nel servizio al cap. 2 (v. 10); santità negli affetti al cap. 3 (v. 11-13); santità nella condotta cristiana al cap. 4 (v. 1-8). Da soli, siamo impotenti a realizzare la santità nella nostra vita, a separarci da questo mondo per consacrarci a Cristo e ai Suoi interessi. Dobbiamo fare affidamento su Dio che può «santificarci» interamente, di modo che saremo senza rimprovero alla venuta del Signore. Tutta la nostra persona dev’essere mantenuta irreprensibile: il nostro spirito che comprende le nostre capacità intellettuali ed è quella parte di noi che può entrare in relazione con Dio, l’anima che è la sede dei nostri affetti e dei sentimenti, e il corpo, l’essere fisico.

«Fedele è colui che vi chiama, ed egli farà anche questo.» (v. 24).

Dio, il Dio di pace, ha dato la Sua pace alle nostre coscienze quando abbiamo creduto al Suo Figlio e alla Sua opera alla croce. La Sua pace custodisce ora i nostri cuori e i nostri pensieri in Cristo Gesù (Filippesi 4:7). Malgrado le nostre infedeltà, il nostro Dio è fedele per adempiere i Suoi proponimenti verso noi, e particolarmente quello di santificarci interamente.

«Fratelli, pregate per noi.» (v. 25).

Il privilegio di essere dei fratelli e delle sorelle nel Signore pone davanti a noi la responsabilità di pregare gli uni per gli altri, ed anche per i servitori del Signore. Paolo, Silvano (Sila) e Timoteo facevano menzione dei Tessalonicesi nelle loro preghiere (1:2). Ora essi chiedevano le preghiere dei santi.

«Salutate tutti i fratelli con un santo bacio.» (v. 26).

I saluti di Paolo e dei suoi compagni sono per tutti i fratelli e si esprimono calorosamente con un santo bacio. Vedere pure Romani 16:16; 1 Corinzi 16:20 e 2 Corinzi 13:12. Pietro, invece, parla di un «bacio d’amore fraterno» (1 Pietro 5:14).

«Io vi scongiuro per il Signore che si legga questa lettera a tutti i santi fratelli.» (v. 27).

La lettera di Paolo comunicava la Parola del Signore. Era necessario, quindi, che coloro che erano messi a parte per il Signore, «i santi fratelli », leggessero tutti questa lettera.

Poco importa il tipo di servizio cristiano svolto o la classe sociale di un fratello o di una sorella; ciascuno fa parte del corpo di Cristo e ha del beneficio a leggere e ad ascoltare attentamente la Sua Parola.

«La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi.» (v. 28).

Questo saluto finale è caratteristico di tutte le lettere dell’apostolo Paolo. Vi ritroviamo la menzione della grazia, questo grande motivo di gioia per i nostri cuori. Come è stato durante il Suo passaggio sulla terra, il Signore, ora nella gloria, usa ancora grazia verso noi.

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