L’immensa bontà dell’Eterno

Lamentazioni di Geremia 3:1 a 33

di J.P. Fuzier

Articolo tratto dal mensile IL MESSAGGERO CRISTIANO del 08 – 2007

Le lamentazioni di Geremia sono l’espressione del dolore e dell’umiliazione di un uomo fedele che, pieno d’amore per il popolo di Dio, ne considera la rovina e la sofferenza.

Giuda e Gerusalemme erano nella prova perché avevano abbandonato l’Eterno, sorgente delle acque vive, per scavarsi delle cisterne screpolate (Geremia 2:13).  Non è forse per lo stesso motivo che, in molti casi, Dio è costretto a intervenire, anche oggi, mandando prove e sofferenze fra i suoi figli?

Indubbiamente la disciplina di Dio non riveste, per noi che siamo sotto la grazia, la stessa forma che rivestiva verso Giuda e Gerusalemme sotto la legge. Tuttavia Dio interviene anche oggi. Il profeta Geremia piangeva a causa della rovina della “figlia del suo popolo” (Lamentazioni 2:11) e Paolo era assillato ogni giorno dalle preoccupazioni che gli venivano da tutte le chiese (2 Corinzi 11:28). Un fratello ha scritto al riguardo: «Le sue sofferenze più intense  erano, osiamo pensarlo, quelle di cui parla per ultimo – la preoccupazione per tutte le chiese». Sopportare le debolezze dei deboli, prestare incessantemente attenzione ai lamenti di quelli che si sentivano offesi, correggere gli errori di alcuni, combattere per la verità contro falsi fratelli, tutte queste cose hanno dovuto costituire per Paolo l’esperienza più sfibrante. Eppure sopportava tutto ciò. Come non provare anche noi tristezza e umiliazione a causa dello stato di rovina della cristianità?

– (3:1-20) Afflizioni, amarezza, esilio

Il capitolo centrale del libro è quello in cui il profeta esprime il suo dolore con maggiore intensità. Le sue sofferenze fisiche e soprattutto morali sono il soggetto della prima parte di questo capitolo. Dio s’è servito delle esperienze di geremia per porre davanti a noi quello che è stata, in modo molto più profondo, la parte di Cristo, la sua angoscia quando chiedeva a Dio perché l’avesse abbandonato.

Con varie espressioni e per mezzo di figure che possiamo comprendere, Dio vuole rendere un po’ accessibili alla nostra intelligenza e ai nostri cuori di riscattati le sofferenze del suo diletto Figlio alla croce. E se ci fa così avvicinare, pur tenendo conto della nostra limitata comprensione, a questo mistero insondabile, è per farci afferrare maggiormente la grandezza e la perfezione del nostro Salvatore. E’ per riempire i nostri cuori di amore e di lode verso Colui  “che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati nel suo sangue” (Apocalisse 1:6).

Se ora applichiamo questo passo delle Scritture alle sofferenze di un uomo pio, in qualunque tempo, scopriamo che, nel momento più profondo della sua angoscia, quando ha l’anima abbattuta al pensiero delle sue prove, egli può richiamare alla sua mente (3:21) una verità che ha già sentito e conosciuto, ma che ora è anche la sua esperienza: l’immensa bontà dell’Eterno.

– (v. 22-24) La grazia, le compassioni, la fedeltà di Dio

I versetti 22 a 33 del cap. 3 si trovano al centro stesso del Libro delle Lamentazioni. Possiamo dire che ne sono il cuore, perché parlano dell’amore di Dio. Geremia confessava lo stato di rovina e d’infedeltà del suo popolo, e soffriva a causa del disonore che ne risultava per il nome dell’Eterno. Perché allora questo popolo non era consumato? Il profeta afflitto ha trovato la risposta nel suo cuore: grazie alle “compassioni” dell’Eterno. Esse si esercitano in pura grazia, perché Dio è un Dio d’amore; per questo ogni mattina provvede, con nuovi atti di misericordia, ad alleviare le sofferenze di quei pochi rimasti fedeli.

Possiamo ritenere che le parole del profeta ci facciano conoscere qui le esperienze che farà il residuo fedele d’Israele durante la grande tribolazione, affinché “mediante la pazienza e la consolazione che ci provengono dalle Scritture, conserviamo la speranza” (Romani 15:4). Infatti “la bontà del Signore è senza fine per quelli che lo temono” (Salmo 103:17).

Ecco un potente incoraggiamento per i fedeli del nostro tempo, mentre sono nell’amarezza per l’attuale rovina. Cosa rimane loro se non la bontà e le compassioni del nostro Padre e del Signore Gesù Cristo? Che possiamo sempre, in perfetta fiducia, fare e dire come Davide: “Al mattino ti offro la mia preghiera e attendo” (Salmo 5:3).

In seguito, Geremia ci fa sapere qual è la sorgente della sua speranza: “Il Signore è la mia parte”; ed era anche quella di Davide: “Il Signore è la mia parte di eredità e il mio calice” (Salmo 16:5). In Lui abbiamo una speranza viva, un’eredità conservata nei cieli per noi. E se, nel nostro cammino, attraversiamo la valle di Baca – valle del pianto (Salmo 84:6) – con lui potremo trasformarla “in luogo di fonti”. Asaf diceva: “Chi ho io in cielo fuor di te? E sulla terra non desidero che te” (Salmo 73:25).

– (v. 25) Il Signore è buono

Il profeta ci ha appena parlato della sua speranza; ora ci espone le sue certezze: “Il Signore è buono” (v. 25). Ma l’esperienza di questa bontà la fanno quelli che sperano in Lui; è la parte della fede.

Questa bontà è anche per l’anima di chi cerca il Signore, perché lo ama. Lo ha compreso bene Maria maddalena quand’era al sepolcro di Gesù (Giovanni 20:13-15). La Sunamita del Cantico dei cantici dice: “Ho cercato il mio amore” (3:1).

Quello che incoraggiava Geremia può anche fortificare noi, tanto più che conosciamo Dio come Padre.

– (v. 26) E’ bene aspettare in silenzio

Il profeta può ora darci un buon consiglio: Aspettare in silenzio la salvezza del Signore.

Giacomo scrive: “Ecco, noi definiamo felici quelli che hanno sofferto pazientemente” (5:11). Bisogna imparare ad attendere con fiducia. L’apostolo Pietro ci invita ad imitare il Cristo che ha sofferto per noi, “ma si rimetteva a colui che giudica giustamente” (1 Pietro 2:21-23). Dio interverrà, ma al momento e nei modi che Lui ritiene opportuni.

Non sempre, quando vediamo delle cose non giuste o dei comportamenti che ci turbano, abbiamo la possibilità di parlarne; ma possiamo sempre parlarne col Signore nel quale è riposta la nostra speranza (Salmo 39:2-4, 7-9). L’attesa del suo intervento non è mai infruttuosa. La prova della fede, esercitata dalla pazienza, fa parte delle vie di Dio verso i suoi, perché raggiungano “lo stato di uomini fatti”, l’altezza “della statura perfetta di Cristo” (Efesini 4:13). E’ notevole che Giacomo associ all’esercizio della pazienza la necessità di avere la sapienza che proviene dall’alto. Indubbiamente questa qualità è indispensabile per preservarci da ogni azione affrettata e incompatibile con la pazienza della fede.

Il silenzio nell’attesa va di pari passo col sentimento di essere sotto la disciplina del Signore. Il fedele, nella prova, cerca il Signore e, davanti a lui, espone la sua preghiera umilmente (altri traduce “a bassa voce”, “con un lieve sussurro”)” (Isaia 26:16).

Quanti turbamenti si eviterebbero nelle chiese se sapessimo esporre solo al Signore, “in segreto”, gli esercizi dei nostri cuori e le sofferenze che proviamo! Sarebbe stata certamente “una buona cosa”, perché così avremmo aspettato la liberazione del Signore, invece di ritardarla con la nostra agitazione. Il residuo giudeo, un giorno, davanti all’apostasia e alla potenza spiegata da Satana in Israele, si volgerà a Colui che è la salvezza, secondo l’espressione profetica di Giacobbe: “Io aspetto la tua salvezza, o Signore!” (Genesi 49:18).

Oggi la nostra risorsa consiste nell’esporre le nostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti (Filippesi 4:6).

E’ bene per l’uomo portare il giogo della (o nella) sua giovinezza (v. 27).

Pensiamo a Samuele e a Timoteo (1 Samuele 2:11, 18, 26; 2 Timoteo 3:14, 15). Il loro esempio ci fa vedere che il giogo del Signore consiste nell’imparare da lui, nell’ascoltare e serbare la sua Parola, ricordarsi del Creatore nella giovinezza, “prima che vengano i cattivi giorni e giungano gli anni dei quali dirai: Io non ci ho più alcun piacere” (Ecclesiaste 12:1, 3). Il Signore formi ancora, per la sua gloria e per il bene del gregge, degli uomini di Dio, “perfetti in ogni bene” (Ebrei 13:21).

– (v. 32) “Se affligge ha pure compassione, secondo la sua immensa bontà”.

E’ l’ultima menzione della bontà e della misericordia di Dio in questo capitolo. Siamo consolati nel sentire il profeta dire che il Signore non ci affligge volentieri e che, quando lo deve fare, ha anche compassione. “E’ stata un bene per me l’afflizione subita” (Salmo 119:71, 75), dice il salmista, riconoscendo l’amore di Dio anche nell’esercizio della correzione che, “sul momento, non sembra recar gioia, ma tristezza” (Ebrei 12:11).

Forse Paolo pensava al passo in cui Geremia esprime l’angoscia di Israele, quando ha scritto: “Dio ha forse ripudiato il suo popolo?” Ma poi ha ahhiunto, nella certezza dell’amore divino: “No di certo!” (Romani 11:1). A più forte ragione, noi che abbiamo piena conoscenza della grazia di Dio, possiamo trovare nel giorno della nostra angoscia quele consolazioni e quelle certezze che anche Israele proverà quando si pentirà d’aver ucciso il suo Messia e sarà riabilitato.

“Il nostro Dio… compia con potenza ogni vostro buon desiderio e l’opera della vostra fede, in modo che il nome del nostro Signor Gesù sia glorificato in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e Signore Gesù Cristo” (2 Tessalonicesi 1:11, 12).

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