L’epistola di Paolo ai Romani

 

Introduzione

 

 L’autore della Lettera ai Romani

La Lettera ai Romani fu scritta da Paolo, Apostolo di Gesù Cristo, dottore ed Evangelista fra più grandi della storia del Cristianesimo. Di lui abbiamo alcune notizie che elenco in breve. Nacque a Tarso di Cilicia verso l’anno 7 d.C. da famiglia Ebrea, della tribù di Beniamino, che aveva ottenuto cittadinanza romana. Il suo nome ebreo è Saulo (che è Saul, come il primo re di Israele, anch’esso di quella tribù), ma ebbe anche un nome latino, Paolo; con quest’ultimo è quasi sempre chiamato nel Nuovo Testamento. Dall’età di sei anni fu istruito a Tarso presso la scuola rabbinica; ma verso i 12 anni fu portato a Gerusalemme alla scuola di Gamaliele, uno dei più celebri maestri di quel tempo. Divenne così un profondo conoscitore degli scritti del Vecchio Testamento e uno zelante difensore della Legge, tanto che aderì alla setta dei Farisei, come egli stesso racconta ai Filippesi: “Io, circonciso l’ottavo giorno, della razza di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio di Ebrei; quanto alla legge, fariseo; quanto alla giustizia che è nella legge irreprensibile” (Filippesi 3:5-6).

Non ebbe l’occasione di conoscere personalmente Gesù Cristo, forse perché assente dalla Palestina nei giorni del suo ministero, ma fu una accanito oppositore del cristianesimo nei primi tempi della sua diffusione. Egli stesso scrive: ”Perseguitavo a oltranza la chiesa di Dio, la devastavo” (Galati 1:13-14), “rinchiusi nelle prigioni molti santi; e quando erano messi a morte io davo il mio voto. Spesse volte, in tutte le sinagoghe, li costrinsi mediante torture a bestemmiare; e, infuriato oltremodo contro a loro, li perseguitai fin nelle città straniere” (Atti 26:10-11).

Ma un giorno, mente si recava a Damasco, per una missione punitiva contro i cristiani, una violenta luce lo fece cadere da cavallo e il Signore gli parlò dal cielo (Atti 9:1-19). Fu la sua conversione. Da allora, trasformato dalla grazia di Dio, Saulo divenne un fedele servitore di Cristo e un potente messaggero del Vangelo, “uno strumento scelto” per portare il nome del Signore “davanti ai popoli, ai re e figli d’Israele”.  Paolo non fu solo evangelista;  fu anche dottore. A lui dobbiamo il maggior numero di scritti del Nuovo Testamento: 13 lettere (14  se quella agli Ebrei è sua).  Di tutti questi scritti, la Lettera ai Romani e senz’altro la più importante.

La Lettera ai Romani

La Lettera di Paolo ai Romani fu scritta verso l’anno 56-57. Fa parte delle lettere indirizzate alle chiese, come quelle ai Tessalonicesi, ai Galati, ai Corinzi, agli Efesini, ai Filippesi, ai Colossesi. Nel Nuovo Testamento è messa per prima per il suo valore, non perché sia la prima che Paolo abbia scritto; forse è la quinta, in ordine di tempo. Essa fu redatta a Corinto; materialmente fu scritta dal fratello Terzio, sotto dettatura dell’apostolo che, durante la sua ultima visita in quella città, era ospite del fratello Gaio in casa del quale anche tutta la chiesa si radunava (Atti 20:2; 2 Corinzi 13:1; Romani 16:22-23). La Lettera ai Romani contiene le basi della dottrina Cristiana e occupa come già si è detto, un posto di primo piano fra gli scritti del Nuovo Testamento. Tutta la potenza dello Spirito Santo traspare da queste pagine e si impone alla coscienza di chi legge facendo luce sulle più grandi rivelazioni di Dio e rispondendo ai più cocenti problemi umani. Da questa lettera capiamo il vero carattere e gli scopi della Legge di Mosè, veniamo a sapere che tutti gli uomini, compresi i Giudei, sono peccatori e hanno bisogno di un intervento di Dio in grazia. Così Cristo è rivelato come unico mezzo di salvezza, e la fede in Lui l’unico mezzo per essere giustificati da Dio. Una buona parte della lettera è anche dedicata all’opera dello Spirito nel credente e nella nuova vita, alla consacrazione che il Signore richiede dai suoi, alla santificazione giornaliera.

Una suddivisione per sommi capi degli argomenti trattati in questa lettera potrebbe essere questa:

Introduzione e tema
Cap. 1:1-17
Chiamata e progetti di Paolo.
L’Evangelo.
La giustizia di Dio rivelata sul principio della fede.

Dottrina di base
Cap. 1:18 a 3:20
Totale rovina dell’uomo.
Universalità del peccato.

Cap. 3:21 a tutto il capitolo 8
La giustificazione per la fede in Cristo.
I credenti morti con Cristo e risuscitati con Lui ad una vita nuova.
L’affrancamento dal potere del peccato e dalla schiavitù della legge.
I credenti non più nella carne, ma nello Spirito.
L’adozione come figli.

L’Evangelo e Israele
Capitoli 9 a 11
L’incredulità di Israele.
Le promesse fatte ai padri.
Riabilitazione futura di Israele.

Parte pratica
Capitoli 12 a 15.
La consacrazione a Dio.
Il comportamento del credente nella vita di ogni giorno.

Conclusione
Capitolo 16
Saluti a vari fratelli e sorelle.
Ultime raccomandazioni.

CAPITOLO 1

INDIRIZZO E SALUTI

Paolo (*), servo di Cristo Gesù, chiamato ad essere apostolo, messo da parte per il Vangelo di Dio,” (v.1)

È molto bello che l’apostolo si presenti così: Paolo “servo” (**). Per lui è un onore definirsi in questo modo. Il servo di Cristo è l’uo­mo più libero che esista. Nella sottomissione a Gesù Cristo la libertà raggiunge la sua più alta espressione. Anche Giacomo, Pietro, Giuda, Giovanni si dichiarano servi di Cristo, e ne erano certamente fieri. Noi tutti che crediamo al Signore siamo servi; siamo stai  affrancati dal peccato e “fatti servi di Dio” (Romani 6:22). Per questo è ripetuto più volte che dobbiamo “servire” Lui come si serve un signore, un padrone, un capo, uno più in alto di noi. Come dovremmo essere fieri di poter servire un Signore così grande, che ci ha amati fino a  dare la sua vita per noi!

Ma come a ogni servo è affidato un compito, così a Paolo è stato affidato il compito di portare agli uomini il Vangelo di Dio. Apostolo significa “inviato, messaggero”. Paolo sapeva di essere stato “messo da parte”, vale a dire scelto per quello scopo preciso. E ne era tanto convinto che in quasi tutte le sue lettere si definisce apostolo per volontà di Dio”, oppure “predicatore e apostolo”. Nei giorni della sua conversione, sulla strada per Damasco, il Signo­re aveva rivelato ad Anania cosa ne avrebbe fatto di Saulo: “Egli è uno strumento che ho scelto per portare il mio nome davanti ai popoli ai re e ai figli di Israele, perché io gli mostrerò quanto debba soffrire per il mio nome” (Atti 9:15).   Anche se nella maggior parte dei casi il termine apostolo è usato, nel Nuovo Testamento, per designare i “dodici” discepoli del Signore, in altre occasioni lo stesso appellativo è dato a vari servi­tori di Cristo come Barnaba, Andronico, Giunio, Silvano, Timo­teo, oltre che Paolo. Anche oggi un credente inviato con una missione o un servizio speciale è in un certo senso un apostolo del Signore. Il Vangelo (***) è una buona notizia. Undici volte questo termine ricorre nella lettera ai Romani. Ma in cosa consiste? Di chi parla? Qual è il suo scopo?

“che Egli aveva già promesso per mezzo dei suoi profeti nelle Sante Scritture riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davi­de secondo la carne, dichiarato Figlio di Dio con potenza secon­do lo Spirito di santità, mediante la sua risurrezione dai morti; cioè Gesù Cristo, nostro Signore,” (v. 2-4)

Il Vecchio Testamento, per bocca dei profeti, preannunciava già un’ opera di grazia di Dio verso l’uomo, per mezzo di Gesù Cristo. La promessa di un salvatore risale al tempo di Adamo ed Eva (Genesi 3:15), e in tutte le “Sante Scritture” lo Spirito Santo, che ne è il vero autore, rivela qualcosa di Lui. Più di 330 profezie che lo riguardano si sono adempiute; altre si adempiranno in un pros­simo futuro. Secondo la carne, cioè come uomo, il Signore Gesù è discendente del re Davide; nei vangeli di Matteo e di Luca c’è la sua genealogia (****). È uomo perfetto, senza peccato, e nello stesso tempo Figlio di Dio con tutta la “pienezza della deità” nel suo esse­re. Uomo e Dio, nella sua essenza e nella sua persona. Sulla terra, lo Spirito Santo si è manifestato in Lui non solo nel modo con cui è nato e nelle opere potenti che ha compiuto, ma anche nella purezza assoluta della sua vita, nella sua totale separazione dal male, perché lo Spirito è “lo Spirito di santità”. La risurrezione di Cristo dai morti ne è la conferma. “Tu non permetterai che il tuo santo subisca la decomposizione” scrisse Davide profetizzando di Lui (Salmo 16:10). Il fatto che Gesù Cristo sia stato risuscitato è la prova che il Padre ha pienamente gradito Lui e l’opera sua.

Gesù Cristo non è stato creato. Egli è Figlio di Dio da ogni eter­nità; ed è, nello stesso tempo, uno col Padre. La nostra mente coi suoi ragionamenti logici non riesce a spiegare questo, ma la Paro­la ce lo insegna molto chiaramente e noi dobbiamo crederlo. I passi di Giovanni 1:1 e 17:5, 1 Giovanni 5:20, Tito 2:13 non lasciano adito ad alcun dubbio.

Figlio di Dio è solo Lui. Come esseri umani noi non siamo figli di Dio, ma creature, e per di più peccatori. Solo per la fede in Cristo diventiamo figli di Dio, come dice il Vangelo: “A tutti quelli che l’hanno ricevuto Egli ha dato il diritto di diventare figli (*****) di Dio: a quelli, cioè, che credono nel suo nome” (Giovanni 1:12).

“per mezzo del quale abbiamo ricevuto grazia e apostolato perché si ottenga l’ubbidienza della fede fra tutti gli stranieri, per il suo nome — fra i quali siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo —” (v. 5-6).

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(*) Il suo nome ebraico è Saulo, ma a partire dall’episodio della conversione di Sergio Paolo, proconsole di Cipro (Atti 13:9), è chiamato Paolo (che significa piccolo).
(**) In greco “ doulus” che significa schiavo
(***) Dal greco “eugghelion” che significa buona notizia, buona novella.
(****)La genealogia di Matteo parte da Abramo e arriva a Giuseppe, marito di Maria; Matteo presenta il Signore come Messia e re di Israele. Quella di Luca parte da Giuseppe (ma è la genealogia di Maria) e arriva fino a Adamo; Luca presenta il Signore come uomo.
(*****) Nel testo greco sono usati due termini ben distinti per indicare figlio: “uios” e “tecnon”. Il primo, che indica la relazione di figlio, è usato sia per il Signore che per noi uomini; ma il secondo, che ha più attinenza con l’essere generato, non è mai usato per il Signore.

Dio chiama e manda. Chi crede riceve la sua grazia e si incam­mina su un sentiero di ubbidienza e di servizio. Per Paolo e i suoi collaboratori il campo di servizio erano soprattutto i popoli paga­ni. Questi sono chiamati, nel testo originale, “le nazioni” o “gli stra­nieri” o “i Gentili” perché così il Vecchio Testamento definiva tutti i popoli che non erano Israele; e poiché solo Israele aveva la cono­scenza del vero Dio e gli altri popoli adoravano il termine Gentili è diventato quasi sinonimo di idolatri, o pagani. Ma la grazia di Dio non era solo per gli Ebrei; era per “gente d’ogni tribù, lingua popolo e nazione” (Apocalisse 5:9) e il Vangelo doveva arri­vare fino agli estremi confini del mondo.

La predicazione del Vangelo mette ogni uomo di fronte all’o­pera di salvezza compiuta da Cristo sulla croce e annuncia che Dio è pronto a perdonare ogni peccatore pentito che accetta Gesù Cristo come suo Salvatore. Dio vuole non solo fiducia, ma fede. Chi crede a ciò che Dio ha detto e ha fatto, gli ubbidisce. Ai Giudei che domandavano: “Che dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?” il Signore ha risposto: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in Colui ch’Egli ha mandato” (Giovanni 6:28-29).

L’ ubbidienza della fede è il risultato della potenza del Vangelo sull’anima, la vittoria in quella santa guerra combattuta da ogni vero credente per distruggere “i ragionamenti e tutto ciò che si eleva orgo­gliosamente contro la conoscenza di Dio facendo prigioniero ogni pensiero fino a renderlo ubbidiente a Cristo” (2 Corinzi 10:4-5). I credenti di Roma avevano vissuto questa bella esperienza.

“a quanti sono in Roma, amati da Dio, chiamati a essere santi (*), grazia a voi e pace da Dio, nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo.” (v. 7).

Dio ci ha amati quando eravamo ancora peccatori, e lo ha dimo­strato col dono del suo Figlio.

Ora che siamo suoi ci ama in Cristo, come un padre amai propri figli. È un amore infinito com’è infinito Lui, eterno com’Egli è eter­no. Se il mondo ci odia, l’amore del Padre è la nostra sicurezza e la nostra forza.

La fede fa dei credenti dei santi (**), non perché da quando hanno creduto siano perfetti e non pecchino più, ma perché sono purificati dal sangue di Cristo (1 Giovanni 1:7). Possiamo dire che ci sono due aspetti della santità:

La santità data da Dio a ogni riscattato del Signore. È un dono della sua grazia e una garanzia della nostra salvezza. Contrariamente a ciò che molti credono, i “santi” non sono soltanto alcuni credenti particolarmente fedeli, ma tutti i veri credenti. Nessuno né nulla potrà mai togliere questa santità a chi è nato di nuovo per la fede in Cristo. Ad essa fa certa­mente riferimento il v. 7. Tutti i credenti quindi sono santi, indipendentemente dalla loro devozione (***).

La santità “pratica”, quella che deve caratterizzare la nostra vita: è la separazione dal mondo e dal male, il rifiuto di tutto ciò che disonora il Signore, il non voler più accetta­re di condividere modi, abitudini e mezzi non conformi alla volontà di Dio (1 Giovanni 2:15). Questa è compito nostro, è nostra responsabilità, e richiede continuo impegno. Con essa dimostriamo la realtà della nostra fede e del nostro amore per il Signore, e diamo una testimonianza coerente al nostro Padre che è santo. A questo tipo di santità si riferiscono i versetti seguenti:

“Come Colui che vi ha chiamati è santo, anche voi siate santi in tutta la vostra condotta” (1 Pietro 1:15).

“Poiché questa è la volontà di Dio,  che vi santifichiate (o meglio: la vostra santificazione)” (1 Tessalonicesi 4:3).

“Ora, liberati dal peccato e fatti servi a Dio, avete per frut­to la vostra santificazione e per fine la vita eterna” (Romani 6:22).

Paolo conclude questa introduzione alla sua lettera con un bellissimo augurio: “Grazia a voi e pace”. La grazia di Dio l’avevano già ricevuta quando avevano creduto al Signore. Ma la grazia Che Paolo augura loro è il favore di Dio del quale tutti noi abbiamo bisogno ogni giorno a causa delle nostre debolezze e della neces­sità di sentirci amati, capiti, accettati dal nostro Padre e di realiz­zare non solo intellettualmente che Egli ci accompagna in ogni momento della vita.

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(*) Il testo originale dice : “ santi chiamati”.
(**)Santo è la traduzione del greco “haghios” che significa sacro o santo. Questo termi­ne in origine si riferiva a qualcuno o a qualcosa che era protetto da una “sanzione” e quindi inviolabile perché consacrato da una legge.
(***)Pietro insegna che i santi, ancor prima della loro conversione, sono stati oggetti di un’opera speciale dello Spirito Santo definita “la santificazione dello Spirito” (1 Pietro 1:2) che consiste in un lavoro di preparazione, nei pensieri e attraverso svariate circostanze, finché quelli che hanno una buona disponibilità di cuore giungano “ad ubbidire e ad essere cosparsi del sangue di Gesù Cristo”.

Così è anche della pace. C’è la pace con Dio ottenuta una volta per sempre quando abbiamo creduto: “Giustificati per fede, abbia­mo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo” (5:1); questa nessuno ce la potrà mai togliere. Poi c’è la pace che Dio ci dà in base al nostro livello di comunione, di fedeltà, di preghiera, di umile sotto­missione, pace con noi stessi e con gli altri, pace nei momenti anche difficili della vita; ed è quella che Paolo augura qui ai Romani. Essa viene dal nostro Padre celeste, che è “il Dio della pace” (Filippesi 4:9), e dal Signore Gesù Cristo.

I sentimenti di Paolo verso i cristiani di Roma

“Prima di tutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la vostra fede è divulgata in tutto il mondo.” (v. 8)

Quando avremo imparato a ringraziare Dio “ prima di tutto” saremo molto più felici. I motivi non ci mancano, ma a volte non sappiamo vederli. Per Paolo il motivo di lode, qui, è la fede dei Romani nota ormai a tutte  le altre chiese. Non che fosse una fede più grande o diversa da quella degli altri credenti, ma perché desta­va sorpresa e contentezza che in una città così importante, capita­le dell’Impero, e così piena di idoli, l’Evangelo avesse raggiunto delle anime e le avesse conquistate. Anche la fama della fede dei Tessalonicesi si era sparsa in ogni luogo (1 Tessalonicesi 1:8) produ­cendo ringraziamenti a Dio  e dando conferme della sua potenza e del suo amore.

Il ringraziamento, precisa l’apostolo Paolo, è reso a Dio “per mezzo di Gesù Cristo”. È sempre Lui che intercede. È nel suo nome che possiamo con piena fiducia rivolgerci al nostro Padre, sia nella lode sia nella preghiera, essendo Lui l’unico tramite possi­bile fra l’uomo e Dio (vedere Giovanni 14:13).

“Dio, che servo nel mio spirito annunziando il Vangelo del Figlio suo, mi è testimone che faccio continuamente menzione di voi in tutte le mie preghiere, chiedendo che in qualche modo mi sia data finalmente, per volontà di Dio, l’occasione propizia di veni­re da voi.” (v. 9-10)

Il Vangelo del Figlio e il Vangelo di Dio sono la stessa cosa. Il progetto di salvezza è di Dio, l’esecuzione del progetto è del Figlio. Il servizio che Paolo compiva aveva delle motivazioni profonde perché era sostenuto da una consacrazione interiore. L’espressio­ne “che io servo nel mio spirito” potrebbe anche essere tradotta con “a cui io offro un culto spirituale” perché il verbo greco latreuo significa offrire a Dio un servizio, di qualunque tipo esso sia; infat­ti è tradotto con “servire” in molti altri passi, fra i quali Atti 27:23, Filippesi 3:3, 2 Timoteo 1:3, Ebrei 12:28.

Paolo ha sempre pregato per tutte le chiese (Efesini 1:16, Filip­pesi 1:3, Colossesi 1:3, 1 Tessalonicesi 1:2 ecc…) e ha anche chie­sto più volte che queste pregassero per lui (Colossesi 4:3, 1 Tessa­lonicesi 5:25). Pregare Dio in favore degli altri è il privilegio e il dovere  di ogni credente. Lo vediamo dall’ inizio alla fine delle sacre Scritture. Abramo ha interceduto per Lot (Genesi 18:23-33), e quanta ansia e quanto amore ha mostrato per questo suo nipote che rischiava di essere coinvolto nel castigo di Sodoma e dei suoi malvagi abitanti! E l’Eterno si è mostrato pienamente disponibile ad esaudire le sue richieste. Lo stesso si può dire di Mosè, fedele intercessore per il suo popolo anche nei momenti di maggiore infe­deltà. La preghiera del Signore in Giovanni 17 è chiamata “sacer­dotale” proprio perché è una preghiera di intercessione. “Pregate gli uni per gli altri, affinché siate guariti” (Giacomo 5:16).

I Romani non erano stati evangelizzati da Paolo, ma lui aveva un gran desiderio di vederli sia perché li amava, sia perché avreb­be potuto arricchirli nella conoscenza delle cose del Signore, come vedremo più avanti (v. 11). Alcuni pensano che la chiesa di Roma sia stata fondata da Pietro, ma non è avvenuto così, anche perché a Pietro era affidata la predicazione fra i giudei ( Galati 2:7) (*).

­­­­­­­­­­­­­­­Paolo, d’altronde, non ne fa alcun cenno. A portare il Vangelo a Roma sono stati probabilmente degli Ebrei che si trovavano a Gerusalemme il giorno della Pentecoste (Atti 2) e si erano con­vertiti alla predicazione di Pietro. Il fatto che Paolo usi più di versetti dell’Antico Testamento  in questa lettera dimostra che la presenza di giudei  era cospicua nella chimo di Roma.

Per far loro visita, Paolo aspettava pazientemente un-segnale della volontà di Dio, perché nessun progetto dev’essere portato a termi­ne se non si vede chiaramente che Lui è d’accordo. E questo tanto più quando si svolge un servizio che lo riguarda direttamente.

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(*) In base a recentissime scoperte, pare che Pietro sia passato per Roma; ma non è comunque lui che ha fondato quella chiesa.

 “infatti desidero vivamente vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale affinché siate fortificati; o meglio, perché quano sarò tra di voi ci confortiamo a vicenda mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io.” (v. 11-12)

Il vero servitore del Signore ha in vista solo il bene degli altri, e  mai la propria gloria o il proprio interesse. Questo è un metro di misura infallibile per capire se il servizio che uno svolge è fatto per a amore per Dio o è ispirato da motivazioni personali come l’orgoglio. Paolo voleva che quei credenti avessero più conoscenza,facessero dei progressi . Egli aveva dei doni spirituali e li avrebbe messi al loro servizio. Qualcuno pensa che lui, in quanto apostolo, fosse in grado di trasmettere dei doni ad altri credenti, ma lo possiamo escludere in base a quello ch’egli stesso dice al cap.12:6-8 e 1 Corin­zi 12:8-10. Qui i “doni” sono le ricchezze spirituali della fede.

Lo scopo finale era che fossero fortificati o “resi saldi”; e lo capiamo bene perché un credente debole, senza conoscenza e senza attaccamento al Signore, sí svia presto dal sentiero dell’ubbidienza e diventa facile preda dei nemici, che sono specialmente la nostra carne, il mondo e Satana. “Vegliate, state fermi nella fede, compor­tatevi virilmente, fortificatevi”. “Fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza”. i Il Dio di ogni grazia… vi renderà fermi e vi fortificherà” (1 Corinzi 16:13, Efesini 6:10, 1 Pietro 5:10).

Chi esercita un ministerio di insegnamento non deve mai farsi l’idea di dover sempre dare e di non aver mai nulla da ricevere dagli altri. Paolo, con discernimento e umiltà, riconosce di aver bisogno anche lui dell’incoraggiamento e del conforto dei suoi fratelli che hanno la sua stessa fede.

“Non voglio che ignoriate, fratelli, che molte volte mi sono proposto di recarmi da voi (ma finora ne sono stato impedito) per avere qualche frutto anche tra di voi, come fra le altre nazio­ni” (v. 13)

Non sempre i nostri desideri vengono esauditi; il Signore sa perché. Oppure vengono esauditi, ma non quando vorremmo noi, e la nostra pazienza è così esercitata e messa alla prova. Anche di questo dovremmo ringraziarlo poiché tutto quello ch’Egli fa è per il nostro bene. Non bisogna mai agire con indipendenza né forza­re la sua mano.

Ognuno di noi deve portare del frutto per il Signore, come il tralcio della vite di Giovanni 15. Il frutto è tutto quello che nei nostri pensieri, nelle nostre parole e nel nostro operare va alla gloria di Dio e a vantaggio degli altri. Soprattutto è la salvezza delle anime, alla quale possiamo contribuire con la nostra testimonianza in paro­le ed opere. Paolo pensava di raccoglierne un po’ da quei creden­ti di Roma per presentarlo a Dio. Forse, però, aveva in vista anche un aiuto in denaro per poter proseguire il suo viaggio verso la Spagna: “Spero, passando, di vedervi e di essere aiutato da voi a raggiungere quella regione” (15:24). Non si sa di preciso se questo progetto abbia potuto realizzarlo. Se è andato in Spagna c’è anda­to dopo il primo imprigionamento, ma non si è sicuri.

“Io sono debitore verso i Greci come verso i barbari, verso i sapienti come verso gli ignoranti; così, per quanto dipende da me, sono pronto ad annunziare il Vangelo anche a voi che siete a Roma.” (v. 14-15)

L’annuncio del Vangelo era un dovere per Paolo. A questa missione era stato chiamato ed egli viveva questo compito come una “necessità” che gli era imposta, un debito da pagare verso tutti gli uomini, colti o no, intelligenti o no. “E guai a me se non evan­gelizzo!… Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo  di tutti, per guadagnarne il  maggior numero …..Mi sono fatto ogni cosa a tutti per salvarne in ogni modo alcuni. E faccio tutto per il Vange­lo” (1 Corinzi 9:16).

Annunciare resto nella grande capitale dell’Impero era un obiettivo importante per Paolo, apostolo delle nazioni, anche perché una massiccia evangelizzazione in quella città cosmopolita  avrebbe favorito il diffondersi del Vangelo in tutto il mondo d’al­lora. Le persecuzioni non sarebbero mancate, ma non erano certo queste a fermarlo nella sua missione!

Giustizia attraverso la fede, tema della lettera
“Infatti non mi vergogno del Vangelo; perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; del Giudeo prima e poi del Greco; poiché in esso la giustizia di Dio è rivelata da fede a fede, com’è scritto: Il giusto per fede vivrà.” (v. 16-17)

La legge di Mosè coi suoi comandamenti, pur essendo stata data da Dio, non era riuscita a salvare nessuno perché nessun uomo è mai riuscito ad adempierla. Se qualcuno ne fosse stato capace, Dio l’avrebbe considerato “giusto” e quindi l’avrebbe salvato. Ma l’uo­mo, peccatore com’è, non può fare la volontà di Dio, per cui “dalle opere della legge nessuno sarà giustificato” (Galati 2:16).

Dio quindi interviene in altro modo. Se noi uomini siamo ingiu­sti, Egli, invece di mostrare la sua giustizia condannandoci, la mostra facendo cadere sul suo Figlio Gesù Cristo, alla croce, il castigo che noi avremmo meritato. Non è una meravigliosa rivela­zione? Ma questa giustizia sua Egli promette di darla all’uomo solo se crede, vale a dire sul principio della fede.

L’espressione “è rivelata da fede a fede” è più correttamente resa con “è rivelata sul principio della fede, per la fede”. Il principio non è più quello delle opere, “fa questo e vivrai”, ma quello della fede: Credi all’opera che io ho compiuto per te tramite il mio Figlio Gesù Cristo, e vivrai.

“Il giusto vivrà per la sua fede” . Questo passo del profeta Haba­cuc 2:4 è talmente importante che è ripetuto per ben tre volte nel Nuovo Testamento: Romani 1:17, Galati 3:11, Ebrei 10:38. Anche nell’antichità, quando gli Ebrei pensavano di potersi meritare la salvezza con le proprie opere, Dio che legge nei cuori salvava i fede­li sul principio della fede, avendo in vista il sangue che il suo Figlio avrebbe un giorno versato per pagare il debito dei loro peccati. Tutti gli uomini e le donne dell’antichità che incontreremo nel cielo saranno lì non per i loro meriti, ma per la fede che hanno avuta in Dio e per l’opera che Cristo avrebbe poi compiuta.

Il Vangelo è la potenza di Dio che opera per la salvezza di chi crede. Ci vergogneremo noi di annunciarlo? Paolo non se ne vergo­gnava, anche se passava per un sovvertitore di folle o predicatore di riti strani, ed era condannato come malfattore. Vergogniamoci pure dei nostri peccati e delle nostre incoerenze, ma non vergogniamoci mai del Signore! Egli  non si vergogna di chiamarci rate li (Ebrei 2:11). Gloriamoci in Lui e nella sua opera d’amore, come Paolo che diceva: “Non sia mai che io mi vanti di altro che della croce del nostro Signore Gesù Cristo, mediante la quale il mondo, per me, è stato crocifisso e io sono stato crocifisso per il mondo” (Galati 6:14). “Se uno si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice”, diceva il Signore ai discepoli, “anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre suo coi santi angeli” (Marco 8:38).

I peccati dei pagani
“L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia degli uomini che soffocano la verità con l’ingiustizia;” (v. 18)

Prima è parlato della rivelazione della giustizia di Dio, adesso della sua ira. Giustizia per la salvezza dell’uomo di fede, ira e giudi­zio per gli increduli e i ribelli. Dio è nel cielo, nella perfetta santità della sua natura. Non può sopportare il male che gli uomini commettono e odia il peccato; e dal cielo, ogni volta che ha dato una rivelazione di Sé, ha fatto sapere all’uomo che ogni iniquità verrà punita, sia sui pagani che non conoscono la verità, sia sui Giudei che, pur avendola conosciuta, la “soffocano” commettendo peccati di ogni genere. Dal cielo, d’ altronde, sono caduti più volte i suoi castighi, per far sapere all’umanità che ha dei doveri verso il suo Creatore. Il diluvio universale e la distruzione di Sodoma e Gomorra col fuoco sceso dal cielo (Genesi 7 e 19) sono esempi eloquenti della giusta ira di Dio contro ogni empietà e ingiustizia,da chiunque vengano commesse.

Empietà è il contrario di “pietà”. La pietà ( carattere di chi è “pio”) è il timore di Dio unito alla fiducia,  al rispetto e alla rive­renza verso la sua Persona e la sua Parola. L’empietà è il rifiuto di Dio, l’ostinazione a non tenere in alcun conto il suo volere, la mancanza di sottomissione e di rispetto verso di Lui.

“poiché quel che si può conoscere di Dio è manifesto in loro, avendolo Dio manifestato loro; infatti, le sue qualità (o perfe­zioni) invisibili, la sua eterna potenza e divinità (*), si vedo­no chiaramente fin dalla creazione del mondo essendo perce­pite per mezzo delle opere sue; perciò essi sono inescusabili,” (v. 19-20)

In altri termini: la potenza e la divinità di Dio, che sono di per se stesse invisibili, sono visibili ed evidenti nelle meraviglie del crea­to. Attraverso il creato l’uomo può acquisire una personale cono­scenza di Dio, perché esso è come una manifestazione di Dio ad ogni essere umano.

Nessuno può dire: Dio non esiste, perché tutte le cose create rivelano la sua esistenza. E nessuno può dire: non lo conosco, perché, dalla perfezione di un minuscolo fiore alla grandiosità di un cielo stellato, tutto rivela la sua sapienza infinita e la sua poten­za. Quelli che non credono a Dio e quelli che adorano gli idoli non saranno scusati.

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(*)In greco “Theiòtes”, divinità , come caratteristica di Dio. Un altro termine simile è “Theòtes” che significa deità, carattere intrinseco della natura di Dio (Colossesi 2:9).

Ad Atene, gli Ateniesi avevano eretto un altare al “dio scono-sciuto” che adoravano senza sapere chi fosse. “Ciò che voi adora­te senza conoscerlo, io ve l’annunzio” disse Paolo ai filosofi di quel­la città. E incominciò il suo discorso presentando loro il vero Dio, Creatore del cielo e della terra (Atti 17:24-31). “I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento annunzia l’opera delle sue mani” (Salmo 19:1-2).

“perché, pur avendo conosciuto Dio, non l’hanno glorificato come Dio, né l’hanno ringraziato,- ma si sono dati a vani ragionamen­ti e il loro cuore privo di intelligenza si è ottenebrato. Benchè si dichiarino sapienti, son diventati stolti, e hanno mutato la gloria del Dio incorruttibile in immagini simili a quelle dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili.” (v. 21-23)

Conoscere Dio non è come conoscere un uomo. Dio, e Lui solo, dev’essere adorato. Ma gli uomini, pur avendo davanti ai loro occhi lo spettacolo della creazione, non hanno ringraziato il Creatore. I loro ragionamenti, che si elevano “orgogliosamente contro la cono­scenza di Dio” (2 Corinzi 10:5), li hanno portati ad adorare le cose create, quelle visibili, al posto di Colui che le ha fatte. Pur creden­dosi sapienti, sono diventati moralmente “stolti”, insensati (Salmo 14:1). “Dov’è il sapiente, dov’è il dotto? Dov’è il filosofo di questo secolo? Non ha forse Dio dimostrato pazza la sapienza di questo mondo?” (1 Corinzi 1:20).

L’idolatria si è diffusa nel mondo fin dai primi tempi della storia dell’umanità, forse già a partire da Caino. Per 1600 anni Dio pazientò, poi venne il diluvio. Noè e la sua famiglia, scampati al dilu­vio, conoscevano Dio, ma le generazioni che seguirono riabbrac­ciarono di nuovo l’idolatria. Abramo, di famiglia idolatra (Giosuè 24:2 e 14), ebbe una straordinaria rivelazione di Dio, e divenne capostipite del popolo d’Israele che avrebbe dovuto mantenersi fedele al vero Dio, e conservarne e tramandarne la conoscenza. Ma anche fra gli Israeliti entrò il culto degli idoli e vi rimase, a fasi alter­ne, fino alla deportazione in Babilonia. Però i Giudei rientrati in Palestina dopo i settant’anni di deportazione non furono più idola­tri. Al tempo del Signore e degli apostoli c’erano indifferenza per le cose di Dio, freddezza, formalismo, incredulità, ma non idolatria.

“Per questo Dio li ha abbandonati all’impurità, secondo i desi­deri dei loro cuori, in modo da disonorare tra di loro i loro corpi,. essi, che hanno mutato la verità di Dio in menzogna e hanno adorato e servito la creatura invece del Creatore, che è bene­detto in eterno. Amen.” (v. 24-25)

L’uomo, lasciato a se stesso, non può che commettere atti impu­ri e vergognosi, come è spiegato più avanti, seguendo i desideri della propria natura peccatrice. Quelli che si inchinano davanti a uomini o donne, ad animali d’ogni genere, a immagini e statue, e dicono: Siete Dio! mutano la verità in menzogna. “Un tal uomo si pasce di cenere — dice il profeta Isaia — il suo cuore sviato lo ingan­na, al punto che non può liberarsene e dire: Ciò che stringo nella mia destra non è forse una menzogna?” (Isaia 44:20).

volte Dio, che si dichiara un “Dio geloso”, ordina agli Israeliti di non darsi all’idolatria e li minaccia di severissimi castighi qualora l’avessero fatto. “Non vi farete e non metterete in piedi né idoli, né sculture, né monumenti… perché io sono l’Eter­no (*), vostro Dio” (Levitico 26:1). Un giorno l’idolatria sarà puni­ta e scomparirà per sempre: “Quanto agli idolatri… la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo, che è la morte secon­da” (Apocalisse 21:8), il che significa separazione eterna da Dio.

“Perciò Dio li ha abbandonati a passioni infami: infatti le loro donne (**) hanno cambiato l’uso naturale in quello che è contro
natura; similmente anche gli uomini (***), lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri commettendo uomini con uomini atti infami, ricevendo in loro stessi la meritata ricompensa del proprio traviamento.” (v. 26-27)

Qui Paolo allude a chi pratica l’omosessualità che è un’abomi­nazione per Dio, uno dei più gravi peccati contro natura, tipico dei nostri giorni e di ogni epoca di grave decadenza morale. Il rifiuto consapevole di ubbidire a Dio fa sì. che Dio abbandoni gli uomini, schiavi delle loro passioni, all’orribile libertà che desiderano e a tutte le sue conseguenze.

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(*) Nella versione usata per questo studio, la Nuova Riveduta della Società Biblica di Ginevra, il tetragramma ebraico “YHWH” è stato tradotto con SIGNORE, in maiu­scolo per distinguerlo da Signore che è la traduzione dell’ebraico “Adhonai”. Ma YHWH significa “Egli è Colui che è” o l'”Io sono”, vale a dire “Colui che era, che è e che sarà”, cioè l’Eterno (leggere Esodo 3:13-14). “L’Eterno”, quindi, rende il vero significato e l’ho quindi preferito nelle citazioni di questo studio.
(**) Letteralmente “le femmine”.
(***) Letteralmente “i maschi”.

“Siccome non si sono curati di conoscere Dio, Dio li ha abban­donati in balia della loro mente perversa sì che facessero ciò che è sconveniente;” (v. 28)

Gli uomini
1. hanno mutato “la gloria di Dio in immagini” (v. 23)
2.hanno mutato “la verità di Dio in menzogna” (v. 25)
3.hanno mutato “l’uso naturale in quello che è contro natura” (v. 26).

Perciò Dio
1. li ha abbandonati “all’impurità” (v. 24) secondo i desideri dei loro cuori
2. li ha abbandonati “a passioni infami” (v. 26)
3.li ha abbandonati “in balia della loro mente perver­sa” (v. 28).

Noi abbiamo conosciuto l’amore di Dio nel Vangelo e ancora oggi, in mezzo alla corruzione e all’immoralità, abbiamo il grande privile­gio di annunciare Cristo per la salvezza dei peccatori. Ma è terribile quando l’umanità è lasciata a se stessa. Quando la Chiesa non sarà più presente nel mondo, essendo i credenti in cielo nella casa del Padre, cadranno sulla terra i terribili giudizi di Dio. Una parte di questi sarà dovuta proprio al caos creato dalla totale libertà degli uomini di fare la loro volontà, di sfogare le loro passioni, il loro egoi­smo, la loro voglia di vendetta e di indipendenza. L’umanità cono­scerà allora dei momenti spaventosi che è impossibile descrivere.

La “mente perversa” sono i pensieri, le ideologie, le filosofie di chi rifiuta Dio e che stanno alla base dei comportamenti. Solo la Sua Parola è una guida morale infallibile. Davide diceva: “Median­te i tuoi precetti io divento intelligente” (Salmo 119:104). Ma quan­do la Parola di Dio è abbandonata, le scale di valori sono alterate, il concetto di peccato è abolito, non si sa più discernere il bene e il male, e l’uomo diventa un essere infelice, preda di Satana.

Solo Dio può operare un “rinnovamento della mente” in grado di trasformare e radicalmente il nostro modo d’a ire (Romani 12:2)

 “ricolmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia; pieni di invidia, di omicidio, di contesa, di frode, di malignità; calun­niatori, maldicenti, abominevoli a Dio (*), insolenti, superbi, vanagloriosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori:, insensati, sleali, senza affetti naturali, spietati.” (v. 29-30)

Che quadro spaventoso! Ma l’uomo senza Dio è proprio così. Non che ogni essere umano raduni in sé tutti i difetti descritti in questi versetti e commetta tutti questi mali, ma ognuno ha qualcu­no di quei caratteri, perché la nostra natura umana, guastata dal peccato, è spontaneamente incline a simili cose.

Ma se così sono i pagani, come saranno i “cristiani” nel tempo che precede il ritorno del Signore e i giudizi sul mondo? La descri­zione che Paolo fa in 2 Timoteo 3:1-5 è sorprendentemente e triste­mente sovrapponibile a questa dei v. 29-30. Il rifiuto aperto di Dio o una forma esteriore di religiosità senza però un vero rapporto con Lui danno gli stessi risultati. Soltanto la fede in Cristo permette a Dio di operare nell’uomo una trasformazione radicale, facendolo rinascere a nuova vita. “E tali eravate alcuni di voi”, dice Paolo ai Corinzi dopo aver elencato vari tipi di peccatori; però aggiunge: “Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e mediante lo Spirito del nostro Dio” (1 Corinzi 6:9-11).

“Essi, pur conoscendo che secondo i decreti (**) di Dio quelli che fanno tali cose sono degni di morte, non soltanto le fanno, ma anche approvano chi le commette.” (v. 32).

Le giuste esigenze di Dio sono intimamente radicate nella coscienza dell’uomo; eppure, il male è commesso ugualmente, a volte anche con spavalderia e presunzione. Se non c’è timore di Dio non c’è rispetto per i suoi decreti e nemmeno paura del suo castigo. Il termine greco “dikàioma” oltre che decreto significa Anche atto di giustizia, sentenza. La morte del peccatore è, quindi ,ciò che richiede la giusta volontà di Dio . Commettere dei peccati è grave, ma è altrettanto grave associarsi a quelli che li commettono, condividere i loro principi, trovare soddisfazione e godimento insieme  a loro . Se approviamo il male ci mettiamo in contrasto con Dio, e pretendiamo anche di portarci al suo livello, in quanto dettiamo noi le nostre leggi che sono opposte alle sue e gli lanciamo una sfida.

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(*) In greco “Theostugheis”= odiati da Dio, non nel senso che Dio li odia, ma così malvagi da meritare la sua maledizione. Altre traduzioni hanno “odiatori di Dio” o “nemici di Dio”.
(**) In greco “dikaioma” che significa sia decreto sia sentenza

CAPITOLO 2

Il giusto giudizio di Dio

“Perciò, o uomo, chiunque tu sia che giudichi, sei inescusabile; perché nel giudicare gli altri condanni te stesso; infatti, tu che giudichi fai le stesse cose.” (v. 1)

Non basta giudicare gli altri per essere giusti! Vi sono stati, nel tempo, uomini saggi e con un giusto concetto dei valori morali che hanno reagito contro le forme più grossolane di malvagità e le hanno condannate apertamente. I filosofi e i moralisti non sono mai mancati. Ma come sono vissuti? Cos’ha visto Dio nella loro vita intima? Cos’ha letto nei loro pensieri?  “Tu, che giudichi – dice Paolo – fai le medesime cose”!

Non parliamo poi degli Ebrei che si ergevano a moralisti perché conoscevano le leggi di Dio, e prendevano con sdegno le distanze dai pagani corrotti. La loro storia ci dimostra che anch’essi hanno fatto “le medesime cose”.  I fondatori e i capi di ogni religione sono come i Farisei e i dottori della legge ai quali il Signore ha dovuto dire: “Voi pulite l’esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e di malvagità… Caricate la gente di pesi difficili da portare, e voi non toccate quei pesi neppure con un dito” (Luca 11:46).

“Ora noi sappiamo che il giudizio di Dio su quelli che fanno queste cose è conforme a verità.”  (v. 2)

Dio, che sa esattamente come stanno le cose, giudicherà ogni uomo con cognizione di causa e con giustizia, tenendo conto della conoscenza che ha avuto di Lui e della sua effettiva responsabilità, come vedremo al v.12. “Noi”, dice Paolo, noi credenti che abbiamo conosciuto Dio, sappiamo che si comporterà in questo modo e che il suo giudizio, e non il nostro, sarà conforme a verità.

“Pensi tu, o uomo, che giudichi quelli che fanno tali cose e le fai tu stesso, di scampare al giudizio (*) di Dio? Oppure disprezzi le ricchezze della sua bontà, della sua pazienza e della sua generosità (**) non riconoscendo che la bontà di Dio ti spinge al ravvedimento?” (v. 3-4)

Nessuno si senta migliore degli altri. Chi commette il male, anche se lo condanna nei propri simili,  non scamperà al giudizio divino. E se questo giudizio non è ancora stato eseguito è soltanto perché Dio ha pazienza e amore per la sua creatura. Qualcuno pensa che Dio debba colpire il male appena è commesso; e se ciò non avviene, crede che Dio non esista oppure che non intervenga negli affari degli uomini. A quest’idea già hanno risposto i saggi dell’Antico Testamento: “Siccome la sentenza contro un’azione cattiva non si esegue prontamente, il cuore dei figli degli uomini è pieno della voglia di fare il male… Ma non c’è bene per l’empio… perché non prova timore in presenza di Dio” (Ecclesiaste 8:11-13). “Tu hai fatto queste cose, io ho taciuto, e tu hai pensato che io fossi te; ma io ti riprenderò e ti metterò tutto davanti agli occhi” (Salmo 50:21).

La pazienza di Dio, comunque, ha un preciso scopo: spingere il peccatore a riconoscere le proprie colpe e a pentirsi. Se il peccatore è indifferente e il ravvedimento non avviene, l’amore e la pazienza di Dio sono disprezzati e questa sarà un’ulteriore colpa, imperdonabile, che peserà su di lui nel giorno del giudizio.

E noi, come dobbiamo comportarci col giudizio del male?

  1. Il male va identificato, giudicato e tolto, prima di tutto da noi stessi e dalla nostra vita.
  2. Non dobbiamo essere ipercritici e intransigenti verso i nostri fratelli, né attribuire loro colpe che non hanno o intenzioni malvage che non possiamo verificare. Il Signore e gli apostoli ci insegnano a non giudicare i nostri fratelli: “Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato” (Luca 6:37). “Col giudizio col quale giudicate sarete giudicati” (Matteo 7:2). “Tu chi sei che giudichi il tuo prossimo?” (Giacomo 4:12).
  3. Siamo però anche esortati a non essere indifferenti verso i peccati dei nostri fratelli. L’amore ci deve spingere a esortare e a riprendere chi è caduto, e a pregare per lui. Se ci sono peccati gravi e un ostinato rifiuto ad abbandonarli, la chiesa ha l’obbligo di giudicare il colpevole e toglierlo di mezzo a loro (1 Corinzi 5, Tito 3:10, 2 Giovanni 10). E ciò va fatto per ubbidienza al Signore e per evitare che il male si propaghi, come fa il lievito nella pasta.
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    (*) In greco “crima” = giudizio, decisione, ma anche sentenza, condanna.
    (**) In greco “macrozumia” =  generosità ma anche longanimità, sopportazione che si prolunga nel tempo.

Notiamo anche l’espressione: “Le ricchezze della sua bontà, della sua pazienza e della sua generosità”. Tutto quello che Dio dà è ricco e abbondante, come si può dedurre da questi passi:

– “La grazia di Dio e il dono della grazia… sono stati riversati abbondantemente su molti” (Romani 5:15)

– “La grazia che abbonda… moltiplichi il ringraziamento” (2 Corinzi 4:15)

– “Le ricchezze della sua grazia ch’Egli ha riversato abbondantemente su di noi” (Efesini 1:8)

– “L’immensità della sua potenza” (Efesini 1:19)

– “Dio è ricco in misericordia” (Efesini 2:4)

– “L’immensa ricchezza della sua grazia” (Efesini 2:7)

– “Il mio Dio provvederà abbondantemente ad ogni vostro bisogno, secondo la sua  ricchezza in Cristo Gesù” (Filippesi 4:19)

– “La ricchezza della gloria del mistero di Dio fra i pagani” (Colosses1:27)

– “Avete tutto pienamente in Lui” (Colossesi 2:10)

– “La grazia del Signore nostro è sovrabbondata” (1 Timoteo 1:14)

“Tu, invece, con la tua ostinazione (*) e con l’impenitenza del tuo cuore, ti accumuli un tesoro (**) d’ira per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio. Allora Egli renderà a ciascuno secondo le sue opere: vita eterna a quelli che con la perseveranza nel fare il bene cercano gloria, onore e immortalità (***); ma ira e indignazione a quelli che sono contenziosi e invece di ubbidire alla verità ubbidiscono all’ingiustizia.”  (v. 5-8)

L’umanità la si può dividere in due grandi categorie: i veri credenti e gli increduli:  o, in altre parole, chi ha fede e chi non l’ha. I primi sono quelli che si sono pentiti dei loro peccati; gli altri sono gli ostinati, i “duri”, che non hanno voluto riconoscere il loro stato di colpa davanti a Dio. I primi, perseverando nel bene, dimostrano di avere degli obiettivi precisi che sono poi le promesse del Signore: gloria, onore e immortalità; gli altri, purtroppo, dovranno subire l’ira di Dio contro il peccato e il suo giusto castigo.

I credenti avranno la vita eterna. Anzi, ce l’hanno già ora, dal momento che hanno creduto, ma la godranno realmente e pienamente quando entreranno nel cielo; sotto questo aspetto vanno intesi i passi di Tito 1:2 e Romani 8:24 che parlano della vita eterna come “speranza”. Altri passi, come 1 Tim. 6:12, Romani 6:22  e Giuda 21 (afferrare la vita eterna alla quale si è chiamati, avere per fine la vita eterna, aspettare la misericordia di Dio per avere la vita eterna), considerano la vita eterna non tanto come un dono attuale di Dio (Romani 6:23), ma piuttosto come l’obiettivo che il credente ha in vista, e che gli dà la forza di proseguire il suo cammino con gioia e fedeltà in mezzo alle difficoltà della vita sulla terra.

“Tribolazione e angoscia sopra ogni anima d’uomo che fa il male; prima del Giudeo e poi del Greco; ma gloria, onore e pace a chiunque opera il bene; prima del Giudeo e poi del Greco; perché davanti a Dio non c’è favoritismo.” (v. 9-11)

In base a questi passi si potrebbe pensare che si sia salvati per le buone opere, ma leggendo tutto il Nuovo Testamento si comprende che non è così. Abbiamo già anche visto al v.17 del cap.1 che “il giusto vivrà per fede”. Qui Paolo fa dunque un discorso generale. Prima che Cristo venisse, i Giudei e i Pagani erano valutati da Dio in base al loro comportamento, che poi altro non era che l’espressione della fede che c’era nei loro cuori e del timore che avevano di Lui, oppure dell’incredulità e del disprezzo per Dio.

Prima sono messi i Giudei, poiché conoscevano le leggi dell’Eterno e la sua volontà; poi i Greci (nel senso di pagani) con meno responsabilità in ragione della minore conoscenza. Vedremo, continuando lo studio di questa lettera, che nessuno è mai stato in grado di fare tutta la volontà di Dio, né Giudeo né pagano, e che l’unico mezzo col quale Dio può salvare gli uomini è l’opera compiuta alla croce dal suo Figlio Gesù Cristo.

La tribolazione e l’angoscia  sono cose terribili che ci fanno capire quanto siano tragiche le conseguenze della ribellione a Dio, e dovrebbero far riflettere seriamente. La gloria, l’onore, la pace, si godranno pienamente nel cielo, ma possiamo dire che, in senso spirituale, sono già fin d’ora la parte beata dei fedeli.

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(*)  In greco: “sclerotes” che significa durezza, asprezza
(**)  In greco: “thesaurizo” che è l’atto di  immagazzinare, di accumulare tesori
(***) In greco: “aftharsia” il cui vero significato è incorruttibilità e non tanto immortalità. L’incorruttibilità      richiama l’idea della risurrezione.

“Infatti, tutti coloro che hanno peccato senza legge (*), periranno pure senza legge; e tutti coloro che hanno peccato avendo la legge saranno giudicati in base a quella legge; perché non quelli che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che la osservano saranno giustificati.” (v. 12-13)

Chi pecca è sempre punito da Dio. Se io pecco infrangendo un regolamento di cui sono al corrente sarò punito come trasgressore del regolamento. Se pecco senza aver conosciuto il regolamento sarò punito lo stesso, perché il peccato è peccato e Dio, che è santo e giusto, non lo può accettare. I Giudei che si facevano vanto di conoscere la legge di Dio e poi peccavano trasgredendola, erano sullo stesso piano dei pagani che peccavano senza conoscerla.

Lo stesso principio vale anche per i cristiani solo di nome i quali, non avendo veramente creduto, non hanno la vita di Dio, non sono nati di nuovo. Essi dicono: Siamo cristiani, siamo credenti, ma non hanno ubbidito al Signore ricevendolo come il loro Salvatore. “Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Matteo 7:21).

E i veri credenti, che sono salvati per la fede in Cristo, devono ricordarsi che non è la semplice conoscenza che li renderà felici e utili al Signore, ma l’ubbidienza; perché conoscere non serve a nulla se poi non si ubbidisce. “Perché mi chiamate: Signore, Signore! e non fate quello che dico?” (Luca 6:46). “Se sapete queste cose, siete beati se le fate” (Giovanni 13:17).

“Infatti, quando i pagani, che non hanno legge, adempiono per natura le cose richieste dalla legge, essi, che non hanno legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge comanda è scritto nei loro cuori. Ne sono testimoni la loro coscienza e i loro pensieri che si accusano o anche si scusano.” (v. 14-15).

Un pagano può non uccidere e non commettere adulterio; può anche insegnare la giustizia, l’onestà, l’amore per il prossimo, come hanno fatto tanti illustri pensatori e filosofi del mondo greco e latino. In questo modo, adempiono alcune delle cose richieste dalla legge di Dio che essi però non conoscono. La loro coscienza li guida, e anche i loro pensieri che sono in grado di “scusare” o “accusare” gli atti commessi, ossia di approvarli o disapprovarli. Infatti, ogni essere umano ha in sé questo “metro di misura” divino, come una voce che viene dall’interiore, capace di segnalare ciò che è bene e ciò che è male. Però, l’ostinazione a commettere il male, l’assuefazione al peccato o una cattiva educazione ricevuta, possono alterare la coscienza e rendere questo metro di misura elastico o addirittura insensibile. Ma ciò non toglie che Dio l’ha messa in ognuno di noi, e noi ne siamo responsabili.

La coscienza del credente è resa sensibile dalla conoscenza del pensiero di Dio rivelato nella sua Parola. Paolo, sia come persona che come ministro di Dio, cercava di avere sempre una buona coscienza, in modo da non doversi rimproverare nulla di mal fatto. Alla chiesa di Corinto dirà: “Non ho coscienza di alcuna colpa” (1 Corinzi 4:4), e davanti al Sinedrio: “Fratelli, fino ad oggi mi sono condotto davanti a Dio in tutta buona coscienza” (Atti 23:1). Ma c’è anche la coscienza “cattiva” di chi non è in regola con Dio, quella “pura” di chi sa custodire fedelmente il mistero della fede (1 Timoteo 3:9), quella “segnata da un marchio” (o “cauterizzata”) dei falsi dottori che sviano i semplici dalla fede (1 Timoteo 4:2), quella “impura” dei contaminati e degli increduli (Tito 1:15), quella “debole” del fratello che non ha ancora capito che l’idolo non è nulla (1 Corinzi 8:12).

Riassumendo si può dire che la nostra coscienza può essere:

buona  quando abbiamo fatto con sincerità quello che ci pareva giusto, e quindi non ci rimprovera di nulla

cattiva  quando ci rimprovera di qualcosa che abbiamo fatto pur sapendo che era mal fatto

pura  quando il Signore non ha nulla da rimproverarci perché vede il nostro agire in sintonia con la sua volontà

debole  quando non siamo ancora ben saldi nella verità e non abbiamo una piena luce sui pensieri del Signore

– impura quando è diventata un metro di misura così alterato che ci fa trattare il peccato con indifferenza

cauterizzata  quando siamo diventati così insensibili al male da non sentirci nemmeno più in colpa se lo commettiamo

“Tutto ciò si vedrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo, secondo il mio Vangelo” (v. 16)

Quanti problemi ha risolto questo versetto! Ogni volta che viene da chiedersi come farà Dio a giudicare chi non ha mai conosciuto la sua Parola o non ha conosciuto Cristo, ci si può riferire a questa conclusione di Paolo. Guai se dovessimo essere noi a giudicare! Solo Dio conosce i segreti del cuore e dei pensieri di ogni essere umano, e sa come fare. Giudicherà con giustizia perché è perfettamente giusto e non commetterà errori.

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(*)  Il termine “legge” lo si trova ben 75 volte in questa lettera ai Romani, ed è di grande importanza, come avremo modo di vedere nel corso dello studio.

Responsabilità dei Giudei davanti a Dio
“Ora, se tu ti chiami Giudeo, ti riposi sulla legge, ti glori in Dio, conosci la sua volontà e sai distinguere ciò che è essenziale (*) , essendo istruito dalla legge, e ti persuadi di essere guida dei ciechi, luce di quelli che sono nelle tenebre, educatore degli insensati, maestro dei fanciulli, perché hai nella legge la formula della conoscenza e della verità.;” (v. 17-20)

Chi “conosce” pensa sempre di dover insegnare agli altri, ma il più delle volte non applica a se stesso quello che sa. Veramente la situazione dei Giudei era invidiabile, avendo essi ricevuto la rivelazione della volontà di Dio, della verità, formulata in modo preciso e completo.

I Farisei erano molto orgogliosi della loro conoscenza e ammaestravano il popolo. “Erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri” (Luca 18:9); e dicevano, come quello della parabola: “O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini…”. Ma il Signore insegnava: “Voi non vi fate chiamare maestro perché uno solo è il vostro Maestro… Non vi fate chiamare guide, perché una sola è la vostra Guida” (Matteo 23:8-10).

“come mai, dunque, tu che insegni agli altri non insegni a te stesso? Tu che predichi: Non rubare! rubi? Tu che dici: Non commettere adulterio! commetti adulterio? Tu che detesti gli idoli ne spogli i templi (**) ? Tu che ti vanti della legge disonori Dio trasgredendo la legge? Infatti, come è scritto, il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra fra i pagani.” (v. 21-24)

Gli Ebrei non sono quasi mai stati all’altezza dei privilegi che avevano ricevuto. In alcuni periodi della loro storia si sono comportati peggio dei pagani, al punto che il profeta Ezechiele deve scrivere: “Le figlie dei Filistei ti odiano e hanno vergogna della tua condotta scellerata… Io ho avuto pietà del mio Nome santo che la casa d’Israele profanava fra le nazioni dov’é andata” (Ezechiele 16:27 e 36:21).

Al tempo del Signore Gesù la situazione non era migliore, come capiamo dalle sue stesse parole: “Fate e osservate tutte le cose che vi diranno (gli scribi e i Farisei), ma non fate secondo le opere loro, perché dicono e non fanno… Guai a voi, scribi e Farisei ipocriti… stolti e ciechi!” (Matteo 23:1-36).

E noi cristiani siamo migliori? Cosa ne ha fatto la Chiesa della conoscenza della verità, dei privilegi e delle promesse del Signore? Molti movimenti definiti “cristiani” hanno dato una così brutta impressione che molti rifiutano il cristianeismo con disprezzo, anche quello vero e puro. Il Dio d’amore dell’Evangelo e l’opera del suo Figlio sono spesso derisi a motivo dell’infedeltà di quelli che si dicono suoi ministri. A noi l’impegno di onorare il suo santo nome e di fare in modo che “la Parola di Dio non sia bestemmiata” (Tito 2:5).

La traduzione: “Tu che detesti gli idoli ne spogli i templi” aggiunge un “ne” che non c’è nell’originale. Letteralmente è: “Tu che detesti gli idoli, spogli i templi”, ovvero commetti atti sacrileghi. Spogliare i templi, quindi, non pare si riferisca ai templi pagani depredati dagli Ebrei durante le guerre di conquista, ma piuttosto al fatto che anche le personalità religiose del popolo ebraico si sono sovente arricchite coi doni offerti dal popolo, sfruttando per fini disonesti la devozione dei fedeli e derubando Dio di ciò che appartiene a Lui (Malachia 3:8-10). Detestavano gli idoli ma approfittavano disonestamente delle cose del loro Dio! Il tempio, che doveva essere una “casa di preghiera” per tutte le genti, era diventato così un “covo di ladroni” (Marco 11:17).

“La circoncisione è utile se tu osservi la legge; ma se tu sei trasgressore della legge, la tua circoncisione diventa incirconcisione. Se l’incirconciso osserva le prescrizioni della legge, la sua incirconcisione non sarà considerata come circoncisione? Così, colui che è per natura incirconciso, se adempie la legge giudicherà te che, con la lettera e la circoncisione, sei un trasgressore della legge.” (v. 25-27).

Gli Ebrei erano tutti circoncisi. Questa forma di “amputazione” nel loro corpo veniva fatta a tutti i neonati maschi all’ottavo giorno di vita. L’ordine era stato dato ad Abramo (Genesi 17:9-14) e fu poi ripetuto a Mosè per suo figlio (Esodo 4:24-26). La circoncisione è sempre stata praticata fra gli Ebrei, salvo durante i quarant’anni di pellegrinaggio nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto (Giosuè 5:5). Anche ai tempi del Signore i Giudei andavano fieri di questo segno. Purtroppo, però, non sempre alla circoncisione della carne corrispondeva la “circoncisione del cuore”, vale a dire quella rinuncia a se stessi per la gloria di Dio che Dio s’aspettava dal suo popolo. In questo caso, il vanto del circonciso veniva a decadere, in quanto la “forma” priva della “sostanza” non ha valore per Dio e attira il suo castigo. “Io punirò tutti i circoncisi come gli incirconcisi… E tutta la casa d’Israele è incirconcisa di cuore” (Geremia 9:25-26). Così, un pagano non circonciso era in grado di giudicare un Giudeo che, pur avendo la Parola scritta (la lettera) e la circoncisione, era disubbidiente al suo Dio!

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(*)  In greco “diaferonta” (tradotto in Filippesi 1:10 con: “Distinguere tra il bene e il male”) che significa  distinguere le cose diverse  ma nel senso di migliori.. In questo caso sono quelle  che più si avvicinano al volere di Dio.
(**)  In greco “hierosyleo” che vuol dire commettere atti sacrileghi , come depredare un tempio

“Giudeo infatti non è colui che è tale all’esterno; e la circoncisione non è quella esterna (*), nella carne; ma Giudeo è colui che lo è interiormente (**); e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito non nella lettera; di un tale Giudeo la lode procede non dagli uomini ma da Dio.”  (v. 28-29)

Questa dev’essere stata una sorpresa per molti Giudei! Che l’Eterno sapesse leggere nei cuori, ogni Ebreo sincero lo sapeva; ma che la vera circoncisione non fosse quella del corpo ma quella del cuore, nello spirito, non era noto a tutti, perché la maggioranza di loro osservava la prescrizione scritta (la lettera) senza il minimo coinvolgimento interiore.

L’uomo ammira l’esteriore, la forma, ma Dio legge nei cuori e nei pensieri, e dà la sua approvazione (la lode) dove vede umiltà, amore per Lui, sincero desiderio di piacergli. L’insegnamento del Vangelo ha fatto chiarezza su questi princìpi, ma ci è voluto del tempo perché fosse ben compreso.  All’inizio del cristianesimo, anche fra i Giudei credenti in Cristo, l’idea di dover circoncidere tutti quelli che si convertivano al Signore era molto diffusa e fu difficile sradicarla; basta leggere la lettera di Paolo ai Galati per rendersene conto!

Con la fede in Cristo c’è una trasformazione radicale di tutto il nostro essere e una totale liberazione da ogni imposizione legale. “Quanto a me – scrive Paolo con un tono di vittoria – non sia mai che io mi vanti di altro che della croce del nostro Signore Gesù Cristo… Infatti, tanto la circoncisione che l’incirconcisione non sono nulla; quello che importa è l’essere una nuova creatura” (Galati 6:14-15).

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(*) Letteralmente: in modo visibile
(**) Letteralmente: in ciò che è nascosto, segreto

CAPITOLO 3

Privilegi dei Giudei

“Qual è dunque il vantaggio del Giudeo? Qual è l’utilità della circoncisione? Grande in ogni senso. Prima di tutto, perché a loro furono affidate le rivelazioni di Dio.” (v. 1-2)

Paolo incomincia qui a rispondere a una serie di domande e di ipotetiche obiezioni:

1° domanda: Se così stanno le cose, qual è il vantaggio del Giu­deo?

Molto grande, certamente. A loro è stata affidata in origine la rivelazione di Dio ed è tramite loro che il Vecchio Testamento è arrivato fino a noi; segno che l’hanno gelosamente custodito, anche se non l’hanno osservato come avrebbero dovuto. Dio non chie­deva a loro di “diffonderlo” fra i popoli; siamo noi cristiani che abbiamo l’ordine di annunciare la Buona Novella della salvezza (contenuta nel Nuovo Testamento) a tutte le nazioni, fino ai confi­ni più estremi della terra. I discendenti di Abramo erano stati desi­gnati dall’Eterno perché ricevessero le sue rivelazioni e le trasmet­tessero ai loro discendenti (Genesi 18:19).

Il vantaggio nell’essere Israelita c’era, ed era anche immenso. “Se ubbidite davvero alla mia voce e osservate il mio patto, sarete fra tutti i popoli il mio tesoro particolare… e mi sarete un regno di sacerdoti, una nazione santa” (Esodo 19:5). Tante volte è ripetuta la frase: “Tu sei un popolo consacrato all’Eterno, tuo Dio” (Deute­ronomio 7:6, 14:21, 28:1-14, ecc…).

“Che vuol dire infatti se alcuni sono stati increduli? La loro incredulità annullerà la fedeltà di Dio? No di certo! Anzi, sia Dio riconosciuto veritiero e ogni uomo bugiardo, com’è scritto: Affinché tu sia riconosciuto giusto nelle tue parole e trionfi quando sei giudicato.” (v. 3-4)

2° domanda: La loro incredulità annullerà la fedeltà di Dio?

La Lettera agli Ebrei dice: “Fedele è Colui che ha fatto le promesse” (10:23); quindi le manterrà, anche se alcuni non hanno creduto. Se così non fosse, Dio sarebbe bugiardo; invece, bugiar­do è l’uomo, e Dio è verace; ciò ch’Egli dice è vero e sicuro. Il brano citato qui da Paolo è tratto dal Salmo 51 v. 6 (o 4 secondo altre versioni) dove Davide racconta il suo travaglio interiore quando si è reso conto del grave peccato commesso, l’adulterio con Bath­-Scheba e l’uccisione del marito (2 Samuele 11). La sua confessio­ne si univa al riconoscimento che qualunque castigo Dio gli aves­se inflitto sarebbe stato giusto e meritato. Se poi qualcuno si permettesse di giudicare l’operato di Dio, sarebbe perdente ed Egli trionferebbe. Diceva Elihu a Giobbe: “Dovrà forse Dio rendere la giustizia a modo tuo, perché tu lo critichi?” (Giobbe 34:33).

“Ma se la nostra ingiustizia fa risaltare la giustizia di Dio, che diremo? Che Dio è ingiusto quando dà corso alla sua ira? (Parlo alla maniera degli uomini). No di certo! Perché, altrimenti, come potrà Dio giudicare il mondo?” (v. 5-6)

3° domanda: Dio è ingiusto quando dà corso alla sua ira?

È vero che il nostro peccato mette in risalto la giustizia di Dio, perché è come uno sfondo nero su cui risalta il candido splendore della giustizia e delle perfezioni divine. Ma dovrà Dio ringraziarci di questo? O dovremo noi essere contenti di aver peccato perché Dio abbia così potuto manifestarsi? Qualcuno avrà anche avuto il coraggio di dire di sì. Ma paolo risponde: No! Dio deve per forza intervenire ed il suo giudizio è perfetto, come abbiamo visto al cap. 2 v.2. quando alla fine dei tempi giudicherà il mondo, nessuno potrà fare ricorso; tutti quelli che non si sono messi al riparo del sangue di Cristo saranno condannati. Ma ammesso, per assurdo; che qualcuno avesse l’autorità per presentare un ricorso, vi rinuncerebbe in partenza in quanto il verdetto divino sarà conforme a  verità, e la pena esattamente commisurata alla colpa.

Ma se per la mia menzogna la verità di Dio sovrabbonda a sua gloria, perché sono ancora giudicato come peccatore? Perché non “facciamo il male affinché ne venga il bene”, come da talu­ni siamo calunniosamente accusati di dire? La condanna di costoro è giusta” (v. 7-8)

4° domanda: Perché sono giudicato come peccatore?

Se si mette a confronto la verità di Dio col peccato dell’uomo, la sua gloria è grandemente esaltata ed Egli ne riceve un onore tanto più grande. Infatti l’Evangelo insegna che Dio si glorifica nel perdo­nare il peccatore e nel fargli grazia per mezzo di Gesù Cristo, inve­ce che nel condannarlo secondo giustizia. Ma qualcuno pensa: Se Dio ne riceve gloria, perché io, che con le mie menzogne gli offro questo vantaggio, sono giudicato come peccatore? Anzi, facciamo il male di modo che ne esca sempre più beneficio per Lui e una gloria tanto più grande. Sono proposte pazzesche! L’evangelo che Paolo predicava e nel quale noi abbiamo creduto insegna tutt’altro.

Universalità del peccato

Che dire dunque? Noi siamo forse superiori? No affatto! perché abbiamo già dimostrato che tutti, Giudei e Greci, sono sottomes­si al peccato, com’è scritto: Non c’è nessun giusto, neppure uno.” (v. 9-10)

5° domanda: Allora, gli unici giusti sono i Giudei?

Forse qualche Giudeo, fiero dei propri privilegi, era convinto di sì. Sul peccato dei pagani nessuno aveva dubbi; ma loro, i Giudei, credevano di non essere come gli altri uomini. Non pensava così il Fariseo della parabola di Luca 18:11? Ma Paolo, che al v. 2 aveva messo in risalto la grandezza dei loro vantaggi, dimostra ora che tanto gli Ebrei quanto i non Ebrei, i Gentili, sono sotto il dominio del peccato. Conoscere Dio non vuol dire essere giusto. Avere la legge e non osservarla è un privilegio sprecato!

Il peccato è legato alla nostra natura umana per cui non c’è distinzione tra uomo ed un altro, Tutti sono peccatori, “non c’è nessun giusto”. È Dio che lo dice. Ora Paolo cita molti passi (esattamente sette) del Vecchio Testamento per dimostrare ai Giudei che le loro stesse Scritture, gli oracoli di Dio, che essi erano così orgogliosi di possedere, confermano questo principio. Questa prima citazione è del Salmo 14:3. Dio, che vede le cose dall’alto del suo cielo, dice: “Non v’è alcuno che faccia il bene, neppure uno”. Anche un amico di Giobbe, Elifaz, aveva detto: “Può il mortale essere giusto davanti a Dio? Può l’uomo essere puro davanti al suo Creatore? (Giobbe 4:17).

Non c’è nessuno che capisca, non c’è nessuno che cerchi Dio. Tutti si sono sviati, tutti quanti si sono corrotti (*). Non c’è nessuno che pratichi la bontà, no, neppure uno.” (v. 11-12)

La ricerca di Dio è innata nell’uomo. I filosofi di tutti i tempi hanno cercato coi loro ragionamenti di raggiungerlo, di conoscerlo, di spiegarlo. Come mai, allora, il salmo 14:1-3 citato qui dice che nessuno cerca Dio? Perché la vera ricerca di Dio va fatta con umiltà e per soddisfare un bisogno profondo dell’anima, e non per curiosità o per orgoglio. E quando c’è quest’ultima, il bisogno di conoscere Dio è già il risultato di un lavoro divino iniziato nel cuore: un lavoro del Padre (Giovanni 6:44), del Figlio (Luca 19:10), dello Spirito Santo (Giovanni 16:8), di tutti e tre insieme ( Romani 2:4)!

Chi si è sviato, chi vive per soddisfare le proprie passioni, non capisce”, non ha intendimento, non può sapere qual è la via giusta per arrivare alla conoscenza di Dio. Per questo “il mondo non ha conosciuto Dio mediante la propria sapienza” (1 Corinzi 1:21).

La Bibbia parla più di 80 volte della bontà di Dio, e ben poche volte di quella di un uomo. In molti passi “bontà e verità” vanno insieme, dal che possiamo dedurre che è impossibile praticare la bontà senza conoscere la verità di Dio.

“La loro gola è un sepolcro aperto; con le loro lingue hanno tramato frode; sotto le loro labbra c’è un veleno di serpenti. La loro bocca è piena di maledizione e di amarezza.” (v. 13-14)

Gola, lingua, labbra, bocca, dall’interno all’esterno non ce che male. Queste parole sono prese dai Salmi 5:9–10, 140:3–4, 10:7. Il sepolcro aperto lascia vedere il marciume che contiene; e, presto o tardi, questo disgustoso contenuto viene fuori. Quanto male si può fare con le parole! Maldicenza, calunnia, disprezzo, adulazione, falsa testimonianza, hanno prodotto e producono tuttora innume­revoli sofferenze. E dire che il privilegio di poter comunicare un pensiero con la parola è un dono del Signore e può fare tanto bene se è adoperato come Lui vuole! Noi credenti dobbiamo fare molta attenzione a come usiamo la lingua.

“I loro piedi sono veloci a spargere il sangue. Rovina e calamità sono sul loro cammino e non conoscono la via della pace. Non c’è timor di Dio davanti ai loro occhi.” (v. 15-17)

È una frase presa da Isaia 59:7-8. Anche oggi, come allora, vengono commessi omicidi con spaventosa leggerezza. C’è una corsa al crimine quando manca il freno della morale e il rispetto per la vita umana. Dove queste persone passano lasciano un’or­renda traccia di distruzione e di miseria. Ma non hanno la pace; non han conosciuto la strada per raggiungerla, che è quella del ravvedimento e della fede, in un’umile sottomissione alla volontà di Dio. “Non c’è pace per gli empi” (Isaia 48:22).

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(*) In greco è “hama ecreothesan” che vuol dire si sorto tutti resi inutili; qui il senso è che si sono resi inutili per Dio.

Il timore di Dio non è solo la paura del suo giusto castigo, ma è piuttosto il sacro rispetto, la devozione, l’ubbidienza, il timore di offenderlo, di trasgredire la sua parola: “Il timore dell’Eterno è odiare il male” (Proverbi 8:13). Senza timore di Dio l’uomo sulla terra è un povero relitto che va alla deriva, un essere senza guida e senza scopo, esposto a tutti gli attacchi di Satana. “Il timore dell’Eterno è il principio della scienza” ( Proverbi 1:7).

Or noi sappiamo che tutto quel che la legge dice lo dice a quelli che sono sotto la legge, affinché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio; perché mediante le opere della legge nessuno sarà giustificato davan­ti a Lui; infatti la legge dà soltanto la conoscenza del peccato.” (v. 19-20)

Questo è un po’ il riassunto di tutte le cose dette in precedenza riguardo ai Giudei. La legge impone ubbidienza a chi la conosce, ma il grave problema è che nessuno è capace di rispettare tutta la legge di Dio. Nessuno può osservarla dal mimo all’ultimo coman­damento e sempre. Si può non aver ucciso e non aver commesso adulterio, ma aver desiderato la donna o la roba di altri, o non aver amato Dio con quell’amore assoluto e totale ch’Egli richiede. Giacomo scrive che “chiunque osserva tutta la legge ma la trasgre­disce in un punto solo, si rende colpevole su tutti i punti” (2:10). La legge, quando impone di non fare una certa cosa, fa sapere implicitamente che quella cosa è peccato. Ma per essere conside­rati “giusti” da Dio ci vorrebbe un’osservanza continua di tutto ciò che richiede. Quante persone, ancora oggi, sperano di essere salva­te per le loro opere e si sforzano di comportarsi bene credendo di acquistarsi dei meriti per la salvezza! No. Nessuno di noi può guadagnarsi la vita eterna. Solo Dio può fare qualcosa. E l’ha fatto, sia benedetto il suo Nome, come vedremo fra poco.

Finora abbiamo dunque imparato che:

  1. É sempre stato possibile conoscere Dio, non fosse che attra­verso le meraviglie del creato (1:19-20)
  2. Chi non l’ha conosciuto è colpevole e senza scuse (1:20-21)
  3. In ogni uomo c’è la coscienza che lo aiuta a distinguere il bene dal male (2:14-15)
  4. I pagani, senza la legge di Dio, hanno peccato (1:22-32)
  5. I Giudei, pur conoscendo la legge di Dio, hanno peccato (2:17-29)
  6. Tutti gli uomini sono peccatori! (3:12 e 23)

La giustificazione attraverso la fede in Cristo

Ora, però, indipendentemente dalla legge, è stata manifestata la giustizia di Dio, della quale danno testimonianza la legge e i profe­ti: vale a dire la giustizia di Dio mediante la fede in Gesù Cristo, per tutti coloro che credono (*). Infatti non c’è distinzione:” (v. 21-22)

“Ora” Dio fa conoscere il suo piano di salvezza per i peccatori: dà Lui una “giustizia”, e la dà a tutti quelli che credono in Gesù Cristo. E. un dono gratuito, un dono della sua infinita grazia. Da ora in poi, l’uomo è considerato giusto da Dio, e quindi salvato, grazie alla fede in Gesù Cristo.

Questo meraviglioso argomento, che è il cuore del Vangelo, verrà ampiamente sviluppato nel corso di questa lettera ed anche in altri scritti del Nuovo Testamento, fra i quali:

  • Galati 2:16: “L’uomo non è giustificato per le opere della legge, ma lo è soltanto per mezzo della fede in Cristo Gesù”.
  • Efesini 2:8-9 “È per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere, affinché nessuno se ne vanti”
  • Filippesi 3:9: “Al fine di essere trovato in Lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha median­te la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio basata sulla fede”.

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(*) In alcuni testi è: “verso tutti, e sopra tutti quelli che credono”

Di questo progetto di Dio (la giustizia data a chi crede) il Vecchio Testamento offriva già qualche segnale, come si legge nei Salmi e nei Profeti spesso in riferimento al Messia che soffre e ai risultati della sua opera:

  • Isaia 51:5 “a mia giustizia è vicina, la mia salvezza sta per apparire”
  • Salmo 22:31: “Essi verranno e proclameranno la sua giustizia, e al popolo che nascerà diranno com’Egli ha agito”.
  • Isaia 53:5-12: “Egli è stato trafitto a causa delle nostre trasgres­sioni… il castigo, per cui abbiamo pace, è caduto su di Lui ….Il mio servo, il giusto, renderà giusti i molti e si caricherà egli stesso delle loro iniquità… perché egli ha portato i peccati di molti e ha interceduto per i colpevoli”
  • Daniele 9:24: per far cessare la perversità, per mettere fine al peccato, per espiare l’iniquità e stabilire una giustizia eterna”.

“tutti hanno peccato e sono privi (*) della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù.” (v. 23-24)

L’universalità del peccato è ancora una volta ribadita. Lo scopo del Creatore era che la sua creatura fosse partecipe della sua gloria, ma il peccato ha rovinato tutto; l’uomo si è abbrutito, si è corrot­to. Se Dio non fosse intervenuto in grazia col dono del suo Figlio, nessuno mai avrebbe ottenuto la sua gloria perché il destino del peccatore è solo la perdizione eterna, un eterna lontananza da Lui. Ma ora, chi crede al Signore diventa partecipe alla gloria celeste : “Per condurre molti figli alla gloria, Dio… era giusto che rendesse perfetto, per via di sofferenze, l’autore della loro salvezza” (Ebrei 2:10). “Dio vi chiama al suo regno e alla sua gloria” (1 Tessaloni­cesi 2:12). “Il Dio di ogni grazia… vi ha chiamati alla sua gloria eter­na in Cristo” (1 Pietro 5:10).

La redenzione è l’atto del riscattare, vale a dire di liberare qual­cuno (uno schiavo, ad esempio) dietro pagamento di un prezzo. Tutti gli esseri umani sono come schiavi, perché “chi commette il pecca­to è schiavo del peccato” (Giovanni 8:34), e Satana li tiene sotto il suo dominio. Ma, grazie siano rese a Dio! Egli “ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del suo amato Figlio” (Colossesi 1:13).

Possiamo notare che nel testo greco sono usati almeno quattro verbi, e relativi sostantivi, che le nostre Bibbie traducono con comprare o riscattare o liberare:

  1. Agorazo” che significa comprare, acquistare, comprare sul “Poiché siete stati comprati a caro prezzo. Glorifi­cate dunque Dio nel vostro corpo” (1 Corinzi 6:20)
  2. “Exagorazo” che significa comprare e portar via. “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge” (Galati 3:13).
  3. “Lutroo”, il più usato, che significa esattamente liberare dietro versamento del riscatto (Romani 3:24 e 8:23 e molti altri passi).
  4. “Peripoieomai” che significa acquistare per se stesso, per il proprio interesse (Atti 20:28).

L’espressione “la redenzione che è in Cristo” sta per: “ la redenzione che solo Lui può dare, che si ottiene solo per mezzo di Lui”

“Dio lo ha prestabilito come sacrificio propiziatorio mediante la fede del suo sangue, per dimostrare la sua giustizia, avendo usato tolleranza verso i peccati commessi in passato, al tempo della sua divina pazienza; e per dimostrare la sua giustizia nel tempo presente affinché Egli sia giusto e giustifichi colui che ha fede in Gesù.” (v. 25-26)

Propiziazione ed espiazione sono due diverse traduzioni di un unico temine che, sia in ebraico che in greco, esprime l’atto di “coprire”. Per quanto riguarda Israele Dio “copriva” momenta­neamente i peccati del suo popolo “usando tolleranza”, in attesa di prendere in mano tutta la questione del peccato per mezzo del suo Figlio Gesù Cristo e definirla una volta per tutte alla croce. L’Epi­stola agli Ebrei mette chiaramente in evidenza la “provvisorietà” dei riti del vecchio patto in contrasto con l’opera definitiva di Cristo che ha non coperto ma “annullato il peccato col suo sacrificio”.

Oggi, grazie all’opera di Cristo, Dio è favorevole non soltanto ai credenti ma a tutti gli uomini, prova ne è che la grazia e il perdo­no sono offerti a tutti: “Egli è la vittima espiatrice (o la propizia­zione) per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Giovanni 2:2). Ma è chiaro che solo i veri credenti godono delle conseguenze eterne e benedette di questo favore di Dio.

È bene comunque notare che la traduzione letterale è: “Dio lo ha presentato come propiziatorio”. Cosa significa? Per capire biso­gna riferirsi a quello che era il propiziatorio nell’Antico Testamen­to leggendo almeno due passi: Esodo 25:17-22 e Levitico 16:14. Il propiziatorio, fatto di oro battuto in unico pezzo con le figure di due cherubini , era osto sull’ arca che stava nella camera più interna ( il Luogo Santissimo) del Tabernacolo costruito da Mosè dietro ordine dell’ Eterno.

Su di esso, una volta all’anno, veniva versato il sangue di animali offerti in sacrificio; e Dio, vedendo il sangue, perdonava al popolo. Era una raffigurazione simbolica. La realtà è che Cristo, dandosi in sacrificio, ha versato il proprio sangue, e che questo sangue, sempre davanti a Dio in tutto il suo infinito valore, è in grado di cancellare i peccati di tutti quelli che credono. Ora, Dio ci presenta Cristo come “propiziatorio”, un mezzo di salvezza grazie al suo sangue versato sulla croce.
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(*)Dal greco “ustereo”. Meglio che “essere privi” si può tradurre: “non raggiungono.., nel senso che “non arrivano ad ottenere”

Prima di Cristo, Dio era paziente, “usando tolleranza” verso i peccati commessi nel tempo dell’Antico Testamento. La fedeltà personale di molti Israeliti e i sacrifici di animali che essi offrivano, in sostanza la loro “fede”, inducevano Dio a perdonare il colpevole perché Egli aveva in vista il sacrificio di Cristo che avrebbe un giorno pagato per loro . Dio non è intervenuto in giudizio verso i peccatori, in attesa c e maturassero i tempi per inviare il suo Figlio a compiere l’opera di salvezza. Anche oggi è un tempo di pazienza in cui la grazia di Dio chiama i peccatori a ravvedi­mento.

Egli manifesta così la sua giustizia:

  1. nell’aver giudicato sul suo Figlio i nostri peccati di cui si era caricato; prova evidente che il Dio giusto non può tollerare il male ma deve punirlo;
  2. nel giustificare chi ha fede in Gesù, in quanto il debito del peccato è stato pagato da Lui al prezzo della sua propria vita. “Se confessiamo i nostri peccati, Egli è fedele (verso di noi a cui ha promesso il perdono) e giusto (verso Cristo che ha pagato per noi) da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” (1 Giovanni 1:9).

“Dov’è dunque il vanto? Esso è escluso. Per quale legge? Delle opere? No, ma per la legge della fede; poiché riteniamo che l’uomo è giustificato mediante la fede senza le opere della legge.”(v.27 -28)

6° domanda: Non c’è dunque modo di vantarsi?

Ogni vanto è escluso. Infatti che vanto c’è se è Dio che ha fatto tutto e se le nostre opere non servono per ottenere la salvezza? “È per grazia che siete stati salvati, mediante la fede… Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti” (Efesini 2:8-9). “Nessuno si vanti di fronte a Dio… Chi  si vanta si vanti nel Signore” ( 1 Corin­zi 1:29-31).

L’espressione: il vanto è escluso “per la legge della fede” non significa che la fede sia una legge, o abbia una legge, ma sta ad indi­care che la fede, ottenendo la salvezza per un atto della sovrana grazia di Dio e senza alcun merito dell’uomo, impone (ecco il senso di legge) che nessuno si vanti.

Dio è forse soltanto il Dio dei Giudei? Non è Egli anche il Dio degli altri popoli? (*) Certo, è anche il Dio degli altri popoli; poiché c’è un solo Dio, il quale giustificherà il circonciso per fede e l’incirconciso ugualmente per mezzo della fede.” (v. 29-30)

7° domanda: Dio è solo Dio dei Giudei o lo è anche dei pagani?

La risposta per noi è evidente, ma non era così evidente per gli Ebrei i quali, essendo l’unico popolo che adorava il vero Dio, rite­nevano che Dio fosse solo loro. Purtroppo anch’essi, pur avendo le leggi del vero Dio, si sono dimostrati peccatori, come i pagani. Dio, allora, “ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per fare miseri­cordia a tutti” (Romani 11:32). Come il peccato è universale, così la giustificazione per fede è offerta a tutti, senza distinzione. “Anda­te per tutto il mondo — ha ordinato il Signore ai discepoli — e predi­cate il Vangelo a ogni creatura” (Marco 16:15)!

“Annulliamo dunque la legge mediante la fede? No di certo! Anzi confermiamo la legge.” (v. 31)

8° domanda: La fede annulla la legge di Dio?

La fede non spoglia la legge della sua autorità, anzi la stabilisce. Il fatto che si sia resa necessaria la giustificazione per la fede dimo­stra che quello che la legge esigeva era giusto, era quello che Dio voleva. Ma tramite la legge, l’uomo, che è incapace di osservarla, si trova sotto una giusta condanna. La fede non cancella questi principi, ma li stabilisce. Se Dio salva, non sul principio delle opere ma su quello della fede, lo fa perché conosce la nostra impotenza e il nostro stato di peccato.

Quelli che vogliono mettere i cristiani sotto gli obblighi dell’os­servanza della legge non confermano per niente la legge; anzi, rifiutano di riconoscere la maledizione che grava su chi pretende di salvarsi osservandola. “Infatti tutti quelli che si basano sulle opere della legge sono sotto maledizione; perché è scritto: Maledetto chiunque non si attiene a tutte le cose scritte nel libro dei legge per metter e in pratica” (Galati 3:10).
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(*) Letteralmente: dei Gentili, vale a dire di tutti i non Ebrei.

CAPITOLO 4

La giustificazione attraverso la fede: esempio di Abramo e di Davide

“Che diremo dunque che il nostro antenato Abraamo (*) abbia ottenuto secondo la carne? Poiché se Abraamo fosse stato giustificato per le opere egli avrebbe di che gloriarsi; ma davanti a Dio egli non ha di che gloriarsi;”  (v. 1-2)

Abramo, il “padre”, il capostipite degli Ebrei, fu un grande uomo. Dio lo chiama “amico” suo (Isaia 41:8, Giacomo 2:23). Nessun altro è chiamato così; solo di Mosè è detto che l’Eterno gli parlava come un uomo parla col proprio amico (Esodo 33:11). Si deve dunque pensare che, secondo la carne, cioè con le sue caratteristiche umane, abbia ottenuto qualcosa? Che si sia acquistato dei meriti davanti a Dio? Basta leggere il racconto della sua vita. E’ stato sempre fedele e ubbidiente alla volontà dell’Eterno? No. Se Dio lo ha considerato “giusto” non è certamente perché non ha mai peccato. Anche l’Israelita più ostinato, per poco che conoscesse la storia di quel grande patriarca, doveva capire questo. Se fosse stato giustificato per le sue opere avrebbe avuto di che vantarsi; ma non vediamo mai che Abramo abbia assunto questo atteggiamento.

Adesso Paolo invita a considerare quello che dice la Scrittura per inquadrare il problema nel modo giusto.

“infatti, che dice la Scrittura? Abraamo credette a Dio e ciò gli fu messo in conto come giustizia. Ora, a chi opera, la ricompensa non è accreditata come grazia, ma come debito; mentre a chi non opera, ma crede a Colui che giustifica l’empio, la sua fede è messa in conto come giustizia.”  (v. 3-5)

Una notte, l’Eterno fece uscire Abramo dalla tenda e gli disse: “Guarda il cielo e conta le stelle, se le puoi contare. E soggiunse: Tale sarà la tua discendenza” (Genesi 15:5-6).

Com’era era possibile? Abramo, ormai vicino ai cent’anni, non aveva avuto figli da Sara; e lei, che era stata sterile tutta la vita, aveva quasi novant’anni. Abramo aveva avuto Ismaele da una relazione con la serva Agar, ma l’Eterno gli disse chiaramente che non sarebbe stato quello il suo erede. Dunque, lui e Sara dovevano avere un figlio! Si trattava qui di mettere da parte ogni ragionamento e ogni logica umana, e prendere Dio in parola. E così fece Abramo. “Egli credette al Signore, che gli contò questo come giustizia”.

Non dobbiamo pensare che la fede conferisca dei meriti che Dio, essendo giusto, è obbligato a ricompensare. No. Né la fede né le opere danno dei meriti, ma Dio salva l’uomo che ha fede per un atto di grazia. Così, Abramo ricevette il titolo di “giusto” per un atto della grazia di Dio e non per delle opere compiute. La giustizia che Dio gli attribuì non era una “ricompensa” per una vita senza peccato (anche lui, nella sua natura, era un “empio” come tutti gli altri), ma una grazia fatta ad un uomo che aveva creduto con tutto il cuore alle parole dell’Eterno.

“Così pure Davide proclama beato l’uomo a cui Dio mette in conto la giustizia senza opere, dicendo: Beati quelli le cui iniquità sono perdonate e i cui peccati sono coperti. Beato l’uomo al quale il Signore non imputa (**) il peccato.” (v. 6-8)

Davide aveva commesso un grave peccato. Il Salmo 32, da cui Paolo ricava il passo citato, è un salmo di confessione, di umiliazione, ma anche di lode e di vittoria. Come potrebbe un peccatore dirsi beato ed esplodere in un canto di gioia al Signore se non fosse stato da Lui perdonato? Dio risponde sempre col perdono ad una confessione di peccato umile e sincera. Che merito ha un peccatore, sia pure pentito? Nessuno. Se Dio perdona lo fa perché è un Dio di grazia e di misericordia, e perché è giusto verso il suo figlio Gesù Cristo che, sulla croce, ha subito il castigo al posto del peccatore che si pente.

Quando il Signore non imputa il peccato è come se ritenesse che il peccatore non abbia peccato. E se “non imputa” il peccato può “imputare” la giustizia, ovvero considerarlo giusto. Ogni credente in Cristo si trova in questa meravigliosa situazione. I suoi peccati sono stati cancellati per sempre dal Suo prezioso sangue versato alla croce;  e Dio non se ne ricorderà mai più! 

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(*) L’Eterno, quando rinnovò al partiarca il suo patto e le sue gloriose promesse (Genesi 17:1-5), gli cambiò il nome da Abramo, che in ebraico significa “padre eccelso”, in Abraamo (o Abrahamo) che significa “padre di una moltitudine”. Nel corso di questo studio, per non creare confusioni, ho preferito mantenere il suo nome originale Abramo.
(**) “Mettere in conto” e “imputare” sono due diverse traduzioni di uno stesso termine (in greco loghizomai), e hanno il medesimo significato.

 “Questa beatitudine è soltanto per i circoncisi o anche per gli incirconcisi? Infatti noi diciamo che la fede fu messa in conto ad Abraamo come giustizia. In he occasione, dunque, gli fu messa in conto? Quando era circonciso o quando era incirconciso? Non quando era circonciso, ma quando era incirconciso;” (v. 9-10)

A questa prima domanda, qualsiasi Ebreo avrebbe risposto: la beatitudine di cui Davide parla è solo per noi che siamo circoncisi. Invece no, e Paolo lo dimostra. Abramo fu considerato giusto per la sua fede, quando ancora non era circonciso! A quell’epoca, infatti, egli aveva circa 75 anni, mentre quando fu circonciso ne aveva 99 (Genesi 17:1 e 26). Per un Ebreo, essere circonciso significava appartenere al popolo di Dio con tutti i vantaggi e i privilegi connessi. Come poteva Dio fare grazia a qualcuno che non apparteneva a quel popolo? Molti di loro pensavano che fosse addirittura la circoncisione a dare il diritto di essere considerato giusto. Ecco perché se ne facevano un gran vanto e disprezzavano quelli che non erano circoncisi.

“poi ricevette il segno della circoncisione, quale sigillo della giustizia ottenuta per la fede che aveva quando era incirconciso, affinché fosse padre di tutti gli incirconcisi che credono, in modo che anche a loro fosse messa in conto la giustizia;” (v. 11)

La circoncisione, a cui Abramo si sottopose molti anni dopo, fu quindi un segno esteriore, visibile, e indelebile come lo erano i sigilli a quel tempo,  di due importanti princìpi:

  1. della sua impossibilità di essere giusto per Dio
  2. della giustizia che invece Dio gli ha dato per il semplice fatto di aver creduto in Lui; cosa che avvenne prima che fosse circonciso.

Qui capiamo meglio il significato profondo di quella mutilazione della carne: essa valeva quale  segno di morte applicato alla natura umana. Essa testimoniava che l’uomo non può piacere a Dio a causa della sua natura peccaminosa e che deve mettere da parte ogni pretesa. Solo quando riconosciamo il nostro stato di morte davanti a Dio (“morti nelle vostre colpe e nei vostri peccati” Efesini 2:1), Dio può darci la vita che proviene da Lui, la vita del Cristo morto e risuscitato per noi.

Abramo così è diventato il padre, il capostipite, di tutti quelli che pur non essendo circoncisi (come i pagani) hanno fede in Dio e quindi sono giustificati; padre dei credenti di tutte le epoche e a qualunque nazione appartengano.

“e fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo sono circoncisi ma seguono anche le orme della fede del nostro padre Abraamo quand’era ancora incirconciso.” (*) (v. 12)

Abramo è padre di tutti gli Ebrei, quindi di tutti i circoncisi, essendo essi i suoi discendenti. Ma, in un altro senso, essendo stato il primo uomo di fede del quale è detto che Dio gli contò la fede come giustizia, egli viene considerato qui come padre di quei circoncisi che credono come ha creduto lui. E poiché, come abbiamo letto nel versetto precedente, egli è padre anche dei non circoncisi che credono, Abramo diventa il padre di tutti i credenti, il padre della fede.

“Infatti la promessa di essere erede del mondo non fu fatta ad Abraamo o alla sua discendenza in base alla legge, ma in base alla giustizia che viene dalla fede. Perché, se diventano eredi quelli che si fondano sulla legge, la fede è resa vana e la promessa è annullata; poiché la legge produce ira; ma dove non c’è legge non c’è neppure trasgressione.”  (v. 13-15)

L’Eterno aveva detto ad Abramo: “Io darò questo paese (Canaan) alla tua progenie” (Genesi 12:7). Poi gli aveva promesso che “in lui” sarebbero state benedette tutte le famiglie e tutte le nazioni della terra (Genesi 12:3 e 18:18). Questa sua eredità, questo suo “possedere il mondo” per la benedizione che grazie a lui tutti i popoli della terra avrebbero ricevuto, ha due aspetti:

  1. a) uno spirituale che si è perfettamente avverato con Cristo, discendente di Abramo, la cui opera alla croce è valida per la salvezza di tutti quelli che credono. L’Evangelo è stato predicato “fino all’estremità della terra” (Atti 1:8) e la grazia di Dio in Cristo ha varcato i confini della Palestina per estendersi a “gente d’ogni tribù e lingua e popolo e nazione” (Apocalisse 5:9).
  2. b) uno reale, storico. Infatti, i discendenti di Abramo erano destinati a possedere il mondo, e ciò sarebbe già avvenuto se fossero stati fedeli. Ma lo possederanno un giorno, sotto il regno di Cristo, sebbene dopo inaudite tribolazioni che li porteranno a un sincero pentimento e ad un’autentica fede in Dio.

Questa promessa, aggiunge l’apostolo, fu fatta prima che venisse data la legge di Mosè, e non è affatto legata all’osservanza di quella legge. L’Eterno non ha detto: Se osserverete la mia legge io vi darò il mondo in eredità! In questo caso, Dio non potrebbe mai mantenere le sue promesse perché il popolo di Israele è stato sempre disubbidiente e incapace ad osservare i suoi comandamenti; e la disubbidienza dell’uomo spinge Dio, giustamente adirato, a giudicarlo e non certo a mantenere le promesse fatte.  La promessa fu invece fatta ad Abramo quando egli credette a Dio con tutto il cuore e per questo fu considerato giusto. E su questo principio, quello della fede, Dio ha potuto realizzarla.

“Dove non c’è legge non c’è trasgressione” non significa che non c’è peccato, ma semplicemente che non c’è infrazione, non c’è inosservanza. Senza la legge, l’uomo potrebbe anche non sentirsi colpevole quando pecca (sebbene la sua coscienza lo riprenda); ma una volta conosciuta la legge, se la trasgredisce non vi sono scuse! L’Israelita pio contava certamente sul perdono e sulla misericordia dell’Eterno, e sul valore dei sacrifici cruenti che venivano offerti.

“Perciò l’eredità è per fede affinché sia per grazia; in modo che la promessa sia sicura per tutta la discendenza; non soltanto per quella che è sotto la legge, ma anche per quella che discende dalla fede di Abraamo. Egli è padre di noi tutti (com’è scritto: Io ti ho costituito padre di molte nazioni) davanti a colui nel quale credette, Dio, che fa rivivere i morti, e chiama all’esistenza le cose che non sono.” (v. 16-17)

La fede e la grazia vanno di pari passo. L’uomo crede a Dio (è la fede) e Dio gli dà delle cose che non meriterebbe (è la grazia); perché, come abbiamo visto, la fede non procura dei meriti ma soltanto apre la strada all’amore, alla misericordia e alle benedizioni di Dio. Tutte le promesse sono sicure solo perché si basano sulla grazia di Dio! Niente di ciò che si basa sulle opere dell’uomo è sicuro; anzi, è un fallimento certo.

Così, la sicurezza è sia per gli Ebrei che credono, sia per i non Ebrei che credono (v.24-25). Abramo, che ha creduto, è padre degli uni e degli altri. Il nome che gli è stato dato “Abrahamo” (o Abraamo) significa appunto “padre di una moltitudine” o “padre di molte nazioni” (Genesi 17:5).

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(*) Letteralmente: “E fosse padre della circoncisione, non soltanto per quelli che sono della circoncisione,ma anche per quelli che camminano sulle orme della fede che il nostro padre Abraamo ha avuto”

La fede di Abramo fu messa davvero a dura prova. Sara era talmente vecchia da potersi dire “morta” quanto alla capacità di procreare; e lui, avendo quasi cento anni, temeva di non essere in grado di avere un figlio abbastanza vigoroso (vedi Genesi 49:3!) da essere capostipite di una così vasta discendenza. Ma Dio non è il Dio che fa rivivere i morti? Non è anche il Dio della risurrezione? Non ha fatto esistere ogni cosa dal nulla? “Egli parlò e la cosa fu; Egli comandò e la cosa apparve” (Salmo 33:9). Con la stessa potenza ha risuscitato il Signore Gesù dai morti e vivificherà anche i nostri corpi mortali (Romani 8:11).

“Egli, sperando contro speranza, credette (*), per diventare padre di molte nazioni, secondo quello che gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza.” (v. 18)

Quando ogni speranza sembrava assurda e illogica, Abramo ebbe la certezza che le cose promesse si sarebbero avverate, poiché era Dio che parlava, e non un uomo. Non aveva ancora figli e umanamente parlando non avrebbe potuto averne, ma egli credette che la sua discendenza sarebbe stata numerosa come i granelli di polvere della terra, come le stelle del cielo, come la sabbia che è sul lido del mare (Genesi 13:16, 22:17).

“Senza venir meno nella fede, egli vide che il suo corpo era svigorito (aveva quasi cent’anni) e che Sara non era più in grado di essere madre; davanti alla promessa di Dio non vacillò per incredulità, ma fu fortificato nella sua fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto Egli promette è in grado di compierlo.”  (v. 19-21)

Se la fede è riposta negli uomini o nelle ideologie, religioni, teorie, filosofie umane, è solo frutto di ignoranza o di stupidità. La vera fede è riposta in Dio e in Lui solo; allora è pienamente consapevole, seria, convinta e convincente, perché fondata su Colui che ci ha creati, l’Onnipotente. Abramo non fu un credulone, perché credere che Dio è potente di mantenere ciò che dice è indice di grande saggezza. Essendo Dio che parlava, il dubbio non lo sfiorò nemmeno; la stima che aveva del suo Dio lo rese forte nella fede. In un altro senso, si può dire che dalla sua stessa fede Abramo ricavò forza, in quanto il passo può anche essere tradotto “fu fortificato dalla sua propria fede”. Forza interiore, spirituale, ma anche forza per vincere il deperimento del suo corpo ormai vecchio e avere un figlio. Questo almeno è confermato per sua moglie Sara quando è detto: “Per fede anche Sara, benché fuori d’età, ricevette forza di concepire, perché ritenne fedele Colui che aveva fatto la promessa” (Ebrei 11:11). (**)

La nostra fede glorifica Dio. La sicurezza incrollabile che Egli manterrà le promesse che ci ha fatte in Cristo Gesù onora il suo nome. L’incredulità e il dubbio, invece, lo disonorano perché mettono il sospetto che Dio sia bugiardo, che sia come quegli uomini che promettono cose impossibili, oppure che non mantengono le promesse fatte.

“Perciò gli fu messo in conto come giustizia. Or non per lui soltanto sta scritto che questo gli fu messo in conto come giustizia, ma anche per noi ai quali sarà pure messo in conto; per noi che crediamo in Colui che ha risuscitato dai morti Gesù, nostro Signore, il quale è stato dato a causa delle nostre offese ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione.” (v. 22-25)

Se Abramo è stato “giustificato” grazie alla sua fede, perché non dovrebbe essere così anche di noi? Non abbiamo anche noi preso Dio in parola? Quando ci ha detto che siamo peccatori perduti, abbiamo creduto. Quando poi ci ha fatto conoscere il valore dell’opera del suo Figlio, morto sulla croce a causa delle nostre colpe e risuscitato dai morti, abbiamo creduto e l’abbiamo accettato. Non abbiamo cercato di scusarci, né accampato diritti o meriti, né sollevato obiezioni. Anche a noi la fede è messa in conto di giustizia; per questo siamo salvati e abbiamo la vita eterna! “E’ per grazia che voi siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi, è il dono di Dio” (Efesini 2:8).

“Dato per le nostre offese” è la sua morte al nostro posto; grazie a questo il nostro debito è pagato. Con la sua risurrezione il Signore ci dà, per così dire, un capitale da spendere,  mettendoci a disposizione la sua vita e tutte le risorse della grazia di Dio. La sua risurrezione è altrettanto indispensabile quanto la sua morte. Morendo sulla croce (“è stato dato” significa dato da Dio, consegnato perché subisse la morte, secondo Isaia 53:6 e 12) Egli ha subito al nostro posto il castigo di Dio contro il peccato; risuscitando dai morti ci fa partecipi della sua vita che non finirà mai (Colossesi 3:4). Inoltre, il posto che adesso ha nel cielo, nella gloria, è la prova che Dio è stato pienamente soddisfatto della sua opera, e questo ci garantisce che dov’Egli è saremo un giorno anche noi.
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(*) Letteralmente: “Contro speranza credette con speranza”
(**) In molti bellissimi racconti la Bibbia ci parla di donne che, pur essendo sterili, ebbero da Dio la grazia di avere figli. Oltre a Sara, erano sterili anche Rebecca moglie di Isacco (Genesi 25:21), Rachele la moglie prediletta di Giacobbe (Genesi 29:31), la moglie di Manoah da cui nacque poi Sansone (Giudici 13:2), Anna moglie di Elkana da cui nacque Samuele (1 Samuele 1:5), la donna Shunamita che aveva il marito vecchio (2 Re 4:14), Elisabetta moglie di Zaccaria e madre di Giovanni Battista (Luca 1:7).

CAPITOLO 5

Gli effetti della giustificazione ottenuta per fede

“Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore, mediante il quale abbiamo anche avuto, per la  fede, l’accesso a questa grazia nella quale stiamo saldi; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio;”  (v. 1-2)

Paolo ci dà ancora una volta la conclusione di tutte le precedenti riflessioni. Siamo dichiarati giusti da Dio se crediamo al Signore Gesù Cristo e questo atto di grazia ci fa entrare in possesso di un’infinità di benedizioni.

  1. Abbiamo pace con Dio perché l’opera del nostro Signore è stata perfetta. Senza fede non avevamo pace; le nostre opere cattive ci turbavano; la coscienza ci rimproverava, e anche il solo pensiero dell’esistenza di Dio ci faceva paura. “Non v’è pace per gli empi, dice l’Eterno” (Isaia 48:22). Il peccato mette una barriera di inimicizia fra l’uomo e Dio, e questa rottura di relazione col Creatore crea un profondo turbamento. Ma quando subentrano il pentimento e la fede, il godimento del perdono totale di Dio mette nel cuore una pace perfetta.
  2. Abbiamo accesso a questa grazia di Dio, sempre e unicamente per la fede in Gesù Cristo, e godiamo di tutti i favori, attuali ed eterni, di questa nostra nuova situazione. “Questa grazia” non è solo la grazia che salva, con la quale Dio ha sempre salvato gli uomini di fede, ma è quella che regola i nuovi rapporti del credente col suo Dio e Padre. Dio non è più giudice, ma Padre. Non è più lontano, ma vicinissimo a noi con tutta la potenza del suo amore e della sua misericordia. Paolo aggiunge che in questa grazia siamo saldi perché, una volta che vi si è entrati per fede, nessuno ce ne farà più uscire. In questo versetto non è in gioco la nostra perseveranza o la nostra fedeltà, ma la certezza dell’immutabilità del favore di Dio. Nessuno ci accuserà, nessuno ci condannerà, nessuno ci strapperà dal suo amore (Romani 8:33-38).
  3. Ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio. “Cristo in voi, speranza della gloria” (Colossesi 1:27). La gloria nella quale entreremo è difficile da definire; potremmo dire che è l’insieme di tutte le gioie e gli onori del cielo, dei privilegi infiniti ed eterni che appartengono a Dio; è il godimento di conoscere tutte le cose grandi e meravigliose che ora non siamo in grado di afferrare; di vivere eternamente in un ambiente di pace e di perfezione. Proprio quella di cui i nostri peccati ci privavano (“Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”, Romani 3:23) è adesso oggetto di speranza, vale a dire di attesa consapevole e certa.

Il Signore si è fatto uomo e ha sofferto la morte della croce proprio “per condurre molti figliuoli nella gloria” (Ebrei 2:10). L’ha anche promesso Egli stesso nella preghiera al Padre: “Io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me” (Giovanni 17:22). Questa speranza, dunque, fa parte delle certezze della fede. “Quando Cristo, la vita nostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con Lui manifestati in gloria” (Colossesi 3:4).

“non soltanto questo, ma ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l’afflizione produce pazienza, e la pazienza esperienza, e l’esperienza speranza.” (v. 3-4)

Presto o tardi, in un modo o in un altro, ognuno ha la sua parte di afflizioni nel corso della vita. Ma noi sappiamo che il credente può affrontare la prova e il dolore confidando nell’aiuto di Dio, e aspettando pazientemente la liberazione. Le sue preghiere e le sue suppliche salgono al Padre (Filippesi 4:6-7); i suoi occhi guardano in alto. “Porgi l’orecchio alle mie parole, o Signore, sii attento ai miei sospiri… Al mattino ti offro la mia preghiera e attendo un tuo cenno” (Salmo 5:1-3).

L’attendere fiduciosi l’intervento del Signore, il doversi abbandonare totalmente fra le sue braccia per trovare sollievo e consolazione, mette in esercizio la fede. L’esperienza che si acquisisce in tali circostanze è profonda e benedetta perché si tocca con mano la fedeltà e l’amore di Dio, e la fede risulta vittoriosa. Molti credenti fanno dei grandi progressi nei periodi di prova. E mentre, negli increduli, le afflizioni sovente stimolano la rivolta e accrescono i dubbi, nel credente rinforzano la fiducia nelle promesse divine e ravvivano la speranza. E’ il trionfo della fede, che fa dire a Paolo: “Noi ci gloriamo nelle afflizioni”.

“Or la speranza non inganna, perché l’amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato.”   (v. 5)

Se speriamo in Dio non saremo svergognati perché Dio non delude mai. Quello che ha promesso lo manterrà. Nessuno ci potrà deridere; Dio non inganna. E come potrebbe farlo dal momento che ha riempito i nostri cuori del suo amore quando ha messo in noi il suo Spirito? Il nostro Signore, oltraggiato e sofferente, si rimetteva “nelle mani di Colui che giudica giustamente” (1 Pietro 2:23); e il profeta poteva preannunciare parlando di Cristo: “Il Signore, Dio, mi ha soccorso; perciò non sono stato abbattuto; perciò ho reso la mia faccia dura come la pietra e so che non sarò svergognato” (Isaia 50:7). La sua risurrezione e la sua gloria nel cielo sono la risposta di Dio.

“Infatti, mentre eravamo ancora senza forza, Cristo, a suo tempo, è morto per gli empi.“  (v. 6)

Noi tutti eravamo peccatori e  senza forza per uscire da questa condizione. Anche gli Ebrei, pur avendo la legge di Mosè e sforzandosi di osservarla, hanno dimostrato di essere senza forza, incapaci di ottenere la giustificazione mediante le opere. Ci voleva l’intervento di Dio, e c’è stato per mezzo di Cristo. Quando eravamo empi (*) Cristo è morto per noi.

Nei progetti di Dio quest’opera di salvezza era già pronta fin dall’eternità. Cristo era “l’agnello ben preordinato prima della fondazione del mondo” (1 Pietro 1:19-20). L’Antico Testamento parlava di Lui (“Sta scritto di me nel rotolo del Libro”, Salmo 40:8. Vedere Ebrei 10:5-7). Ma c’era un tempo prestabilito per la sua venuta nel mondo e la sua morte. “A suo tempo” può anche essere tradotto con: nel tempo opportuno, e indica il tempo stabilito, voluto da Dio.

“Difficilmente uno morirebbe per un giusto; ma forse per una persona buona qualcuno avrebbe il coraggio di morire; Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi..” (v. 7-8)

E’ capitato, anche se raramente, che qualcuno si sia offerto di morire al posto di innocenti, di persone perbene. Un atto d’amore grandissimo.  Ma l’amore di Dio è ancora più grande. Egli ha dato alla morte il proprio Figlio per salvare dei peccatori. I motivi per manifestare un tale amore non poteva certo trovarli in noi, essendo colpevoli davanti a Lui e degni solo del suo castigo. Li ha trovati in Se stesso, nella sua natura che “è amore” (1 Giovanni 4:8).

“Tanto più dunque, essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di Lui salvati  (**) dall’ira.” (v. 9)
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(*) Empio non è soltanto “peccatore”. Il greco “asebèo” significa irreligioso, senza rispetto né timore di Dio.
(**) Salvati (in greco sothesometha) qui sta per “preservati, fatti scampare”.

L’ira di Dio è giusta. E’ dovuta all’odio che Lui, giusto e santo, ha per il peccato. La sua ira è su tutti gli uomini perché tutti sono peccatori. Ecco perché il Signore Gesù diceva: “Chi rifiuta di credere al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio resta sopra di lui” (Giovanni 3:36). Un giorno, purtroppo, l’umanità incredula e ostinata a seguire Satana, conoscerà cosa vuol dire l’ira di Dio, anche se il giudizio è per Dio “un’opera singolare”, un “lavoro inaudito” (Isaia 28:21). Il Libro dell’Apocalisse ce ne dà delle descrizioni agghiaccianti.

“Ma Dio non ci ha destinati ad ira, ma a ottenere salvezza per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo”. Egli è Colui che ci libera “dall’ira che viene” (1 Tessalonicesi 5:9, 1:10). Il suo sangue prezioso ci giustifica (ovvero fa sì che Dio ci consideri giusti) perché cancella tutti i nostri peccati. “Il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato” (1 Giovanni 1:7).  Il sangue di Cristo rappresenta la sua vita data per noi poiché, come insegnava l’Eterno al suo popolo, “il sangue è la vita”. Senza la sua morte non ci sarebbe salvezza, per nessuno.

“Se infatti, mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio mediante la morte del figlio suo, tanto più ora, che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita.”  (v. 10)
Senza forza (v. 6)

Empi (v. 6)

Peccatori (v. 8)

Nemici (v. 10)

Queste quattro definizioni riassumono molto bene la nostra precedente condizione. Ma ogni volta è aggiunto quello che Cristo ha fatto:

– Cristo è morto (v. 6)

– Cristo è morto (v. 8)

– Siamo stati riconciliati mediante la morte del Figlio suo (v. 10)

Non è Dio nemico dell’uomo; è l’uomo nemico di Dio. Se non c’è riconciliazione, l’ira di Dio un giorno si manifesterà e la condanna sarà inevitabile. Ma avremmo mai potuto noi peccatori, di nostra iniziativa e con le nostre forze, riconciliarci con Dio? No. I peccatori sono “senza forza”. Solo Lui poteva fare un’opera di riconciliazione, e l’ha fatta per mezzo di Cristo. “A Dio piacque di far abitare in Lui tutta la pienezza e di riconciliare con sé tutte le cose per mezzo di Lui, avendo fatto la pace mediante il sangue della sua croce… E voi, ora Dio vi ha riconciliati nel corpo della carne di Lui, per mezzo della sua morte, per farvi comparire dinanzi a sé santi e immacolati e irreprensibili” (Colossesi 1:19-22). “E tutto questo viene da Dio che ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo… Noi vi supplichiamo nel nome di Cristo: Siate riconciliati con Dio” (2 Corinzi 5:18-20).

Se per la sua morte abbiamo trovato la pace con Dio, adesso che siamo suoi amici e che Cristo vive in noi, possiamo avere la certezza di una salvezza completa.

“Non solo, ma ci gloriamo anche in Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, mediante il quale abbiamo ora ottenuto la riconciliazione.”  (v.11)

Che grazia essere in pace con Dio! Che sicurezza, che gioia, che immensa consolazione! Noi ci gloriamo in Lui, nella sua persona, grazie a quello che il Signore Gesù Cristo ha fatto per noi.  E’ un onore, un motivo di suprema soddisfazione, conoscere Dio come Dio Salvatore, come Padre. Gloriarsi in Lui è ancora di più che “gloriarsi nella speranza della gloria di Dio” del v. 2 e “gloriarsi nelle afflizioni” del v. 3.

Il peccato e la grazia
“Perciò, come per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato la morte, così la morte è passata su tutti gli uomini perché tutti hanno peccato…”  (v. 12)

Fin qui Paolo ha trattato l’argomento del nostro stato di peccatori perduti e dell’amore grande di Dio. Ha messo in chiaro che tutti sono colpevoli, Giudei e non, e che la salvezza è interamente opera Sua. Cristo è morto, il suo sangue è stato versato, la pace è fatta.

Adesso Paolo affronta il problema generale del peccato. Un problema complesso per spiegare il quale egli deve risalire ai primordi della storia dell’uomo sulla terra, al primo atto di disubbidienza nel giardino di Eden (Genesi 3). Dio aveva vietato ad Adamo ed Eva di mangiare il frutto di un albero col quale avrebbero ottenuto la conoscenza del bene e del male. Ma come sappiamo, dietro istigazione di Satana, disubbidirono e ne mangiarono.

Sebbene ad essere sedotta per prima sia stata Eva, Dio considera l’uomo principale responsabile di quell’atto di disubbidienza, anche perché a lui, esplicitamente, prima ancora che Eva fosse formata, era stato ordinato di non mangiare di quel frutto. Così Paolo dice: Per mezzo di un uomo (vale a dire del peccato di un uomo, Adamo), il peccato è entrato nel mondo. E poiché Dio aveva già preavvisato che qualora ne avesse mangiato sarebbe morto, con quel peccato di disubbidienza, di orgoglio, di mancanza di fiducia, la morte “è entrata” fra gli uomini.

La conoscenza del bene e del male fu una vera tragedia per l’umanità. Un essere limitato com’è l’uomo, che conosce il bene ma non sempre è capace di farlo, e conosce il male ma non sempre è in grado di evitarlo, non può che cadere sotto il giudizio di Dio ed essere perduto.

Ogni essere umano, da allora in avanti, nasce con una natura corrotta, una forza malvagia dentro di sé che lo spinge a peccare e ad allontanarsi da Dio. E’ difficile da spiegare in che modo questo avvenga, ma la Scrittura ce lo dice e la constatazione dei fatti lo conferma ampiamente. E’ inevitabile, quindi, che tutti pecchino.

“Poiché fino alla legge il peccato era già nel mondo, ma il peccato non è imputato (*) quando non c’è legge. Eppure la morte regnò, da Adamo fino a Mosè, anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di Colui che doveva venire.”   (v. 13-14)

Inizia qui una parentesi che si chiude col v. 17. Da Adamo a Mosè, in un arco di più di 2.500 anni, l’uomo visse senza avere una legge conosciuta e imposta. Ma continuò a peccare e quindi a morire, anche se, essendo senza legge, il peccato non si configurava come trasgressione o disubbidienza. Adamo disubbidì a un preciso comandamento, a un ordine imposto; la stessa cosa fecero gli Israeliti dopo che ebbero ricevuto dall’Eterno, tramite Mosè, la legge con tutti i suoi ordini e le sue proibizioni. Dio, infatti, li richiama per mezzo del profeta Osea dicendo: “Essi, come Adamo, hanno trasgredito il patto, si sono comportati perfidamente verso di me… Nella casa d’Israele ho visto cose orribili…” (Osea 6:7-10).

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(*)In greco “Ellogheo”, mettere in conto

Dalla fine del v. 14 inizia un interessantissimo confronto con Cristo, perché Adamo, anche se a prima vista la cosa può stupire, è figura di Colui che doveva venire. Come ciò sia possibile lo scopriremo nei versetti successivi.
“Però, la grazia non è come la trasgressione. Perché, se per la trasgressione di uno solo molti  (*) sono morti, a maggior ragione la grazia di Dio e il dono della grazia proveniente da un solo uomo, Gesù Cristo, sono stati riversati abbondantemente su  molti.”  (v. 15)

Il raffronto fra Adamo è Cristo è fatto per contrasti più che per similitudini. Possiamo anticiparli:

Adamo solo ha peccato   –> Molti (che sono tutti gli uomini) sono morti

Cristo è venuto, dono di Dio  –> La grazia si è riversata sui molti (quelli che credono) (v. 15)

Adamo solo ha trasgredito  –> Il giudizio è diventato condanna per tutti

Cristo è stato dato come dono gratuito  –>  I trasgressori  (che lo ricevono) sono giustificati      (v. 16)

Adamo  si è reso colpevole –> La morte ha regnato

Cristo  fa grazia  –>  I credenti regneranno nella vita  (v. 17)

Adamo solo ha trasgredito –>  La condanna si è estesa a tutti

Cristo ha compiuto ogni giustizia  –>  La giustificazione si è estesa a tutti (quelli che credono in Lui) (v. 18)

Adamo  solo ha disubbidito  –>  Tutti gli uomini sono diventati peccatori

Cristo  solo ha ubbidito  –>  Molti (quelli che credono in Lui) sono costituiti giusti  (v. 19)

“Riguardo al dono non avviene quello che è avvenuto nel caso dell’uno che ha peccato; perché dopo una sola trasgressione il giudizio è diventato condanna; mentre il dono gratuito diventa giustificazione (**) dopo molte trasgressioni.”  (v. 16)

Il dono di Dio ha delle conseguenze diametralmente opposte a quelle del peccato di Adamo. Allora, dopo una sola trasgressione, il giudizio di Dio fu pronunciato e tutta l’umanità, peccatrice, è caduta sotto un verdetto di condanna. Ma il dono di grazia di Dio, vale a dire la salvezza che Egli offre per la fede in Cristo, nonostante le molte trasgressioni commesse, porta ad un verdetto di assoluzione. I peccatori sono perdonati in Cristo, considerati giusti, salvati per l’eternità. “Dove il peccato è abbondato la grazia è sovrabbondata”. Essa ha trionfato sul peccato (Romani 5:20).

“Infatti, se per la colpa di uno solo la morte ha regnato a causa di quell’uno, tanto più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo di quell’uno che è Gesù Cristo.”  (v. 17)

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(*) Più corretto: “i molti”, la massa in relazione alla persona in questione.
(**) Il greco “dicaìoma” ha diversi significati:

  1. Ciò che la giustizia richiede (Romani 2:16, 8:4),
  2. Un atto di giustizia (Romani 5:18, Apocalisse 15:4, 19:8),
  3. Qui, in Romani 5:16, è la giustificazione per aver compiuto ciò che la giustizia richiede (5:16), è la situazione di giustizia nella quale ci pone la giustificazione. Grazie all’opera di Cristo io corrispondo pienamente a ciò che Dio chiede da me nella sua giustizia.

Il ragionamento è più che logico e molto incoraggiante. Vi sono due regni: della morte e della vita. Se la morte ha regnato per colpa di Adamo, tanto più regneranno nella vita quelli che hanno messo la loro fiducia nel Salvatore Gesù Cristo. Ricevere per fede l’abbondante grazia di Dio e la giustizia che Egli dà, garantisce la vita eterna e fa entrare il credente, già fin da adesso, nella potenza della nuova vita. C’è poi la promessa che regneremo con Cristo, e noi dovremmo aspettare con desiderio questo momento glorioso. “Abbiamo esortato ciascuno di voi a comportarsi in modo degno di Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria” (1 Tessalonicesi 2:12).

“Dunque, con una sola trasgressione la condanna si è estesa a tutti gli uomini, e così, con un solo atto di giustizia, la giustificazione che dà la vita si è estesa a tutti gli uomini. Infatti, come per la disubbidienza di un solo uomo i molti sono stati resi peccatori, così anche per l’ubbidienza di un solo i molti saranno costituiti giusti.”  (v. 18-19).

Disubbidienza di Adamo, giustizia di Cristo. Morte per tutti come conseguenza della disubbidienza, vita per chi crede come conseguenza dell’ubbidienza. La salvezza è a disposizione di tutti, Giudei e non Giudei, grandi e piccoli, uomini e donne, giovani e vecchi, ricchi e poveri. L’Evangelo è predicato ad ogni creatura (Marco 16:15). Purtroppo non tutti saranno salvati perché molti rifiutano la grazia di Dio; e per questi non vi sarà salvezza perché la condanna del peccato è inevitabile!

“La legge poi è intervenuta a moltiplicare le trasgressioni; ma dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata, affinché, come il peccato regnò mediante la morte, così la grazia regni mediante la giustizia a vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore.”  (v. 20-21)

Quando Dio ha dato la sua legge e ha fatto conoscere esattamente le cose che non si devono fare, chi le fa, oltre a commettere un peccato, commette anche una violazione della legge, una trasgressione. C’è una colpa in più nel fare il male sapendo che Dio non vuole. La legge di Dio aiuta dunque l’uomo a conoscere il bene e il male ma, nello stesso tempo, lo rende consapevole della sua estrema debolezza e dell’incapacità di osservarla. “La legge è stata come un precettore (un insegnante) per condurci a Cristo” (Galati 3:24).

Ma se il peccato, con la legge, è diventato ancora più grande e si è “moltiplicato”, la grazia di Dio ha trionfato. Essa supera il peccato. L’opera di Dio è più grande del peccato dell’uomo. Il dominio del peccato che sopraffà l’uomo e lo porta alla morte è distrutto dalla grazia di Dio. Nel credente, ora, è la grazia che regna e conduce alla vita eterna, mediante la fede in Cristo che giustifica il peccatore.

Riassumendo, la dottrina della GIUSTIFICAZIONE appare sotto vari aspetti. Eccone alcuni:

  1. Giustificazione per grazia (3:24) in riferimento alla sovrana grazia di Dio che non punisce il peccatore meritevole di castigo, in virtù dell’opera di Cristo in suo favore.
  2. Giustificazione per fede (5:1) per indicare che la fede è il mezzo col quale l’uomo riceve l’offerta della grazia di Dio e si appropria del valore dell’opera di Cristo.
  3. Giustificazione per il suo sangue (5:9) essendo il sangue di Cristo il prezzo pagato per soddisfare le esigenze di un Dio giusto che può così salvare chi ha fede con un atto di grazia.
  4. Giustificazione per le opere (Giacomo 2:14) perché la vera fede è una fede operante. Le opere sono la conseguenza inevitabile di una vera fede. Abramo “fu giustificato per le opere”, dice Giacomo (2:21-24); fu giustificato perché “credette a Dio”, dice Paolo (Romani 4:3). Non c’è contraddizione: le opere di Abramo provenivano dalla fede che aveva in Dio. Se non l’avesse avuta, non avrebbe potuto fare quello che ha fatto.

CAPITOLO 6

Morire con Cristo per rinascere in Cristo

 “Che diremo dunque? Che vogliamo rimanere nel peccato affinché la grazia abbondi? No di certo! Noi che siamo morti al peccato, come vivremmo ancora in esso?” (v. 1-2)

 Fin dall’inizio del cristianesimo, qualcuno ha cercato di diffondere l’idea che più si pecca più si fa l’esperienza della grazia di Dio. Quindi val la pena peccare! Il tristemente famoso monaco russo Grigorji Rasputin, vissuto alla corte degli zar alla fine del secolo scorso e agli inizi di questo, proclamava quest’eresia e la praticava apertamente, commettendo ogni tipo di peccato. Paolo risponde che un tale ragionamento è totalmente falso poiché è impossibile che un credente in Cristo, morto con Lui, viva ancora nel peccato. Il suo stile di vita di quando non conosceva il Signore non può continuare, perché non è più nelle tenebre ma nella meravigliosa luce di Dio (1 Pietro 2:9). Prima era sotto il potere di Satana, ma ora è servo di Cristo. Molti passi del Nuovo Testamento segnalano questa meravigliosa trasformazione che Dio produce in chi crede.

L’espressione “morti al peccato” significa che il peccato non ci può più dominare. Non si possono dare ordini a un morto; e noi siamo morti con Cristo. Ciò non vuol dire che il credente non pecca più. Finché viviamo in questi corpi, il peccato purtroppo può manifestarsi se non facciamo attenzione. Ma quel che Dio vuole è che non pecchiamo. “Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate” (1 Giovanni 2:1).

Forse è bene ricordare che per peccato si intende una violazione dell’ordine morale; più in particolare una violazione, dovuta a uno spirito di indipendenza e di volontà propria, delle leggi di Dio, sia quelle “naturali” sia quelle scritte nella sua Parola.

 “O ignorate forse che tutti noi, che siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Siamo dunque stati sepolti con Lui mediante il battesimo nella sua morte, affinché, come Cristo è stato risuscitato dai morti mediante la gloria (*) del Padre, così anche noi camminassimo in novità di vita.” (v. 3-4)

Il battesimo è un segno e una testimonianza della nostra morte con Cristo. L’immersione nell’acqua è come una sepoltura a riprova che il nostro uomo vecchio ha trovato la sua fine sotto il giudizio di Dio, alla croce dove il Signore Gesù Cristo è morto al nostro posto. Se Cristo non fosse morto noi saremmo ancora perduti. “Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore produce molto frutto” (Giovanni 12:24). Ma come il chicco di grano fuoriesce poi dalla terra con una nuova vita, nella piantina che crescendo porterà la spiga piena di nuovi chicchi, così anche Cristo, dopo essere morto, è risuscitato e ha potuto trasmettere la sua vita a tutti quelli che credono in Lui (Giovanni 14:19, 1 Corinzi 15:17-20).

La vita di Cristo in noi è una vita nuova che si manifesta con nuovi pensieri e nuovi comportamenti; dobbiamo lasciarla agire. La “carne” è ancora in noi, ma noi siamo morti e bisogna che ci consideriamo tali, che non rispondiamo alla tentazione del peccato. “Se siete risuscitati con Cristo, cercate le cose di sopra… Poiché voi moriste e la vita vostra è nascosta con Cristo in Dio… Fate dunque morire (**) ciò che in voi è terreno” (Colossesi 3:1-5).

“Questo io dico e attesto nel Signore: non comportatevi più come si comportano i pagani nella vanità dei loro pensieri …Voi avete imparato a spogliarvi del vecchio uomo (o meglio: avete spogliato il vecchio uomo) che si corrompe… e ad essere rinnovati nello spirito della vostra mente” (Efesini 4:17-23). La nostra vita deve dunque riflettere in qualche modo la gloria del nostro Signore risuscitato.

Ma la risurrezione di Cristo era anche, per così dire, una necessità della gloria del Padre, nel senso che Dio Padre non poteva lasciare il suo santo Figliuolo schiavo della morte, che è la conseguenza di quel peccato che Egli ha annullato col sacrificio di Sé stesso (Ebrei 9:26). Diodoveva risuscitare il Signore.

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(*) Qui “gloria del Padre” significa “potenza gloriosa del Padre” oppure “glorioso progetto”.
(**) Nel testo è “far morire per mancanza di nutrimento” nel senso di rendere impotente, inattivo.

“Perché, se siamo diventati una stessa cosa con Lui per una morte simile alla sua, saremo anche partecipi di una risurrezione simile alla sua” (v. 5)

Una stessa cosa con Lui! La nostra identificazione con Cristo non è solo nella sua morte ma anche nella sua risurrezione. Com’Egli è risuscitato, così saremo risuscitati anche noi. “Dio, come ha risuscitato il Signore, così risusciterà anche noi mediante la sua potenza” (1 Corinzi 6:14). Vediamo quindi, in questo passo, che non soltanto siamo ora viventi in Cristo della sua vita di risurrezione, ma saremo effettivamente risuscitati quando verrà a prendere tutti i suoi, per introdurli nel cielo dove Egli “è entrato per noi quale precursore” (Ebrei 6:20).

 “Sappiamo infatti che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con Lui affinché il corpo del peccato fosse annullato, e noi non serviamo più al peccato; infatti, colui che è morto è liberato (*) dal peccato.” (v. 6-7)

Il nostro vecchio uomo che è morto con Cristo è la nostra condizione di discendenti di Adamo, con le sue caratteristiche; è la nostra identità di creature decadute, peccatrici non solo perché colpevoli di peccati commessi, ma perché “concepiti” nel peccato, “formati nell’iniquità” (Salmo 51:7, o v. 5 secondo altre versioni). Qui “corpo del peccato” è il nostro corpo quando era sottoposto al peccato, quando il peccato se ne serviva. Chi è morto non è più schiavo del peccato. Può un morto peccare? Si può incolpare un morto? Colui che è morto col Signore è liberato “dal peccato”, non “dai peccati” ma “dal peccato”, cioè dalla sua condizione di peccatore per natura.

“Ora, se siamo morti con Cristo crediamo pure che vivremo con Lui, sapendo che Cristo, risuscitato dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Poiché il suo morire fu un morire al peccato, una volta per sempre; ma il suo vivere è un vivere a Dio. “ (v. 8-10)

Questo è un grande fondamento della nostra fede: noi vivremo con Lui. Noi sappiamo di avere la vita eterna perché “crediamo nel Nome del Figlio di Dio” (1 Giovanni 5:13). Cristo non muore più. E’ stato offerto “una volta sola per portare i peccati di molti” (Ebrei 9:28). Il suo sacrificio è irripetibile (**). Così il suo vivere è per Dio, in una perfetta ed eterna relazione con Lui.

Nel tempo sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, vale a dire prima e dopo la venuta di Cristo, molti uomini vennero risuscitati sia dagli antichi profeti sia dal Signore stesso o dai suoi apostoli. Ma tutti sono poi nuovamente morti. Solo Cristo è risuscitato per non morire mai più; allo stesso modo risusciteranno i credenti, alla sua venuta. “Cristo è stato risuscitato dai morti, primizia di quelli che dormono… Cristo, la primizia; poi quelli che sono di Cristo alla sua venuta” (1 Corinzi 15:20-23). In questo senso Egli è anche definito “il primogenito dai morti” (Colossesi 1:18).

L’espressione “la morte non ha più potere su di Lui” non presume che prima ne avesse. E’ solo alla croce, quando è stato fatto peccato per noi, che il Signore Gesù ha conosciuto il potere della morte.

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(*) Letteralmente “giustificato dal peccato” (in greco “dedicaiotai”).
(**) Ogni rito o cerimonia che pretende di ripetere o di rinnovare il sacrificio di Cristo è in evidente contrasto con l’insegnamento della Parola: “Una volta per sempre… ha offerto Sé stesso” (Ebrei 7:27); “L’offerta del corpo di Gesù Cristo fatta una volta per sempre” (Ebrei 10:10).

“Così anche voi fate conto di essere morti al peccato, ma viventi a Dio, in Cristo Gesù.” (v. 11)
“Fate conto di essere morti” vuol dire ricordatevi che siete effettivamente morti, consideratevi tali. In ogni situazione della vostra vita, specialmente di fronte alle tentazioni, ricordatevi che, poiché siete morti,  non dovete rispondere ai richiami del peccato. Ora, grazie all’opera del Signore, avete con Dio una relazione vivente e potete trovare in Lui tutta l’energia per rinnegare il male (in Tito 2:12 “rinunziare all’empietà” è “rinnegare il male”) e resistere ad ogni insinuazione del nemico (Efesini 6:11). “Voi moriste e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” (Colossesi 3:3).
Paolo insiste ancora. Il peccato non può più farla da padrone; non è lui che deve comandare su noi. Il nostro corpo è mortale, è vero, perché dovremo morire, se il Signore non verrà a prenderci prima di questo evento. Ma già ora esso appartiene a Lui e non a noi. “Il corpo è per il Signore… Non sapete voi che i vostri corpi sono membra di Cristo?… Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo?… Glorificate dunque Dio nel vostro corpo” (1 Corinzi 6:13-20). Il nostro corpo ha delle concupiscenze, dei desideri peccaminosi; il peccato ci incita a soddisfarli. Ma noi non siamo tenuti ad ubbidirgli!

“Non regni dunque il peccato nel vostro corpo mortale e non ubbidite alle sue concupiscenze; non prestate (*) le vostre membra al peccato come strumenti d’iniquità; ma presentate (*) voi stessi a Dio come di morti fatti viventi, e le vostre membra come strumenti di giustizia a Dio; “ (v. 12-13)

Il peccato qui è personificato. Noi non dobbiamo abbandonare in suo potere le nostre facoltà e le membra del nostro corpo (la lingua, le mani, i piedi, ecc…) perché lui le usi come strumenti per commettere cose vergognose, iniquità, atti che il Signore disapprova. Abbiamo invece il privilegio di presentarci davanti a Dio nel nostro nuovo stato, quello di morti fatti viventi, e di mettere le nostre membra a disposizione di Dio perché Egli le usi come strumenti di bene, per fare cose giuste!

“Poiché il peccato non avrà più potere su di voi; infatti non siete sotto la legge ma sotto la grazia. Che faremo dunque? Ci metteremo a peccare perché non siamo sotto la legge ma sotto la grazia? No di certo!”  (v. 14-15)

Sotto la legge ogni peccato era punito perché violava un preciso comandamento. Il peccato quindi esercitava un potere perché metteva il colpevole sotto la giusta condanna di Dio. Noi non siamo sotto la legge; dobbiamo quindi peccare? La grazia che ci è stata fatta, il perdono di Dio, la salvezza gratuita, potranno essere mai un motivo per indurci a peccare con leggerezza? “Si sono infiltrati fra voi – scrive Giuda – certi uomini empi (per i quali già da tempo è scritta questa condanna) che volgono in dissolutezza la grazia del nostro Dio” (Giuda v. 4).

“Non sapete voi che se vi offrite a qualcuno come schiavi per ubbidirgli, siete schiavi di colui a cui ubbidite: o del peccato che conduce alla morte o dell’ubbidienza che conduce alla giustizia?  (v. 16)

Per offrirsi a qualcuno come schiavo bisogna essere disperati o folli. Così è l’umanità che si offre schiava al peccato; ma non se ne rende conto; non sa che “chi commette il peccato è schiavo del peccato” (Giovanni 8:34) e che “uno è schiavo di ciò che l’ha vinto” (2 Pietro 2:19). La schiavitù del peccato porta a morte, perché la morte è il salario del peccato; ma l’umile accettazione della grazia di Dio dà vita eterna.

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(*) “Non prestate” e “non presentate” in greco sono un unico verbo che significa “dare, dare nelle mani di qualcuno”; ma è interessante notare il diverso tempo di questi due verbi: il primo (non prestate le membra al peccato) è al presente e indica un’azione continuativa, da fare tutti i momenti; il secondo (presentate voi stessi a Dio) esprime l’atto come già compiuto, una volta per tutte, come se fosse: “fate in modo di aver presentato voi stessi a Dio”.

“Ma ringraziato sia Dio perché eravate servi del peccato ma avete ubbidito di cuore a quella forma di insegnamento che v’è stato trasmesso; e, liberati dal peccato, siete diventati servi della giustizia”  (v.17-18)

L’essere umano non è libero se non ha un rapporto vivente con Dio. I credenti di Roma, prima di conoscere il Signore, non erano liberi; erano schiavi del peccato, come noi tutti. Ben pochi si rendono conto di questa triste realtà. La tendenza al peccato che è dentro di noi ci rende deboli e indifesi di fronte al male, e Satana ne approfitta per dominare su di noi. Ma Dio ci ha trasformato dal di dentro, ci ha strappati dal potere di Satana, e ci ha messi sotto la signoria di Cristo. Questa è la vera libertà. Quella che il mondo ricerca e per la quale lotta è anche una libertà, ma non la vera, l’essenziale. Il Signore diceva ai Giudei: “Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8:31-32).

La forma d’insegnamento o il modello di dottrina al quale i credenti di Roma, e tutti i credenti, hanno ubbidito di cuore, è l’insieme delle verità basilari del Cristianesimo, quelle legate alla persona e all’opera di Cristo. Com’era contento Paolo che quei fratelli e quelle sorelle fossero adesso entrati al servizio di Dio per fare il bene!

“Parlo alla maniera degli uomini, a causa della debolezza della vostra carne; perché, come già prestaste le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità per commettere l’iniquità,così prestate ora le vostre membra a servizio della giustizia per la vostra santificazione. Perché, quando eravate servi (*) del peccato, eravate liberi riguardo alla giustizia.”  (v. 19-20)

Paolo è costretto a usare termini come “schiavi, schiavitù” per rendere più chiare queste verità a credenti deboli, che non avevano ancora ben compreso la loro nuova condizione in Cristo. Il privilegio di darsi al Signore completamente “spirito, anima e corpo” (1 Tessalonicesi 5:23) è molto grande. Prima, avevano dato libero sfogo ai desideri peccaminosi della loro carne, commettendo  tante ingustizie; Dio non poteva pretendere da loro una vita di rettitudine, e in questo senso “erano liberi riguardo alla giustizia”. Ma adesso Dio si aspettava da loro una vita santa, di separazione volontaria dal male, nella gioia di servire il Signore e di imitarlo sempre meglio.

“Quale frutto dunque avevate allora? Di queste cose ora vi vergognate perché la loro fine è la morte. Ma ora, liberati dal peccato e fatti servi a Dio, avete per frutto la vostra santificazione e per fine la vita eterna;” (v. 21-22)

Delle cose commesse in passato era rimasto in loro un bruttissimo ricordo e un sentimento di vergogna. A cosa era approdata la loro vita di peccato? Il peccato porta alla morte, in tutti i sensi.

Ma ora erano liberati da quella schiavitù. Il Signore aveva pagato per loro il prezzo del loro riscatto, per farli passare al servizio di Dio. Il loro scopo era adesso di onorarlo, abbandonando tutto ciò che è male, e avendo in vista non più la morte, ma la vita, non più la lontananza per sempre dal Dio santo, ma la sua compagnia per l’eternità, nella gioia della sua santa presenza.

“perché il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore.” (v. 23)

Questa meravigliosa conclusione non richiede spiegazioni. Essa riassume in poche parole tutto quanto è stato detto in precedenza. Il peccato merita come retribuzione la morte. Ma Dio regala (notate la differenza fra salario e dono) la vita eterna a chi crede in Gesù Cristo ed è unito indissolubilmente a Lui.
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(*) Esattamente “schiavi”, completamente sottoposti al padrone.

CAPITOLO 7

L’affrancamento del cristiano dalla legge

Alcuni commentatori ritengono che tutto questo capitolo parli dell’esperienza di increduli, specialmente Giudei, che hanno conoscenza della legge di Dio e con essa si misurano nel tentativo di acquistare una propria giustizia. Altri, invece, pensano trattarsi dell’esperienza di credenti, nati di nuovo che, dopo aver gioito del perdono e della grazia di Dio, si rendono conto che la carne è ancora in loro e li rende incapaci di fare il bene di cui la Legge è per loro la misura. In questo strudio viene adottata quest’ultima interpretazione.

“Non sapete, fratelli, (poiché parlo a persone che hanno conoscenza della legge) che la legge ha potere sull’uomo per tutto il tempo ch’egli vive?” (v. 1)

Qui Paolo si rivolge principalmente ai fratelli Giudei della chiesa di Roma e spiega loro, anche con gli esempi dei versetti che seguono, che non erano più sotto la schiavitù della legge, obbligati ad osservarla  per ottenere il favore di Dio. Perché? Perché erano morti! E la legge non è fatta per i morti ma per i vivi, per quelli che possono osservarla; e questo vale non solo per la legge di Dio ma  per ogni tipo di legge.

“Infatti la donna sposata è legata per legge al marito mentre egli vive; ma se il marito muore, è sciolta dalla legge che la lega al marito. Perciò, se lei passa a un altro uomo mentre il marito vive, sarà chiamata adultera; ma se il marito muore, ella è libera di fronte a quella legge; per cui non è adultera se diventa moglie di un altro uomo.”  (v. 2-3)

Ecco un esempio. La donna sposata è vincolata al marito per tutta la vita;  questo è il pensiero di Dio. E se si unisce a un altro uomo commette adulterio. Ma se il marito muore è libera di risposarsi, e non è adultera se passa a un altro uomo. La morte del marito, quindi, libera la donna dalla legge che la obbliga alla fedeltà. Ne vediamo un esempio nel racconto di Nabal e Abigail (1 Samuele 25:39); una volta morto Nabal, Abigail potè diventare moglie di Davide; se l’avesse fatto prima avrebbe commesso adulterio.

“Così, fratelli miei, anche voi siete stati messi a morte quanto alla legge mediante il corpo di Cristo, per appartenere a un altro, cioè a Colui che è risuscitato dai morti, affinché noi portiamo frutti per Dio.” (v. 4)

Nell’esempio del v. precedente la donna resta in vita e il marito muore. La morte del marito la libera dagli obblighi. Qui, però, c’è il caso inverso: la donna, che raffigura gli Ebrei convertiti al Signore, “muore”, perché i credenti muoiono con Cristo. La legge, quindi, non li domina più perché sono morti. L’espressione il corpo di Cristo  significa la morte di Cristo uomo, perché solo con un corpo di uomo poteva morire per noi uomini: “Poiché i figli hanno in comune carne e sangue, Egli pure vi ha similmente partecipato… Perciò Egli doveva diventare simile ai suoi fratelli in ogni cosa” (Ebrei 2:14-17).

La legge di Mosè era data agli Israeliti come a uomini sotto il dominio del peccato, o in altri termini “nella carne”, cioè con la natura di peccato che si eredita già alla nascita. Ma noi credenti siamo morti come uomini nella carne, e Dio ha  fatto di noi delle nuove creature capaci di fare la sua volontà (Galati 6:15, Giacomo 1:18). Possiamo essere “carnali”, è vero, se ci lasciamo guidare dagli impulsi della carne che è ancora in noi (1 Corinzi 3:1-3). La carne è ancora “in noi”,  ma noi non siamo più “nella carne”, vale a dire sotto il suo dominio: “Voi non siete nella carne ma nello Spirito” (Romani 7:5, 8:9).

Può essere utile ricordare che il termine “carne” ha nella Scrittura diversi significati. Ne segnalo almeno sei che ritengo i più importanti:

  1. La natura corrotta dell’uomo non rigenerato. E’ un significato molto importante, tipico del Nuovo Testamento. Dalla carne provengono impulsi, aspirazioni, desideri e pensieri peccaminosi, cioè contrari al pensiero di Dio. “Quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio” (Romani 8:8-17). “Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri” (Galati 5:24. Vedere anche Efesini 2:3).
  2. Gli esseri umani, gli uomini in generale. “Ogni carne è come l’erba” (1 Pietro 1:24; e anche Genesi 6:2, Gioele 2:28, Matteo 16:17, Galati 1:16, Efesini 6:12, Ebrei 2:10)
  3. Il corpo dell’uomo, distinto dall’anima e dallo spirito, e quello degli animali. “Non ogni carne è uguale; ma altra è la carne degli uomini, altra è la carne delle bestie” (1 Corinzi 15:39; e anche Efesini 5:29, 2 Corinzi 12:7, Galati 4:13, 1 Corinzi 5:5).
  4. La parte esterna del corpo, la pelle. “Egli portava un cilicio sulla carne” (2 Re 6:30; e anche Levitico 12:3, 22:6).
  5. L’apparato muscolare dell’uomo e degli animali. “Le mie ossa stanno attaccate alla mia pelle, alla mia carne” (Giobbe 19:20; e anche Levitico 1:6, 4:11).
  6. Una stretta relazione di parentela. “Non lo colpisca la nostra mano perché è nostro fratello, nostra carne” (Genesi 37:27). “Voi siete miei fratelli, siete mie ossa e mia carne” (2 Samuele 19:12)

I frutti che non ha potuto ottenere dal suo popolo terreno, sottoposto agli obblighi della sua legge, Dio li raccoglie ora dal suo popolo celeste, i credenti, in virtù dell’opera di grazia ch’Egli ha compiuto in loro. “Affinché siate ricolmi di frutti di giustizia che si hanno per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio” (Filippesi 1:11).

Tornando all’esempio della moglie e del marito, è bene insistere ancora sul fatto che non è la legge di Dio (raffigurata dal marito) a morire; essa non può morire, perché le esigenze di Dio sono sempre le stesse. E’ la donna che muore (essa raffigura i credenti). La legge di Dio è tuttora “viva” ma non ci viene più imposta perché apparteniamo al Signore, e siamo morti con Lui alla croce e risuscitati con Lui.

“Infatti, mentre eravamo nella carne, le passioni peccaminose, eccitate dalla legge, agivano nelle nostre membra allo scopo di portare frutti per la morte; ma ora siamo stati sciolti dai legami della legge, essendo morti a quella che ci teneva soggetti, per servire nel nuovo regime dello Spirito, e non in quello vecchio della lettera.”  (v. 5-6)

L’essere umano è fatto così: quando gli si proibisce qualcosa è stimolato alla trasgressione. Le passioni, gli istinti corrotti e colpevoli della nostra natura, portano alla morte, al giudizio di Dio; la legge di Dio li vieta, e il divieto suscita nell’uomo la voglia di contravvenire. Ma la contravvenzione implica la condanna. Noi credenti, però, siamo sciolti da questi vincoli della legge! La legge non ci può più condannare perché Cristo è morto per noi, avendo subito Lui la condanna di Dio per le nostre trasgressioni; e noi siamo morti con Cristo.

Ma qualcuno potrebbe chiedersi: Il credente, allora, può fare ciò che vuole? Non è più tenuto a rispettare le regole morali delle leggi di Dio? Certo che deve rispettarle. Il credente deve servire Dio, ma lo fa con tutt’altro spirito: non più da schiavo, ma da libero; non più come sottoposto a delle prescrizioni e a un codice legale, pena la condanna in caso di trasgressione, ma con l’aiuto dello Spirito che è in lui e la gioia di sapere che la vita eterna gli è già stata data per la fede. Inoltre, il credente ubbidisce a Dio per amore, con un sentimento di profonda riconoscenza per la grazia che gli è stata fatta, e col vivo desiderio di piacere al Signore e di onorarlo in questo mondo dov’Egli è stato disprezzato e ucciso.

Il ruolo della legge

“Che cosa diremo dunque? La legge è peccato? No di certo! Anzi, io non avrei conosciuto il peccato se non per mezzo della legge; poiché non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non concupire.” (v. 7)
Se di fronte a una proibizione della legge siamo stimolati a trasgredire, la colpa non è della proibizione ma del peccato che è in noi. Non possiamo per questo dire che la legge e il peccato sono la stessa cosa. Anzi, la legge di Dio ci ha insegnato a identificare il peccato, a riconoscerlo, e ci ha anche insegnato a prendere coscienza della nostra colpevolezza. Bramare le cose degli altri o la donna degli altri (Esodo 20:17) potrebbe sembrare del tutto naturale; ma quando la legge di Dio lo proibisce noi capiamo che è peccato.

“Ma il peccato, colta l’occasione per mezzo del comandamento (*) , produsse in me ogni concupiscenza; perché senza la legge il peccato è morto. Ci fu un tempo nel quale vivevo senza legge (**); ma, venuto il comandamento, il peccato prese vita e io morii; e il comandamento che avrebbe dovuto darmi vita, risultò che mi dava morte.”  (v. 8-10)

Paolo parla in prima persona, ma è ovvio che questa è l’esperienza di ognuno. Il comandamento, stuzzicando in noi la voglia di peccare, ci fa scoprire che in noi c’è il peccato. Infatti, finché non v’è una legge che ponga dei divieti non si è consapevoli di questa terribile presenza. Mi confronto col comandamento e scopro in me degli impulsi contrari che mi spingono a fare il male. La morte ne è la conseguenza, nel senso che io cado sotto la condanna di Dio. I comandamenti mi condannano a morte per la mia incapacità ad osservarli.

“Perché il peccato, colta l’occasione per mezzo del comandamento, mi trasse in inganno (***) e, per mezzo di esso, mi uccise.”   (v. 11)

Non è il comandamento che uccide,  ma il peccato, il quale, suggerendoci con inganno di andare contro gli ordini di Dio e mettendo in noi la voglia di disubbidire, ci pone sotto la sua disapprovazione e la sua giusta condanna. E’ questa la “seduzione del peccato”.

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(*) In questa Epistola è usato sette volte il termine “comandamento” (in greco “entolé” = ordine, prescrizione); sei in questo solo capitolo.
(**) Questa traduzione rende il testo più semplice, ma molto probabilmente non è quella esatta. Si dovrebbe dire: “Ci fu un tempo nel quale, senza legge, vivevo”. Non che Paolo pensasse che quelli che sono senza la legge di Dio vengano considerati innocenti e quindi tutti salvati! No. Prima che Dio desse agli Israeliti quella lunga serie di ordini e di comandamenti che costituiscono “la legge”, ogni essere umano aveva, in ogni caso, la coscienza che lo approvava o disapprovava. “Ne sono testimoni la loro coscienza e i loro pensieri che si accusano e anche si scusano” (Rom. 2:15). Paolo non è mai stato senza legge, perché era  Israelita, ma sapeva che, anche fra i popoli che non hanno mai conosciuto la legge di Dio, vi saranno dei salvati che forse hanno trasgredito dei principi della legge divina, ma che hanno comunque, con uno spirito di fede e di umiltà, rispettato le regole della loro coscienza e le leggi della natura che sono in ogni uomo.
(***) In greco “exapatao”, illudere, abbindolare, sedurre. Lo stesso termine è usato in 2 Corinzi 11:3 (“Come il serpente sedusse Eva…”) e 1 Timoteo 2:14 (“La donna, essendo stata sedotta cadde in trasgressione”).

“Così la legge è santa, e il comandamento è santo, giusto e buono. Ciò che è buono diventò dunque per me causa di morte? Per niente! E’ invece il peccato che mi è diventato morte, perché si rivelasse come peccato, causandomi la morte mediante ciò che è buono; affinché, per mezzo del comandamento, il peccato diventasse estremamente peccante.”   (v. 12-13)

E’ giusto difendere la legge di Dio da ogni attacco. “La legge del SIGNORE è perfetta,… la testimonianza del SIGNORE è veritiera, … i precetti del SIGNORE sono giusti, … il comandamento del SIGNORE è limpido, … i giudizi del SIGNORE sono verità” (Salmo 19:7-10). Come può, allora, una cosa così buona, diventare così nefasta? No. Non è la legge di Dio che mi fa morire, ma è il peccato, perché la morte è “il salario del peccato”. Il comandamento di Dio non ha fatto altro che smascherarlo. Il peccato che è in me, facendomi cadere sotto la giusta condanna di Dio a motivo della sua santa legge non rispettata, è apparso in tutta la sua virulenza. Il comandamento l’ha mostrato quale esso è: estremamente peccaminoso, contrario a Dio e a ogni bene.

La legge del peccato
“Sappiamo infatti che la legge è spirituale, ma io sono carnale, venduto schiavo al peccato.”  (v. 14)
La carne e lo spirito non vanno d’accordo. Le cose spirituali non sono comprese dalla carne e non si possono applicare alla carne. “L’uomo naturale non riceve le cose dello Spirito di Dio” (1 Corinzi 2:14). Così la legge di Dio, data all’uomo naturale, non rigenerato dall’opera della grazia, non può essere osservata, e non può portare alcun miglioramento al suo misero stato di peccatore perduto. Il problema sta dunque in noi, non nella legge di Dio. La legge è come un utensile perfetto, in mano ad un ottimo operaio che è però costretto a lavorare su un materiale scadente, che si sgretola (e questo è l’uomo); il risultato non può essere che deludente. La legge è buona, ma non mi può trasformare e rendere buono!

Quando dice “io sono carnale” (*) Paolo non vuol dire “io sono un credente carnale”, ma “io, come essere umano, sono sotto il dominio della carne”. Fra poco parlerà della grande liberazione di Dio mediante la fede nell’opera di Cristo.

“Io non approvo quello che faccio: infatti non faccio quello che voglio ma faccio quello che odio. Ora, se faccio quello che non voglio, ammetto che la legge è buona; allora non sono più io che lo faccio, ma è il peccato che abita in me.”  (v. 15-17)

Qui inizia una delle parti più conosciute di quest’Epistola. Paolo descrive in prima persona l’esperienza deludente di un Israelita pio, che ama la legge di Dio e vorrebbe osservarla, ma che scopre in sé una forza opposta che lo spinge a fare le cose che non vorrebbe. Dico Israelita pio perché a quell’epoca erano soprattutto gli Ebrei che conoscevano la legge. Ma la stessa esperienza la può fare ancora oggi un cristiano che conosce, attraverso la Parola, la volontà del Signore, ma non ha ancora sperimentato, per la fede, la liberazione in Cristo, come vedremo nei brani che seguono.

La conoscenza della legge illumina la coscienza e affina la percezione dell’uomo su ciò che è bene e ciò che è male. Chi la conosce e ama Dio odia il male e non vorrebbe commetterlo. Ma ogni tanto ci casca. Come mai? “E’ il peccato che abita in me”, dice Paolo, che mi spinge a fare le cose che non vorrei. Però, il fatto che io soffra della mia incapacità di fare il bene, è un segno che nelle mie intime convinzioni io approvo la legge e la considero buona.

“Difatti, io so che in me, cioè nella mia carne, non abita alcun bene; poiché in me si trova il volere ma il modo di compiere il bene no. Infatti, il bene che voglio non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio.”  (v. 18-19)

Nel nostro essere naturale, nella nostra carne, non c’è niente di buono. Nell’esperienza descritta in questi versetti, il credente ha la volontà di fare, ma gli manca l’energia. I buoni propositi ci sono, ma mancano i mezzi. Allora, ci troviamo a fare quello che il nostro senso morale detesta, e a non fare quello che invece ci starebbe tanto a cuore. Ecco il risultato della legge: farci conoscere la nostra miseria per portarci poi a chiedere aiuto a Dio e a trovare in Cristo la piena liberazione!

“Ora, se io faccio ciò che non voglio, non sono più io che lo compio, ma è il peccato che abita in me. Mi trovo dunque sotto questa legge: quando voglio fare il bene, il male si trova in me.”  (v. 20-21)

Paolo qui è come uno che non è padrone di se stesso; è come posseduto  dal peccato che non lo lascia libero di fare quel che vorrebbe, ma lo costringe a compiere cattive azioni. “Non sono più io, ma è il peccato”. Paolo usa, in questo capitolo, il termine legge per indicare una forza che si impone, alla quale la nostra carne obbedisce. Questo tragico divario tra il volere e il fare è più forte di noi.

“Infatti, io mi compiaccio della legge di Dio secondo l’uomo interno, ma vedo un’altra legge nelle mie membra che combatte contro la legge della mia mente e mi rende prigioniero della legge del peccato che è nelle mie membra.”   (v. 22-23)

A che vale avere dei buoni propositi per poi non poterli attuare? Interiormente possiamo godere  della legge di Dio, giudicarla buona; la nostra mente, la nostra ragione, la nostra coscienza non possono fare a meno di approvarla. Anche questa è una legge, la legge della nostra mente. Ma la legge del peccato è più forte della legge della mente, vale a dire di quello che pensiamo e   riteniamo giusto. E’ una forza malvagia che ci domina e ci mette in conflitto coi nostri pensieri e la nostra coscienza. Siamo prigionieri del peccato! Chi ci libererà?

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(*) “Io sono carnale” in greco “sarkinos” = in carne e ossa. Ma “voi siete carnali” di 1 Corinzi 3:2 è “sarkikos” = carnale, vale a dire uno che vive senza la guida e la forza dello Spirito di Dio.

“Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore. Così dunque, io con la mente servo la legge di Dio, ma con la carne la legge del peccato.”   (v. 24-25)

Non è difficile per un  uomo intelligente riconoscere di essere peccatore per aver avuto pensieri corrotti e commesso qualche atto cattivo. Ma è molto difficile, invece, riconoscere la propria totale incapacità a fare il bene come Dio lo chiede. Questo è il grido di angoscia di chi sa di essere prigioniero e invoca la liberazione; di chi ha capito che il proprio corpo, sotto il dominio del peccato,  non può far altro che commettere il male.

Chi ci libererà? Paolo non risponde: “Dio mi libererà”, ma ringrazia Dio perché la liberazione è già avvenuta! “Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore”!

Chi crede in Cristo è perfettamente liberato, anche se in lui rimane un conflitto fra la carne e lo Spirito: “Perché la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; sono cose opposte fra di loro; in modo che non potete fare quel che vorreste” (Galati 5:17). Colui che è diventato una nuova creazione in Cristo è libero di fare il bene con l’aiuto e la potenza dello Spirito che lo ha suggellato.

Ringraziato sia Dio! Il credente non è sottoposto alla legge del peccato, anche se spesso non realizza nella sua vita questo dato di fatto.

Paolo qui è come un uomo che per fede ha compreso la sua posizione nel Signore davanti a Dio: non solo perdonato dai peccati, non solo libero dalla schiavitù del peccato e dalle imposizioni della legge, ma in grado di fare le opere di Dio nella piena libertà di figlio. E poi insiste nuovamente sul fatto che le buone intenzioni non bastano. Servire la legge di Dio con la mente, vale a dire avere una sincera volontà di farlo, non basta; la legge va rispettata e ubbidita nella pratica, con atti concreti. E la carnenon è in grado di farlo. La carne serve la legge che il peccato le impone e non non può servire la legge di Dio.

CAPITOLO 8

La liberazione per opera dello Spirito Santo

 “Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù (*), perché la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte.”  (v. 1-2)

E’ un grido di vittoria e di liberazione. Quelli che hanno ricevuto Gesù Cristo come loro Salvatore non subiranno mai più alcuna condanna perché Dio li ha “giustificati”, li ha “perdonati”, li ha “identificati” col suo Figlio e li ha uniti a Lui. Il suo sangue ci purifica da ogni peccato (1 Giovanni 1:7) e la sua vita nel cielo è la nostra stessa vita. “Io sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me; e la vita che vivo ora nella carne la vivo nella fede del Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Galati 2:20). La questione dei nostri peccati è risolta per sempre. Cristo è stato condannato al nostro posto. Se Dio ci ora condannasse sarebbe come un creditore che richiede di nuovo il pagamento di un debito che già è stato estinto.

Dio sia lodato! Noi credenti non siamo più sotto l’imposizione della legge né sotto il crudele dominio del peccato. Ne siamo stati completamente liberati.  Lo Spirito della vita (**), quello stesso che operava in Cristo, opera adesso in noi, controlla la nostra vita, ci fornisce le direttive e la potenza per onorare Dio.

Circa settanta volte in questa lettera ai Romani compare il termine “legge”. E anche qui è usato, e può sembrare strano, in rapporto con lo Spirito della vita. Legge indica, negli scritti di Paolo, un principio rigoroso, una regola immutabile ai cui obblighi non ci si può sottrarre. In questo senso è usato in molti contesti:

legge di Dio in generale, i suoi comandamenti (in moltissimi passi a cominciare da Romani 2:12)

legge della fede (3:27)

legge del matrimonio (7:2)

legge della mente (7:23)

legge del peccato (7:23)

legge che mi rende prigioniero della legge del peccato (7:23)

legge dello Spirito (8:2)

legge della morte (8:2)

“Infatti, ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha fatto; mandando il proprio Figlio in carne simile a carne di peccato e, a motivo del peccato, ha condannato il peccato nella carne, affinché il comandamento della legge fosse adempiuto in noi che camminiamo non secondo la carne, ma secondo lo Spirito.” (v. 3-4)

Lo scopo della legge era di liberare dalla condanna del peccato quelli che l’avessero osservata; in altre parole, di fare in modo che Dio potesse considerarli “giusti” . Ma non è stato possibile; non per debolezza della legge, ma per la debolezza umana, per colpa della nostra natura di peccato che non riesce a sottomettersi a Dio. Allora, Dio è intervenuto. Ha fatto Lui quello che la legge non poteva fare; in che modo? Paolo lo spiega qui con una frase che a prima vista può sembrare un po’ contorta, anche per come è scritta in questa versione. I punti sono tre:

  1. Dio ha mandato il proprio Figlio in carne, vale a dire sotto forma di uomo, simile a noi. “Poiché i figli hanno in comune sangue e carne, Egli pure vi ha similmente partecipato… doveva diventare simile ai suoi fratelli in ogni cosa” (Ebrei 2:14-17). Simile, non uguale, in quanto Egli è l’uomo venuto dal cielo (1 Corinzi 15:47). Cristo è stato un uomo perfetto non solo perché non ha mai commesso peccati, ma perché “in Lui non c’è peccato” (1 Giovanni 3:5).
  2. Dio lo ha mandato a motivo del peccato, s’intende a causa del peccato, del problema del peccato che la sua opera di grazia doveva risolvere.
  3. Dio ha condannato il peccato legato alla carne, e l’ha fatto colpendo il suo Figlio sulla croce dove, essendo stato fatto peccato per noi, ha subìto per noi la Sua giusta condanna. “Colui che non ha conosciuto peccato, Egli lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in Lui” (2 corinzi 5:21).

Grazie a questo intervento di Dio, ora noi possiamo testimoniare di Cristo nella nostra vita e comportarci “in modo degno del Signore”. Il nostro amore verso tutti gli uomini, la nostra separazione dal male e dal mondo, il nostro impegno per la causa di Dio, soddisferanno le esigenze della legge. La legge è così compiuta in noi.

Ma Paolo aggiunge: “Che camminiamo non secondo la carne, ma secondo lo Spirito“. Nella pratica, purtroppo, non sempre le cose stanno così. Non sempre la nostra vita è sotto la direzione dello Spirito Santo. Al posto del suo “frutto” (Galati 5:22) noi manifestiamo a volte “le opere della carne” (Galati 5:21) e il Signore è disonorato. Ma questo, per quanto riprovevole sia, non cambia il fatto che siamo in Cristo. Come figli, se disonoriamo il Padre, saremo ripresi, castigati; dovremo andare a Lui con umiliazione e confessargli la nostra caduta. Ma il fatto che siamo “figli” nessuno potrà mai toccarlo. “Non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù”! “Se diciamo di essere senza peccato inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, Egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità… Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; e se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto” (1 Giovanni 2:1).

“Infatti, quelli che sono secondo la carne, pensano alle cose della carne; invece, quelli che sono secondo lo Spirito, pensano alle cose dello Spirito.”   (v. 5)

L’espressione “secondo la carne” sembrerebbe riferirsi a dei credenti nella condizione di Romani cap. 7, in quanto per i non credenti si dovrebbe dire che sono nella carne, come eravamo noi prima di credere al Signore. La carne era la nostra sola guida, il principio informatore di tutti i nostri pensieri e i nostri comportamenti. I riscattati del Signore, invece, non sono più nella carne (anche se la carne è ancora in loro) ma nello Spirito, cioè si sono lasciati trasformare da Lui e vivono seguendo le sue direttive. La presenza dello Spirito Santo in noi che crediamo è un “sigillo” indelebile, una garanzia della nostra appartenenza al Signore (Efesini 1:13-14); ma è anche la potenza della nostra nuova vita in Cristo.

“Infatti, ciò che brama la carne è morte, mentre ciò che brama lo Spirito è vita e pace; infatti ciò che brama la carne è inimicizia contro Dio, perché non è sottomesso alla legge di Dio e neppure può esserlo; e quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio.” (v. 6-8)

Carne e Spirito sono dunque opposti e incompatibili. Il conflitto fra loro è inevitabile, “perché la carne ha desideri contrari allo Spirito, e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; sono cose opposte tra di loro” (Galati 5:17). Come può la carne piacere a Dio? La carne è legata a questo mondo con tutte le sue contraddizioni, col peccato che impera, con scale di valori molto lontane da quella di Dio. Le sue aspirazioni, i desideri, le speranze, tutto è orientato verso l’esaltazione dell’io, la soddisfazione dei piaceri, il raggiungimento di obiettivi e di posizioni dove Dio e i suoi diritti non hanno nessun posto. E contro Dio e lontano da Lui c’è morte, solo morte.

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(*) Alcuni manoscritti aggiungono: “i quali camminano non secondo la carne ma secondo lo Spirito”. E’ una frase che certamente non c’è nel testo originale.
(**) E’ la seconda volta che Paolo parla di Spirito in questa lettera; da adesso lo citerà sovente.

Lo Spirito, invece, proviene da Dio e ci dà gli strumenti per valutare esattamente la realtà. Le cose che prima ci attiravano, ora ci ripugnano; gli obiettivi verso i quali prima tendevamo si rivelano assurdi e inconsistenti; il vuoto del nostro cuore, che prima cercavamo di riempire con soddisfazioni effimere e traditrici, è ampiamente colmato dal Signore, dalla gioia della salvezza, dalle vittorie della fede, dalla speranza in un futuro di gloria. Vita e pace sono la conseguenza della nostra relazione con Dio nello Spirito, e della nostra vita guidata da Lui.

“E’ lo Spirito che vivifica; la carne non serve a nulla” (Giovanni 6:63).

“Voi però non siete nella carne ma nello Spirito, se lo Spirito di Dio abita veramente in voi; e se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, egli non appartiene a Lui.” (v. 9)

Qui c’è la vera situazione del credente: lo Spirito è in lui, lo mette in contatto vivente con Dio  e controlla tutta la sua vita. E’ in noi lo Spirito di Cristo? Certo, se siamo suoi, per la fede; perché quando si crede si diventa proprietà del Signore, comprati col suo prezioso sangue; e lo Spirito viene a fare dimora in noi, come il Signore l’aveva predetto ai discepoli: “Lo Spirito della verità che il mondo non può ricevere… Voi lo conoscete, perché dimora con voi e sarà in voi” (Giovanni 14:17). “Non sapete voi che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi, il quale avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?” (1 Corinzi 6:19).

Ma se Cristo è in voi, certo il corpo è morto a causa del peccato, ma lo Spirito è vita a causa della giustizia. Se lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù dai morti (*) abita in voi, Colui che ha risuscitato Cristo Gesù dai morti vivificherà anche i vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.” (v. 10-11)

Prima è detto che noi siamo in Cristo, adesso che Cristo è in noi. Sono due aspetti della stessa verità. Noi siamo in Cristo, una stessa cosa con Lui, assimilati a Lui nella sua morte e nella sua vita di risurrezione. Ma è anche vero che Cristo è in noi perché vive in noi per mezzo dello Spirito.

Quanto al corpo, esso è mortale. La condanna pronunciata su Adamo si è estesa a tutti; la morte è passata su tutti gli uomini “perché tutti hanno peccato” (Romani 5:12). Ma lo Spirito, che ora abita dentro di noi è vita; vita in se stesso, perché è Dio; vita per noi perché siamo diventati giusti, giustificati per fede, completamente perdonati, lavati dal sangue di Cristo, destinati alla vita eterna. Non solo, ma grazie alla presenza in noi dello Spirito, anche noi risusciteremo dai morti come è risuscitato Lui. Se poi il Signore verrà prima della nostra morte, saremo “mutati”.

“Così dunque, fratelli, non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne; perché se vivete secondo la carne voi morrete; ma se mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete; infatti, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio.” (v. 12-14)

Cosa ci può ancora chiedere la carne? Cosa le dobbiamo? Dobbiamo ancora compiere le cose ch’essa pretende? Assolutamente no. Abbiamo già visto che le opere della carne portano alla morte, al giudizio di Dio. Non solo non le dobbiamo nulla, ma dobbiamo farla morire, far morire i suoi atti, gli istinti peccaminosi del nostro corpo mortale (Colossesi 3:5) (*). In che modo? Chi ci dà l’energia? Paolo dice: Mediante lo Spirito! La sua potenza e la sua guida sono le nostre risorse. Se ci facciamo guidare da Lui saremo vincitori sulla nostra carne, sul mondo, su Satana, sul peccato. E mostreremo nella pratica, a tutti quelli che ci stanno vicino, la realtà della nostra meravigliosa posizione in Cristo, quella  di figli di Dio che amano il loro Padre e desiderano onorarlo attenendosi al perfetto esempio dato dal Signore.

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(*) In questo capitolo lo Spirito è chiamato sia “Spirito di Dio”, in contrapposizione con la nostra natura di esseri peccatori, la carne, sia “Spirito di Cristo” potenza della vita del nostro Salvatore che è diventata anche nostra per la fede in Lui. Qui, inoltre, è anche chiamato “Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù” vale a dire Spirito di Dio il quale ha risuscitato Gesù Cristo.

“E voi non avete ricevuto uno spirito di servitù per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito d’adozione (**)mediante il quale gridiamo: “Abbà” (***) Padre!”  (v. 15)

Prima, sotto la schiavitù del peccato e della legge, avevamo paura; paura di contravvenire alla volontà di Dio, di infrangere i suoi comandamenti; paura della sua disapprovazione, del suo giusto castigo, della morte; paura anche di questa nostra mancanza congenita di volontà e di energia per opporci al male che spadroneggiava dentro di noi. Ma adesso che Cristo ci ha liberati e ci ha suggellati col suo Spirito, possiamo avvicinarci a Dio con serenità e sicurezza. Siamo suoi figli adottivi, possiamo chiamarlo “Padre”. “Siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù… E perché siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori che grida: Abbà, Padre!” (Galati 3:26 e 4:6).

“Lo Spirito stesso attesta insieme col nostro spirito, che siamo figli di Dio; se siamo figli, siamo anche eredi; eredi di Dio e coeredi di Cristo, se veramente soffriamo con lui, per essere anche glorificati con lui.” (v. 16-17)

Ecco una delle tante funzioni dello Spirito Santo in noi. La sua testimonianza si aggiunge a quella del nostro spirito. Noi già sappiamo di essere figli di Dio avendo creduto nel Signore (“A tutti quelli che l’hanno ricevuto Egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio”, Giovanni 1:12), ma lo Spirito Santo ce ne dà ulteriore conferma, ce lo attesta, ce lo garantisce.

Che grande cosa essere figli di Dio! Quante benedizioni riceviamo da questa relazione, dal fatto di essere, con pieno diritto, membri della sua famiglia! “Le cose che occhio non vide, e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell’uomo, sono quelle che Dio ha preparate per coloro che l’amano” (1 Corinzi 2:9). Qui Paolo ne segnala una: siamo eredi, nel senso che possediamo tutti i beni del nostro Padre: la vita eterna, il cielo infinito, la gloria… E noi siamo eredi come lo è il Signore, perché Egli “non si vergogna di chiamarci fratelli” (Ebrei 2:11). Essendo “il primogenito fra molti fratelli” (8:29), ciò che è suo è anche nostro, a parte la sua divinità e la sua gloria di Figlio di Dio, uno col Padre che non potrà mai condividere con nessuno. “Dio, in questi ultimi tempi ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose” (Ebrei 1:2).

Al v. 14 siamo come figli adottati, perché prima di accettare il Signore non eravamo figli; eravamo sue creature, nemiche e disubbidienti, con una natura peccatrice che non è certo quella di Dio. Quando abbiamo creduto, Dio ci ha “adottati come suoi figli”, ci ha dato il privilegio di portare il suo nome e di entrare nella sua casa.

Ma qui, al v. 16 siamo figli veri, “nati da Dio” (Giovanni 1:13), con la stessa natura del Padre. E’ dunque normale che su questa terra ci sia da soffrire per Lui. Anche il Signore ha sofferto, per la giustizia, per l’amore per gli altri, per la santità, per onorare Dio; ed ora, gli stessi sentimenti che erano in Cristo Gesù lo Spirito li mette in noi. Se soffriamo con Lui è segno che siamo suoi e che lo Spirito è in noi. E se siamo suoi e soffriamo con Lui, saremo anche glorificati con Lui.

Non bisogna confondere le sofferenze espiatorie  di Cristo con le altre sofferenze. Le prime sono quelle della croce, dovute al giudizio di Dio sui nostri peccati di cui s’era caricato; e sono sue, esclusivamente sue; nessuno di noi ha parte alcuna in quelle sofferenze. Ci sono poi le sofferenze dovute all’incomprensione degli uomini, al loro rifiuto della verità e dell’amore, all’ingratitudine, all’odio, all’egoismo, all’opposizione accanita di Satana; e queste sono anche la parte di tutti i riscattati del Signore che camminano in modo degno di Lui (Giovanni 16:33). Ma l’uomo di fede le considera poca cosa perché guarda alla gloria futura: “Perciò non ci scoraggiamo… perché la nostra momentanea, leggera afflizione ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria… perciò in questa terra gemiamo, desiderando di essere rivestiti della nostra abitazione che è celeste” (2 Corinzi 4:16-17 e 5:2).

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(*) Nel passo citato di Colossesi, l’espressione “fate morire” (in greco “necròsate”) significa lasciar morire per mancanza di nutrimento, esattamente come avviene nelle affezioni necrotiche dove un membro, o una parte di esso, va in cancrena perché non riceve più col sangue né nutrimento né ossigeno. In senso spirituale, gli impulsi della nostra carne possiamo farli morire se non li nutriamo, evitando di esporci a tentazioni e di coltivare abitudini o pensieri corrotti. Inoltre, se ci nutriamo con la preghiera, la lettura della Parola, la comunione col Signore e il suo servizio, la carne deperirà automaticamente.
(**) “Spirito”, in questo versetto come pure in molti altri, può essere tradotto sia con l’iniziale maiuscola che minuscola. Nel primo caso si riferirebbe allo Spirito Santo, detto “di adozione” perché  ci dà le conferme e la sicurezza della nostra posizione di figli adottivi del Padre. Nel secondo caso, traducendo “uno spirito di adozione”, si riferirebbe alle nostre intime convinzioni di essere figli di Dio. Nei versetti successivi questi concetti sono molto ben sviluppati.
(***) “Abba” è un termine aramaico che significa “papà”. In ebraico “Ab” significa padre.

La speranza gloriosa dei figli di Dio

 “Infatti io penso che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che deve essere manifestata a nostro riguardo.” (v. 18)

Questo versetto è di grande incoraggiamento per chi soffre, specialmente a causa della sua fede. Quell’afflizione che nel passo citato di 2 Corinzi 4:17 Paolo chiama “leggera” era, umanamente parlando, terribilmente pesante: “necessità, angustie, percosse, prigionie, tumulti, fatiche, veglie, digiuni…” (2 Corinzi  6:4-10 e 11:23-28). Ma “lo sguardo intento alle cose che non si vedono” e che sono eterne rendeva sopportabili questi dolori. Paolo sapeva che “dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni” e lo diceva ai discepoli, esortandoli a perseverare nella fede e a farsi coraggio (Atti 14:22).

La gloria segue la sofferenza. Come è stato per il Signore così sarà anche per i suoi; agli antichi profeti lo Spirito “anticipatamente testimoniava delle sofferenze di Cristo e della gloria che doveva seguirle” (1 Pietro 1:11). Ma sarebbe un grave errore considerare la sofferenza come un merito o come un mezzo indispensabile per entrare nel cielo. I meriti sono di Cristo e chi crede in Lui entra nel cielo, anche se ha la grazia di non passare per le sofferenze per le quali sono passati e passano tanti figli di Dio.

“Anche la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità (*) non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l’ha sottoposta, nella speranza, però, che la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà (**) dei figli di Dio.”  (v. 19-21)

Il peccato ha rovinato non solo l’uomo ma tutta la creazione. La “vanità” è la situazione di provvisorietà nella quale tutto il creato, uscito così bello dalle mani di Dio (Genesi 1:31), si trova adesso a causa del peccato. Ogni cosa deperisce e muore; e ogni cosa, un giorno, dovrà essere distrutta (2 Pietro 3:7-12). Di chi è la colpa? Chi ha sottoposto la creazione alla vanità? Dio? Satana? L’uomo? Certamente l’uomo. Lui è il colpevole perché, disubbidendo all’Eterno e dando fiducia a Satana, ha dato origine a una discendenza di peccatori, ribelli a Dio e ai suoi comandamenti. Per colpa sua, la terra è stata maledetta (Genesi 3:17-18); per colpa sua, Satana è ora il “principe di questo mondo” (Giovanni 14:30).

Ma la creazione ha una speranza di liberazione. Quando il Signore tornerà sulla terra visibile a tutti e regnerà per mille meravigliosi anni, i credenti saranno finalmente liberi da ogni legame col peccato e manifestati a tutti nella gloria,  e il creato godrà un benessere mai conosciuto prima. Tutta la creazione sarà benedetta quando l’uomo sarà benedetto. “Il lupo abiterà con l’agnello… il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà… Il lattante giocherà sul nido della vipera, e il bambino divezzato stenderà la mano sulla buca del serpente… Il deserto e la terra arida si rallegreranno, la solitudine gioirà e fiorirà come la rosa; si coprirà di fiori… perché delle acque sgorgheranno nel deserto, e dei torrenti nei luoghi solitari” (Isaia 11:6-8 e 35:1-7). Ma alla fine di quei mille anni, ogni cosa sarà fatta nuova; e noi, “secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e nuova terra” (2 Pietro 3:13).

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(*) In greco  “mataiotès” da “màtaios” che significa vano, vuoto, insignificante.
(**) “Gloriosa libertà” potrebbe anche essere tradotta con “libertà della gloria”, vale a dire la libertà prodotta dalla gloria di Dio, dalla sua potenza, dalla sua sapienza. Prima di godere la libertà della gloria, noi abbiamo conosciuto e godiamo la “libertà della grazia” di Dio; ma questa è solo per l’essere umano non per le altre creature.

“Sappiamo infatti che fino ad ora tutta la creazione geme ed è in travaglio; e non solo essa ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo dentro di noi, aspettando l’adozione, la redenzione del nostro corpo.” (v. 22-23)

Non c’è vegetale che non sia attaccato da microrganismi patogeni, non c’è animale che sfugga alle malattie; gli animali si assaltano, si feriscono, si sbranano, si divorano. Noi sentiamo questo gemito della natura forse più ancora di quelli che ci hanno preceduti, a causa dell’ inquinamento e dei danni prodotti dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. C’è come un profondo sospiro di sofferenza che si eleva dalla creazione, come di una donna che ha le doglie del parto.

Ma è interessante che Paolo includa anche noi credenti in questa sofferenza generale; anche noi  soffriamo nel nostro intimo, pur avendo ricevuto lo Spirito Santo come primizia, come primo acconto della grande messe delle future benedizioni (altrove detto “caparra”). Ma abbiamo una bella prospettiva: l’adozione, il nostro ufficiale riconoscimento quali figli di Dio, a pieno titolo e nel pieno significato del termine; e la redenzione (o liberazione) del nostro corpo, che oggi è ancora legato a questa creazione che soffre, alla venuta del Signore. Allora saremo trasformati (se ancora viventi) o risuscitati (se già deceduti) per essere introdotti nella casa del Padre (Efesini 4:30). “Perché in questa tenda gemiamo, desiderando di essere rivestiti della nostra abitazione celeste” (2 Corinzi 5:2).

Il credente, finché è sulla terra, non è esente dalle conseguenze del peccato. L’idea che da quando si è creduto si possa non cadere più malati o non avere più le sofferenze che hanno gli altri uomini, non è per niente biblica. Il Signore portava le nostre malattie (Isaia 53:4) nel senso che, quando era sulla terra come uomo, ha sofferto vedendo tanta sofferenza e ha liberato da molti mali quelli che ne erano colpiti (Matteo 8:16-17). Dalle Epistole sappiamo che anche molti credenti ragguardevoli si sono ammalati: l’apostolo Paolo (2 Corinzi 12:7, Galati 4:13-14), Epafrodito (Filippesi 2:25), Timoteo (1 Timoteo 5:23), Trofimo (2 Timoteo 4:20). Anche noi, dunque, gemiamo nell’attesa di essere liberati da questo corpo che, appunto per la sua  fragilità, è chiamato “il corpo della nostra umiliazione” (Filippesi 3:21) (*).

“Poiché noi siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede non è speranza; difatti, quello che uno vede perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l’aspettiamo con pazienza.”   (v.24-25)

Noi siamo salvati già da adesso, da quando abbiamo creduto, ma non possediamo ancora tutte le eterne e gloriose benedizioni della salvezza. Le avremo quando entreremo nel cielo. Per ora le aspettiamo. La speranza del credente non è un’attesa senza certezza di cose desiderate, ma un’attesa paziente con la piena convinzione di ottenere le cose promesse. Se le avessimo già, se le vedessimo già coi nostri occhi, non avremmo più bisogno di sperarle e di aspettarle. Ma le vediamo con gli occhi della fede, ed è per questo che siamo sicuri di ottenerle! “Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono” (Ebrei 11:1).

“Allo stesso modo, ancora, lo Spirito ci aiuta (*) nella nostra debolezza, perché noi non sappiamo pregare come si conviene; ma lo Spirito intercede per noi con sospiri (**) ineffabili; e colui che esamina i cuori sa quale sia il desiderio dello Spirito, perché egli intercede per i santi secondo il volere di Dio.”  (v. 26-27).

Nella nostra debolezza c’è anche l’incapacità di pregare come si deve, specialmente in presenza di malattie e di sofferenze. Noi non sappiamo cosa chiedere a Dio e non riusciamo a dirgli, con le giuste parole, quello che vorremmo e dovremmo dire. Allora interviene lo Spirito. Egli partecipa ai nostri dolori e ai nostri problemi, e fa salire dai nostri cuori i suoi “sospiri” che non si possono tradurre in parole, ma che Dio sa interpretare. Perché Dio, che scruta i cuori, sa quale sia il pensiero e il desiderio dello Spirito che è in noi, e sa che è esattamente il nostro pensiero e il nostro desiderio profondo, ma che non riusciamo ad esprimere a causa della nostra debolezza. Quest’opera di intercessione è una delle funzioni dello Spirito Santo. Il termine “Consolatore” (in greco “paràcletos”) col quale il Signore lo definisce (Giovanni 14:26), significa anche difensore e intercessore.

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(*) E’ comunque vero che il Signore ha sofferto alla croce anche per poter guarire le sue creature dalle malattie che altro non sono che una delle tante conseguenze del peccato. Nel Millenio questo si realizzerà; Isaia 53:4 ne fa allusione come di una benedizione che gli Israeliti, e non solo loro,  avrebbero goduto e continuato a godere se avessero accettato il Signore come il loro Messia. Ma, avendolo essi respinto, questo non si è potuto realizzare, e la creazione è tuttora sottoposta “alla vanità” dalla quale sarà liberata soltanto all’instaurazione del Suo regno in gloria. Daltronde già Deuteronomio faceva questa promessa: “Se darete ascolto a queste prescrizioni, se le osserverete e le metterete in pratica, Egli ti amerà e ti benedirà… Il Signore allontanerà da te ogni malattia e non manderà su te alcuno di quelle funeste malattie d’Egitto, che ben conoscesti” (Deuteronomio 7:12-15). La “guarigione” di cui parla Malachia 4::2 che sarà “nelle ali” del Sole della giustizia, e quella di Apocalisse 22::2 che è “nelle foglie” dell’albero della vita non fanno forse allusione anche alla guarigione fisica?

La preghiera ha delle regole e dei princìpi ai quali ci dobbiamo attenere per onorare Dio e poter essere esauditi, per esempio:

  1. Pregare il Padre“nel nome del Signore Gesù” (Giovanni 16:23), vale a dire riconoscendo che è grazie al valore della sua Persona e della sua opera che possiamo chiedere qualcosa a Dio ed essere ascoltati.
  2. Domandare cose che siano “secondo la sua volontà” (1 Giovanni 5:14) e non per la soddisfazione dei nostri desideri carnali (Giacomo 4:3).
  3. Fare in modo che “il nostro cuore” (che in questo passo è la nostra coscienza rinnovata dagli affetti di Cristo), “non ci condanni” in quello che facciamo o diciamo (1 Giovanni 3:21-22).
  4. Avere una vita di ubbidienza al mandato che abbiamo ricevuto dal Signore, “dei frutti permanenti” (Giovanni 15:16), quale risultato del nostro servizio.
  5. Chiedere “con fede, senza star punto in dubbio” (Giacomo 1:6).
  6. Pregare “con insistenza”, con perseveranza, senza stancarsi (Luca 18:1, Colossesi 4:2).

Il risultato benefico dell’amore di Dio

 “Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.”  (v. 28)

Qui c’è una delle più consolanti certezze. Se non sappiamo come pregare, una cosa sappiamo: tutte le situazioni e le circostanze che attraversiamo, belle o brutte, piacevoli o tristi, concorrono al nostro bene. Possiamo non vederlo subito; potremmo anche non capirlo mai in questa vita, ma è così. Solo la fede può farci accettare questo e portarci ad una piena sottomissione al nostro Padre che ha tutto nelle mani, che sa cos’è bene per noi, ed ha come obiettivo finale il nostro progresso spirituale o il progresso di quelli che ci stanno vicini o la salvezza di qualcuno che amiamo.

Quelli che amano Dio sono tutti i riscattati del Signore. Paolo non fa qui una distinzione fra i credenti che hanno più amore per Dio e quelli che ne hanno meno. Quelli che amano Dio sono coloro che sono stati chiamati alla salvezza secondo il suo progetto di grazia.

“Perché quelli che ha preconosciuti, li ha pure predestinati a essere conformi all’immagine (*) del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli; e quelli che ha predestinati li ha pure chiamati; e quelli che ha chiamati li ha pure giustificati; e quelli che ha giustificati li ha pure glorificati.”  (v. 29-30)

In questi versetti Paolo ci svela un mistero del piano di salvezza di Dio. Si tratta di tre straordinari privilegi ai quali i riscattati del Signore sono predestinati da prima della creazione del mondo:

  1. Essere “adottati per mezzo di Gesù Cristo come suoi figli” (Efesini 1:5).
  2. Essere resi “conformi all’immagine del suo Figlio” (v. 29).
  3. Essere eredi con Cristo (Efesini 1:11, Romani 8:17)

In altre parole, i credenti non solo sono uomini e donne perdonati, liberati dai loro peccati e dall’eterna condanna, giustificati e resi degni della vita eterna, ma addirittura sono fatti figli di Dio e identificati con Cristo e coi suoi privilegi tanto da essere conformi alla sua stessa immagine. “Come abbiamo portato l’immagine del terrestre, così porteremo anche l’immagine del celeste” (1 Corinzi 15:49). “Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove aspettiamo anche come Salvatore il Signore Gesù Cristo, che trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria” (Filippesi 3:20-21). “E noi tutti, rispecchiando a viso scoperto la gloria del Signore, siamo trasformati nella sua stessa immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2 Corinzi 3:18).

Il Signore è il primogenito fra molti fratelli per i privilegi e le dignità che ha in seno alla famiglia dei credenti. Anche in Israele ai primi figli erano riconosciuti privilegi particolari:

  1. Posizione eminente: “Sii padrone dei tuoi fratelli e i figli di tua madre si inchinino davanti a te” (Genesi 27:29; vedere anche 49:3-4). In questo senso va letto Ebrei 1:6 riferito al Signore.
  2. Doppia eredità: “Gli daràuna parte doppia di tutto quello che possiede; poiché egli è la primizia del suo vigore e a lui appartiene il diritto di primogenitura” (Deuteronomio 21:17).

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(*) Il termine originale significa farsi carico di qualcuno, sostenerne la causa standogli vicino.
(**) Il termine “stenazo” qui tradotto con sospiri è usato, nel testo originale, anche nei vv. 22 e 23 dov’è tradotto con gemiti.  La creazione sospira sotto la schiavitù della corruzione, e anche noi sospiriamo aspettando la liberazione finale. I sospiri dello Spirito sono un’espressione figurata, per dire che lo Spirito partecipa concretamente alle nostre dolorose esperienze. Ciò non ha nulla a che vedere con i linguaggi “strani” delle estasi mistiche, e non significa che i credenti, durante le loro preghiere, debbano gemere e sospirare per essere esauditi dal Padre.

Il nostro Signore ha diverse primogeniture. Egli è:

Primogenito  fra molti fratelli” (v. 29)

Primogenito di ogni creatura (o meglio: di tutta la creazione)” (Colossesi 1:15) nel senso che ha il posto di dignità e di supremazia su tutte le cose da Lui stesso create.

Primogenito  dai morti” (Colossesi 1:18, Apocalisse 1:5) in quanto fu il primo a risuscitare per non morire mai più (vedere 1 Corinzi 15:22-23).

Sulla predestinazione si può osservare che non è mai scritto che Dio predestini gli uni alla salvezza e gli altri alla perdizione, in quanto la salvezza è a disposizione di tutti gli uomini, nessuno escluso. Gesù Cristo “diede se stesso qual prezzo di riscatto per tutti  (cioè: in vista di tutti)” (1 Tim. 2:6), anche se soltanto “molti” e non tutti, purtroppo, saranno salvati (Ebrei 9:28, Isaia 53:12, Marco 10:45). Accettare o rifiutare la grazia di Dio in Cristo è responsabilità di ogni uomo. Chi non crede non può dire: Non sono stato predestinato! Ma quelli che hanno creduto scoprono con immensa gioia di essere stati predestinati

– ad essere adottati come figli di Dio (Efesini 1:5),

– ad essere eredi suoi (Efesini 1:11)

– ad essere resi conformi alla sua immagine.

Ovviamente Dio può “eleggere” in anticipo grazie alla sua preconoscenza (1 Pietro 1:2) perché sa tutte le cose prima che avvengano.

Ma quale via Dio percorre per raggiungere questi gloriosi obiettivi del suo progetto di grazia? La vediamo al v.30: chiama con la predicazione del Vangelo (vedere 2 Tessalonicesi 2:14),  giustifica chi ha fede in Cristo (vedere Romani 5:1), glorifica i salvati (vedere Romani 8:18).

“Che diremo dunque riguardo a queste cose? Se Dio è per noi chi sarà contro di noi? Colui che non ha risparmiato il proprio Figlio ma l’ha dato per tutti noi, non ci donerà forse anche tutte le cose con Lui?” (v. 31-32)

Quale conclusione si può dunque trarre? E con quali parole si possono esprimere queste meraviglie? Dio è dalla nostra parte perché ci ha fatti suoi; noi siamo il frutto del tormento del suo amato Figlio (Isaia 53:11). Che riposo per l’anima, che sicurezza! Chi potrà mettersi contro di noi? Dio, pur amando il proprio Figlio al di sopra di tutte le cose, non l’ha risparmiato perché noi fossimo salvati. E se ci ha fatto un dono così grande, ci darà anche tutte le altre benedizioni che ha previsto per noi, e soddisferà a tutti i nostri bisogni.

L’espressione “chi sarà contro di noi?” non significa che noi credenti non avremo mai più nessun nemico. Anzi, proprio perché siamo dalla parte di Dio, Satana si accanisce contro di noi e il mondo ci respinge fino ad odiarci. Le persecuzioni ne sono una prova evidente. “Se il mondo vi odia –  diceva il Signore – sapete bene che prima di voi ha odiato me… Se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi… Ma tutto questo ve lo faranno a causa del mio nome” (Giovanni 15:18-21). Qui Paolo vuol dire che nessuno potrà mai toglierci né i privilegi né la gloria che Dio ci ha dato né l’alta posizione che ora occupiamo in Cristo.

“Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio è colui che li giustifica. Chi li condannerà? Cristo Gesù è colui che è morto e, ancor più, è risuscitato, è alla destra di Dio e anche intercede per noi.”  (v. 33-34)

La nostra sicurezza è totale. Nessuno potrà più accusarci per i nostri peccati perché Dio ci ha giustificati. Nessuno potrà più condannarci come colpevoli perché siamo al riparo dell’opera di Cristo. E poi, se non ci ha condannato Dio, chi avrà mai l’autorità per farlo? Come sono belle le parole del Signore alla donna adultera (Giovanni 8:3-11): “Donna, dove sono quei tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata? Ella rispose: Nessuno, Signore. E Gesù le disse: Neppure io ti condanno; va’ e non peccare più”.

Satana, comunque, continua ad accusarci; egli è “l’accusatore dei fratelli”, colui che “giorno e notte li accusa davanti a Dio” (Apocalisse 12:10). Ma il nostro Avvocato e Sommo Sacerdote intercede per noi (Ebrei 7:25). “Se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. Egli è la vittima espiatrice per i nostri peccati” (1 Giovanni 2:1-2). In Zaccaria 3:1-5 vediamo il sommo sacerdote Giosuè davanti a Dio, accusato da Satana; ha insudiciato i suoi abiti sacri! Ma Dio interviene: gli fa togliere di dosso i vestiti sudici e dice: “Guarda, io ti ho tolto di dosso la tua iniquità, e t’ho vestito di abiti magnifici!”. Satana non può nulla contro quelli che sono purificati dal sangue di Cristo e rivestiti della sua giustizia.

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(*) Dal greco “eikon”, figura, immagine, rappresentazione. In questo caso significa avere le stesse caratteristiche percepibili.

“Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Sarà forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come è scritto: Per amor di te siamo messi a morte tutto il giorno; siamo stati considerati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori (*), in virtù di colui che ci ha amati.” (v. 35-37)

L’amore di Cristo per noi è infinito ed eterno. Nella tribolazione e nell’angoscia potrebbe venirci il pensiero di essere lasciati soli; ma Egli si fa sentire al nostro fianco. Nella persecuzione, il Signore dà la forza necessaria per affrontarla, nella fame e nella nudità provvede al bisogno, nel pericolo o nella guerra è il nostro rifugio e il nostro protettore.

Il mondo non dà alcun valore ai credenti; li perseguita, li considera carne da macello. Ma il credente ha la vittoria in pugno. “Nel mondo avrete tribolazione, ma fatevi animo, io ho vinto il mondo” (Giovanni 16:33). “L’accusatore dei nostri fratelli… essi l’hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello e con la parola della loro testimonianza” (Apocalisse 12:11).

a nostra vittoria è in Cristo che è il vincitore per eccellenza. Gli uomini e le donne di fede di  Ebrei 11 sono tutti vincitori; sia quelli che hanno fatto conquiste e messo in fuga i nemici (v.33-35), sia quelli che furono torturati o uccisi di spada (v. 36). Perché “questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede” (1 Giovanni 5:4).

“Io infatti sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun altra creatura potranno separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore.” (v. 38)

“Se viviamo, viviamo per il Signore; e se moriamo, moriamo per il Signore” dirà Paolo al cap. 14:8. Non saranno il vivere o il morire che ci separeranno dal suo amore. Ma non saranno nemmeno gli angeli, buoni o malvagi, né il presente coi suoi pericoli, né il futuro con le sue incertezze. Le potenze angeliche o umane non hanno forza contro Dio; né altezza, perché Cristo è in alto per noi, né profondità perché Lui c’è stato nella sua morte.

Quale creatura dell’universo ci potrà separare dall’amore del Padre, che il dono di Cristo ci ha fatto conoscere, che è stato versato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo e che sperimentiamo ogni giorno,  e che sussiste per l’amore che Egli ha per il Figlio?

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(*) Il termine greco significa: supervincitori.

CAPITOLO 9

I sentimenti di Paolo verso Israele

Nei capitoli precedenti Paolo ci ha spiegato la situazione disperata dell’uomo, Gentile o Giudeo che sia. Dopo aver chiarito che “tutti hanno peccato”, ci ha rivelato l’amore di Dio e il suo meraviglioso piano di salvezza. In Cristo, possiamo dirlo con le parole di Davide, “Egli rialza il misero dalla polvere e solleva il povero dal letame, per farlo sedere coi principi” (Salmo 113:7). E noi un tempo peccatori perduti, senza speranza e destinati all’inferno, siamo, grazie al proponimento di Dio,  “benedetti di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo” e in Lui  “seduti” nel cielo (Efesini 1:3 e 2:6).

Paolo avrebbe potuto passare direttamente alle esortazioni e ai princìpi di vita cristiana del cap.12 e seguenti; invece si sofferma a parlarci di Israele, dei suoi privilegi, della sua disubbidienza al Vangelo, della punizione di Dio e del suo futuro ristabilimento. Perché Paolo, Israelita, amava la sua nazione e voleva che lo si sapesse, visto che lo accusavano di essere un traditore del suo popolo. Ma lo fa  anche perché i Gentili convertiti al Signore correvano il rischio di diventare superbi e perdere di vista che le promesse di Dio per Israele avranno un giorno il loro glorioso compimento.

Fin qui, dunque, abbiamo studiato i suoi consigli eterni  di grazia, per la salvezza e la pace dei peccatori; adesso, entrando nei misteri della storia di Israele, conosceremo le “profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio”.

“Io dico la verità in Cristo, non mento, la mia coscienza me lo attesta per mezzo dello Spirito Santo: Ho una grande tristezza e un continuo dolore nel mio cuore; perché io stesso vorrei essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei fratelli, miei parenti secondo la carne,”  (v. 1-3)

Paolo sa di essere sincero in quello che dice; anche lo Spirito Santo glielo fa sentire. Il suo dolore per l’incredulità degli Israeliti è così grande che vorrebbe essere egli stesso “votato alla maledizione” (anatema), perduto per sempre, se questo servisse per la salvezza di tutti loro.  Ma è chiaro che non era possibile, come non fu possibile che Mosè, fedele com’era, venisse cancellato dal libro di Dio per ottenere il perdono del popolo infedele e colpevole (Esodo 32:32). Non so se Paolo abbia fatto bene ad avere questo pensiero, ma è indubbio che esso dimostra la sincerità  del suo amore ardente e disinteressato per quelli della sua stirpe.

“cioè gli Israeliti, ai quali appartengono l’adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il culto e le promesse; ai quali appartengono i padri e dai quali proviene, secondo la carne; il Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno. Amen.” (v. 4-5)

In questo versetto sono elencate sette benedizioni di Israele, otto se si aggiunge quella di aver dato i natali al Messia. Vediamole in dettaglio:

  1. L’adozione (o l’adozione come figlio). Israele è chiamato più volte “figlio”: “Così dice il Signore: Israele è il mio figlio, il primogenito” (Esodo 4:22). “E sarà loro detto: Siete figli del Dio vivente” (Osea 2:1). Dio è il loro padre nel senso che è il “creatore” del popolo (Isaia 64:7).

Ma la vera conoscenza del Padre e il vero legame di figli si ha adesso per mezzo della fede in Cristo.

  1. La gloria. Gli Israeliti avevano il privilegio e la responsabilità di ospitare in mezzo a loro la gloria dell’Eterno. Essa si manifestava con una nuvola di fumo per dare una prova concreta della sua presenza e riempiva il luogo santissimo del tabernacolo, prima (Esodo 40:34), e del tempio di Salomone, più tardi (1 Re 8:10). “Lì mi troverò coi figli d’Israele, e la tenda sarà santificata dalla mia gloria” (Esodo 29:43). Ora è la Chiesa l’abitazione di Dio per lo Spirito.
  2. I patti. Sono quelli fatti da Dio con Abramo, con Israele, con Giosuè, con Davide. Anche il nuovo patto di cui Cristo parla era in primo luogo per Israele (Genesi 15:18, Deuteronomio 29:1, Giosuè 8:30-35, 2 Samuele 23:5, Matteo 26:28).

Ma la Chiesa beneficia per prima delle benedizioni del più grande dei patti, il “nuovo patto” nel sangue di Cristo.

  1. La legislazione (tradotto anche con “il dono della legge”). E’ la legge di Mosè, con riferimento particolare a quella morale (i dieci comandamenti ecc… Esodo 20:1-17).
  2. Il culto. Tutte le norme relative al servizio, la legge cerimoniale grazie alla quale gli Israeliti potevano adorare l’Eterno in modo da essergli graditi.

Oggi i credenti in Cristo, figli e sacerdoti, servono Dio “in spirito e verità” consacrandogli anche la loro stessa esistenza (Romani 12:1).

  1. Le promesse. “Le promesse furono fatte ad Abraamo e alla sua progenie” (Galati 3:16). In esse è compresa la grande promessa del Messia: “Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio ha suscitato a Israele un salvatore nella persona di Gesù” (Atti 13:23).

I credenti, oggi, godono delle benedizioni promesse ad Abramo e di tante altre “preziose e grandissime promesse” (2 Pietro 1:4).

  1. I padri. Sono i capostipiti del popolo d’Israele: Abramo, Isacco e Giacobbe. Essi furono i depositari delle promesse. Tutta la loro discendenza è amata da Dio “a causa dei loro padri” (Romani 11:28).
  2. Il Cristo, venuto da Israele “come uomo”, cioè “secondo la carne”. Non si può dire, come per i sette vantaggi prima elencati, che Cristo appartenga a loro. Però è nato da loro, da una donna della tribù di Giuda, discendente del re Davide; ed è venuto nel mondo per essere il liberatore di quel popolo: “L’Iddio d’Israele ci ha suscitato un potente salvatore nella casa di Davide suo servo… uno che ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano” (Luca 1:69-71). Ma Gesù Cristo non è solo figlio di Davide, è Figlio di Dio; ed è Dio: “Egli è il vero Dio e la vita eterna” (1 Giovanni 5:20). Colossesi 2:9 dice che in Cristo “abita corporalmente tutta la pienezza della Deità”.

“Però non è che la parola di Dio sia caduta a terra; infatti non tutti i discendenti di Israele sono Israele; né per il fatto di essere stirpe d’Abraamo, son tutti figli d’Abraamo; anzi: E’ in Isacco che ti sarà riconosciuta una discendenza.”  (v. 6-7)

Le promesse di Dio non sono andate perse per l’incredulità di una parte di Israele. Gli Israeliti che rifiutano Cristo non sono il vero Israele di Dio; lo sono soltanto quelli che hanno la fede, come l’ha avuta Abramo. Così pure, di tutti i figli di Abramo, Ismaele, Isacco e gli altri citati in Genesi 25:2-6, l’unico uomo di fede fu Isacco. Da lui è venuta la vera discendenza di Abramo destinataria delle promesse divine (Genesi 21:12).

“Cioè, non i figli della carne sono figli di Dio; ma i figli della promessa sono considerati come discendenza. Infatti, questa è la parola della promessa: In questo tempo io verrò, e Sara avrà un figlio.” (v. 8-9)

La vera discendenza di Abramo doveva provenire dal figlio della vera moglie, Sara. Ma Sara era sterile. Ci voleva una grande fede per credere a Dio che insisteva nel promettere ad Abramo una discendenza proprio da Sara, sterile e ormai molto anziana. Quando, dietro consiglio di Sara, Abramo andò con la serva Agar ed ebbe un figlio da lei, Ismaele, quello non era il figlio della promessa, ma della carne. Il figlio della promessa era Isacco, che poi nacque nel tempo fissato da Dio. E per la fede di Abramo fu un trionfo.

Abramo

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Ismaele                                    Isacco

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Esaù                       Giacobbe (o Israele)

I

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Ruben    Simeone    Levi    Giuda   Zabulon    Issacar    Dan   Gad   Ascer   Neftali    Giuseppe    Beniamino

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Efraim       Manasse

“Ma c’è di più! Anche a Rebecca avvenne la medesima cosa quand’ebbe concepito figli da un solo uomo, vale a dire Isacco nostro padre; poiché, prima che i gemelli fossero nati e avessero fatto del bene o del male (affinché rimanesse fermo il proponimento dell’elezione di Dio, che dipende non dalle opere ma dalla volontà di colui che chiama) le fu detto: Il maggiore sarà sottomesso al minore; come è scritto: Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù.” (v. 10-13)

Per comprendere bene questi versetti bisogna leggere Genesi 25:19-34. Rebecca, moglie di Isacco, ebbe due figli gemelli: Esaù e Giacobbe. Esaù, essendo stato il primo ad essere partorito, avrebbe dovuto avere il titolo di primogenito; ma Dio aveva disposto diversamente, tanto che, prima ancora che i gemelli nascessero, aveva detto a Rebecca che il maggiore, Esaù, avrebbe servito al minore, Giacobbe. Che male poteva aver fatto Esaù prima ancora di nascere,  tanto da essere messo in secondo piano? e che bene poteva aver fatto Giacobbe da meritare un posto di preminenza? Ma Dio, che conosce ogni cosa in anticipo, è libero di fare le scelte che vuole.

Notiamo che le parole citate da Malachia 1:2-3: “Ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù” si riferiscono non tanto alle loro singole persone, quanto ai loro discendenti. L’Eterno non le ha pronunciate alla loro nascita, come se, gia prima che venissero al mondo, uno fosse odiato e l’altro amato, o come se Giacobbe avesse dovuto dominare su suo fratello! No. Questo giudizio viene circa millequattrocento anni dopo, quando i popoli discesi da loro avevano già percorso una buona parte della loro storia. C’è ancora, comunque, una realizzazione futura di questa profezia.

Sovranità di Dio

 “Che diremo dunque? Vi è forse ingiustizia in Dio? Certamente no. Poiché Egli dice a Mosè: Io avrò misericordia di chi avrò misericordia e avrò compassione di chi avrò compassione. Non dipende dunque né da chi vuole né da chi corre, ma da Dio che fa misericordia.” (v. 14-16)

Come nel cap. 3, Paolo prevede ora delle obiezioni ad ognuna delle quali dà una risposta.

1° domanda: C’è ingiustizia in Dio?

Se Dio sceglie uno piuttosto che un altro commette un’ingiustizia? No. Prima di tutto perché Dio è giusto e sa come fare; in secondo luogo perché la misericordia di Dio non è dovuta, ma è un atto spontaneo che nessuno può pretendere. Dio è sovrano in tutti i suoi atti, ed è anche amore. Le parole dette dall’Eterno a Mosè si trovano in Esodo 33:19. Il popolo aveva già trasgredito la legge di Dio; non poteva meritare altro che il suo castigo: “E’ un popolo dal collo duro. Dunque lascia che la mia ira s’infiammi contro di loro e che io li consumi” (Esodo 32:9-10). Ma Mosè aveva supplicato l’Eterno con tutte le sue forze, consapevole che solo la misericordia divina poteva risparmiare quel popolo ribelle e ostinato.

L’espressione “chi vuole e chi corre” indica le assurde pretese dell’uomo, il suo darsi da fare per ottenere o per meritare qualcosa da parte di Dio, senza sapere che la grazia è un suo libero e immeritato dono.

“La Scrittura infatti dice al Faraone: Appunto per questo ti ho suscitato: per mostrare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato per tutta la terra.” (v. 17)

Quando Faraone si opponeva all’ordine di Dio di lasciare andare libero il popolo d’Israele, Dio avrebbe potuto giudicarlo subito, toglierlo di mezzo. Invece no. Lo lasciò lì, con la sua ostinazione, per poter mostrare la sua potenza attraverso le piaghe che si abbatterono sull’Egitto (Esodo cap. 5 a 11) e far conoscere a tutto il mondo, fino ai nostri giorni, la sua gloria di solo vero Dio. “Io ho reso ostinato il suo cuore… perché tu possa raccontare ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli quello che ho operato in Egitto e i segni che ho fatto in mezzo a loro. Così saprete che io sono il SIGNORE” (Esodo 10:1-2). Il passso qui citato da Paolo è in Esodo 9:16.

“Così dunque egli fa misericordia a chi vuole e indurisce chi vuole. Tu allora mi dirai: Perché rimprovera egli ancora? Poiché chi può resistere alla sua volontà?” (v. 18-19)

A più riprese “il cuore di Faraone si indurì e non diede ascolto a Mosè e ad Aronne” (Esodo 8:15). Ma alla fine “l’Eterno indurì il cuore di Faraone” (9:12). Fu un castigo dovuto all’ostinazione accanita e perversa di quell’uomo. Ma a chi non conosce il modo di agire questo comportamento può sembrare incomprensibile.

  1. domanda. Perché rimprovera egli ancora?

Una tale obiezione è assurda. Dio non prende gusto a indurire i cuori; quando lo fa c’è un motivo, come abbiamo visto nel caso di Faraone. E quando rimprovera, è perché l’uomo è pienamente responsabile e se lo merita. L’opera incessante di Dio, nel corso di tutta la storia dell’umanità, ha avuto come obiettivo quello di rendere sensibile il cuore della sua creatura indurito dal peccato; di dare all’uomo un cuore nuovo (Ezechiele 26:36), un cuore di carne al posto del suo cuore di pietra (Ezechiele 11:19). Se siamo salvati è solo per un atto dell’infinita misericordia di Dio. “Dio, che è ricco in misericordia, per il grande amore con cui ci ha amati, anche quando eravamo morti nei peccati, ci ha vivificati con Cristo” (Efesini 2:4). “Egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia” (Tito 3:5).

“Piuttosto, o uomo, chi sei tu che replichi a Dio? Il vaso plasmato dirà forse a colui che lo plasmò: Perché mi hai fatto così? Il vasaio non è forse padrone dell’argilla per trarre dalla stessa pasta un vaso per uso nobile e un altro per uso ignobile? (*)(v. 20-21)

Il vasaio è libero nelle decisioni che prende e in quello che fa, perché ha i suoi giusti motivi. Nel racconto di Geremia 18, quando il vaso si ruppe, il vasaio “da capo ne fece un altro vaso, come a lui parve bene di farlo” (v. 4).  Così è di Dio. Potrà la sua creatura criticare il suo modo di fare? O dargli istruzioni perché agisca meglio? Ora, l’uomo vasaio potrebbe anche fare delle sciocchezze, ma Dio è perfetto e perfettamente giusto, e non sbaglia mai. Nessuno ha il diritto di criticare il suo operato. “Guai a colui che contesta il suo Creatore, egli, rottame fra i rottami di vasi di terra! L’argilla dirà essa a colui che la forma: Che fai? L’opera tua potrà forse dire: Egli non ha mani?… Così parla il SIGNORE, il Santo d’Israele, colui che l’ha formato: Voi mi date degli ordini circa i miei figli e circa le opere delle mie mani! Io ho fatto la terra e che ha creato l’uomo su di essa…” (Isaia 45:9-12).

“Che vi è mai da replicare se Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza dei vasi pronti per la perdizione, e ciò per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso dei vasi di misericordia che aveva già prima preparati per la gloria, cioè verso di noi che Egli ha chiamato non soltanto fra i Giudei ma anche fra i pagani?”  (v. 22-24)

Vi sono qui due categorie di “vasi”, vale a dire di persone:

  1. Persone pronte per la perdizione, che Dio ha sopportato con grande pazienza.
  2. Persone già preparate per la gloria, che Dio ha chiamato con un atto di misericordia.

Dio mostra la sua ira e la sua potenza prevedendo il giudizio per gli increduli e i disubbidienti, che sono così pronti per la perdizione. Essi non sono stati preparati da Lui per la perdizione, ma si sono messi essi stessi in questa condizione. Dio non prepara e non predestina nessun uomo alle pene eterne, ma vuole che tutti siano salvati (1 Timoteo 2:4).

Queste persone, che sono pronte per la perdizione, Dio le ha comunque sopportate e le sopporta ancora con pazienza, perché, nel frattempo, può manifestare la sua misericordia verso quelli che odono il vangelo e credono al Signore. Questi sì che sono “preparati in anticipo” (è l’esatta traduzione del termine greco “proetoìmasen“) per la gloria! “Dio dunque, passando sopra i tempi dell’ignoranza, fa ora annunziare agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno nel quale giudicherà il mondo” (Atti 17:30-31). “Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, ma è paziente verso di voi non volendo che qualcuno perisca ma che tutti giungano al ravvedimento” (2 Pietro 3:9. Vedere anche Romani 2:4 e 3:25).

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(*) Anticamente si faceva un larghissimo uso di vasi. Alcuni erano destinati a contenere alimenti od oggetti di valore; altri erano fatti per gli escrementi. Ecco il perché della distinzione fra vaso per “uso nobile” e per “uso ignobile”, oppure vasi a onore e vasi a disonore (2 Timoteo 2:20-21).

“Così egli dice appunto in Osea: Io chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo e “amata” quella che non era amata; e avverrà che nel luogo dov’era stato detto “Voi non siete mio popolo”, là saranno chiamati figli del Dio vivente.” (v. 25-26)

Questi due passi si trovano in Osea 2:25 e 2:1 (in altre versioni: 2:23 e 1:10). Nella sua prima epistola Pietro cita solo il secondo (1 Pietro 2:10) riferendolo al popolo d’Israele. Paolo cita invece anche il primo perché lo applica alla chiamata dei Gentili. Infatti, sono soprattutto i Giudei che avranno creduto al Signore ad essere chiamati “amata” e “mio popolo”; e sono anche i Gentili convertiti al Signore ad essere chiamati “figli del Dio vivente”.

“Isaia poi esclama riguardo a Israele: Anche se il numero dei figli di Israele fosse come la sabbia del mare, solo il resto sarà salvato; perché il Signore eseguirà la sua parola sulla terra in modo rapido e definitivo. Come Isaia aveva detto prima:  Se il Signore degli eserciti (*) non ci avesse lasciato una discendenza, saremmo diventati come Sodoma e saremmo stati simili a Gomorra” (v. 27-29)

Paolo prende da Isaia 10:22-23 la citazione del v. 27 e da Isaia 1:9 quella del v. 29. Solo un piccolo numero, un residuo, secondo quella profezia, tornerà “all’Iddio potente” (Isaia 10:21); per gli altri “uno sterminio è decretato” (v. 23). Sono intrise di tristezza le parole del profeta al cap. 1:9: ”Se l’Eterno degli eserciti non ci avesse lasciato un piccolo residuo, saremmo come Sodoma, somiglieremmo a Gomorra”. In Sodoma non c’erano nemmeno dieci giusti (Genesi 18:32) perché l’Eterno potesse risparmiarla. In Israele, in futuro, ci sarà un residuo fedele, ma Dio non risparmierà tutti gli infedeli per i pochi fedeli che si troveranno fra loro; gli infedeli saranno giudicati e uccisi, e il residuo solo sarà salvato.

Il fatto di appartenere al popolo di Israele non era dunque garanzia di salvezza. Paolo ha già insistito su questo. Anche Giovanni Battista diceva: “Fate dunque dei frutti degni del ravvedimento. E non pensate di dire dentro di voi: Abbiamo per padre Abramo… Ormai la scure è posta alla radice degli alberi; ogni albero dunque che non fa buon frutto, viene tagliato e gettato nel fuoco” (Matteo 3:9-10).

Israele e la giustizia che si ottiene per fede

“Che diremo dunque? Diremo che i pagani, i quali non ricercavano la giustizia, hanno conseguito la giustizia, però la giustizia che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge di giustizia, non ha raggiunto questa legge.” (v. 30-31)

I pagani, o meglio i Gentili, che hanno accettato Cristo come loro Salvatore e Signore, sono giustificati da Dio, essendo i loro peccati cancellati dal sangue di Cristo. Ma i Giudei che continuano a rifiutare Cristo, non saranno mai “giusti’ davanti a Dio, perché “tutti coloro che si basano sulle opere della legge sono sotto maledizione; perché è scritto: Maledetto chiunque non persevera in tutte le cose scritte nel libro della legge per metterle in pratica” (Galati 3:10, Deuteronomio 27:26). Così i pagani, dice Paolo, da sempre lontani da Dio, hanno ottenuto con la fede nel Vangelo quello che gli Ebrei, popolo di Dio, non sono mai riusciti ad ottenere! Questo avrebbe dovuto farli riflettere, stimolarli ad una ricerca più approfondita del pensiero di Dio, spingerli ad abbandonare il loro orgoglio nazionale per attaccarsi umilmente al Signore; ma purtroppo non è avvenuto, come lo confermano gli ultimi versetti del cap. 10.

L’espressione “non ha raggiunto questa legge” significa che gli Israeliti si sono messi sotto una legge che non può renderli giusti, perché è la legge delle opere. Abbiamo visto (8:2) che solo “la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù” ci libera dal peccato e dalla morte.

“Perché? Perché l’ha ricercata non per fede ma per opere. Essi hanno urtato nella pietra d’inciampo, come è scritto: Ecco, io metto in Sion una pietra d’inciampo e una roccia di scandalo; ma chi crede in Lui non sarà confuso” (v. 32-33)

Rifiutando di credere al Signore gli Israeliti sono come “inciampati” nel Signore stesso, raffigurato qui da una pietra.  Infatti, Cristo e la sua opera alla croce dimostrano chiaramente che basarsi sulle proprie opere per ottenere la salvezza è una strada sbagliata. Bisogna quindi ricredersi, tornare indietro, imboccare la via della fede in Cristo. Chi rifiuta di farlo, oggi come allora,  “inciampa” in Cristo perché il suo rifiuto lo fa cadere, lo mette sotto il giudizio di Dio e la sua condanna.

Cristo era “una pietra provata, una pietra angolare (**) preziosa, un fondamento solido” (Isaia 28:16). Ma Pietro dice: “Per voi che credete essa è preziosa; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra angolare, pietra d’inciampo e sasso di ostacolo. Essi, essendo disubbidienti, inciampano nella Parola” (1 Pietro 2:7). Ma chi crede in Lui non sarà confuso (o svergognato, o deluso), perché Dio è fedele alle promesse che fa, onora la fede, e non delude mai!

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(*) Quest’ espressione “l’Eterno degli eserciti” ricorre frequentemente nell’ Antico Testamento. Dio ha al suo servizio eserciti di angeli (Giosuè 5:14, 2 Re 6:17), per mezzo dei quali eseguirà i suoi giudizi sia sugli uomini sia sugli angeli ribelli. In un certo senso, anche gli eserciti di Israele erano “eserciti dell’Eterno” quando eseguivano i suo ordini. Qualcuno pensa che, in quanto Signore dell’universo, Dio abbia anche “eserciti” di astri come sembra indicare Nehemia 9:6. Anche gli eserciti delle nazioni , quando Dio li usava come “verga” per eseguire i suoi castighi, potrebbero essere chiamati eserciti dell’Eterno; in Isaia 13:4 lo vediamo passare in rassegna, come un capo supremo, gli eserciti  che manda contro Babilonia.

(**) Nell’edilizia di quel tempo si chiamava “pietra angolare” quella posta all’angolo di due muri per mantenerli legati. Le pietre angolari erano fondamentali per la solidità di tutta la costruzione.

CAPITOLO 10

“Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera a Dio per loro è che siano salvati. Io rendo loro testimonianza, infatti, che hanno zelo per le cose di Dio, ma zelo senza conoscenza.” (v. 1-2)

L’amore di Paolo per quelli del suo popolo l’abbiamo già visto nei primi versetti del cap. 9. Il pensiero che molti di loro, suoi parenti secondo la carne, vadano in perdizione per incredulità lo affliggeva moltissimo e lo spingeva a farne un soggetto speciale di preghiera. Il suo desiderio era che si convertissero al Signore e fossero salvati.

Lo zelo per le cose di Dio è una buona cosa, ma bisogna che ci sia anche la conoscenza dei suoi pensieri. Per uno zelo privo di conoscenza, i Giudei hanno messo a morte il loro Messia;  lo hanno fatto “per ignoranza”, dice Pietro nel suo primo discorso, come pure i loro capi (Atti 3:17). Per la stessa ignoranza dei pensieri di Dio, Paolo ha perseguitato crudelmente i cristiani, prima della sua conversione: “Sono stato zelante per la causa di Dio, come voi tutti siete oggi; perseguitai a morte questa dottrina, legando e mettendo in prigione uomini e donne” (Atti 22:3-4); “Perseguitavo a oltranza la chiesa di Dio, la devastavo, e mi distinguevo nel giudaismo più di molti coetanei tra i miei connazionali perché ero estremamente zelante nelle tradizioni dei miei padri” (Galati 1:13-14 e Filippesi 3:6).

Dio si è fatto conoscere perché lo serviamo; il Signore ci ha riscattati da ogni iniquità “per purificarsi un popolo che gli appartenga, zelante nelle buone opere” (Tito 2:14). Lo zelo senza conoscenza può contrastare i piani di Dio invece di favorirli; ma la stessa cosa fa la conoscenza senza zelo!

“Perché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio; poiché Cristo è il termine della legge per la giustificazione di tutti coloro che credono.” (v. 3-4)

I Giudei rifiutavano di accettare la giustificazione per fede, che è la vera “giustizia di Dio”, quella che Egli dà gratuitamente a chi crede nell’opera del suo Figlio. Ancora oggi tanti pretendono di ottenere il favore di Dio con le loro buone opere, senza rendersi conto che, così facendo, non si sottomettono alla giustizia di Dio. Con Cristo la legge ha preso fine; Egli solo l’ha osservata interamente, ed Egli solo ha subito la condanna per tutti quelli che non avevano saputo né potuto osservarla. Ora, Dio ha rivelato chiaramente che la salvezza si ottiene solo per la fede in Cristo.

Ma con Cristo ha anche preso fine lo scopo della legge che era di mostrare all’uomo la sua incapacità ad osservarla. In Galati è scritto che “la legge è stata come un precettore per condurci a Cristo, affinché fossimo giustificati per fede”; un precettore, o un maestro, che ci ha insegnato  che “nessuno, mediante la legge, sarà giustificato davanti a Dio” (Galati 3:11, 24).

Infatti Mosè descrive così la giustizia che viene dalla legge: L’uomo che fa quelle cose vivrà per esse. Invece la giustizia che viene dalla fede dice così: Non dire in cuor tuo: Chi salirà in cielo? (questo è farne scendere Cristo) né: Chi scenderà nell’abisso? (questo è far risalire Cristo dai morti).” (v. 5-7)

Qui c’è prima un passo di Levitico (18:5) poi un brano di Deuteronomio (30:11-14).

Il primo è facile da comprendere: l’osservanza delle leggi e delle prescrizioni di Dio era il mezzo per ottenere la vita; che poi nessuno ha ottenuto, come abbiamo detto più volte, per l’incapacità dell’uomo peccatore di osservare la legge di Dio.

Il secondo è un po’ più complesso. In Deuteronomio 30 l’Eterno prevede il caso che gli Israeliti diventino così disubbidienti da dover essere, per castigo, deportati come schiavi in nazioni nemiche; e che là si pentano, ritornino a Dio (v. 2) e siano ricondotti nel loro paese. E che, convertiti all’Eterno, riscoprano la legge e la trovino troppo alta per loro e troppo lontana per poterla osservare. Ed ecco l’Eterno che li incoraggia dicendo: “Questo comandamento che oggi ti dò non è troppo alto per te… non è nel cielo perché tu dica: Chi salirà per noi nel cielo e ce lo recherà?… Non è di la dal mare perché tu dica: Chi passerà per noi di là dal mare e ce lo recherà?”.  In queste parole di grazia, l’apostolo Paolo, guidato dallo Spirito, vede una rivelazione della giustizia che viene dalla fede. Perché Dio, ad un popolo così disubbidiente e così chiaramente incapace di osservare i suoi comandamenti, non poteva proporre altro che “la fede in Cristo” come mezzo di salvezza.

Ora, l’Israelita che, nel dubbio di come riuscire ad ottenere la giustizia, avesse continuato a dire: “Chi salirà in cielo per farcelo sapere?” era come se richiedesse una cosa già avvenuta, in quanto Cristo era già sceso dal cielo, uomo simile a noi, per mostrarci che solo Lui era in grado di osservare la legge. E se avesse continuato a dire: Chi scenderà nell’abisso per poi venire ad istruirci? era come se richiedesse una cosa già avvenuta, perché Cristo era già morto ed era risuscitato dai morti per mostrarci che la nostra giustificazione si fonda sulla sua opera e che la nostra vita è la sua vita di risurrezione.

“Che cosa dice invece? La parola è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore: questa è la parola della fede che noi predichiamo; perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto col cuore che Dio l’ha risuscitato dai morti, sarai salvato; “ (v. 8-9)

Dio l’ha fatto conoscere il suo piano di salvezza. Chi riceve Gesù Cristo come proprio Salvatore e crede in Lui è giustificato, è reso giusto davanti a Dio, ha vita eterna. Quelli che credono hanno questa “parola” nella loro bocca e nel loro cuore,  perché con la bocca attestano agli altri l’autorità e la signoria di Cristo, e col cuore credono che Dio l’ha risuscitato dai morti.

Mettendo prima la “confessione con la bocca” e poi il “credere col cuore”, Paolo rispetta l’ordine con cui la bocca e il cuore sono citati nel passo di Deuteronomio 30:14; ma, in realtà, il credere col cuore è più importante della confessione con la bocca ed anche viene per primo.

“Gesù è il Signore”! Questa dichiarazione non può essere fatta se non “per lo Spirito Santo” (1 Corinzi 12:3). Essa dà al Signore la gloria che gli è dovuta e che Dio gli riconosce, in contrasto col disprezzo e la condanna a morte che l’umanità gli ha dato. Oggi, solo i suoi riscattati gli riconoscono un tale onore, ma fra poco “nel nome di Gesù” si dovrà piegare ogni ginocchio, nei cieli, sulla terra e sotto la terra, e ogni lingua dovrà confessare “che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio padre” (Filippesi 2:10-11).

Credere che Dio l’ha risuscitato dai morti è credere che Gesù Cristo è morto, e che Dio ha gradito la sua opera per la nostra salvezza. La risurrezione è l’atto conclusivo di tutto il mistero della sua incarnazione e del suo sacrificio, ed è il sigillo glorioso che Dio ha messo sull’opera del suo Figlio.

“Infatti col cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. Difatti la Scrittura dice: Chiunque crede in Lui non sarà confuso.” (v. 10-11)

Qui vediamo bene che prima si crede col cuore e poi si fa confessione con la bocca. Credere “col cuore” implica un totale coinvolgimento del nostro essere, un completo abbandono al Signore. Credere solo “col cervello” non serve; alla prima difficoltà che mette alla prova, questo tipo di fede se ne va! La fede nell’opera di Cristo fa sì che Dio ci possa perdonare perché il Signore ha pagato per i nostri peccati, e considerare giusti attribuendoci la sua giustizia.

La confessione della fede è un’inevitabile conseguenza. Se manca, è perché la fede non è vera, e quindi non si è salvati. La confessione della fede è fatta a Dio e agli uomini. A Dio quando gli diciamo che siamo peccatori, ce ne umiliamo, e dichiariamo di accettare il Signore Gesù come nostro Salvatore; agli uomini per far conoscere “le grandi cose che Dio ha fatto” per noi (Luca 8:39) e annunciare che la buona novella del Vangelo è per tutti, senza distinzione.

Già il profeta Gioele aveva scritto: “Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato; poiché sul monte Sion e in Gerusalemme vi sarà salvezza” (2:32). E Isaia: “Ecco, io ho posto come fondamento in Sion una pietra, una pietra provata, una pietra angolare preziosa, un fondamento solido; chi confiderà in essa non avrà fretta di fuggire” (28:16; vedere anche Romani 9:33). Questo si realizzerà di nuovo in futuro per Israele, ma si è già realizzato con la venuta di Cristo duemila anni fa.

Cristo è un solido fondamento della fede. Al v. 11 Paolo cita Isaia 28:16. Chi mai sarà deluso? Chi mai potrà dire di aver creduto invano? Tutte le promesse, per questa vita e per quella a venire, che Dio fa a chi crede,  si realizzeranno puntualmente; “infatti, tutte le promesse di Dio hanno il loro “sì” in Lui (in Cristo) “ (2 Corinzi 1:20).

“Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, essendo egli lo stesso Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato.” (v. 12-13).

“Chiunque” vuol proprio dire che non c’è distinzione. La salvezza è per tutti, Giudei e non Giudei, ricchi e poveri, colti e illetterati. Le ricchezze dell’amore di Dio sono a disposizione di ogni uomo che le vuole accettare. “Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in Lui non perisca ma abbia vita eterna” (Giovanni 3:16). Il v. 13 è preso da Gioele 2:32, lo stesso profeta a cui ha fatto riferimento anche Pietro nella predicazione il giorno della Pentecoste (Atti 2:16-21).

Che sorpresa per i Giudei che pensavano di essere soltanto loro degni di conoscere i pensieri di grazia di Dio e di usufruirne! Ma sono stati proprio loro a respingerli! Pietro stesso era restio ad accettare che Dio non facesse differenza fra i Giudei e i Gentili. Ma quando è stato chiamato ad andare dal romano Cornelio per predicargli Cristo, ha dovuto imparare che “Dio non si comporta con parzialità; ma che in qualunque nazione, chi lo teme e opera giustamente gli è gradito” (Atti 10:34-35).

“Ora, come invocheranno (*) Colui nel quale non hanno creduto? E come crederanno in Colui del quale non hanno sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, se non c’è chi predichi? E come predicheranno se non sono mandati? Come è scritto: Quanto sono belli i piedi di quelli che annunziano buone notizie. (**)(v. 14-15)

– Dio manda i credenti a predicare il Vangelo

– i credenti vanno e predicano

– chi ascolta viene a conoscere Cristo e la sua opera alla croce

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(*) “Invocare”  (in greco: epikalèo) qui significa ben più di “chiedergli aiuto” o “chiamarlo”: c’è implicito il riconoscimento di chi Egli è, il rivolgersi fiducioso a Lui di un’anima che ha trovato tutto in Lui.
(**) “Euaggelizzomai“ significa “annunciare buone notizie” o  “evangelizzare”.

– chi lo conosce può credere in Lui

– chi crede in Lui lo invoca come Signore

L’opera parte da Dio che si serve dei suoi figli come messaggeri della sua grazia. Non dobbiamo pensare che il compito sia solo di alcuni credenti, particolarmente dotati dallo Spirito; ogni riscattato del Signore, per semplice che sia, ha la missione di annunziare agli altri la buona notizia della salvezza. “Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura” ha detto il Signore ai suoi discepoli prima di lasciarli (Marco 16:15).

Quello del Vangelo è un ministerio prezioso, di molto superiore al ministerio della Legge. Paolo lo chiama “il ministerio dello Spirito” e “il ministerio della giustizia” perché le cose che promette “hanno da durare” (2 Corinzi 3:7-11), sono eterne. Dio l’ha dato a noi, pur così deboli, come si mette “un tesoro in vasi di terra” (2 Corinzi 4:7). E noi, che annunciamo il Vangelo e portiamo ai poveri peccatori sollievo e pace, siamo come dei messaggeri che non camminano invano; i nostri “piedi” sono belli per chi, tramite nostro, è venuto alla conoscenza di Cristo! “Quanto sono belli, sui monti, i piedi del messaggero di buone notizie, che annunzia la pace, che è araldo di notizie liete, che annunzia la salvezza!” (Isaia 52:7).

“Ma non tutti hanno ubbidito alla buona notizia; Isaia infatti dice: Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione?” (v. 16)

Purtroppo, di quelli che ascoltano non tutti credono e si sottomettono al Signore. Noi siamo preavvisati che sarà così e non dobbiamo stupirci. Anche gli antichi profeti lo sapevano e hanno molto sofferto quando le loro parole venivano accolte con indifferenza o derisione, o addirittura con un’opposizione aperta e violenta. Geremia era preavvisato: “Tu, dunque, di’  loro tutto quello che io ti comanderò. Non tlasciarti sgomentare da loro… Essi ti faranno la guerra, ma non ti vinceranno” (Geremia 1:17-19). Ed anche Ezechiele: “Figlio d’uomo, va’, recati alla casa d’Israele… Ma la casa d’Israele non ti vorrà ascoltare, perché non vogliono ascoltare me” (Ezechiele 3:4-7).

Quando il Signore è venuto in grazia è stato respinto e crocifisso. La profezia del cap. 53 di Isaia, di cui Paolo riporta il primo versetto, lo prevedeva nei minimi dettagli. Cosa possono aspettarsi i suoi ambasciatori? Lo dice il Signore: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra” (Giovanni 15:20). Ma non dobbiamo scoraggiarci; Egli ci darà la forza di essere suoi testimoni fino alla fine!

“Così la fede viene dalla predicazione e la predicazione (*) avviene per mezzo della parola di Cristo. Ma io dico: Forse, non hanno udito? Anzi, la loro voce è andata per tutta la terra e le loro parole fino agli estremi confini del mondo.” (v. 17-18)

Ogni riscattato del Signore deve predicare il Vangelo, e quelli che ascoltano devono credere. La Parola di Cristo penetrerà nei cuori che sono ben disposti verso Dio e lo Spirito Santo potrà fare il suo lavoro di rigenerazione. Udire la Parola di Cristo è un immenso favore ma anche un’immensa responsabilità. Udire e accettare è la salvezza; udire e rifiutare è la condanna per l’eternità.

Ma forse, dirà qualcuno, i Giudei non hanno udito. No. Hanno udito, ma non hanno creduto. Così il Vangelo ha varcato i confini della Palestina e si è diffuso nel mondo intero.

Paolo cita qui il v. 5 del Salmo 19 facendone un’applicazione molto interessante. Davide diceva che le cose create, i cieli, le stelle del firmamento, è come se predicassero l’esistenza e la gloria di Dio. La loro “voce” si fa udire da tutti, perché tutti possono contemplare le meraviglie del creato. Ma quanti sanno vedere, attraverso quelle meraviglie, la gloria di Dio? Quanti lo cercano? Così è del Vangelo. La voce dei predicatori ha risuonato ovunque; il vangelo “è stato predicato a ogni creatura sotto il cielo” (Colossesi 1:23). Quanti hanno creduto? Quanti credono oggi alla nostra predicazione?

“Allora io dico: Forse Israele non ha compreso? Mosè per primo dice: Io vi renderò gelosi di una nazione che non è nazione (**); contro una nazione senza intelligenza io provocherò il vostro sdegno.” (v. 19)

Israele ha udito, dunque, ma forse non ha capito il messaggio. No. Paolo esclude anche questa possibilità. Se hanno capito i pagani, che non hanno conoscenza delle cose di Dio, perché non dovrebbero capire gli Ebrei? Purtroppo hanno udito, hanno capito, ma non hanno voluto credere. Mosè diceva già queste cose al popolo ribelle del suo tempo. Ci sarebbero state delle nazioni che avrebbero accettato la Parola di Dio, e gli Ebrei ne avrebbero provato gelosia. “Essi m’hanno fatto ingelosire con ciò che non è Dio, mi hanno irritato coi loro idoli vani; e io li renderò gelosi con gente che non è un popolo, li irriterò con una nazione stolta” (Deuteronomio 32:21). Paolo scrive ai Tessalonicesi che i Giudei “hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, e hanno cacciato noi; essi non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini impedendoci di parlare ai pagani perché siano salvati” (1 Tessalonicesi 2:15-16).

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(*) Nell’originale, “akoé” significa “ ascoltare, udire”, ed è usato sia per indicare ciò che si ascolta sia l’atto di ascoltare. Il passo potrebbe essere tradotto così: “La fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta dalla Parola di Dio”. Ma lo stesso termine Paolo lo usa nella citazione di Isaia 53:1 del v. precedente e che molti traducono con “la nostra predicazione” o “ciò che abbiamo predicato”, ma potrebbe anche essere: “Chi ha creduto a ciò che ha udito da noi?”.  In fondo, ciò che viene ascoltato e ciò che viene predicato sono poi la stessa cosa.
(**) Gli Ebrei, a causa della loro idolatria, sono stati chiamati da Dio “Lo-ammi” vale a dire “non mio popolo” (Osea 1:9), come abbiamo già visto in Romani 9:25; e a tutt’oggi questo soprannome pesa su di loro come un giudizio. Le altre nazioni erano per Israele “Lo-am” cioè “non popolo” o “non nazione”. Ma quando Israele ritornerà all’Eterno sarà di nuovo chiamato “Ammi”, “popolo mio”.

“Isaia poi non esita ad affermare: Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano; mi sono manifestato a quelli che non chiedevano di me. Ma riguardo a Israele dice: Tutto il giorno ho teso le mani verso un popolo disobbediente e ribelle.” (v. 20-21)

Isaia afferma senza esitazione che Dio, oltre a farsi trovare da gente non di Israele, si è addirittura rivelato a persone che non lo cercavano né desideravano trovarlo (Isaia 65:1). Evidentemente, questo eccitava ancor più a gelosia gli Ebrei i quali, pur disubbidienti, conservavano la pretesa di essere gli unici interlocutori di Dio.  Israele non aveva il compito, come ha la Chiesa, di diffondere nel mondo la conoscenza di Dio; però doveva essere un punto di riferimento per tutti i popoli che desiderassero trovarlo, e in questo senso era un “testimone” dell’Eterno (Isaia 43:10). Il benessere, la pace, e tutte le benedizioni di cui avrebbero potuto godere, se fossero stati fedeli, avrebbe spinto il mondo intero a voler conoscere l’Eterno. Ma Israele non è stato all’altezza di questo glorioso mandato.

E’ molto bella questa immagine di Dio che, tutto il giorno, tende le mani verso un popolo ribelle “che cammina per una via non buona, seguendo i propri pensieri” (Isaia 65:2). Non possiamo specchiarci anche noi in questo popolo? Non vediamo anche noi, ogni giorno, la fedeltà e la misericordia del nostro Padre? (2 Timoteo 2:13).

Anche la Chiesa è stata ben poco fedele al compito affidatogli dal Signore, che è di portare nel mondo il messaggio della salvezza per la fede in Cristo. Molti “idoli” hanno sostituito il Signore nella vita di troppi cristiani: il materialismo, il denaro, la carriera, i divertimenti. La messe è più grande che mai e gli operai continuano ad essere pochi (Matteo 9:37).

CAPITOLO 11

Dio non ha rinnegato il suo popolo

 “Io dico dunque: Dio ha forse ripudiato il suo popolo? No di certo! Perché anch’io sono Israelita, della discendenza d’Abramo, della tribù di Beniamino.” (v. 1)

Si potrebbe credere che non ci sia più niente da fare per il popolo d’Israele, così incredulo e disubbidiente, e che Dio l’abbia ripudiato e cancellato per sempre. Ma non è così. Dio non ha ripudiato Israele. Come nazione, nel suo insieme, Israele ha crocifisso il suo Messia autoescludendosi dal progetto di grazia e di salvezza di Dio; ma alcuni hanno creduto al Signore, e Paolo era uno di quelli. Chi c’era più Israelita di lui? Eppure ora era un grande predicatore del Vangelo!

“Dio non ha ripudiato il suo popolo che ha riconosciuto già da prima. Non sapete ciò che la Scrittura dice a proposito di Elia? Come si rivolse a Dio contro Israele dicendo: Signore, hanno ucciso i tuoi profeti, hanno demolito i tuoi altari, io sono rimasto solo e vogliono la mia vita?”  (v. 2-3)

Dio non si pente delle scelte che fa e se ripudia non ripudia per sempre. Israele è un popolo eletto, come dice Mosè: “Tu sei un popolo consacrato al SIGNORE, il tuo Dio… Il SIGNORE ti ha scelto per essere il suo tesoro particolare fra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra…” (Deuteronomio 7:6). “Poiché Egli nutre per Israele un amore eterno” (1 Re 10:9). Le promesse senza condizione fatte ad Abramo e ai suoi discendenti verranno senz’altro mantenute, perché Dio è fedele.

Il profeta Elia, perseguitato dalla malvagia regina Izebel,  pensò di essere rimasto il solo fedele e chiese di morire (1 Re 19:10-18): “I figli di Israele hanno abbandonato il tuo patto, hanno demolito i tuoi altari e hanno ucciso con la spada i tuoi profeti; sono rimasto io solo e cercano di togliermi la vita”. In quei momenti di scoraggiamento e di delusione egli accusò Israele davanti a Dio e fece male perché avrebbe dovuto invece continuare a pregare per il suo popolo.

“Ma che cosa gli rispose la voce divina? Mi sono riservato settemila uomini che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal. Così anche al presente c’è un residuo eletto per grazia” (v. 4-5)

Dio gli fece sapere che altri settemila uomini erano rimasti come lui attaccati all’Eterno. Quei settemila erano un residuo, gli unici fedeli rimasti, una minoranza rispetto a tutto il popolo.

C’è sempre stato un “rimanente” fedele. Quand’era sulla terra il Signore Gesù fu respinto dai capi e dalla massa del popolo; nondimeno, però, molte persone pie che amavano Dio lo accolsero e lo riconobbero quale Messia e Figlio di Dio; basti pensare ai suoi genitori, ai genitori di Giovanni Battista, al vecchio Simeone, ad Anna, ai pastori, a tutti i discepoli, alle donne che lo hanno seguito e a molti altri ancora. Quello era un residuo eletto. Così pure ai tempi di Paolo c’era un residuo che aveva creduto a Cristo, un residuo eletto,  vale a dire prescelto per la sua fede: erano gli Ebrei convertiti al Signore di cui erano composte, almeno in gran parte, le prime chiese cristiane. Eletto per grazia, precisa Paolo.

 “Ma se è per grazia, non è più per opere; altrimenti, la grazia non è più grazia.” (v. 6)

La salvezza non può essere per grazia e per opere nello stesso tempo. Se lo siamo salvati per un atto della grazia di Dio è perché non potevamo esserlo per meriti acquisiti col nostro operare. A quei cristiani che volevano perfezionare il loro cristianesimo con l’ubbidienza alla legge, Paolo dice: “Siete separati da Cristo; siete scaduti dalla grazia” (Galati 5:4).

“Che dunque? Quello che Israele cerca non l’ha ottenuto; mentre lo hanno ottenuto gli eletti; e gli altri sono stati induriti, com’è scritto: Dio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchi per non udire, fino a questo giorno.” (v. 7-8)

Paolo ripete qui ciò che ha già detto al cap. 9:31. Israele non ha ottenuto da Dio, con le proprie opere, il riconoscimento di “giusto”. L’hanno invece ottenuto quei pochi che hanno creduto in Cristo, gli eletti. Gli increduli, ostinati nel pretendere di poter aquisire una loro giustizia con l’ubbidienza alla legge, sono accecati e induriti, resi sordi agli appelli della grazia che hanno deliberatamente rifiutato. E’ avvenuto loro come a Faraone al quale, dopo ripetuti appelli seguiti da altrettanti rifiuti, “Dio indurì il cuore” perché non desse ascolto ad Aronne e a Mosè (Esodo 9:12).

Il passo di Isaia 29:10 citato qui descrive il castigo di Dio verso quelli che si ostinano a non volergli ubbidire: a un certo punto, dato il persistere nella loro incredulità, è Dio stesso a non offrire più la possibilità di ravvedersi. Giovanni scrive (12:37-40): “Sebbene avesse fatto tanti miracoli in loro presenza, non credevano in Lui… Non potevano credere per la ragione detta ancora da Isaia: Egli ha accecato i loro occhi e ha indurito i loro cuori, affinché non vedano con gli occhi, e non comprendano col cuore, e non si convertano, e io non li guarisca”.

“E Davide dice: La loro mensa sia per loro un laccio, una rete, un inciampo e una retribuzione. Siano gli occhi loro oscurati perché non vedano e rendi curva la loro schiena per sempre.” (v. 9-10)

Davide (Salmo 69:22-23) non fa che confermare questa verità. I disubbidienti, che in questo salmo profetico sono i nemici del Signore Gesù, porteranno la pena della loro malvagità. La mensa, alla quale sedevano per far festa e rallegrarsi, diventerà per loro uno strumento di caduta e di castigo; il loro intendimento, qui raffigurato dalla vista, si oscurerà (Geremia 8:9), e diventeranno schiavi. Nell’anno 70 d.C. fu proprio in occasione della festa della Pasqua che i Romani hanno assediato Gerusalemme fino alla distruzione totale.

Citando la Legge, i Profeti e i Salmi, Paolo dà una completa testimonianza di Dio sul deplorevole stato di Israele.

Avvertimento rivolto ai credenti stranieri

“Ora io dico: Sono forse inciampati perché cadessero? No di certo! Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani per provocare la loro gelosia.” (v. 11)

Tante volte erano “inciampati” gli Israeliti nel corso della loro storia; e ogni volta l’Eterno li aveva puniti, ma mai distrutti, nemmeno quando i peccati erano gravi e l’idolatria aveva raggiunto la massima diffusione. La grazia di Dio aveva conservato in vita questo popolo “dal collo duro”.  Ma il peccato più grave, il loro più grave “inciampare” è avvenuto col rifiuto di Cristo, il Messia. La Pietra angolare è stata per loro  una “pietra d’inciampo” e un “sasso d’intoppo” (1 Pietro 2:7). Sono caduti per incredulità, ma anche questa volta Dio non li ha distrutti; non è stata una caduta definitiva da non rialzarsi mai più.

I Gentili, pagani, hanno beneficiato del rifiuto di Cristo da parte dei Giudei. Essi sono stati messi da parte e la grazia di Dio si è estesa a tutti i popoli della terra. Il Vangelo ha superato i confini d’Israele per raggiungere ogni nazione del mondo. “Era necessario che a voi per i primi – dice Paolo ai Giudei di Antiochia – si annunziasse la Parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi ritenete degni della vita eterna, ecco, noi ci rivolgiamo ai pagani. Così, infatti, ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto come luce delle genti perché tu porti la salvezza fino alle estremità della terra” (Atti 13:46-47).

“Ora, se la loro caduta è una ricchezza per il mondo, e la loro diminuzione è una ricchezza per i pagani, quanto più lo sarà la loro piena partecipazione.”  (v. 12)

Gli interventi di Dio verso il resto mondo sono sempre legati alle vicende d’Israele. Oggi, il popolo d’Israele è incredulo e allora Dio si è formato un altro popolo, costituito dai credenti in Cristo presi da tutte le altre nazioni della terra. Il loro impoverimento è stata dunque una ricchezza per il mondo intero. Pensiamo a quanti benefici il mondo godrà quando Israele, nella sua totalità, si convertirà al Signore!

“Parlo a voi, pagani: in quanto io sono apostolo dei pagani, io faccio onore al mio ministero, sperando di provocare la gelosia di quelli del mio sangue, e di salvarne alcuni.” (v. 13-14)

In che modo Paolo faceva onore al suo ministerio? Certamente predicando il vangelo fra i Gentili, ai quali era mandato (Atti 9:15, 22:21, 26:17-18). Ma, essendo egli ebreo e amando il suo popolo, sperava che la sua predicazione fra i pagani e i risultati che otteneva muovessero a gelosia quelli del suo sangue. Chi sa – egli pensava – che qualcuno di loro, vedendo molti pagani credere in Cristo, non fosse stimolato a rivedere le proprie idee e a convertirsi egli pure! In questo modo Paolo, predicando ai Gentili, avrebbe indirettamente portato alla salvezza anche dei Giudei.

La gelosia, o l’invidia, in questo caso sarebbe stata utile! Vi sono due tipi di gelosia: quella che porta a rattristarsi del bene degli altri, il che è peccato, e quella che porta a temere che la persona amata ami altri. Quest’ ultima è anche la gelosia di Dio che giustamente vuole che siamo tutti per Lui e che amiamo Lui solo (Sofonia 1:18, Salmo 78:58), la gelosia dello Spirito che abita in noi e che vuole che non amiamo il mondo (Giacomo 4:4-5), la gelosia dello stesso apostolo Paolo che temeva che l’amore dei credenti si distogliesse da Dio (2 Corinzi 11:2). Perché l’amore, se è vero, è anche esclusivo. Da condannare, ovviamente, sono gli atti di gelosia e di violenza senza motivo, basati su sospetti infondati.

Il fatto che l’apostolo dica “e di salvarne alcuni” non deve farci pensare che egli avesse il potere di salvare né che credesse di averlo. Il potere di salvare è solo di Dio e del Signore Gesù: “Uno soltanto è legislatore e giudice, Colui che può salvare o perdere” (Giacomo 4:12). In 1 Corinzi 7:16 egli usa la stessa espressione a proposito della moglie o del marito credenti con il coniuge inconvertito: “Tu, moglie, che sai se salverai il marito? E tu, marito, che sai se salverai tua moglie?”.  Il senso è: Che sai se grazie a te, al tuo esempio e alla tua predicazione, l’incredulo non finisca per credere ed essere salvato?

“Infatti, se il loro ripudio è stato la riconciliazione del mondo, che sarà la loro riammissione se non la vita d’infra i morti?” (v. 15)

Il loro ripudio è la riconciliazione del mondo, la loro riammissione sarà la vita d’infra i morti. Ezechiele 37 raffigura il popolo di Israele, in un tempo ancora a venire, a tante ossa secche che si ricopriranno di muscoli, poi di pelle, e infine Dio metterà in loro lo spirito e rivivranno. Sembra che a Paolo manchino le parole per descrivere quali immense benedizioni tutto il mondo godrà quando Israele, oggi incredulo, sarà riabilitato. Questo avverrà nel Millennio. Cose grandi e belle si vedranno in quell’epoca come non si sono mai viste, dall’inizio della storia dell’uomo. “Mandate grida di gioia all’Eterno, abitanti di tutta la terra… Celebratelo, benedite il suo nome!” (Salmo 100).

Israele dunque, oggi “morto” come nazione, godrà finalmente la vera vita,  nella comunione col suo Dio, nella fede e nell’ubbidienza ai suoi comandamenti. “E tutte le nazioni vi diranno beati, perché sarete un paese di delizie” (Malachia 3:12).

“Se la primizia è santa, anche la massa è santa; se la radice è santa, anche i rami sono santi.”  (v. 16)

La primizia santa, la radice santa, si riferiscono ad Abramo, capostipite degli Ebrei. Quale è la primizia di un raccolto, tale è tutto il raccolto; quale è la radice di un’albero, tale è tutto l’albero, il tronco, i rami. Abramo è stato eletto da Dio, è l’uomo di fede a cui l’Eterno ha fatto delle promesse,  per lui e per la sua discendenza. La discendenza di Abramo è dunque santa, eletta, consacrata a Dio come lo era lui. Ma sono avvenuti dei fatti che Paolo spiega nei versetti seguenti.

Per “primizia” si potrebbe anche intendere il residuo fedele dell’epoca di Paolo, e per “massa” (letteralmente “pasta”, come in Numeri 15:20) Israele nel futuro. La “radice” è in ogni caso Abramo.

“Se alcuni rami sono stati troncati, mentre tu, che sei olivo selvatico, sei stato innestato al loro posto e sei diventato partecipe della radice e della linfa dell’ulivo, non ti insuperbire contro i rami; ma, se t’insuperbisci, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te.”  (v. 17-18)

Già Israele era stato dichiarato “Lo-ammi”, non più mio popolo (Osea 1:9). Ora, alcuni rami di quell’olivo sono stati tagliati in quanto Dio ha ripudiato gli Ebrei increduli che hanno rifiutato Cristo. Al loro posto, ha innestato dei rami che erano selvatici, i pagani convertiti al Signore. Non che questi siano ora  diventati “popolo di Israele”, ma sono diventati partecipi delle promesse che Dio aveva fatto a Israele e di tutte le benedizioni legate a queste promesse, qui descritte come “la linfa” (o la grassezza) dell’ulivo. “La benedizione di Abramo” è venuta così “sui pagani in Cristo Gesù” (Galati 3:14). Sono diventati partecipi di Cristo (il Messia) che era venuto per il suo popolo, per portare a Israele liberazione e pace; ma poiché l’hanno rifiutato, la liberazione e la pace è offerta a tutti i Gentili.

In questa “parabola” dell’ulivo notiamo un particolare interessante. Per ottenere del frutto da una pianta selvatica, gli agricoltori innestano su quella pianta dei rami presi da un’albero coltivato, domestico. Qui, invece, è l’inverso: rami selvatici sono innestati su una pianta coltivata! (*)

I credenti ex-pagani non dovevano insuperbirsi. Se la grazia, rifiutata dagli Ebrei, si era estesa a loro c’era solo da ringraziare il Signore. “Eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. Ma ora, in Cristo Gesù, voi che già eravate lontani siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo” (Efesini 2:12-13).

“Allora tu dirai: sono stati troncati dei rami perché fossi innestato io. Bene: essi però sono stati troncati per la loro incredulità e tu sussisti per la fede; non insuperbirti, ma temi. Perché se Dio non ha risparmiato i rami naturali, non risparmierà neppure te.”  (v. 19-21)

Paolo dice: Tu, che appartieni alle Nazioni (che sei Gentile, non Israelita), hai ora la possibilità di usufruire della grazia di Dio, ma non perché hai fatto opere migliori degli Israeliti. Non vorrai certo fartene un vanto! Se credi, vivrai. Ma se rifiuti la grazia, la stessa severità che Dio ha avuto verso i Giudei l’avrà anche verso di te.

Questo discorso, come era valido per quelli di allora che provenivano dal paganesimo, lo è altrettanto oggi per la cristianità nel suo insieme. Cosa farà Dio di tutti quelli che si dicono cristiani ma non hanno la vera fede? Cosa farà della falsa chiesa ecumenica della fine, la “grande Babilonia”? Basta leggere Apocalisse 18 per capire la severità di Dio verso quelli che hanno rifiutato la sua grazia pur avendola conosciuta.

“Considera dunque la bontà e la severità di Dio: la severità verso quelli che sono caduti; ma verso di te la bontà di Dio, purché tu perseveri nella sua bontà; altrimenti anche tu sarai reciso”  (v. 22)

Bontà e severità è giusto che vadano insieme perché Dio è amore  e luce. Non è mai crudele perché ama immensamente la sua creatura, e l’ha dimostrato dando il suo proprio Figlio. Però non può venire meno alle sue prerogative di giustizia e di santità. Chi non persevera nell’ amore di Dio dimostra che la sua fede non aveva prodotto in lui quel rinnovamento dello Spirito, quella nascita nuova, che avviene quando si crede col cuore (Giovanni 3:3-7, Galati 5:6-15). Chi crede per un po’ e dopo un certo tempo non crede più, non è nato di nuovo; è uno di quei “terreni” in cui il seme della Parola germoglia e produce una pianticella che però non giunge a maturità e si secca (Matteo 13:5).

“Allo stesso modo anche quelli, se non perseverano nella loro incredulità, saranno innestati; perché Dio ha la potenza di innestarli di nuovo.” (v. 23)

Grande è la misericordia di Dio. Di fronte a un pentimento e a un ritorno sulla giusta via, Egli è pronto a perdonare e a revocare il castigo pronunciato. Così farà col suo popolo. Quando “guarderanno a Colui che essi hanno trafitto e ne faranno cordoglio” (Zaccaria 12:10), saranno di nuovo riconosciuti come “popolo di Dio”. “E vedrete – Egli dice – se io non vi aprirò le cateratte del cielo e non riverserò su voi tanta benedizione che non vi sia più dove riporla” (Malachia 3:10).

“Infatti, se tu sei stato tagliato dall’olivo selvatico per natura e sei stato contro natura innestato nell’ olivo domestico, quanto più essi, che sono i rami naturali, saranno innestati nel loro proprio olivo.” (v. 24)
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(*) Qualcuno pensa che Paolo faccia allusione ad un’usanza degli agricoltori della sua epoca che consisteva nell’innestare, su ulivi coltivati ma un po’ indeboliti, un ramo di ulivo selvatico per dare nuovo vigore a tutto l’albero.

Se si fa per ottenere del frutto, l’innesto di un ramo selvatico su un tronco domestico è un controsenso. Forse a questo allude Paolo quando dice “contro natura” (*).
Giudei saranno reinnestati, se crederanno; la possibilità di godere le benedizioni della grazia di Dio non è tolta loro definitivamente e per sempre. Quando torneranno a Dio e si convertiranno al Signore Gesù, Dio riallaccerà con loro delle relazioni meravigliose e manterrà a loro riguardo tutte le promesse fatte anticamente ad Abramo e alla sua discendenza.

 La salvezza futura d’Israele

“Infatti, fratelli, non voglio che ignoriate questo mistero, affinché non siate presuntuosi: un indurimento si è prodotto in una parte d’ Israele, finché non sia entrata la totalità dei pagani; “  (v. 25)

Sembra strano che i credenti provenienti dal paganesimo potessero vantarsi di aver accettato Cristo rispetto agli  Ebrei che invece l’avevano rifiutato. Ma, evidentemente, il rischio c’era e Paolo voleva che lo evitassero.

Non tutti gli Israeliti, comunque, hanno rifiutato Cristo; all’inizio della predicazione del Vangelo molti di loro hanno creduto (**) e hanno costituito il primo nucleo delle chiese cristiane dell’epoca, anche fuori della Palestina. Col passare degli anni, però, le vere conversioni si sono avute quasi esclusivamente fra persone di origine Gentile, vale a dire non Ebrei, e oggi è ancora così. Anche se non mancano le conversioni fra gli Ebrei, questo popolo rimane tuttora cieco e disubbidiente.

Ma fra non molto le cose cambieranno: venuti alla fede tutti quei Gentili che Dio aveva previsto (la totalità o la pienezza dei Gentili), Israele si ravvederà, dopo i gravi castighi che dovrà subire; e allora Cristo sarà riconosciuto e acclamato come Messia e Salvatore da tutto il popolo. Questo è il “mistero” che Paolo vuole far conoscere ai fratelli Gentili.

e così tutto Israele sarà salvato, come è scritto: Il liberatore verrà da Sion. Egli allontanerà da Giacobbe l’empietà; e questo sarà il mio patto con loro, quando toglierò via i loro peccati.”   (v. 26-27)

Il ravvedimento di Israele non può avvenire mentre la Chiesa, il popolo celeste di Dio, è sulla terra. Ma tolta la Chiesa, Dio riprenderà le sue relazioni con il suo antico popolo terreno per portare a compimento le promesse fatte ai padri. E Paolo cita qui Isaia 59:20-21: “Un Redentore verrà da Sion per quelli di Giacobbe che si convertiranno dalla loro rivolta. Quanto a me, dice l’Eterno, questo è il patto che fermerò con loro: il mio spirito che riposa su te e le mie parole che ho messo nella tua bocca, non si dipartiranno mai né dalla tua bocca né dalla bocca della tua progenie”. “E l’Eterno possederà Giuda come sua parte nella terra santa, e sceglierà ancora Gerusalemme… Così di nuovo ha pensato in questi giorni di far del bene a Gerusalemme e alla casa di Giuda” (Zaccaria 2:12,  8:15).

“Per quanto concerne il vangelo, essi sono nemici per causa vostra; ma per quanto concerne l’ elezione sono amati a causa dei loro padri; perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili (***).(v. 28-29)

Questo “per causa vostra” potrebbe far pensare che sia colpa dei Gentili se i Giudei non hanno creduto e sono diventati nemici di Dio. Ma Paolo vuol dire: voi avete potuto usufruire della grazia di Dio a motivo del fatto che essi l’hanno respinta. Ma anche se così è avvenuto, c’è una chiamata di Dio, un’ elezione, una promessa fatta ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe, i padri del popolo di Israele. E Dio non se ne può dimenticare. Per amore dei padri anche i discendenti sono amati.

Anche l’elezione di noi credenti, i doni e le promesse che Dio ci ha fatte, sono senza pentimento. Possiamo contarci, e avere la pace. “Dio non è un uomo da dover mentire, né un figlio d’uomo da doversi pentire. Quando ha parlato, non manterrà la parola?” (Numeri 23:19). “Fedele è Colui che vi chiama” (1 Tessalonicesi 5:24).

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(*) Ma si può anche intendere che l’innesto stesso, comunque avvenga, sia di per sé “contro natura”, essendo un artificio umano, sebbene frutto di antica saggezza.
(*) Si può dire che, fino al martirio di Stefano, la salvezza era presentata alla nazione d’ Israele (Atti 3:19-20, 5:31-32); ma da quel momento la predicazione si è rivolta agli individui,  non più al popolo nel suo insieme.
(**) In greco  “ametaméletos” che significa: di cui non ci si deve pentire.

“Come in passato voi siete stati disubbidienti a Dio, e ora avete ottenuto misericordia per la loro disubbidienza, così anch’ essi sono stati ora disubbidienti, affinché, per la misericordia a voi usata, ottengano anch’essi misericordia (*)(v. 30-31)
Chi ha disubbidito a Dio più dei popoli pagani? L’idolatria, l’immoralità, la violenza, le perversioni, sono quanto c’è di più offensivo per il Signore. Paolo fa bene a ricordarlo ai credenti che un tempo commettevano quelle cose (1 Corinzi 12:2, Efesini 2:1-2, 4:17-18). Se ora credevano al Signore e avevano la salvezza, era solo per la misericordia di Dio. La stessa misericordia Dio l’avrà verso Israele che oggi è disubbidiente. “Poiché avrò misericordia delle loro iniquità, e non mi ricorderò più dei loro peccati” (Ebrei 8:12).

“Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti.” (v. 32)

Tutti disubbidienti, Giudei e Gentili. Tutti salvati per grazia mediante la fede in Cristo. Chi può farsene vanto? Chi può credersi migliore di un altro? Chi può accampare dei diritti o delle priorità? “Egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma secondo la sua misericordia” (Tito 3:5).

“Oh, profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio (**) ! Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi e incomprensibili le sue vie!” (v. 33)

Come si può non esaltare Dio quando si considerano la sua sapienza e le sue vie di grazia? Questa lode (detta “dossologia” nel linguaggio teologico) alla profondità delle ricchezze, della sapienza e della scienza di Dio conclude anche tutta la parte dottrinale dell’epistola, sebbene il suo più diretto riferimento è l’ultimo argomento trattato, quello relativo alla salvezza di Israele.

Molte cose Dio ce le ha rivelate per mezzo della sua Parola, e il suo Spirito ce ne dà la conferma e il godimento. Ma la nostra mente non può arrivare a spiegare i progetti di Dio né a capire pienamente i suoi decreti e le sue sentenze (***), così come non può misurare la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo (Efesini 3:18-19) che “sorpassa ogni conoscenza”. Di fronte a tali gloriosi misteri una sola cosa possiamo fare: inchinarci e adorare, come fa Paolo qui.

“Infatti, chi ha mai conosciuto il pensiero del Signore (****)? O chi è stato il suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì da riceverne il contraccambio? Perché da Lui, per mezzo di Lui e per Lui sono tutte le cose. A Lui sia la gloria in eterno. Amen.” (v. 34-36)

Non esiste creatura nell’universo in grado di dare consigli a Dio. Dio basta a se stesso; la sua mente è infinita; i suoi pensieri sono perfetti. Inoltre, Dio non è debitore di nessuno perché nessuno può dargli nulla essendo ogni cosa di sua proprietà. Tutte le cose create provengono da una sua precisa volontà, esistono grazie ad un’opera interamente sua, e sussistono per la sua soddisfazione e per raggiungere i suoi scopi. A Lui sia la gloria in eterno. Amen!

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(*) Il v.31 letteralmente dice: Così anch’essi sono stati ora disubbidienti alla vostra misericordia (nel senso che hanno rifiutato l’idea che Dio potesse fare grazia ai Gentili), affinché anch’essi diventino degli oggetti di misericordia (come dire che avendo perso ogni diritto alla misericordia di Dio, la otterranno allo stesso modo con cui l’hanno ottenuta i Gentili che non ne avevano alcun diritto).
(**) O meglio: “profondità della ricchezza della sapienza e della conoscenza di Dio”. Ricchezza si riferirebbe quindi alla sapienza e alla conoscenza (o scienza).
(***) Il termine greco tradotto con giudizi (krima) significa sia decreto o decisione, sia sentenza, condanna.
(****) Qui si riferisce a Dio, all’ Eterno.

CAPITOLO 12

La consacrazione a Dio
“Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto  (*) spirituale.”  (v. 1)
Paolo è come un costruttore. Nei capitoli precedenti ha messo i fondamenti, le basi della dottrina cristiana: la grazia di Dio, l’opera di Cristo, la fede che salva. Adesso, su queste basi, costruisce l’edificio della morale cristiana, indicando quali comportamenti il credente deve tenere come logica conseguenza della sua fede. Se Dio è misericordioso, perché ci ha fatto grazia, noi dobbiamo ora offrirci a Lui, dargli tutto il nostro essere.

L’offerta  (o il sacrificio) del nostro corpo a Lui è vivente, a differenza dei sacrifici di animali uccisi che venivano offerti anticamente da Israele. Noi siamo morti al peccato, ma “viventi a Dio in Cristo Gesù” (Romani 6:11). Inoltre è santa, vale a dire pura, consacrata a Dio e a Lui gradita. Il nostro corpo sono i nostri piedi, le mani, gli occhi, la bocca, le orecchie, ecc… Quello che facciamo, i luoghi dove andiamo, le cose che guardiamo, che diciamo, che ascoltiamo, tutto dev’essere gradito al Signore e fatto in una totale consacrazione a Lui. E’ praticamente l’offerta a Dio di tutta la nostra vita, nelle intenzioni, nelle motivazioni, nei comportamenti.

Questo è il nostro “culto spirituale”; in altre parole il nostro “servizio spirituale” (o intelligente, razionale). Spirituale o intelligente sono due possibili traduzioni del greco “logicos”. Se diciamo “spirituale” lo mettiamo in contrasto col culto di Israele nel tempio, fatto di pratiche esteriori. Se diciamo “intelligente” precisiamo che è quello vero, che ha un senso, che è intelligente perché corrisponde a ciò che Dio desidera. I due pensieri sono ugualmente corretti.

“Non conformatevi a questo mondo (**), ma siate trasformati (***) mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.”  (v. 2)

Conformarsi al mondo è vivere come vivono quelli che non conoscono il Signore, accettarne le regole, lo stile, la filosofia della vita. Il credente è “nel mondo” ma non è “del mondo” (Giovanni 17:16); dunque deve andare contro corrente. “Gesù Cristo ha dato se stesso per i nostri peccati per sottrarci al presente secolo malvagio, secondo la volontà del nostro Dio e Padre” (Galati 1:4).

Il rinnovamento della mente, del modo di pensare, si può dire della  “mentalità”, avviene quando si crede al Signore e si riceve lo Spirito Santo (Efesini 4:23). E’ allora che cambiano le scale di valori, le aspirazioni, gli obiettivi, il modo di valutare le cose. Tutto questo, dunque, deve influire sulla vita del riscattato e trasformarla. Delle orecchie aperte all’insegnamento del Signore e una vita santa fanno conoscere “per esperienza” (letteralmente saggiare, provare) quanto sia buona, accettevole (o gradevole) e perfetta la volontà di Dio.
“Per la grazia che mi è stata concessa, io dico quindi a ciascuno di voi che non abbia di sé un concetto più alto di quello che si deve avere, ma abbia di sé un concetto sobrio, secondo la misura di fede che Dio ha assegnato a ciascuno.”  (v. 3)
La grazia che Paolo ha ricevuto dal Signore di essere apostolo e dottore gli dà ora l’autorità di trasmettere ai suoi fratelli e sorelle delle lezioni di umiltà e di equilibrio.
La stima di sé è il primo problema che viene affrontato. Una mancanza di equilibrio in questo campo crea sempre difficoltà personali e nei rapporti con gli altri. Non dobbiamo sopravvalutarci, ma nemmeno sottovalutarci. Non dobbiamo avere né un complesso di superiorità né di inferiorità nei confronti dei nostri fratelli. E’ doveroso riconoscere e apprezzare i doni e le facoltà che la grazia del Signore ci ha dato, ma questo non deve diventare un motivo per sentirsi più grandi degli altri, come molto spesso  avviene, o per svalutare le loro capacità e il loro servizio.

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(*) “Latreia” significa culto, servizio. Il termine è usato in almeno 21 diversi passi nel Nuovo Testamento. Rendere culto, “latreuo”, è equivalente di servire, di offrire a Dio in qualche modo un servizio che gli sia gradito. Fra i passi più significativi c’è Atti 27:23: “Poiché un angelo del Dio al quale appartengo e che io servo (o al quale offro culto) mi è apparso questa notte”; Romani 1:9: “Dio che io servo (o al quale offro culto) nel mio spirito annunciando il Vangelo del suo Figlio”; Filippesi 3:3: “I veri circoncisi siamo noi che offriamo il nostro culto (o serviamo) per mezzo dello Spirito di Dio”; 2 Timoteo 1:3: “Rendo grazie a Dio che io servo (o al quale offro culto) come già i miei antenati in pura coscienza”, Ebrei 9:9, 9:14, 10:2, 12:28.(**) Letteralmente è “questo secolo” (aion”). Significa l’epoca e l’ambiente nei quali viviamo. Satana è “il dio di questo secolo” (2 Corinzi 4:4).
(***) “Metamorfoomai” (da cui deriva il termine metamorfosi) è usato sia per descrivere la “trasfigurazione” del Signore (Matteo17:2) sia la nostra “trasformazione” nella stessa immagine del Signore, di gloria in gloria, per l’azione dello Spirito (2 Corinzi 3:18).

 Ci siano di istruzione, allora, anche altre esortazioni dello stesso apostolo: “Se uno pensa di essere qualcosa pur non essendo nulla, egli inganna se stesso” (Galati 6:3). “Non fate nulla per vanagloria, ma ciascuno di voi, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso” (Filippesi 2:3).
Ognuno di noi ha un livello di “fede”, un suo grado di spiritualità e di conoscenza. Chiediamo al Signore di saperlo individuare per evitare di superare la nostra misura e di volerci assumere compiti e responsabilità che non saremmo all’altezza di svolgere.

“Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e tutte le membra non hanno una medesima funzione, così noi, che siamo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, individualmente, siamo membra l’uno dell’altro.”  (v. 4-5)

“Ora, voi siete il corpo di Cristo e membra d’esso, ciascuno per parte sua” (1 Corinzi 12:27). Il corpo di Cristo è l’insieme di tutti i riscattati del Signore sulla terra. Cristo è il Capo (o la Testa) di questo corpo, ed è nel cielo, nella gloria (Efesini 4:15). In questo organismo meraviglioso vi sono tante membra e tanti organi, ognuno con la sua specifica funzione (questo si vive in pratica e si sperimenta nelle chiese locali) ma tutti strettamente collegati gli uni agli altri  e tutti ugualmente indispensabili per la vita del corpo.  E’ la Chiesa del Signore, in altri passi vista come un edificio nel quale ogni credente è una pietra vivente (Efesini 2:20-22, 1 Pietro 2:4-5), oppure come una sposa della quale il Signore è lo Sposo (Efesini 5:22-33), o come un gregge del quale il Signore è il buon Pastore (Giovanni 10:16).

E’ molto interessante il pensiero che siamo membra “l’uno dell’altro”, che il mio fratello è indispensabile per la mia vita come io lo sono per la sua, nell’interno della Chiesa.

“Avendo pertanto doni (*) differenti, secondo la grazia che ci è stata concessa, se abbiamo dono di profezia (**), profetizziamo secondo la misura della nostra fede; se di ministero, attendiamo al ministero, se di insegnamento, all’insegnare; chi dà, dia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, lo faccia con gioia.”  (v. 6-8)

La prima epistola ai Corinzi nei cap. 12 a 14 tratta molto dettagliatamente il soggetto dei “doni”. Il termine originale tradotto qui, e in molti altri passi, con dono, è “carisma” che significa grazia, favore, dono della grazia. Il dono è il favore fatto al credente di poter manifestare, con potenza e particolare capacità, lo Spirito che è in lui attraverso un servizio volto all’utilità degli altri.

“A ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per il bene comune” (1 Corinzi 12:7); ma non a tutti la stessa. Ognuno ha le proprie capacità, che il Signore conosce, e il proprio livello spirituale, la “misura di fede”. E lo Spirito, che sa ogni cosa, “distribuisce i suoi doni a ciascuno in particolare come vuole” (1 Corinzi 12:11). L’importante è che ognuno compia il servizio che il Signore gli ha affidato ed eserciti il dono ricevuto. Il profeta trasmetterà messaggi “di edificazione, di esortazione e di consolazione” (1 Corinzi 14:3). Farà principalmente quello, perché quello gli è stato dato di fare.

Quelli che danno con semplicità danno anche generosamente, perché sono spontanei, pronti, sinceri.
Quelli che presiedono con diligenza saranno per tutti un punto di riferimento perché il buon funzionamento della chiesa è affidato al loro discernimento spirituale e alle capacità ricevute dal Signore. “Fratelli, vi preghiamo di aver riguardo per coloro che lavorano in mezzo a voi, che vi sono preposti nel Signore e vi esortano, e di tenerli in grande stima e di amarli, a motivo dell’opera loro” (1 Tessalonicesi 5:12-13).
Quelli che aiutano altri in difficoltà, e lo fanno con gioia, saranno ben accetti perché il loro aiuto non mortificherà chi lo riceve.

La vita cristiana
“L’amore sia senza ipocrisia. Aborrite il male e attenetevi fermamente al bene.”  (v. 9)
L’amore sincero, autentico, per il Signore, per i fratelli, per tutti gli uomini, dovrebbe essere una caratteristica peculiare di ogni credente. Dio non vuole nessuna maschera, nessuna finzione. Giuda ha dato un bacio al Signore, ma era un falso segno di amore, un tradimento. Pietro esorta ad un “sincero amore fraterno” (1 Pietro 1:22), e Giovanni scrive: “Figliuoli, non amiamo a parole e con la lingua, ma con i fatti e in verità” (1 Giovanni 3:18).

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(*) Il termine “carisma” è usato sei volte in Romani: 1:11, 5:15-16, 6:23, 11:29, 12:6, sette volte in 1 Corinzi: 1:7, 7:7, 12:4,9,28,30,31, una volta in 2 Corinzi 1:11, in 1 Timoteo 4:14, in 2 Timoteo 1:6, in 1 Pietro 4:10. Come si può rilevare dalla lettura dei passi citati non sempre questo termine si riferisce al “dono di grazia” nel senso dei brani che stiamo studiando.
(**) I profeti del Vecchio Testamento, oltre ad esortare il popolo e spronarlo ad essere fedele all’Eterno, preannunciavano anche avvenimenti futuri. Ma da quando la rivelazione di Dio si è completata ed è stata scritta per intero (col Nuovo Testamento) il ministerio del profeta ha perso il carattere di rivelatore di cose ignote.

C’è un ricco insegnamento nella Parola su come dobbiamo comportarci nei confronti del bene e del male:

– Isaia 5:20. “Guai a quelli che chiamano bene il male e male il bene“. Bisogna chiamare il male col suo nome, avere il coraggio di smascherarlo, non dire che certe cose si possono anche fare quando si sa che il Signore le proibisce.

– Romani 12:9. “Aborrite il male e attenetevi fermamente al bene“. E’ avere il male in orrore, respingerlo, fuggirlo; e poi attaccarsi al bene, praticarlo con tutte le forze.

– Ebrei 5:14. “…quelli che per via dell’uso hanno le facoltà esercitate a discernere il bene dal male“. Distinguere il bene dal male è anche questione di “pratica”, come avviene nell’esercizio di un mestiere nel quale il continuo esercizio rende abili. Ci vuole impegno costante, giornaliero, per imparare a capire quello che piace o non piace al Signore.

– Romani 16:19. “Desidero che siate saggi nel bene e integri in ciò che concerne il male“. In altre parole, ingegnosi per praticare il bene, esperti in ogni opera buona; e pronti a giudicare il male senza trovare scuse o scappatoie, prudenti per evitare ogni minimo contatto che potrebbe trascinarci a commettere cattive azioni.

– 3 Giovanni 11. “Carissimo, non imitare il male ma il bene“. E’ più facile seguire i cattivi esempi che i buoni; guai se giustifichiamo le nostre malvage azioni prendendo a pretesto che anche altri hanno fatto così!

– Proverbi 17:13. “Il male non si dipartirà dalla casa di chi rende il male per il bene“. Il Signore Gesù ha ricevuto il male in cambio del bene che aveva fatto. E’ un grave peccato fare del male a chi ci ha aiutati, a chi ci ha fatto dei favori e forse si è privato di qualcosa per amore per noi. L’ingratitudine è causa di molta sofferenza.

“Quanto all’amore fraterno siate pieni di affetto gli uni per gli altri. Quanto all’onore fate a gara nel rendervelo reciprocamente.”  (v. 10)

L’amore e il rispetto verso i fratelli sono un segno di amore e di rispetto verso il Signore stesso. Basta leggere 1 Corinzi 13 per sapere cos’è il vero amore; ma è bene ricordare che se amiamo il nostro fratello dobbiamo anche essere pronti a riprenderlo qualora vedessimo che commette un peccato.  L’onore è dovuto a tutti i credenti per la dignità che hanno di figli di Dio. Ma vi sono persone che ne meritano più di altre: “Gli anziani che tengono bene la presidenza siano reputati degni di doppio onore, specialmente quelli che si affaticano nella predicazione e nell’insegnamento” (1 Timoteo 5:17). “Fratelli, vi preghiamo di aver riguardo per coloro che lavorano in mezzo a voi… e di tenerli in grande stima, e di amarli a motivo dell’opera loro” (1 Tessalonicesi 5:12-13). “Ho ritenuto necessario mandarvi Epafrodito… Accoglietelo nel Signore con tutta gioia e abbiate stima di uomini simili” (Filippesi 2:29).

“Quanto allo zelo, non siate pigri; siate ferventi nello Spirito, servite il Signore; siate allegri nella speranza, pazienti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera.”   (v. 11-12)

La pigrizia porta alla povertà. “Chi lavora con mano pigra impoverisce” (Proverbi 10:4). Così è anche nell’opera del Signore. Se viene meno lo zelo, le cose del mondo hanno il sopravvento e sia il nostro progresso personale, sia il servizio ricevuto dal Signore subiscono una battuta d’arresto.

Il “fervore nello spirito” è quella carica interna, quell’entusiasmo che ha la sua sorgente nella fede e nella piena consapevolezza dell’amore del Signore per noi.

“Servite il Signore”! E’ un’esortazione, se non un ordine, rivolta a tutti. Se Gesù Cristo è il Signore (*) dobbiamo ubbidirgli; se siamo suoi servi dobbiamo servirlo. “Servite Cristo, il Signore!” (Colossesi 3:24).

La speranza è l’attesa certa del ritorno del Signore per entrare in possesso di tutte le cose promesse. Se lo sguardo è “intento alle cose che non si vedono” (2 Corinzi 4:18) l’attesa non è triste ma gioiosa. Certo, le tribolazioni sono dure da sopportare e rischiano di portare allo scoraggiamento e alla delusione; ma il credente ha una potente arma: la preghiera.“Perseverate nella preghiera” (Colossesi 4:2); “Pregate in ogni tempo con ogni preghiera e supplicazione; vegliate a questo scopo con ogni perseveranza” (Efesini 6:18); “Non cessate mai di pregare” (I Tessalonicesi 5:17).

“Provvedete alle necessità dei santi; esercitate con premura l’ospitalità.”  (v. 13)

All’inizio del cristianesimo tutti mettevano i propri beni in comune; i credenti “vendevano le proprietà e i beni e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (Atti 2:45). Anche se una tale situazione non ha potuto durare a lungo, resta l’obbligo e il privilegio di aiutare chi è nel bisogno, credente e no. Ma qui Paolo parla dei santi, perché è giusto che la precedenza sia data a quelli della “famiglia dei credenti”: “Secondo l’opportunità che ne abbiamo, facciamo del bene a tutti; ma specialmente ai fratelli in fede” (Galati 6:10).

L’accoglienza è uno dei tanti modi di fare del bene. Ospitare i servitori del Signore, i fratelli in viaggio, quelli che momentaneamente si trovano senza un tetto; dare loro del cibo e un letto da dormire: è questa la vera ospitalità. Ma anche la gioia e la disponibilità ad accogliersi l’un l’altro per condividere una cena insieme e rallegrarsi nel Signore può essere un utile mezzo per rinsaldare i legami fraterni e conoscersi meglio. “Siate ospitali gli uni verso gli altri, senza mormorare” (1 Pietro 4:9) (**) Abramo, ad esempio, ha ospitato degli stranieri, ed erano angeli! (Ebrei 13:2). Gli anziani devono essere ospitali (1 Timoteo 3:2); e le vedove, per poter essere iscritte nel catalogo delle vedove e avere diritto a un sussidio da parte della chiesa, dovevano anche aver “esercitato l’ospitalità” (1 Timoteo 5:10).

“Benedite quelli che vi perseguitano. Benedite e non maledite.”  (v. 14)

Il Signore è in questo un perfetto esempio. “Oltraggiato non rendeva gli oltraggi; soffrendo, non minacciava” (1 Pietro 2:23). Sulla croce ha chiesto al Padre di perdonare i suoi aguzzini! Con un tale esempio davanti agli occhi, anche noi possiamo trovare la forza per non maledire chi ci fa del male a motivo della nostra fede. “Non rendete male per male od oltraggio per oltraggio, ma, al contrario, benedite” (1 Pietro 3:9).  Colui che “ha vinto il mondo” ci aiuterà nei momenti difficili, come ha promesso (Giovanni 16:33).

“Rallegratevi con quelli che sono allegri, piangete con quelli che piangono.”  (v. 15)

Questa è la “simpatia” nel senso etimologico del termine, la concordanza di sentimenti, la partecipazione alle gioie e alle sofferenze altrui. Chi meglio del Signore ha “simpatizzato” con noi? Le sue lacrime alla tomba di Lazzaro ne sono una prova (Giovanni 11:33-34).

Abbiamo visto che tutti i credenti formano un solo corpo. Ora, in un corpo, “se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui; se un membro è onorato, tutte le membra ne gioiscono con lui” (1 Corinzi 12:26). Capire i problemi degli altri e farli nostri vuole anche dire darsi da fare per aiutarli con la preghiera. Essere felici della gioia degli altri vuole anche dire aggiungere nuovi motivi alla nostra lode per il Signore. Questo è il vero amore fraterno. L’egoismo è tolto via, come pure la gelosia e l’invidia.

“Abbiate tra di voi un medesimo sentimento. Non abbiate l’animo alle cose alte, ma lasciatevi attrarre dalle umili. Non vi stimate savi da voi stessi.”  (v. 16)

Uno stesso sentimento qui non è tanto uno stesso modo di interpretare certi passi della Bibbia, ma sono obiettivi e aspirazioni comuni, dettati dalla fede e dall’amore per il Signore. Non è sempre facile perché spesso le nostre idee prendono più posto dei suoi interessi. “Ora, fratelli, vi esorto nel nome del nostro Signore Gesù Cristo, ad avere tutti un medesimo parlare e a non avere divisioni tra di voi, ma a stare perfettamente uniti nel medesimo modo di pensare e di sentire” (1 Corinzi 1:10). Ma vi sono verità fondamentali, specialmente riguardo la persona e l’opera di Cristo, ed altri insegnamenti molto espliciti sui quali non possiamo avere pensieri opposti; e se siamo tutti sottomessi alla Parola i pensieri saranno concordanti.

L’ambizione di cose grandi porta a desiderare onori, a mettersi in vista, ad amare la compagnia di persone importanti. Se il Signore avesse avuto tali pensieri non avrebbe certo lasciato la gloria del cielo per venire a salvare dei miseri peccatori come noi! Se invece siamo attirati dalle cose umili, saremo riconoscenti della posizione nella quale il Signore ci ha messi e delle cose che abbiamo, e godremo anche della compagnia di fratelli e sorelle umili. L’ambizione, nel senso buono del termine, dobbiamo averla nelle cose di Dio, nel progresso spirituale, nel servizio. Per Lui e per la sua gloria dovremmo desiderare grandi cose!

Non siamo noi a doverci stimare savi. Se lo siamo, ci apprezzerà il Signore e ci stimeranno gli altri; e ciò sarà per noi un onore. “Hai tu visto un uomo che si crede savio? C’è più da sperare in uno stolto che da lui!” (Proverbi 26:12).

“Non rendete a nessuno male per male. Impegnatevi a fare il bene davanti a tutti gli uomini. Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti gli uomini.”  (v. 17-18)

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(*) In greco “kurios”, significa signore nel senso di “padrone”, di “autorità superiore”. Questa parola veniva anche anteposta al nome degli imperatori assumendo quindi il senso di “re”. Il nostro Signore Gesù è Padrone e Re della nostra vita!
(**)C’è un caso che fa eccezione: quando uno, pur dicendosi credente, porta una falsa dottrina relativa al Signore Gesù e alla sua opera:  “Se qualcuno viene a voi e non reca questa dottrina, non lo ricevete in casa e non lo salutate” (2 Giovanni 10). La stessa cosa vale per chi vive nell’immoralità: “Vi ho scritto di non mischiarvi con chi, chiamandosi fratello, sia un fornicatore, un avaro, un idolatra, un oltraggiatore, un ubriacone, un ladro; con quelli non dovete neppure mangiare” (1 Corinzi 5:11).

Paolo, con altri fedeli servitori, ci ha preceduti in questo difficile cammino; perciò può scrivere: “Ingiuriati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo” (1 Corinzi 4:12). Essi ubbidivano al loro Signore che aveva ordinato: “Benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi oltraggiano” (Luca 6:28); pregare perché comprendano il male che fanno, si pentano, e si convertano.

“Occhio per occhio, dente per dente” non è un principio cristiano. Il credente che riceve un torto o un affronto non deve ripagare con la stessa moneta. Purtroppo, così facevano alcuni della chiesa di Corinto ai quali Paolo deve dire: “Perché non patite piuttosto qualche torto? Perché non patite piuttosto qualche danno?” (1 Corinzi 6:7). La vendetta non è cristiana, come è scritto nel versetto successivo.

I credenti devono essere conosciuti da tutti come persone che fanno il bene e si impegnano a vivere in pace, ad ogni costo. I nostri colleghi di lavoro, i vicini di casa, i parenti, i conoscenti, dovrebbero non avere mai occasioni per criticarci. Può darsi che lo facciano lo stesso, che ci accusino ingiustamente, ma allora la nostra coscienza è in pace col Signore. “E chi è colui che vi farà del male se siete zelanti nel bene?… ma se soffrite perché avete agito bene e lo sopportate pazientemente, questa è una grazia davanti a Dio (o meglio: è cosa grata a Dio, è degno di lode davanti a Dio)” (1 Pietro 4:16 e 2:20).

“Non fate le vostre vendette, miei cari, ma cedete il posto all’ira di Dio; perché sta scritto: A me la vendetta; io darò la retribuzione, dice il Signore (*). Anzi, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; poiché, facendo così, tu radunerai dei carboni accesi sul suo capo (**).”  (v. 19-20)

Dio non è indifferente ai torti subiti dai suoi figli, sia da parte degli increduli sia da parte di altri credenti. “Chi tocca voi – diceva l’Eterno a Israele – tocca la pupilla dell’occhio suo” (Zaccaria 2:8). Anche le nazioni che si sono accanite contro al suo popolo, e che l’Eterno ha lasciato fare usandole come “verga” per punirlo, saranno a loro volta punite a causa delle loro false intenzioni. “Io mi adirai contro al mio popolo, e li diedi in mano tua; tu non avesti per essi alcuna pietà… Ma un male verrà sopra te… una calamità ti piomberà addosso” (Isaia 47:6-11).

E’ molto bella la citazione di Proverbi 25 che Paolo fa qui. Soccorrendo i nemici nel bisogno si mostra loro concretamente l’amore del Signore. Potranno restare indifferenti? Non finiranno per pentirsi, di fronte a una tale testimonianza, e per credere anch’essi al Signore? Ma se così non avviene, la loro responsabilità è ancora più grande. E tanto più grande sarà il giudizio di Dio su di loro, come “carboni accesi” ammassati sul loro capo.

“Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male col bene”  (v. 21)

E’ più facile imitare il male che vincerlo facendo il bene! In questo contesto, imitare il male potrebbe essere restituire il male a chi ci fa del male  (1 Pietro 3:9); così, il male diventerebbe la nostra guida e il nostro padrone, mentre la nostra unica guida è lo Spirito Santo e il nostro unico padrone il Signore Gesù. Sembra impossibile che il bene possa vincere il male, abituati come siamo a vedere il male trionfare, espandersi, conquistare sempre più terreno. Ma i figli di Dio sono felici di andare contro corrente perché sanno che un giorno il bene trionferà per mezzo di Gesù Cristo, alla gloria di Dio.

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(*) Deuteronomio 32:35
(**) Proverbi 25:21-22

CAPITOLO 13

La sottomissione alle autorità

“Ogni persona sia sottomessa alle autorità superiori; perché non vi è autorità se non da Dio; e le autorità che esistono sono stabilite da Dio.”  (v. 1)

I nuovi convertiti, “chiamati a libertà” (Galati 5:1) e avendo ora un “unico Padrone e Signore Gesù Cristo” (Giuda 4), potevano pensare di non essere più obbligati a sottomettersi alle autorità “umane”. Paolo li esorta invece a sottomettersi, e spiega anche il perché: non vi è autorità se non da Dio. Le “autorità”  sono stabilite da Dio, ma “gli uomini” che occupano i posti di comando sono scelti ed eletti dai cittadini, o vi arrivano in seguito ad atti di forza; ecco perché Pietro le chiama “umane istituzioni” o “autorità create dagli uomini” (1 Pietro 2:13).

Se non vi fossero l’autorità dei genitori nella famiglia, dell’insegnante nella scuola, del superiore nei posti di lavoro, dei capi di governo e di tutti quegli organi preposti all’emanazione delle leggi e al mantenimento dell’ordine pubblico, la vita in società sarebbe impossibile; ci sarebbe il caos.

L’ubbidienza alle autorità è ubbidienza a Dio che le ha imposte; e il credente lo fa  “per amore del Signore” (1 Pietro 2:13). A meno che le autorità stesse obblighino il credente a comportamenti che Dio proibisce; in questo caso l’ubbidienza va a Dio, che è l’Autorità suprema (Atti 4:19, 5:29).

“Perciò chi resiste all’autorità si oppone all’ordine di Dio; quelli che vi si oppongono si attireranno addosso una condanna; infatti i magistrati sono da temere non a causa delle opere buone, ma delle cattive. Tu, non vuoi temere l’autorità? Fa’ il bene e avrai la sua approvazione, perché il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai il male, temi, perché egli non porta la spada invano; infatti è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male.”   (v. 2-4)

E’ sorprendente l’approccio positivo che Paolo ha verso questo problema. Egli parte dal presupposto che l’autorità faccia sempre giustizia, premi il bene e punisca il male. Se pensiamo cos’era la giustizia ai tempi di Paolo ne siamo sorpresi! Noi, che con tanta facilità critichiamo le autorità, dovremmo imparare da Paolo e ringraziare il Signore che ci fa vivere in  Paesi con delle buone leggi e con gli strumenti per farle osservare. Certo, ogni compito affidato agli uomini è svolto imperfettamente e non è esente da errori. Potremmo pretendere la giustizia assoluta da autorità che il più delle volte nemmeno conoscono il Signore, e per le quali spesso ci dimentichiamo anche di pregare?

“Ricorda loro che siano sottomessi ai magistrati e alle autorità, che siano ubbidienti, pronti a fare ogni opera buona” (Tito 3:1).

“Perciò è necessario stare sottomessi, non soltanto per timore della punizione ma anche per motivo di coscienza. E’ anche per questa ragione che voi pagate le imposte, perché si tratta di ministri di Dio, i quali svolgono tali funzioni.”  (v. 5-6)

Dobbiamo ubbidire per avere la coscienza a posto davanti a Dio e per amore per il Signore; ma anche per evitare le giuste punizioni previste dalle leggi vigenti. Paolo diceva: “Io mi esercito ad avere sempre una coscienza pura davanti a Dio e davanti agli uomini” (Atti 24:16). Non solo gli increduli ma anche i credenti devono rendere conto a Dio del loro operato. Al tribunale di Cristo ciascuno riceverà “la retribuzione di ciò che ha fatto quando era nel corpo, sia in bene sia in male” (2 Corinzi 5:10).

Anche pagare le tasse è un atto di ubbidienza a Dio, indipendentemente da come viene poi gestito il denaro riscosso; se è male amministrato, i colpevoli renderanno conto a Dio della loro disonestà. Il Signore, pur essendo padrone di tutto in quanto Dio, per non scandalizzare gli altri ha pagato il tributo, per sé e per Pietro (Matteo 17:24:27).

“Rendete a ciascuno quel che gli è dovuto: l’imposta a chi è dovuta l’imposta, la tassa a chi la tassa; il timore a chi il timore, l’onore a chi l’onore.”  (v. 7).
Paolo vuole che i credenti abbiano una chiara visione dei loro doveri, nel massimo rispetto dei diritti degli altri specialmente se occupano dei posti di autorità. Dando a tutti quello che spetta loro, il credente non ha debiti con nessuno.

Amore del prossimo

“Non abbiate altro debito con nessuno, se non di amarvi gli uni gli altri; perché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge. Infatti, il non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non concupire e qualsiasi altro comandamento si riassumono in questa parola: Ama il tuo prossimo come te stesso.”  (v. 8-9)

Un solo debito non si estingue mai: quello dell’amore verso gli altri!  In altre parole, l’amore per gli altri va considerato come un diritto che essi hanno, qualcosa che è loro dovuto. Noi credenti dobbiamo soccorrere chi è nel bisogno, consolare gli afflitti; soprattutto dobbiamo annunciare l’Evangelo, affinché credano e siano salvati.

Anche la legge di Mosè, in particolare i dieci comandamenti, era in fondo la legge dell’amore: amore verso Dio nei primi quattro, amore verso il prossimo negli altri sei (Esodo 20:1-17, Galati 5:14); “Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore… Ama il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti” (Matteo 22:37-40).

Il Signore Gesù è stato l’unico Uomo che ha rispettato tutta la legge, l’unico che ha perfettamente amato Dio e gli uomini.  “Dio mio, desidero fare la tua volontà, la tua legge è dentro il mio cuore” (Salmo 40:8). Egli è stato il prossimo di tutti noi, il vero Samaritano che ci ha soccorsi nella nostra sventura (Luca 10:25-37), che si è preso cura dei nostri mali, e si è sacrificato per salvarci.

“L’amore non fa nessun male al prossimo; l’amore quindi è l’adempimento (*) della legge.”  (v. 10)

“Per mezzo dell’amore servite gli uni agli altri” (Galati 5:13). L’amore non può fare del male al prossimo, perché “è paziente, è benevolo; l’amore non invidia… non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce… soffre ogni cosa, sopporta ogni cosa” (1 Corinzi 13:1-13). Esso è la rinuncia ai propri interessi per il bene degli altri. Per capire cos’è l’amore dobbiamo considerare la vita e l’opera del nostro Salvatore, la sua disponibilità, le sue rinunce, la sua dedizione alla nostra causa, l’offerta della sua vita per dei miserabili peccatori come noi.

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(*) In greco “pleroma”, pienezza, somma, completamento.

“Voi conoscete la grazia del nostro Signore Gesù Cristo il quale, essendo ricco, s’è fatto povero per amor vostro, affinché… voi poteste diventare ricchi” (2 Corinzi 9:8).
L’amore è l’adempimento della legge. Altri traducono: “l’amore è la somma della legge”: se si volessero riunire tutti i comandamenti in uno solo, dovremmo dire: Ama!

Vigilanza nella vita cristiana

“E ciò dovete fare tanto più che vi rendete conto del tempo in cui viviamo: è ora ormai che vi svegliate dal sonno, perché adesso la salvezza ci è più vicina di quando credemmo.”  (v. 11)

E’ importante rendersi conto del tempo in cui si vive per agire di conseguenza. Quando entrò in Gerusalemme, il Signore pianse su quella città e disse: “Oh, se tu sapessi, almeno oggi, ciò che occorre per la tua pace!… Verranno su di te dei giorni nei quali i tuoi nemici abbatteranno te e i tuoi figli… perché tu non hai conosciuto il tempo nel quale sei stata visitata” (Luca 19:41-44).  Diceva anche: “L’aspetto del cielo lo sapete discernere, e i segni dei tempi non riuscite a discernerli?” (Matteo 16:2).

Il Signore sta per tornare per prendere la sua Chiesa. Il tempo è vicino. Dobbiamo saperlo. Quando verrà, ci vuole trovare desti, attivi per Lui, zelanti nel suo servizio, e non addormentati, indifferenti, occupati solo delle cose del mondo!

La “salvezza”, in questo versetto, è la definitiva trasformazione dei nostri corpi alla venuta del Signore. Noi “aspettiamo come Salvatore il nostro Signore Gesù Cristo che trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria” (Filippesi 3:20).

La salvezza può essere considerata sotto tre aspetti fondamentali:

  1. La liberazione dalla condanna del peccato. E’ la salvezza afferrata per fede, quando abbiamo ricevuto il Signore come nostro Salvatore. “E’ per grazia che voi siete stati salvati, mediante la fede” (Efesini 2:8). “Credi e sarai salvato” (Atti 11:14).
  2. La liberazione dalla potenza del peccato. E’ l’aspetto attuale, nella nostra vita di ogni giorno; essa è un fatto reale, ma la sua realizzazione pratica dipende dalla nostra fedeltà, dal nostro impegno per il Signore. “Dedicatevi alla vostra salvezza con timore e tremore” (Filippesi 2:12).
  3. La liberazione dalla presenza del peccato. E’ l’aspetto futuro, quando il Signore ci libererà da questi corpi e ci introdurrà nel cielo (Romani 13:11, Filippesi 2:12).

“La notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce”  (v. 12)

Paolo è come una “sentinella” che segnala la venuta del giorno. “Sentinella, a che punto è la notte? La sentinella risponde: Viene la mattina…” (Isaia 21:11). La venuta del Signore per prendere la Chiesa è raffigurata all’apparizione della “stella mattutina“, quella che splende nel cielo ai primi albori del giorno (2 Pietro 1:19, Apocalisse 2:28). L’aspettiamo noi?
Le opere delle tenebre sono le cattive azioni (*), che contrastano con gli insegnamenti del Vangelo; sono quelle che molti credenti facevano prima di conoscere il Signore, tipiche di coloro che vivono sotto l’influenza di Satana, il principe delle tenebre.  “Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre… voi tutti siete figli di luce e figli del giorno” (1 Tessalonicesi 5:4-8).
Bisogna dunque buttare via ogni  cattiva azione (1 Pietro 2:1), ogni peccato, ed essere preparati per il “buon combattimento della fede” indossando l’armatura spirituale così ben descritta in Efesini 6:10-18. Armi di luce perché vengono da Dio, che è luce (1 Giovanni 1:5).

“Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno, senza gozzoviglie ed ebbrezze; senza impurità e ubriachezze; senza contese e gelosie; ma rivestitevi del nostro Signore Gesù Cristo e non abbiate cura della carne per soddisfarne i desideri.”  (v. 13-14)

Il buio è complice di tante male azioni; la luce, invece, permette che tutti vedano. Così dobbiamo comportarci noi credenti: come di giorno, senza sotterfugi, senza nulla da nascondere, “onestamente”. Ai tempi di Paolo i peccati peggiori venivano commessi di notte, di nascosto; ma oggi c’è una tale immoralità che molti peccati vengono commessi in pieno giorno, alla vista di tutti, dati in spettacolo a piccoli e grandi. Quanto è serio il nostro impegno di credenti in tempi così difficili!

Due cose dobbiamo fare:

  1. Rivestirci di Cristo come di una corazza, per essere protetti dagli attacchi del nemico; ma anche rivestirci dei suoi caratteri e impegnarci ad agire come Lui, che è il nostro modello, sebbene non riusciremo mai ad imitarlo pienamente. Il credente ha “spogliato l’uomo vecchio con le sue opere” e ha “rivestito il nuovo che si va rinnovando in conoscenza a immagine di Colui che l’ha creato” (Colossesi 3:10). Dobbiamo realizzare che Cristo vive in noi. La nostra nuova personalità in Lui deve trasformare tutta la nostra vita, sotto ogni aspetto.
  2. Non soddisfare le richieste della nostra carne. “Fate dunque morire ciò che in voi è terreno (oppure: le vostre membra che sono sulla terra)” (Colossesi 3:5). Far morire, qui, significa “necrotizzare”, portare alla morte per mancanza di nutrimento. Se non “nutriamo” le nostre passioni, se non le assecondiamo, saremo dei vincitori sui nostri nemici: la nostra carne, il mondo, Satana.

CAPITOLO 14

Esortazione alla tolleranza 

 “Accogliete colui che è debole nella fede, ma non per sentenziare sui suoi scrupoli (*).”  (v. 1)

Il debole nella fede è il credente che non ha ancora ben compreso certi principi biblici, o che, come nel caso citato da Paolo, non è al chiaro sulla libertà che ha in Cristo, e si sottopone a rinunce che il Signore non gli chiede. Bisogna accoglierlo con amore, ma non per criticarlo o per intavolare discussioni che potrebbero scoraggiarlo e scandalizzarlo.

Si tratta, evidentemente, di questioni di non rilevante importanza, di divergenze che non coinvolgono i principi basilari della fede cristiana; perché, in questo caso, il servitore del Signore deve correggere “quelli che contraddicono” (2 Timoteo 2:25) e, se non c’è risultato, notare i disubbidienti, non avere relazioni con loro e ammonirli (2 Tessalonicesi 3:14, 2 Giovanni 9-11). In 1 Corinzi 5 e 2 Giovanni 9-11 l’azione è ancor più decisa in quanto si tratta di un grave peccato morale e di una falsa dottrina che coinvolge la persona e l’opera del Signore.

“Uno crede di poter mangiare di tutto, mentre l’altro, che è debole, mangia legumi. Colui che mangia di tutto non disprezzi colui che non mangia di tutto; e colui che non mangia di tutto non giudichi colui che mangia di tutto, perché Dio lo ha accolto.”  (v. 2-3)

Il problema sollevato qui riguardava soprattutto i Giudei i quali, pur convertiti al Signore, continuavano a fare differenze fra un giorno e l’altro, e fra un cibo e l’altro (Levitico 11). Per i Gentili, che avevano respinto in blocco il paganesimo e tutti i suoi riti, era più facile comprendere che tutti i giorni erano uguali e che si poteva mangiare di tutto “senza fare inchieste per motivo di coscienza” (1 Corinzi 10:25, 1 Timoteo 4:3-4). Ma l’amore e la comprensione, uniti a una buona dose di umiltà, dovevano trionfare sulle debolezze e sulle differenze di vedute.

L’importante era questo: il fratello che aveva compreso di più non doveva pensare di essere migliore dell’altro, e quello che era ancora legato a vecchi riti non doveva pensare di essere più santo dell’altro. Così si sarebbero evitati giudizi e critiche che invece di edificare avrebbero distrutto.

“Chi sei tu che giudichi il domestico altrui? Se sta in piedi o se cade è cosa che riguarda il suo padrone; ma egli sarà tenuto in piedi, perché il Signore è potente da farlo stare in piedi.”  (v. 4)

Se vediamo in un nostro fratello o sorella un comportamento che disonora il Signore oppure un’errore di dottrina, dobbiamo farglielo presente con la “dolcezza” che la Parola richiede, “nella speranza che Dio conceda loro di ravvedersi per conoscere la verità” (2 Timoteo 2:25, Galati 6:1). Quel che Dio non vuole è che “giudichiamo” il fratello, che lo critichiamo, che lo svalutiamo, perché non è affar nostro. Le valutazioni le farà il suo Padrone; sarà Lui a occuparsi del suo servo e a tenerlo in piedi se rischia di cadere.

La chiesa, certo, deve prendere ferma posizione contro qualcuno che persevera nel peccato (1 Corinzi 5), ma anche in questo caso bisogna contare sulla potenza del Signore che può indurlo a ravvedersi e a raddrizzare il suo cammino.

“Uno stima un giorno più di un altro; l’altro stima tutti i giorni uguali; sia ciascuno pienamente convinto nella propria mente.”  (v. 5)

Per il cristiano non esistono giorni particolari, più importanti di altri. Il primo giorno della settimana, chiamato “domenica” (giorno del Signore) perché è quello in cui Egli è risorto dai morti, ha certo un particolare significato; la maggior parte dei credenti celebrano la Cena del Signore in quel giorno, come facevano i fratelli di Troas (Atti 20:7). Ma ogni giorno è da consacrare al Signore, nella fedeltà, nell’impegno, nella disponibilità a lavorare per Lui.

Comunque, l’importante è la sincerità del cuore, la convinzione che, così facendo, il Signore è più onorato. Ma attenzione, questa regola non è applicabile là dove la Parola dà insegnamenti precisi e inequivocaboli. In questo caso, una convinzione contraria seppur sincera come potrà essere approvata dal Signore? Paolo, prima della conversione, era convinto di onorare Dio perseguitando a oltranza la chiesa e devastandola (Galati 1:13); il Signore non era certo contento! Però, vedendo la sincerità del suo cuore, lo ha chiamato con particolare energia e lui, fortunatamente, ha risposto!

“Chi ha riguardo al giorno, lo fa per il Signore; e chi mangia di tutto, lo fa per il Signore perché rende grazie a Dio; e chi non mangia di tutto fa così per il Signore, e rende grazie a Dio.” (v. 6)

Paolo presume che ogni credente cerchi sempre di piacere al Signore in quello che fa, sia che mangi ogni tipo di carne, sia che mangi solo legumi (come Daniele e i suoi amici! Daniele 1:8-12). Tutti e due rendono grazie a Dio.

Ma purtroppo non sempre è così. In molti casi c’è l’ostinazione a voler mantenere delle vedute personali, o il gusto di fare diverso dagli altri. A Colosse, per esempio, quelli che si sottomettevano a “precetti quali: non toccare, non assaggiare, non maneggiare” lo facevano più per soddisfazione personale che per sincero desiderio di onorare Dio. A questi Paolo scrive: “Quelle cose hanno, è vero, una parvenza di sapienza per quel tanto che è in esse di culto volontario, di umiltà e di austerità nel trattare il corpo, ma non hanno alcun valore e servono solo a soddisfare la carne” (Colossesi 2:21-23). E conclude: “Nessuno dunque vi giudichi quanto al mangiare o al bere, o rispetto a feste, a noviluni o, sabati, che sono l’ombra di cose che dovevano avvenire; ma il corpo è di Cristo” (v. 16-17).

“Nessuno di noi infatti vive per se stesso, e nessuno muore per se stesso; perché, se viviamo, viviamo per il Signore; e se moriamo, moriamo per il Signore. Sia dunque che viviamo o che moriamo, noi siamo del Signore. Poiché a questo fine Cristo è morto ed è tornato in vita: per essere il Signore dei morti e dei viventi.” (v. 7-9)
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(*) Letteralmente: “Non per decidere di questioni”, il che implica che si discuta sulle divergenze di idee e che l’uno voglia ad ogni costo imporre all’altro il proprio pensiero o quello che crede di aver capito.

Così dovrebbe essere: siccome apparteniamo al Signore e non più a noi stessi, dovremmo vivere o morire per Lui. Paolo realizzava molto bene questa verità: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me; la vita che vivo ora nella carne (cioè nel corpo), la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Galati 2:20).

Essere consapevoli della nostra appartenenza a Cristo, sapere che siamo sua proprietà, deve produrre la santificazione nella nostra vita. “Il corpo è per il Signore… Poiché siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo” (1 Corinzi 6:13 e 20).

Cristo è morto ed è risorto. Egli ha acquisito tutti i diritti sui morti e sui viventi. Questa frase la si può intendere in due modi: morti nel senso di increduli e viventi nel senso di credenti. Ma anche, e credo sia più corretto dato il contesto, morti per indicare i credenti che sono già col Signore e viventi quelli che si trovano ancora sulla terra.

Ma tu, perché giudichi tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi tuo fratello? Poiché tutti compariremo davanti al tribunale di Dio; infatti sta scritto: Come è vero che vivo, dice il Signore, ogni ginocchio si piegherà davanti a me, e ogni lingua darà gloria a Dio. Quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio.” (v. 10-12)

I riscattati del Signore non compariranno davanti al “grande trono bianco” del giudizio finale (Apocalisse 20:11-15). Là si troveranno solo quelli che non hanno creduto, i quali saranno tutti condannati alle pene eterne. Diciamo questo perché sappiamo che chi crede nel Signore Gesù “non è giudicato” (Giovanni 3:18), “non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5:24).

C’è però un tribunale anche per i credenti; non saranno pronunciate condanne, perché Cristo ha portato tutti i loro peccati sulla croce, ma verranno messe in luce tutte le cose oggi nascoste, chiarite le questioni oggi irrisolte (1 Corinzi 4:5) e distribuiti i premi e le corone a seconda della fedeltà dimostrata in vita (1 Pietro 5:4). Nessuno potrà rendere conto per un altro, ma ognuno risponderà delle proprie azioni in prima persona.

Qui è chiamato “tribunale di Dio”, in un altro passo tribunale di Cristo: “Per questo ci sforziamo di essergli graditi… tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva la retribuzione di ciò che ha fatto quando era nel corpo, sia in bene, sia in male” (2 Corinzi 5:9-10).

A proposito di “corone” la Parola ne menziona tre:

  1. La corona di giustizia che il Signore “assegnerà … a tutti quelli che avranno amato la sua apparizione” (2 Timoteo 4:8).
  2. La corona della vita a quelli che hanno sopportato e superato la prova (Giacomo 1:12) e sono stati fedeli al Signore “fino alla morte” (Apocalisse 2:10).
  3. La corona della gloria “che non appassisce” per i servitori di Dio che hanno lavorato umilmente in seno alla Chiesa non per la loro gloria personale, ma per la gloria del loro Maestro (1 Pietro 5:2).

Il passo citato al v. 11 è Isaia 45:23 e mette in evidenza la grandezza del Signore e la sua autorità. Ogni ginocchio si piegherà davanti a Lui, non solo dei credenti, ma di tutti gli esseri “nei cieli, sulla terra e sotto la terra (o celesti, terestri e infernali)” (Filippesi 2:10) e tutti dovranno dargli gloria.

“Smettiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; decidetevi piuttosto a non porre pietra d’inciampo sulla via del fratello, né occasione di caduta.”  (v. 13)

Il pensiero espresso in questo passo è sviluppato nei versetti che seguono. Paolo incomincia a prevenire i credenti e a indicare quale dovrebbe essere il loro sentimento: piuttosto che criticare e giudicare, cercare il bene del fratello e la sua edificazione! Questo implica anche il tener conto delle sue convinzioni e, se è il caso, rinunciare a far valere le nostre perché lui non sia scandalizzato, deluso e forse spinto a lasciarsi andare al male.

“Io so e sono persuaso nel Signore Gesù che nulla è impuro in se stesso ; ma se uno pensa che una cosa è impura, per lui è impura. Ora, se a motivo di un cibo tuo fratello è turbato, tu non cammini più secondo amore. Non perdere, con il tuo cibo, colui per il quale Cristo è morto!” (v. 14-15)

Qui non si tratta di dottrine fondamentali e di insegnamenti biblici chiari ed evidenti; nel qual caso non abbiamo diritto di avere delle nostre convinzioni personali, ma solo il dovere di ubbidire con gioia. Si tratta piuttosto di comportamenti, di modi di fare, o di modi diversi di interpretare dei passi biblici un po’ complessi che, per essere ben compresi, richiedono maturità e conoscenza.

Il problema che Paolo solleva riguarda i cibi. Si può mangiare di tutto? Anche carni di animali che secondo la legge di Mosè sono impuri? Anche carni che provengono da sacrifici fatti ad idoli? (Nei nostri paesi questo problema non si pone esattamente negli stessi termini). Paolo ha la convinzione, datagli dal Signore, che per il credente in Cristo non c’è niente di impuro. Ai Corinzi scrive: “Mangiate di tutto quello che si vende al macello, senza fare inchieste per motivo di coscienza” (1 Corinzi 10:25). Già il Signore, in Marco 7:15 aveva detto: “Non vi è nulla fuori dell’uomo che entrando in lui possa contaminarlo” .

Però, chi non ha ben compreso la libertà che ha in Cristo e ritiene un cibo impuro, fa bene ad astenersi dal mangiarlo perché “per lui è impuro”. E chi ha compreso la libertà che ha, e sa di poterne mangiare, dovrebbe evitare di farlo piuttosto che scandalizzare il fratello “debole”.

Ma cosa significa “perdere il fratello”? E’ chiaro che non si tratta di perdizione eterna essendo egli un fratello in Cristo, un riscattato del Signore. Paolo vuol dire che ferendo la sua coscienza e i suoi sentimenti si può provocare in lui disorientamento, confusione di idee, perdita di certezze; e forse anche declino spirituale. Cristo è morto per lui; ci deve quindi essere prezioso come lo è per il suo Salvatore!

“Così, per la tua conoscenza, perisce il debole, il fratello per il quale Cristo è morto. Ora, peccando in tal modo contro i fratelli, ferendo la loro coscienza che è debole, voi peccate contro Cristo. Perciò, se un cibo scandalizza mio fratello, io non mangerò mai più carne, per non scandalizzare mio fratello” (1 Corinzi 8:11-13).

E’ una lezione di vero amore!

“Il privilegio che avete non sia dunque oggetto di biasimo; perché il regno di Dio non consiste in vivanda né in bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo.”  (v. 16-17)

Perché farsi giudicare dal Signore, e forse anche dagli altri fratelli, per voler insistere a far uso della nostra libertà di mangiare e bere di tutto? Vi sono credenti in alcuni Paesi del mondo che non bevono vino. Se ci troviamo con loro è bene che sappiano che noi di solito ne beviamo ma che, in loro presenza, evitiamo volentieri di farlo per rispetto alle loro convinzioni; e non è ipocrisia, in questo caso, ma saggezza dettata dall’amore.

Le leggi del regno di Dio di cui noi credenti siamo “sudditi” non si rispettano e non si onorano col mangiare o no un certo cibo, o col bere o no una certa bevanda, ma col cercare le cose giuste e praticarle, cercare la pace e impegnarsi a mantenerla, essere felici e rendere felici anche i nostri fratelli. E’ lo Spirito Santo che ci fa entrare in possesso di queste meravigliose realtà.

Che esempio abbiamo nel Signore!

  1. Ha fatto tutta la volontà di Dio sottomettendosi con una perfetta ubbidienza (Filippesi 2:8).
  2. Ha cercato la nostra pace e ce l’ha procurata col suo sacrificio alla croce (Giovanni 14:27, Efesini 2:14-15).
  3. Ci ha lasciato la sua Parola e il Suo Spirito per la nostra completa allegrezza (Giovanni 15:11).

“Poiché chi serve Cristo in questo è gradito a Dio e approvato dagli uomini.” (v. 18)

Questa dovrebbe essere sempre la nostra ambizione: piacere a Dio e non dare agli altri alcuna occasione di critica. Il Signore Gesù “cresceva in sapienza, in statura e in grazia, davanti a Dio e agli uomini” (Luca 2:52). Così era stato anche per il piccolo Samuele che “continuava a crescere, ed era gradito sia al Signore sia agli uomini” (1 Samuele 2:26).

“Bontà e verità non ti abbandonino; legatele al collo, scrivile sulla tavola del tuo cuore; troverai così grazia e buon senno agli occhi di Dio e degli uomini” (Proverbi 3:3-4).

“Cerchiamo dunque le cose che contribuiscono alla pace e alla reciproca edificazione (*). Non distruggere, per un cibo, l’opera di Dio. Certo, tutte le cose sono pure; ma è male quando uno mangia dando occasione di caduta. E’ bene non mangiar carne, non bere vino, e non fare nulla che possa essere occasione di caduta al fratello (**).”  (v. 19-21)

Quando in una chiesa c’è guerra, c’è demolizione; quando c’è pace, c’è edificazione. La pace costruisce, la guerra distrugge. “Si faccia ogni cosa per l’edificazione” ordina Paolo ai Corinzi (1 Corinzi 14:26). Se per un semplice puntiglio si turba un fratello, si rovina l’opera di Dio che è di rinforzare il fratello nella fede e far crescere la chiesa.

Non c’è uno che debba sempre edificare e gli altri che debbano sempre essere edificati, anche se il dono di profezia dato nella chiesa a qualche fratello ha questo scopo. L’edificazione è reciproca; ogni fratello e sorella deve cercare di edificare gli altri fratelli e le altre sorelle. “Perciò, consolatevi gli uni gli altri ed edificatevi l’un l’altro, come d’altronde già fate” (1 Tessalonicesi 5:11). “Ma voi, carissimi, edificando voi stessi sulla vostra santissima fede, conservatevi nell’amore di Dio” (Giuda 19-20).

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(*) In greco: “oikodome”, costruito, fondato su, edificato. Usato anche per la costruzione di un edificio.
(**) Una traduzione più fedele sarebbe: “Porti il tuo fratello a cadere, o a scandalizzarsi o a diventare debole”.

“Tu, la fede che hai, serbala per te stesso, davanti a Dio. Beato colui che non condanna se stesso in quello che approva.” (v. 22)
Dio conosce i nostri pensieri e non ci giudicherà se facciamo qualche rinuncia con lo scopo di non essere occasione di caduta per altri. Se invece, vogliamo ad ogni costo fare quello che riteniamo giusto senza preoccuparci del danno che causiamo al fratello, condanniamo noi stessi e il Signore ci punirà.

“Ma chi ha dei dubbi riguardo a ciò che mangia è condannato, perché la sua condotta non è dettata dalla fede; e tutto quello che non viene da fede (*) è peccato.” v. 23)

Chi invece mangia o beve qualcosa pensando che sarebbe meglio non farlo, è condannato, perché agisce contro la sua fede, quindi disubbidendo a quella che lui crede essere la volontà del Signore. In questo caso commette peccato.

CAPITOLO 15

Compiacere al prossimo

“or noi, che siamo forti, dobbiamo sopportare le debolezze dei deboli e non compiacere a noi stessi ciascuno di noi compiac­cia al prossimo, nel bene, a scopo di edificazione.” (v. 1-2)

Questi versetti riassumono le esortazioni del capitolo prece­dente: rinunciare a far valere le nostre idee, anche se giuste, e sopportare le debolezze altrui. Chi erano i forti e i deboli l’abbia­mo già detto: i forti erano quelli che avevano capito la libertà in Cristo e quindi si erano sganciati dai riti e dalle limitazioni che la legge mosaica imponeva; i deboli erano i credenti con meno cono­scenza e ancora legati ai vecchi ordinamenti.

Ognuno deve compiacere al prossimo, ossia assecondarlo, venir­gli incontro, ma nel bene non nel male. Io non posso fare una cosa che ritengo essere male per compiacere al mio fratello che ha idee diverse! Se io, convinto di far male a bere vino, bevessi vino per assecondare l’altro che la ritiene una cosa permessa, commetterei un peccato (vedere 14:22-23).

Sono i forti che devono compiacere ai deboli, nel senso che devono essere disponibili a rinunciare a qualche libertà se questo edifica il fratello che la pensa diversamente. Ma anche qui c’è il limite dato dalla precisazione “nel bene”: se io fossi convinto dal Signore di dover fare un servizio per Lui con un certo metodo che non piace a un fratello, e vi rinunciassi per compiacere a lui, commetterei un peccato perché andrei contro quella che io sono convinto essere la volontà del Signore; in questo caso non rinun­cerei a una mia libertà ma a un ordine del Signore! Non sarebbe più compiacere “nel bene”.

Paolo non lo dice qui, ma è altrettanto chiaro che un fratello “debole” non può imporre ad altri di osservare dei riti. Basta leggere l’Epistola ai Galati per capire il pensiero del Signore su tale argo mento.

“Infatti anche Cristo non compiacque a se stesso; ma come è scritto: Gli insulti di quelli che ti oltraggiano sono caduti sopra di me.” (v. 3)

Il nostro Salvatore ci è venuto incontro in tutti i modi. Ha vela­to la sua gloria, ha rinunciato a far valere i propri diritti, ha accet­tato derisioni e insulti per assecondare la volontà di Dio e salvare i peccatori. Non ha chiesto al Padre che mandasse in suo soccorso “più di dodici legioni di angeli” (Matteo 26:53), ma si è lasciato prendere e crocifiggere. Non possiamo noi rinunciare a qualcosa per amore per un nostro fratello debole?

Il Salmo 69, di cui Paolo cita qui il v. 9, è uno dei più bei salmi profetici; esso descrive meravigliosamente le sofferenze del Signo­re e i sentimenti da Lui provati nella sua vita sulla terra e nei tragi­ci momenti della crocifissione.

“Poiché tutto ciò che fu scritto nel passato fu scritto per nostra istruzione, affinché, mediante la pazienza e la consolazione che ci provengono dalle Scritture, conserviamo la speranza.” (v. 4)

Non solo i Salmi, ma tutto il Vecchio Testamento ‘è utile al credente di- oggi. Esso è stato scritto anche per noi, per la nostra consolazione e per aumentare la nostra pazienza nell’attesa del ritorno del Signore. E quello che Paolo vedeva realizzato nei credenti di Tessalonica e che gli dava tanta gioia: “Noi ringrazia­mo sempre Dio per voi tutti… ricordandoci continuamente dell’o­pera della vostra fede, delle fatiche del vostro amore e della costanza della vostra speranza” (1 Tessalonicesi 1:3).

La speranza cristiana non è l’attesa senza certezza di qualcosa che si desidera, ma è l’attesa con piena certezza delle cose che Dio ci ha promesso. Il ritorno del Signore, la casa del Padre, la gloria, la felicità, l’eternità, sono cose che aspettiamo e che siamo già sicuri di avere.

La venuta del Signore si può così schematizzare:

 

1° VENUTA. C’è già stata quando si è fatto uomo ed è venu­to in terra per compiere l’opera della salvezza. Allora è stato messo in croce, è morto, è risuscitato ed è poi tornato in cielo.

 

2° VENUTA . Ha due fasi distinte:

Per rapire i cedenti del periodo attuale e dei tempi passati. Ma non sarà una venuta sulla terra. Il Signore chia­merà, e tutti i credenti, risorti se morti o trasformati se viven­ti, saranno “rapiti sulle nuvole (meglio nelle nuvole) a incon­trare il Signore nell’aria” (1 Tessalonicesi 4:13-18, Giovanni 14:1-3, 1 Corinzi 15:23,51-53, ecc…). Nessuno del mondo lo vedrà, ma solo i salvati che gli andranno incontro.

 

Il suo ritorno in gloria, sulla terra, con tutti i suoi santi, alla vista di tutto il mondo, per stabilire il suo Regno di mille anni. È anche chiamata la sua “manifestazione”(Zaccaria 14:5,2 Tessalonicesi 2:8, Apocalisse 14:11,ecc…).

I racconti del Vecchio Testamento sono fonte di ricche benedi­zioni per noi; non solo ci consolano ma anche ci sono d’esempio e ci ammoniscono: “Queste cose avvennero per servir d’esempio a noi… Queste cose avvennero loro per servire da esempio e sono state scritte per ammonire noi, a noi, che ci troviamo nella fase conclusiva delle epoche” (1 Corinzi 10:6 e 11).

Ma dobbiamo fare ben attenzione a non confondere la vecchia dispensazione con la nuova, la legge con la grazia. La buona noti­zia del vangelo, i principi del cristianesimo e i suoi fondamenti, gli insegnamenti per la Chiesa e per ogni credente, sono contenuti nel Nuovo Testamento. Il Vecchio ci dà delle conferme e, insieme al Nuovo, ci permette di avere una visione globale e completa di tutto il pensiero di Dio.

Forse è bene chiarire il significato del termine “dispensazione”. Per DISPENSAZIONE si intende un’epoca nella quale Dio dà all’uomo una rivelazione specifica delle sue vie; in base a questa rivelazione l’uomo ha precise responsabilità nei confronti di Dio.

Nella Bibbia se ne distinguono sette:

Dell’innocenza. È il tempo dell’Eden, prima che l’uomo cadesse nel peccato. Termina con la cacciata dell’uomo dal giardi­no di Eden.

Della coscienza. L’uomo divenuto peccatore, conosce il bene e il male, e ha quindi una responsabilità morale nei confronti di Dio. Termina con la distruzione del diluvio.

Dell’amministrazione dell’uomo. Inizia con Noè, nel mondo purificato dal diluvio. All’uomo sono affidate prerogative di gover­no della terra. Termina con la confusione di Babele, e col castigo di Dio che confonde i linguaggi.

Della promessa. È l’epoca dei patriarchi, a partire dalla chia­mata di Abramo. L’Eterno fa a loro e ai loro discendenti delle promesse senza condizione. Termina con la schiavitù in Egitto della casa d’Israele e l’intervento di Mosè per la sua liberazione.

Della Legge. Inizia quando l’Eterno dà i comandamenti al popolo di Israele, e tutto il complesso cerimoniale del culto. Una legge severa che richiedeva un’ubbidienza assoluta e prevedeva le pene per i trasgressori. Termina con la crocifissione del Messia (Cristo) da parte del suo popolo.

Della grazia o della Chiesa. È l’epoca attuale nella quale Dio offre la salvezza a tutti gli uomini, e la dà a quelli che ricevono il suo Figlio Gesù Cristo come loro Salvatore. La Chiesa composta da tutti i riscattati del Signore, salvati per grazia e sottomessi per amore alla sua volontà. Termina col rapimento del credenti.

Del Regno. Sono i mille anni del regno del Signore sulla terra che si instaurerà dopo sette anni di terribili giudizi. Termina col giudizio finale, quello del grande trono bianco.

Avrà allora inizio lo stato eterno, nel quale Dio “sarà tutto in tutti”.

“Il Dio della pazienza e della consolazione vi conceda di avere tra di voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù, affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorichiate Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo.” (v. 5-6)

La pazienza e la consolazione provengono da Dio, e ci sono trasmesse tramite la sua Parola. Come sarebbe bello se tutti i credenti avessero un medesimo sentimento, quello che piace al Signore e che è stato in Lui: sentimento d’amore, di misericordia, di rinuncia a se stessi per il bene degli altri. Dio vorrebbe che la gloria che riceve dai suoi provenisse da cuori che hanno gli stessi sentimenti e da bocche che dicono parole non discordanti.

“Perciò accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio (*).” (v.7)

Cristo non ha fatto differenze: uomini e donne, Giudei e Greci, schiavi e liberi, ricchi e poveri, tutti sono stati accolti. La fede in Lui li unisce in un solo corpo e dà a tutti i medesimi privilegi. Se noi abbiamo gli stessi sentimenti del Signore, ci accoglieremo gli uni gli altri con amore; e lo faremo per la gloria di Dio.

La buona novella è per tutti gli uomini

“Infatti io dico che Cristo è diventato servitore dei circoncisi a dimostrazione della veracità di Dio per confermare le promes­se fatte ai padri; mentre gli stranieri onorano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: Per questo ti celebrerò tra le nazioni e canterò le lodi al tuo nome. E ancora: Rallegratevi, o nazioni, col suo popolo. E altrove: Nazioni, lodate tutte il Signo­re; tutti i popoli lo celebrino. Di nuovo Isaia dice: Spunterà una radice di lesse, colui che sorgerà a governare le nazioni; in lui spereranno le nazioni” (v. 8-12)

— Per quanto riguarda gli Israeliti: Gesù Cristo è venuto in Israe­le, si è messo al loro servizio, ha parlato, fatto miracoli, il tutto per compiere le promesse che l’Eterno aveva fatto ai patriarchi, Abramo in testa. In questo modo, ha confermato che Dio aveva detto la verità.

(*) Forse è più giusto tradurre: “Ricevetevi gli uni gli altri alla gloria di Dio, come anche Cristo ha accolto voi”.

— Per quanto riguarda gli “stranieri” (le Genti, le nazioni paga­ne): Gesù Cristo ha avuto verso di loro misericordia, mettendoli al beneficio di tutti i privilegi e le promesse dell’Evangelo; ha esteso a loro la grazia, e così ha dato loro dei motivi grandissimi di gioia e di lode. Paolo cita alcuni passi del Vecchio Testamento (Salmo 18:49, Deuteronomio 32:43, Salmo 117:1) per dimostrare che Dio aveva già previsto di trarre della lode da popoli che non erano Israe­le e che non adoravano Lui, il vero Dio. Lode prodotta dalla gioia e dalla riconoscenza per la salvezza a loro offerta grazie all’opera di Cristo. Alla fine, cita anche il passo di Isaia 11:10 nel quale Gesù Cristo, il Messia, è descritto come “la radice” della famiglia di Davi­de (lesse, Isai, è il padre di Davide); al v. 1 dello stesso capitolo è un “germoglio” che spunta dalle radici di Isai.

Paolo, citando Deuteronomio, i Salmi e Isaia, prende una testi­monianza da “Legge, Salmi e Profeti”, le tre parti del Vecchi Testamento secondo la suddivisione giudaica.

“Or, il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nella fede, affinché abbondiate nella speranza, per la potenza dello Spirito Santo.” (v. 13)

Dio dà la speranza ed è egli stesso colui in cui speriamo. L’au­gurio di Paolo è che Eli dia a quei credenti gioie che deri­vano dal loro credere nel Signore. E tutta la pace che la fede produce nel cuore. In questo modo l’attesa e ritorno del Signore con tutto quello che seguirà (la speranza) sarà sincera e sentita, resa viva dalla potenza dello Spirito Santo.

Riflessioni di Paolo sul suo apostolato; i viaggi che l’apostolo intende fare.

“Ora, fratelli miei, io pure sono persuaso, a vostro riguardo, che anche voi siete pieni di bontà, ricolmi di ogni conoscenza, capaci anche di ammonirvi (*) a vice da.” (v. 14)

(*) “Nutheteo” in greco significa ammonire, avvertire, consigliare

Bontà conoscenza, disponibilità e competenza per aiutare gli altri: Paolo è sicuro che i credenti di Roma hanno queste buone disposizioni. Per ammonire o esortare devo avere misericordia, tatto, e un buon livello spirituale perché chi è esortato senta che l’esortazione viene dal Signore. Ma la parola ” a vicenda” implica che io devo non solo esortare, ma anche essere esortato; e non sempre avviene che un avvenimento , un consiglio o un rimprovero, siano accolti con umiltà e gratitudine !

“Ma vi ho scritto un po’ arditamente su alcuni punti per ricordarveli di nuovo, a motivo della grazia che mi è stata fatta da Dio, di essere un ministro (*) di Cristo Gesù fra gli stranieri, esercitando il sacro servizio (**) del vangelo di Dio, affinché gli stranieri diventino un’offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo.” (v. 15-16)

L’autorità ricevuta da Dio di “apostolo dei Gentili” permetteva a Paolo di essere ardito nell’esortarli. Ma con molta umiltà aggiun­ge che le cose che scriveva essi le conoscevano già. Ma risvegliare il ricordo di cose già note è di somma importanza: “Io non mi stan­co di scrivervi le stesse cose, e ciò è utile per voi” (Filippesi 3:1). Anche Pietro scrive: “Perciò avrò cura di ricordarvi continuamen­te queste cose, benché le conosciate… E ritengo che sia giusto, finché sono in questa tenda, di tenervi desti con le mie esortazioni (o meglio col ricordarvele)” (2 Pietro 1:12-13).

Il Vecchio Testamento dedica un intero libro, il Deuteronomio, per ricordare a Israele i pensieri e l’opera di Dio.

Anticamente, Aaronne aveva presentato i Leviti (la tribù di Levi consacrata al sacerdozio) come “offerta agitata davanti all’Eterno da parte dei figliuoli d’Israele” (Numeri 8:11). Paolo si mette ora nelle vesti di Aaronne, e offre a Dio, come offerta gradita, il frut­to del suo ministero di evangelista, vale a dire i pagani convertiti al Signore. Lo Spirito Santo aveva santificato quest’offerta perché aveva fatto di quei credenti, come di tutti i credenti, altrettanti sacerdoti di Dio. Così avverrà per Israele convertito: “E ricondur­ranno tutti i vostri fratelli come un’offerta all’Eterno… nel modo che i figliuoli di Israele portano le loro offerte in un vaso puro alla casa dell’Eterno” (Isaia 66:20).

“Ho dunque di che vantarmi in Cristo Gesù per quel che concer­ne le cose di Dio. Non oserei infatti parlare di cose che Cristo non avesse operato per mio mezzo allo scopo di condurre i paga­ni all’ubbidienza, con parole e opere, con la potenza di segni e di prodigi, con la potenza dello Spirito Santo. Così, da Gerusa­lemme e dintorni fino all’ Illiria(*) ho predicato dappertutto il vangelo di Cristo,” (v. 17-19)

Paolo ci tiene che la gloria di tutto il suo lavoro vada sempre al Signore. E solo in Cristo che possiamo gloriarci _non certo nell’uo­mo: “Chi si vanta, si vanti nel Signore” (1 Corinzi 1:31).

L’apostolo annunciava nient’altro chee “Cristo e Lui crocifisso”. La sua predicazione non consisteva “in discorsi persuasivi di  sa­pienza umana, ma in dimostrazione di Spirito e di potenza” (l Co­rinzi 2:4-5) Con questo messaggio e questa potenza aveva predi­cato  a Gerusalemme (Atti 9:28, 21:40) e dintorni, e s’era spinto più a nord, fino alla Macedonia e all’Illiria. Il Libro degli Atti riferisce molti miracoli di Paolo, alcuni dei quali di straordinaria potenza, “ al punto che si mettevano sopra i malati dei fazzoletti e dei grembiuli che erano stati sul corpo, e le malattie scomparivano e gli spirti maligni uscivano”  (19:11).

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(*) In greco “Ieitourgos” , amministratore ufficiale, come in Romani 13:6, Filippesi 2:25 (lett.: Epafrodito vostro inviato e ministro per i miei bisogni), Ebrei 1:7 e 8:2.
(**) In greco “hierourgèo”, servire come sacerdote.
(***) Il libro degli Atti non parla di viaggi di Paolo in Illinia (Dalmazia, costa Adriatica). Probabilmente vi andò nel periodo compreso tra la fine del suo ministerio a Efeso (Atti 20:1-2) e il suo ultimo viaggio a Gerusalemme

“avendo l’ambizione di predicare il vangelo là dove non era ancora stato portato il nome di Cristo, per non costruire sul fondamento altrui, ma come è scritto: Coloro ai quali nulla era stato annunciato di Lui lo vedranno; e coloro che non ne aveva­no udito parlare, comprenderanno.” (v. 20-21)

Per questa “ambizione” di essere un pioniere, di far conoscere Cristo in paesi dove era del tutto sconosciuto, e anche per non lavo­rare dove altri già lo facevano, Paolo non era ancora andato a Roma. Che gioia doveva provare nel veder venire alla meravigliosa luce della conoscenza del Signore, gente prima sprofondata nelle tene­bre del paganesimo! Assistere al miracolo della loro conversione “dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivente e vero e per aspettare dai cieli il Figlio suo” (1 Tessalonicesi 1:9-10)! Isaia 52:15, che qui Paolo cita, preannunciava questi avvenimenti.

“Per questa ragione appunto sono stato tante volte impedito di venire da voi; ma ora, non avendo più campo d’azione in queste regioni, e avendo già da molti anni un gran desiderio di venire da voi, quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi (*) e di essere aiutato da voi a raggiungere quella regio­ne, dopo aver goduto, almeno un po’, della vostra compagnia.” (v. 22-24)

Ognuno di noi fa dei progetti, ma non sempre riusciamo a realiz­zarli. Bisogna farne un soggetto di preghiera e vivere vicini al Signo­re per capire la sua volontà. Paolo era dipendente dal Signore; una volta lo Spirito gli ha impedito di andare in Asia e poi in Bitinia, e gli ha fatto capire chiaramente che doveva evangelizzare la Mace­donia (Atti 16:6-10).

Dal Nuovo Testamento non sembrerebbe che il suo progetto di evangelizzare in Spagna si sia realizzato, ma da fonti storiche pare che vi sía andato tra il primo e il secondo imprigionamento. A Roma andrà, ma non come aveva pensato; vi andrà da carcerato, sebbene con una certa libertà di movimento (Atti 28:30-31). Dai fratelli di Roma Paolo pensava di trarre un duplice vantaggio:

  • un doveroso contributo in denaro per le spese che avrebbe dovuto sostenere per il viaggio in Spagna (vedere 3 Giovanni 6)
  • il ristoro e la consolazione della loro affettuosa compagnia.

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(*) Il testo greco dice: “Avendo da molti anni un gran desiderio di venire da voi, nel caso che io vada in Spagna…”; la frase qui si interrompe, e poi riprende: “poiché spero di vedervi al mio passaggio”.

 

“Per ora vado a Gerusalemme, a rendere un servizio ai santi, perché la Macedonia e l’Acaia si sono compiaciute di fare una colletta per i poveri che sono tra i santi di Gerusalemme.” (v. 25-26)

Che amore aveva Paolo per i credenti! Oltre al gravoso mi­nisterio di evangelista egli era anche dottore nella Chiesa. I pro­blemi delle assemblee lo impegnavano a fondo e lo angustiavano (2 Corinzi 11:28). “Non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù quale Signore, e quanto a noi ci dichiariamo vostri servi per amore di Gesù” (2 Corinzi 4:5).
In Macedonia c’erano le chiese di Filippi, Tessalonica, Berea; in Acaia quelle di Corinto e di Cencrea; queste chiese, sebbene prova­te dalle persecuzioni, avevano raccolto del denaro con gioia e con grande liberalità (2 Corinzi 8:2) per í fratelli poveri di Gerusalem­me. Paolo, insieme a Tito e a un altro fratello di cui non è dato il nome, aveva ricevuto l’incarico di portare personalmente quel denaro.
Di questa colletta è parlato in 2 Corinzi 8:1-5 e 9:1-5. Il viaggio che Paolo ha fatto per portarla è citato in Atti 19:21 e 20:22. Era “un’abbondante colletta” (2 Corinzi 8:20) e Paolo sentiva tutta la responsabilità della sua amministrazione.

Il credente deve aiutare i suoi fratelli, e Paolo ci dice come fare:

  1. Pensare a quanto Cristo ha dato per noi (2 Corinzi 8:9)
  2. Dare secondo le proprie disponibilità (8:12)
  3. Dare liberalmente, con generosità (8:6)
  4. Dare con gioia, non di mala voglia (8:7)

“Si sono compiaciute, ma esse sono anche in debito nei loro confronti; infatti, se gli stranieri sono stati fatti partecipi dei loro beni Spirituali, sono anche in obbligo di aiutarli con i beni materiali.” (v. 27)

I non Giudei non avrebbero avuto diritto alla salvezza, in quan­to il Messia era promesso agli Ebrei, ed è nato Ebreo, in terra di Palestina. Ma la grazia di Dio, come sappiamo, si è estesa a tutti, Giudei e non. Paolo prende spunto da questo per dire che la raccol­ta di aiuti delle chiese dell’Asia e della Grecia per i loro fratelli Giudei di Gerusalemme era come il pagamento di un debito verso di loro, debito morale di amore e di riconoscenza.
Ma non bisogna con questo pensare che le benedizioni spirituali si possano pagare con denaro. Nulla si compra delle cose di Dio (vedere Atti 8:18-24). Chi viene alla fede grazie al ministerio di un evangelista non deve pagarlo; ma c’è un principio di giustizia che non dobbiamo dimenticare: “Chi viene istruito nella Parola faccia parte di tutti i suoi beni a chi lo istruisce” (Galati 6:6); “Se abbia­mo seminato per voi i beni spirituali, è forse gran cosa se mietiamo i beni materiali?” (1 Corinzi 9:11).

“Quando dunque avrò compiuto questo servizio e consegnato il frutto di questa colletta, andrò in Spagna passando da voi; e so che, venendo da voi, verrò con la pienezza delle benedizio­ni di Cristo (*).” (v. 28-29)

La pienezza delle benedizioni di Cristo sono le ricchezze di conoscenza e di sapienza che Paolo possedeva grazie ai doni straor­dinari datigli da Dio. Per i fratelli di Roma sarebbe stata un’occa­sione di grande arricchimento spirituale, di edificazione, di approfondimento delle verità della Scrittura.

“Ora, fratelli, vi esorto, per il Signore nostro Gesù Cristo e per l’amore dello Spirito, a combattere con me nelle preghiere che rivolgete a Dio in mio favore, perché io sia liberato dagli incre­duli di Giudea, e il mio servizio per Gerusalemme sia gradito ai santi,” (v. 30-31).
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(*) Letteralmente: Della benedizione di Cristo. Alcuni testi hanno: Del Vangelo di Cristo.

Andando a Gerusalemme Paolo aveva due preoccupazioni:

— l’opposizione dei Giudei increduli

— il timore che qualche fratello potesse criticarlo riguardo la gestione della colletta.

La prima si è dimostrata fondata: i Giudei cercarono di ucci­derlo (Atti 21:31), e lui finì in prigione, prima a Gerusalemme poi a Cesarea; ma di questo era stato preavvisato, sia direttamente dallo Spirito (“lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni”; Atti 20:23) sia tramite il profeta Agabo (Atti 21:10-13). Quanto alla seconda, né il libro degli Atti né le Episto­le ci riferiscono che vi siano stati dei problemi fra i fratelli.

Paolo chiede l’intercessione della chiesa di Roma. Un combat­timento con la preghiera doveva opporsi alla guerra che Satana avrebbe sferrato contro il servitore del Signore. I santi hanno accol­to questo invito e hanno pregato, mossi dall’amore che lo Spirito mette nei cuori. Paolo ha potuto così dare una splendida testimo­nianza agli abitanti di quella città, poi al governatore Felice, a Festo, al re Agrippa, e a molti altri. Inoltre, il Signore gli è apparso in visio­ne e lo ha incoraggiato (Atti 23:11).

Pregare per gli altri è un privilegio e un dovere. I grandi uomi­ni di Dio sono anche stati degli “intercessori” fedeli, basti pensare ad Abramo (Genesi 18:2_5-33), Mosè (Esodo 17:12, 32:30, Nume­ri 12:13), Samuele, i profeti. Paolo pregava continuamente per i suoi fratelli, per le chiese, per tutti gli uomini. Ma l’esempio perfet­to lo abbiamo nel Signore Gesù che sulla croce ha pregato per i suoi aguzzini. Ora, nel cielo, “vive sempre per intercedere” per noi (Ebrei 7:25, Romani 8:34).

“in modo che, se piace a Dio, io possa venire da voi con gioia ed essere confortato insieme con voi. (*) Or, il Dio della pace sia con tutti voi. Amen.” (v. 32-33)

Gioia, riposo, ristoro. Paolo sapeva che dopo le esperienze di Gerusalemme ne avrebbe avuto bisogno. Ma dice : Se piace a Dio (o per la volontà di Dio), disposto ad accettare anche il contrario se tale fosse stata la sua volontà.

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(*)In greco “pausomai” da “pauo” che significa prendere riposo, smettere, cessare. Dicendo “con voi” Paolo allude a una sosta ristoratrice nella compagnia dei credenti.

Al termine di molte epistole il saluto contiene l’augurio di pace: “Il Signore della pace vi dia Egli stesso la pace sempre e in ogni maniera” (2 Tessalonicesi 3:16); “Pace a voi tutti che siete in Cristo” (1 Pietro 5:14); “La pace sia con te” (3 Giovanni 15). Ma per i credenti di Roma l’augurio è non solo “la pace di Dio”, ma la conti­nua e concreta presenza del Dio che dà la pace (Filippesi 4:9).

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(*) O che non è fatto su un principio di fede. Altre traduzioni hanno “convinzione” invece che fede, ma è meglio attenersi al testo originale che ha “fede”.

CAPITOLO 16

Saluti ed esortazione all’amore fraterno

In questo capitolo, fino al v. 16, c’è un elenco di nomi di fratelli e sorelle che si sono particolarmente distinti nell’opera del Signore, sia come collaboratori di Paolo, sia per atti di devozione e di since­ro amore fraterno. Viene spontaneo fare il parallelo con 2 Samuele 23:8-39, dove Davide enumera i valorosi guerrieri che sono stati al suo servizio, evidenziandone il coraggio e la forza nel combattimen­to, l’amore per il popolo di Dio, l’abnegazione per il loro Signore.

Non c’è adulazione in questo capitolo; c’è solo un doveroso rico­noscimento del valore di quelle persone, la cui segnalazione oltre ad essere giusta è anche di stimolo, di incoraggiamento e di edifi­cazione per tutta la Chiesa.

“Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è diaconessa della chiesa di Cencrea, perché la riceviate nel Signore, in modo degno dei santi, e le prestiate assistenza in qualunque cosa ella possa aver bisogno di voi; poiché ella pure ha prestato assistenza a molti, e anche a me.” (v.1-2)

Febe era una cara sorella, disponibile, pronta a servire. Ora stava per recarsi a Roma e Paolo la raccomanda ai fratelli. Rendere il contraccambio è un altro principio di giustizia che troviamo in questa epistola. L’amore deve essere ricambiato (2 Corinzi 6:13 ), sia fra fratelli e sorelle, sia da parte dei figli nei confronti dei loro genitori (1 Timoteo 5:6).

I diaconi e le diaconesse (*) aiutavano i poveri e le vedove distribuendo loro quello che la chiesa metteva a disposizione; forse face­vano anche altri servizi. Dovevano essere “dignitosi, non doppi nel parlare, non propensi a troppo vino, non avidi di illeciti guadagni”, e le donne (o diaconesse, forse le mogli dei diaconi) “dignitose, non maldicenti, sobrie, fedeli in ogni cosa” (1 Timoteo 3:8-12). Nella chiesa di Gerusalemme vennero scelti per questi incarichi fratelli pieni di Spirito e di sapienza, alcuni dei quali erano anche predi­catori ed evangelisti (Atti 6:1-6).

A Cencrea vi era uno dei due porti della città di Corinto.

“Salutate Prisca (**) e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù, i quali hanno rischiato la vita per me; a loro non io soltanto sono grato ma anche tutte le chiese delle nazioni.” (v. 3-4)

Aquila e Priscilla sua moglie, cristiani di origine giudea, incon­trarono Paolo a Corinto. L’imperatore Claudio li aveva cacciati da Roma insieme a tutti gli altri Ebrei. Anch’essi fabbricavano tende (Atti 18:1-3). Più tardi accompagnarono l’apostolo a Efeso, dove furono di grande aiuto ad Apollo, credente molto dotato ma non ancora al chiaro su certe verità del cristianesimo (Atti 18:26). Nel momento in cui Paolo scrive questa lettera, Prisca e Aquila si trova­vano nuovamente a Roma. Ma lasciarono poi questa città; infatti l’apostolo, quando da Roma scrive a Timoteo, manda loro i suoi saluti.

Dare la propria vita per i fratelli è il massimo dell’amore (1 Giovanni 3:16); ed è giusto che questa dedizione sia pubblicamente riconosciuta e apprezzata da tutti i credenti.
Si può notare che sia in questo versetto sia in Atti 18:18-26 e 2 Timoteo 4:19, Luca e Paolo mettono il nome di Prisca prima di quello del marito, forse perché era lei la più attiva e zelante. Ma in Atti 18:2 e in 1 Corinzi 16:19 il nome di Aquila precede quello di Priscilla, com’è giusto che sia, dato il ruolo di preminenza del mari­to nella coppia cristiana.
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(*) Diakonos” è uno dei tanti termini greci che designano un “servitore”. Questo termine ricorre più di cinquanta volte nel N.T. Ha piuttosto il senso di “ministro” e “messaggero”.
(**) Priscilla è il diminuitivo di Prisca.

“Salutate anche la chiesa che si riunisce in casa loro. Salutate il mio caro Epeneto, che è la primizia dell’Asia per Cristo.” (v. 5)

Il fatto che in casa di Prisca e Aquila si riunisse la chiesa dimo­stra non solo la loro disponibilità, ma anche il proficuo lavoro di evangelizzazione che veniva svolto.
Epeneto significa “degno di lode”! E lo era davvero questo caro fratello, “primizia dell’Asia” perché il primo convertito in quella regione dalla predicazione di Paolo.
“Salutate Maria, che si è molto affaticata per voi. Salutate Andronico e Giunia (*), miei parenti e compagni di prigionia, i quali si sono segnalati fra gli apostoli ed erano in Cristo già prima di me.” (v. 6-7).

Questa sorella di nome Maria si era non solo “affaticata”, ma molto affaticata. Nel suo servizio verso i fratelli e sorelle della chie­sa di Roma non aveva risparmiato energie; è l’esempio di una dedi­zione completa, di un totale altruismo.

Andronico e Giunio, chiamati “parenti” forse soltanto perché Ebrei come Paolo, si erano convertiti al Signore prima di lui. Per la loro fede e il loro ministerio erano noti agli apostoli e molto stimati (**). Non si sa dove né quando furono imprigionati insie­me a Paolo, ma è evidente che erano cristiani seriamente impegnati per la causa del Vangelo.

“Salutate Ampliato, che mi è caro nel Signore. Salutate Urba­no, nostro collaboratore in Cristo, e il mio caro Stachi. Saluta­te Apelle, che ha dato buona prova in Cristo. Salutate quelli di casa Aristobulo”.(v.8-10)

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(*) Qualcuno pensa che sia Giunio; ma potrebbe anche essere Giunia, femminile, e quindi riferirsi ad una sorella (Iounian è forma accusativa di Iounias, maschile, e di Iounia, femminile).
(**) Si potrebbe anche intendere che erano essi stessi “apostoli”, vale a dire mandati dal Signore per fare l’opera di evangelisti. Nel Nuovo Testamento sono chiamati apostoli non solo i dodici e Paolo, ma anche Barnaba, Silvano, Timoteo.

Ampliato e Urbano sono nomi tipicamente romani; Urbano era un compagno di Paolo e dei suoi amici nel lavoro del Signore.
Apelle è un nome greco; questo credente era passato per delle prove che avevano messo in evidenza la sua fedeltà. Alcune versio­ni hanno: “Apelle, approvato in Cristo”.
Il nome Aristobulo significa: il miglior consigliere. Paolo manda i saluti a tutta la sua famiglia.
“Salutate Erodione, mio parente. Salutate quelli di casa Narcis­so che sono nel Signore. Salutate Trifena e Trifosa che si affati­cano nel Signore. Salutate la cara Perside che si è affaticata molto nel Signore.” (v. 11-:12)
Erodione era Ebreo e forse anche imparentato con Paolo.
Quelli della casa di Narcisso erano tutti convertiti. Che gra­zia quando tutti i membri di una famiglia appartengono al Signore! Preghiamo perché avvenga così in tutte le famiglie di credenti.
Trifena, Trifosa e Perside sono nomi di donne romane. Le prime due forse erano sorelle (o gemelle, come pensa qualcuno per la stes­sa radice del loro nome). Trifena e Trifosa erano ancora attive nell’opera del Signore, Perside aveva molto lavorato e forse ora, per motivi che non sappiamo, non lavorava più.
“Salutate Rufo, l’eletto nel Signore, e sua madre, che è anche mia. Salutate Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma, e i fratelli che sono con loro. Salutate Filologo e Giulia, Nereo e sua sorella, Olimpa e tutti i santi che sono con loro.” (v. 13-15)
Pare che Rufo fosse il figlio di quel Simone di Cirene costretto a portare la croce del Signore (Marco 15:21). In Cristo era un “elet­to”, un uomo che si distingueva. Paolo aveva ricevuto dalla madre di lui le cure e l’affetto che una madre sa dare ai propri figli.
È probabile che nelle case di ognuno degli altri fratelli citati, così come in quella di Prisca e Aquila, si radunassero dei credenti. Ma la chiesa di Roma era una sola; tutti erano “i fratelli e le sorelle in Cristo” di quella città, anche se ogni radunamento aveva le proprie responsabilità e le proprie caratteristiche.
Salutatevi gli uni gli altri con un santo bacio. Tutte le chiese di Cristo vi salutano.” (v. 16)
Non è un obbligo di salutarsi col bacio. Ma, se ci si saluta con un bacio, questo deve essere “santo”. Perché? Perché l’affetto e la spontaneità devono essere puri, specialmente fra persone di sesso opposto. Il bacio deve essere dunque dato senza doppi fini, senza altri intenti e altra soddisfazione che quella di dimostrare un affet­to sincero, nel legame che lo Spirito Santo, e non un uomo, ha crea­to fra i membri della famiglia di Dio. Il “santo bacio” c’è anche in 1 Corinzi 16:20, 2 Corinzi 13:12, 1 Tessalonicesi 5:26.

“Ora vi esorto, fratelli; a tener d’occhio quelli che provocano le divisioni e gli scandali in contrasto con l’insegnamento che avete ricevuto. Allontanatevi da loro. Costoro, infatti, non servono il nostro Signore Gesù Cristo, ma il proprio ventre; e con dolce e lusinghiero parlare seducono il cuore dei semplici.” (v. 17-18)

Diverse false dottrine si stavano già propagando in molte chie­se. Alle chiese della Galazia, ai Filippesi e ai Colossesi Paolo scri­ve parole severe esortando i credenti a identificare e isolare i falsi dottori (Galati 4:17, Filippesi 3:18, Colossesi 2:18-23). L’insegna­mento che era stato dato ai credenti di Roma era esattamente quel­lo che Paolo dava ovunque; ed è quello che noi abbiamo nella Sacra Scrittura e al quale dobbiamo attenerci.

Quei falsi dottori probabilmente non erano credenti, ma molti credenti semplici potevano essere sedotti dalle loro dottrine; e quando queste si diffondono, le discussioni sono inevitabili, come pure gli “scandali”, perché insegnamenti diversi ed errati creano dubbi e turbamenti.

Dietro i falsi insegnamenti vi sono sempre interessi personali; “servire il proprio ventre” è cercare un utile carnale. Pietro dice di queste persone: “Trovano il loro piacere nel gozzovigliare in pieno giorno; sono macchie e vergogne… Hanno occhi pieni di adulterio e non possono smettere di peccare; adescano le anime instabili” (2 Pietro 2:13-15). Ma anche senza arrivare a questi estremi, anche se avessero una vita irreprensibile, quelli che insegnano false dottri­ne, specialmente riguardo la persona e l’opera di Cristo, vanno isolate e messi  fuori dalla chiesa. “Se qualcuno viene a voi e non reca questa dottrina, non ricevetelo in casa e non salutatelo” (2 Giovanni 10-11).

“Quanto a voi, la vostra ubbidienza è nota a tutti. Io mi ralle­gro dunque per voi, ma desidero che siate saggi nel bene e incontaminati (*) nel male.” (v. 19)

L’ubbidienza dei fratelli romani faceva ben sperare che non sarebbero diventati preda di errori e falsi insegnamenti. Dovevano però essere savi, esperti nel bene, capaci di fare opere buone. Per quanto riguardava il male, dovevano essere integri, non toccati dalle cose cattive, puri; e anche “semplici”, come altri traducono, vale a dire persone che non amano occuparsi del male, che non provano gusto a conoscerlo o ad approfondirlo.

Noi credenti non abbiamo bisogno di conoscere a fondo il male per evitarlo. A noi deve bastare conoscere a fondo il bene! Tutto quello che non è bene è male. Il cassiere di una banca non può conoscere tutte le falsificazioni possibili; a lui basta conoscere molto bene le banconote autentiche. Solo questo lo aiuterà a iden­tificare le contraffazioni.

Dio della pace stritolerei presto Satana sotto i vostri piedi. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi.” (v. 20)

Già al v. 33 aveva designato Dio come il Dio della pace. Fra poco, quando Satana sarà gettato nello stagno di fuoco e di zolfo (Apoca­lisse 20:10), la vittoria di Cristo su lui sarà definitiva. E sarà anche la nostra vittoria, perché Cristo ce ne fa partecipi. Paolo diceva ai Corinzi: “Non sapete che i santi giudicheranno il mondo?… Non sapete che giudicheremo gli angeli?” (1 Corinzi 6:2-3).

La grazia del Signore ci ha salvati e noi ora siamo “in Lui“, viventi della sua stessa vita. Ma ogni giorno, nelle nostre vicissitu­dini, negli affanni, nelle tribolazioni, abbiamo bisogno della sua grazia; e la gustiamo nella sua misericordia, nella compassione, nel sopporto, nell’insieme di tutte le divine manifestazioni di amore.

“Timoteo, mio collaboratore (**), vi saluta e vi salutano anche Lucio, Giasone e Sosipatro, miei parenti.” (v. 21)

Timoteo era più che un collaboratore; Paolo lo definisce molto affettuosamente “mio legittimo figlio nella fede”, “mio caro fi­glio”, “mio caro e fedele figlio nel Signore” (1 Timoteo 1:2 e 2 Timoteo 1:2, 1 Corinzi 4:17). Con l’apostolo, Timoteo lavorò molti anni, dal giorno che lasciò Listra (Atti 16:3). Venne mandato a Corinto (1 Corinzi 4:17), a Filippi (Filippesi 2:19), a Tessalonica (1 Tessalonicesi 3:2). I suoi compiti nell’opera del Signore erano così importanti che Paolo gli scrisse ben due lettere, ricche di direttive e di insegnamenti. Dalla prigione di Roma, alla fine della sua vita, lo prega di andare presto a trovarlo e di portargli il mantello che aveva lasciato a Troas, “e i libri, specialmente le pergamene” (2 Timoteo 4:9, 13).
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(*) In greco “akeraios” che significa integro, non intaccato, non danneggiato. Ma è anche tradotto con “semplice” (vedi Matteo 10:16: “Siate semplici come colombe”).
(**) In greco “sunergos”, compagno di lavoro

Lucio è forse il Lucio di Cirene di Atti 13:1, profeta o dottore della chiesa di Antiochia. Giasone aveva ospitato Paolo e Sila a Tessalonica; in un tumulto suscitato dai Giudei increduli fu trasci­nato con altri fratelli davanti ai magistrati e accusato di favoreg­giamento. Dovette pagare una cauzione per essere liberato.

Sosipatro è il Sopatro di Berea, figlio di Pirro, di Atti 20:4. Tutti e tre erano Ebrei.

“Io, Terzio, che ho scritto la lettera, vi saluto nel Signore. Gaio, che ospita me e tutta la Chiesa, vi saluta. Erasto, il tesoriere della città e d fratello Quarto vi salutano. (La grazia del nostro Signore Gesù Cristo sia con tutti voi. Amen).” (v. 22-24)

Terzio ha scritto questa lettera sotto dettatura; anche molte altre lettere sono state dettate.

Per garantire l’autenticità del contenuto Paolo usava firmare le lettere di suo pugno. Nella prima ai Corinzi, in quella ai Colossesi e nella seconda ai Tessalonicesi, egli conclude dicendo: “Il saluto è di mia propria mano, di me, Paolo” (1 Corinzi 16:21, Colossesi 4:18, 2 Tessalonicesi 3:17) . Ma la lettera ai Galati, tanto impor­tante, l’apostolo ha voluto scriverla tutta lui: “Guardate con che grossi caratteri vi ho scritto, di mia propria mano!” (Galati 6:11).

Questi scritti ispirati contengono gli insegnamenti del Signore stesso; dovevano quindi fare autorità nelle chiese ed essere preser­vati da ogni possibile inquinamento o contraffazione (2 Tessaloni­cesi 2:2).
Il v. 24 manca in alcuni manoscritti. Esso ripete l’augurio già formulato al v. 20.

`A Colui che può fortificarvi secondo il armo Vangelo e il messag­gio (“) di Gesù Cristo, conformemente alla rivelazione del mistero che fu tenuto nascosto fin dai tempi più remoti (**),” (v. 25)

Inizia qui una lunghissima frase che si conclude col v. 27 e con la quale termina l’epistola. Frase che è definita una “dossologia”, un’e­spressione di lode a Dio. E in queste parole di lode Paolo riassume, in un certo senso, gli insegnamenti essenziali di tutta l’epistola.

L’apostolo sapeva quanto fosse importante essere forti, sia in vista del combattimento della fede, sia per rimanere ancorati alla verità, sia per affrontare le prove e le tribolazioni della vita. A lui Dio ha dato questa forza, tanto che può dire: “Io posso ogni cosa in Colui che mi fortifica” (Filippesi 4:13); “Io ringrazio Colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù” (1 Timoteo 1:12).

Nelle sue preghiere per i fratelli e sorelle delle varie chiese, egli chiedeva a Dio di fortificarli (Efesini 3:16, Colossesi 1:11); ma, nello stesso tempo, li esortava a fortificarsi essi stessi “nel Signore e nella forza della sua potenza”, rivestendo l’armatura spirituale e pregan­do con perseveranza (Efesini 6:10-18).
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(*) Oppure “la predicazione di Gesù Cristo”.
(**) O meglio “fin dai tempi eterni”.

L’espressione “che può fortificarvi secondo il mio Vangelo” può significare che Dio è in grado di rendere saldi in loro gli insegna­menti ricevuti tramite la predicazione del Vangelo; oppure che il fatto che Dio fosse potente di fortificarli faceva parte dell’insegna­mento del Vangelo che Paolo aveva loro trasmesso. L’espressione mio Vangelo (Romani 2:16, 2 Timoteo 2:8) signi­fica il Vangelo che Paolo predicava e che il Signore stesso gli aveva rivelato.

C’era un mistero che Dio aveva tenuto nascosto in se stesso fin da tempi remoti, anzi, fin dall’eternità, prima ancora che ci fosse il tempo; ed è questo: un giorno tutte le cose saranno raccolte “sotto un solo capo” (Efesini 1:9-10) Cristo Gesù. Per Lui Dio avrebbe salvato gli uomini che credono (il mistero del Vangelo di Efesini 6:19) e in Lui li avrebbe riuniti, Giudei e stranieri (i Gentili), in un solo corpo, la Chiesa, di cui Egli è il capo glorificato nel cielo (Efesi­ni 3:1-7).

La salvezza dei Gentili era già preannunciata nelle Scritture e quindi non era del tutto un mistero. Però non era ancora rivelato che essi sarebbero divenuti “eredi” con gli Israeliti, “membra di un medesimo corpo”, e con loro partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il Vangelo (Efesini 3:6). Ecco perché Paolo dice che, “nelle altre epoche non fu concesso ai figli degli uomini di conoscere questo mistero così come ora” (Efesini 3:5).

ma che ora è rivelato e reso noto mediante le Scritture profe­tiche, per ordine dell’Eterno Dio, a tutte le nazioni perché ubbi­discano alla fede, a Dio, unico in saggezza, per mezzo di Gesù Cristo sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen.” (v. 26-27)

Le Scritture profetiche (o gli scritti profetici) tramite le quali ora il mistero è rivelato e fatto conoscere, sono le epistole del Nuovo Testamento. In Efesini 2:20 è detto: “Siete stati edificati sul fonda­mento degli apostoli e dei profeti”, intendendo anche qui i profe­ti del Nuovo Testamento. Tutte le nazioni udranno queste cose e dovranno ubbidire alla fede (Romani 1:5), vale a dire accettare di credere al Signore Gesù per essere salvati e osservare tutte le cose che Egli ha comandate (Matteo 28:19-20).

Dio è il solo sapiente. Non sapremmo nulla di Lui se non aves­se voluto rivelarsi a noi. “Oh, profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio!” aveva esclamato Paolo alla fine del cap.11. “Come sono profondi i tuoi pensieri!” (Salmo 92:5). “Meravigliosi sono i suoi disegni, grande è la sua sapienza” (Isaia 28:29).

Sono molte le definizioni di Dio che troviamo nella Parola. Eccone alcune:

Dio dei cieli (Genesi 24:3), Dio della terra (Genesi 24:3), Dio d’eternità (Isaia 40:28), Dio d’ogni carne (Geremia 32:27), Dio degli spiriti d’ogni carne (Numeri 16:22), Dio degli eserciti (Salmo 59:5), Dio di tutti i regni della terra (2 Re 19:15), Dio di giustizia (Isaia 30:18), Dio della pazienza (Romani 15:5), Dio della consolazione (Romani 15:5), Dio della speranza (Romani 15:13), Dio di pace (Romani 16:20), Dio dell’amore (2 Corinzi 13:11), Dio d’ogni grazia (1 Pietro 5:10).

 

E ancora:

Dio unico, Dio vivente, Dio santo, Dio vero, Dio grande, Dio invisibile, Dio beato, Dio salvatore, Dio giusto, Dio buono, Dio misericordioso, Dio perdonatore, Dio incorrut­tibile, Dio verace, Dio sapiente, Dio luce, Dio amore, Dio invisibile, Dio onnipotente, ecc…

Per mezzo di Gesù Cristo, delle sue perfezioni e della sua inter­cessione, possiamo dargli gloria ora e in eterno! Amen.

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