Introduzione
Colosse era una città della provincia della Frigia, nell’Asia Minore, non lontana da Laodicea e da Jerapoli, ambedue citate nell’epistola (cap. 2 vers. 1; cap. 4 vers. 13-16). Anche quelle due città erano state evangelizzate, e sembra che le chiese che vi si trovavano, soprattutto quella di Laodicea, fossero in stretto rapporto con la chiesa di Colosse (4:15,16).
Da chi era stato portato l’Evangelo a Colosse? Non ci è detto in modo esplicito, ma dal v. 7 del cap. 1 possiamo dedurre che sia avvenuto tramite Epafra, fedele servitore di Cristo e affezionato compagno di servizio dell’apostolo Paolo. Quest’ultimo, benché fosse stato in Frigia due volte (Atti 16:6; 18:23), non s’era fermato a Colosse. I credenti di quella località “non l’avevano mai visto di persona” (Col. 2:1), ma Paolo li amava perché aveva a cuore tutte le chiese (2 Cor. 11:28). Avessimo anche noi il suo stesso “assillo” per le chiese di Cristo!
Qualcosa aveva destato l’apprensione di Paolo riguardo alla chiesa di Colosse. Epafra, che aveva predicato in quella località, allora si trovava a Roma, vicino all’apostolo prigioniero per Cristo (cap. 4 v. 3,10,12); e gli aveva portato delle buone notizie riguardo alla fede, l’amore e i progressi dei Colossesi, ma senza dubbio gli aveva anche fatto conoscere i pericoli che correvano per l’insegnamento di certi falsi dottori.
Di che cosa si trattava? Gl’insegnamenti e le esortazioni stesse dell’epistola ci fanno conoscere gli errori che costoro diffondevano, cercando di sedurre i santi e corrompere la loro fede. Non erano soltanto, come fra i Galati, dei “giudaizzanti”, che pretendevano che i cristiani fossero circoncisi e dovessero osservare la legge (vedere Atti 15:1-5; Gal. 2:12; 5:2,11,12), annullando così la grazia dell’Evangelo.
I falsi dottori che agivano fra i Colossesi erano, in un certo senso, ancora più pericolosi, perché attaccavano i princìpi relativi alla Persona di Cristo. Da un lato, erano giudaizzanti perché volevano assoggettare i cristiani alla circoncisione e all’osservanza delle cerimonie e dei precetti della legge mosaica e alle tradizioni umane; d’altro lato, imbevuti com’erano di idee “gnostiche” (dal greco gnosis, conoscenza o scienza; di questo termine si serve l’apostolo parlando “di quella che falsamente si chiama scienza” in 1 Tim. 6:20), facevano speculazioni sul mondo invisibile, sugli angeli, ai quali attribuivano una grande potenza, e persino sulla creazione, abbassando la Persona di Cristo al livello delle creature. I Colossesi, prestando orecchio ai loro insegnamenti, perdevano la consapevolezza e la gioia della loro unione con Cristo, il Capo della Chiesa.
Inoltre quegli eretici, vedendo nel corpo la sorgente del male, cercavano di raggiungere la spiritualità ricorrendo a privazioni e maltrattamenti. Così, il vero senso della redenzione era perduto: essa non era più fondata su Cristo, ma sugli sforzi dell’uomo e sul culto che rendevano a delle creature, errori che più tardi produssero nella Chiesa i tristi frutti che conosciamo.
È contro questi errori che l’apostolo insorge, mettendo in rilievo ed esaltando la Persona di Cristo e la sua opera perfetta, per attaccare i cuori dei Colossesi al Capo, al quale erano uniti. Comprendendo tutti i tesori che si trovano in Lui, essi avrebbero goduto pienamente di questa unione.
In questa epistola sono evidenti le analogie con quella indirizzata agli Efesini, ma ci sono anche delle differenze interessanti.
Una prima differenza consiste nella posizione nella quali i cristiani sono considerati nelle due epistole. In quella ai Colossesi sono come risuscitati con Cristo, ma ancora sulla terra. L’Epistola agli Efesini, invece, li considera già “seduti nel luoghi celesti in Cristo” (cap. 2 v. 6) poiché nel proponimento divino (anche se non ancora di fatto) i credenti sono già in questa posizione. Inoltre sono sviluppati i consigli di Dio in rapporto alla Chiesa, e i privilegi di essa. Lo Spirito Santo scelse la chiesa di Efeso, che in quel momento era una chiesa fedele alla quale non c’era nulla da rimproverare, per descrivere tutte le grazie che appartengono alla Chiesa in generale, in virtù della sua unione con Cristo, il Capo glorificato, e anche i favori di cui gode ciascuno dei figli di Dio.
Il pericolo che minacciava i Colossesi, quello di dimenticare la loro unione con Cristo, obbliga Paolo a porre davanti a loro le glorie del Capo piuttosto che i privilegi della Chiesa, e a rianimare, o almeno a impedire che si affievolisse, il loro affetto per Lui. Così, nell’epistola agli Efesini la Chiesa è designata come “il compimento di Colui che porta ogni cosa a compimento in tutti” (cap. 1 v. 23), mentre in quella ai Colossesi è messo l’accento sul fatto che “in Lui abita corporalmente tutta la pienezza della deità”, e noi “abbiamo tutto pienamente in Lui” (lett.: siamo compiuti in
Lui – Col. 2:9-10).
Un’altra differenza importante è che nella lettera ai Colossesi non è menzionato lo Spirito Santo salvo che nell’espressione “il vostro amore nello Spirito” (cap. 1 vers. 8), mentre ne è ampiamente parlato in quella agli Efesini, dove si dice che lo Spirito: sigilla il cristiano ed è la caparra della nostra eredità (1:13-14; 4:30); è Colui tramite il quale Giudei e Gentili hanno insieme accesso al Padre (2:18,22); rivela il mistero di Cristo (3:5); abita nel credente ed è la sua potenza per godere di Cristo e del suo amore (3:16);
è il legame fra i cristiani e forma un solo corpo (4:3-4); deve riempire totalmente il credente ed eliminare così da lui tutte le cose cattive, per produrre lodi e azioni di grazie (5:18); lo conduce nella preghiera, lo incita alla vigilanza e gl’insegna a maneggiare l’arma della Parola contro il nemico (6:17-18).
Peraltro, ai Colossesi Cristo è presentato più compiutamente come nostra vita ed è messa in maggior rilievo la maturazione spirituale dell’anima in vivente somiglianza con Lui. È Cristo in noi piuttosto che noi in Cristo, come negli Efesini.
Capitolo 1
Indirizzo e saluti (v. 1,2)
Questa Lettera incomincia pressappoco come quella agli Efesini. Come quest’ultima, fu scritta da Roma dove Paolo era prigioniero, e fatta recapitare tramite Tichico accompagnato da Onesimo, che portò anche la lettera a Filemone (Ef. 6:21; Col. 4:7-9).
“Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, e il fratello Timoteo ai santi e fedeli fratelli in Cristo che sono in Colosse,” (v. 1,2).
Paolo rivendica il suo titolo di apostolo (o mandato) di Gesù Cristo, specialmente nelle Lettere che espongono le dottrine della salvezza e le verità riguardanti Cristo e la Chiesa. L’autorità di predicare, insegnare, esortare o riprendere gli vengono direttamente dal Capo glorioso della Chiesa; la volontà e il consiglio di Dio avevano destinato Paolo alla sua missione (Gal. 1:15). È dunque come tale che scrive; quindi la Chiesa è tenuta a ricevere il suo insegnamento e le sue esortazioni. Non è il messaggio d’un uomo, ma quello di Gesù Cristo, per volontà di Dio.
Ma qui Paolo aggiunge “il fratello Timoteo”, che non cita invece nella lettera agli Efesini. Sarà forse per dare maggior forza alla testimonianza che rende alle grandi verità che sta per spiegare? (vedi Mat. 18:16; 2 Cor. 13:1). Non sappiamo; comunque sia, sovente Paolo unisce a sé sia tutti i fratelli che sono con lui (Gal. 1:2) (in questi casi evidentemente per mostrare che sono unanimi con lui nei rimproveri che sta per rivolgere) sia uno o due fratelli suoi compagni d’opera presso i fratelli ai quali scrive I Colossesi sono definiti santi e fedeli, come gli Efesini, caratteristiche che riguardano la relazione dei cristiani con Dio e il carattere del loro cammino; e sono specialmente adatte agli Efesini, che sono visti in una posizione celeste.
Ma qui Paolo aggiunge fratelli, che esprime la comunione dei santi gli uni con gli altri sulla terra. “grazia a voi, e pace da Dio, nostro Padre ” (v. 2). È il saluto abituale che Paolo manda ai destinatari delle sue epistole.
Ringraziamento di Paolo (v. 3-8)
Questi versetti e la preghiera che segue corrispondono ai v. 15-19 del cap. 1 agli Efesini. Ma nei Colossesi non troviamo i consigli di Dio, la chiamata e i privilegi dell’eredità, benedizioni meravigliose che fanno esclamare all’apostolo: “Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo!” (Ef. 1:3-14). Qui Paolo dice:
“Noi ringraziamo Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, pregando sempre per voi, perché abbiamo sentito parlare della vostra fede in Cristo Gesù e dell’amore che avete per tutti i santi, ” (v. 3,4).
Come per gli Efesini, l’apostolo ringrazia Dio per i cristiani ai quali scrive; in entrambi i casi dice il motivo: perché ha sentito parlare della loro fede e dell’amore che avevano per tutti i fratelli. Come sempre, l’apostolo si compiace nel riconoscere il bene che è in loro. Per lui è una sorgente inesauribile di riconoscenza verso Dio e di gioia per il suo cuore.
Nello stesso tempo questo lo induce a presentarli sempre a Dio nelle sue preghiere, affinché questo bene si affermi e le loro anime progrediscano.
Non dovremmo avere anche noi qualcosa di questi sentimenti?
“perché abbiamo sentito parlare della vostra fede in Cristo Gesù e dell’amore che avete per tutti i santi, ” (v. 4).
Ecco perché Paolo rende grazie. La loro era una bella testimonianza. La persona e l’opera di Gesù Cristo erano oggetto della loro fede, della loro fiducia. Il loro sguardo era rivolto a lui. Da questo deriva necessariamente l’amore, poiché la fede opera per mezzo dell’amore. Senza amore, essa è come un albero senza frutti. E quest’amore non aveva nulla di esclusivo; abbracciava tutti i santi, cioè tutti quelli che, come loro, partecipavano ai privilegi di figli di Dio. L’amore cristiano non può che essere largo.
“a causa della speranza che vi è riservata nei cieli, della quale avete già sentito parlare mediante la predicazione della verità del vangelo. ” (v. 5). L’apostolo conosceva ciò che era loro riservato nei cieli; se ne rallegrava e voleva orientare i loro sguardi verso quella meta celeste. Risuscitati con Cristo, un Cristo ora nel cielo, i Colossesi non potevano avere altro che una speranza celeste, e questo doveva contraddistinguere la loro vita. Né il giudaesimo con i suoi ordinamenti, né la filosofia con i suoi vani ragionamenti, potevano dare questa speranza, che stacca dalla terra e attacca al cielo dove si trova l’oggetto della fede e dell’amore.
Solo l’Evangelo ci rischiara d’una luce celeste, perché viene dall’alto e in alto ci chiama. I Colossesi, che correvano il pericolo di essere trascinati dalle pratiche d’una religione terrena, sono riportati alla loro vera destinazione. Che possiamo anche noi, esposti come siamo a cedere alle preoccupazioni della vita terrena, ricordare sempre questa “speranza che ci è riservata nei cieli” e che deve fare di noi degli uomini celesti, consapevoli della nostra risurrezione con Cristo, non per la terra ma per il cielo, dove c’è la sorgente della nostra vita.
Questo Evangelo, parola della verità perché viene da Dio, ci mette in rapporto con Dio. La Legge non poteva farlo, tant’è vero che in quella dispensazione Dio rimaneva nascosto “dietro la cortina”, e la strada per il “santuario” – il cielo – non era ancora aperta. Ma ora, con la morte di Cristo, la cortina è stata strappata e noi abbiamo una piena libertà di entrare nel “santuario”, dove il Signore è entrato quale nostro precursore (Ebrei 9:8-12; 10:19,29; 6:19,29). Che grazia avere una speranza che ci libera da questo mondo e dalle cose visibili che nascondono Dio!
“Esso è in mezzo a voi (lett. : è giunto fino a voi), e nel mondo intero, porta frutto e cresce, come avviene anche tra di voi, dal giorno che ascoltaste e conosceste la grazia di Dio in verità, ” (v. 6).
L’Evangelo, la buona novella, era giunto fino a loro, e aveva dato loro la conoscenza di quella speranza celeste. Ma l’evangelo non era riservato a un popolo particolare, né ad una classe sociale particolarmente elevata. Era per tutti, e si era diffuso in tutto il mondo, dove portava frutto e cresceva, come era avvenuto fra i Colossesi. L’Evangelo della salvezza è per il mondo. Esso è stato portato più lontano di quanto siamo disposti a pensare. L’Evangelo non era stato sterile fra i Colossesi. Vi aveva portato del frutto per mezzo della conversione delle anime a Dio e a Cristo, dei risultati del cammino cristiano e dell’amore per i santi. E cresceva. Quant’è importante questo! I Colossesi progredivano; non rimanevano fermi, soddisfatti di ciò che conoscevano già o del punto in cui erano arrivati nella vita cristiana. Realizzavano l’esortazione dell’apostolo Pietro: “Crescete nella grazia e nella conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo” (2 Pietro 3:18). Questo cammino in avanti era iniziato dal giorno in cui l’Evangelo loro annunciato era stato accolto e aveva fatto loro conoscere la grazia di Dio “in verità”, cioè veramente, in modo reale. Come sarebbe desiderabile che fosse così di tutti noi! Quando si legge il rimprovero che il Signore rivolge alla chiesa di Efeso, “hai abbandonato il tuo primo amore”, a volte si pensa che questo rilassamento debba necessariamente avvenire nella vita del credente. Purtroppo sovente è così; dopo la prima gioia della salvezza, ci si lascia invadere, se non dai piaceri, almeno dalle occupazioni della terra, e non si fanno più dei progressi. Non solo, ma per una legge inesorabile si indietreggia, perché non si può restare stazionari nella vita cristiana.
Ma questo regresso è inevitabile? Certamente no. Paolo non rallentava la sua corsa, e non si lasciava fermare dalle difficoltà e dalle cose terrene. “Una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la meta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù” (Fil. 3:13-14).
Imitiamolo! I nostri cuori siano sgombri di tutto salvo che di Cristo, e possa l’Evangelo crescere fra noi e in noi!
“secondo quello che avete imparato da Epafra, il nostro caro compagno di servizio, che è fedele ministro di Cristo per voi. ” (v. 7).
Qui Paolo menziona lo strumento di cui Dio si era servito per far udire ai Colossesi la parola della verità. È Epafra, di cui abbiamo altre notizie al cap. 4 di quest’epistola e nell’epistola a Filemone (v. 23); ma il poco che lo Spirito Santo ci dice di lui basta per descrivere il suo carattere e farcelo apprezzare. Sovente nella Parola di Dio troviamo descritte con poche parole le qualità di quelli che il Signore apprezza e a cui dà un posto nel suo Libro; per il mondo sono sconosciuti, ma per Dio, che ha riservato loro un posto nella gloria, sono preziosi.
Due cose contraddistinguevano Epafra. 1. Era il “caro compagno di servizio” di Paolo. Sappiamo come Paolo amasse sinceramente e senza ombra di gelosia; egli si compiaceva di vedere altri nell’opera e nel servizio del Signore. Non si arrogava alcuna autorità su di loro, erano i suoi compagni.
Per loro, provava un caldo affetto, e sapeva apprezzare il loro lavoro. 2. Poi aggiunge che è un “fedele ministro di Cristo” in favore dei Colossesi.
Siano oggi gli operai del Signore animati dallo stesso spirito di Paolo! La Sua opera trarrà beneficio dal loro amore devoto e sincero gli uni per gli altri.
“Egli ci ha anche fatto conoscere il vostro amore nello Spirito. ” (v. 8).
Epafra, portando a Paolo notizie da Colosse, gli parla di ciò che rallegra il cuore dell’apostolo: “l’amore nello Spirito” che animava i Colossesi. Come abbiamo già notato, questo è l’unico passo della lettera in cui è menzionato lo Spirito Santo. Inoltre, diversamente che nell’epistola agli Efesini, qui lo Spirito non è visto come una Persona divina che agisce nei santi e nella Chiesa, ma piuttosto come ciò che dava realtà e potenza al loro amore cristiano. Non si trattava di un affetto naturale, ma dell’amore nello Spirito, frutto della vita che è in Cristo.
Preghiera di Paolo (v. 9-12)
“Perciò anche noi, dal giorno che abbiamo saputo questo, non cessiamo di pregare per voi e di domandare che siate ricolmi della profonda conoscenza della volontà di Dio con ogni sapienza e intelligenza spirituale,” (v. 9).
Qui incomincia la preghiera dell’apostolo per i santi, che si riallaccia alla loro fede e al loro amore, al bene che ha riconosciuto in loro, e al quale egli desidera che aggiungano la conoscenza della volontà di Dio; ma è soprattutto in vista della “speranza riservata nei cieli” che prega, affinché la loro condotta corrisponda alla meta a cui sono diretti.
Paolo chiede dunque nelle sue continue preghiere per i Colossesi (notiamo questa perseveranza nella preghiera che anche noi possiamo realizzare quando abbiamo dei bisogni realmente sentiti) perché siano “ricolmi della profonda conoscenza della volontà di Dio”. È la condizione necessaria per vivere come dei “risuscitati con Cristo” diretti verso il cielo.
Gli ordinamenti umani, i comandamenti di uomini, che hanno “una parvenza di sapienza” (cap. 2 v. 23), non possono condurci là. Occorre la conoscenza della volontà di Dio che deriva dalla nostra relazione con Lui, in virtù della vita che ci ha trasmesso e che ci rende capaci di conoscerlo realmente.
Il livello di questa conoscenza è strettamente legato alla nostra comunione con Dio, che si può realizzare solo dopo essere usciti dai legami delle religioni terrene.
Infatti Paolo aggiunge: “Con ogni sapienza e intelligenza spirituale”. Senza pretendere di dare una definizione, potremmo dire che la sapienza “spirituale” consiste soprattutto nel discernimento e nell’ apprezzamento esatto delle cose, e l’intelligenza è la capacità di applicare questo discernimento nelle varie circostanze della vita.
Ma notiamo che non si tratta di intelligenza e sapienza naturali. Sono invece il prodotto della vita di Dio nell’anima e dell’azione dello Spirito, e dipendono dal nostro stato spirituale, dalla nostra vicinanza a Dio. Più vivremo vicini a lui, in comunione coi suoi pensieri, più avremo questa sapienza e questa intelligenza, e meglio conosceremo ciò che Dio vuole da noi, per mezzo di noi e per noi.
Ma Paolo non si limita a chiedere che i santi conoscano qualcosa di questa volontà. Chiede che siano “ricolmi della profonda conoscenza della volontà di Dio”. Questo presuppone non una conoscenza intellettuale di qualcosa al di fuori di noi e di cui siamo in perenne ricerca, ma una conoscenza intima, interiore, tale da non lasciarci nell’incertezza o nell’indecisione. La scoperta della volontà di Dio è intimamente legata allo stato interiore dell’anima. Dio ci fa passare per circostanze diverse attraverso le quali ci prova e ci fa scoprire il nostro vero stato; la sua Parola ci illumina (vedi Giov. 17:17,19). Dio ha una strada propria, conosciuta dall’uomo
spirituale in proporzione alla conoscenza che si ha di Lui (vedi Esodo 33:13).
“perché camminiate in modo degno del Signore per piacergli in ogni cosa, ” (v. 10). E’ dunque con uno scopo pratico, in vista di un cammino in questo mondo coerente con la loro chiamata celeste, che Paolo chiede per i Colossesi che siano ricolmi della conoscenza della volontà di Dio. Camminare in modo “degno del Signore” esprime la misura della condotta del cristiano. Troviamo quest’espressione in altre epistole, ma sotto forme diverse:
– Nell’epistola agli Efesini leggiamo: “Vi esorto a comportarvi in modo degno della vocazione che vi è stata rivolta” (4:1). Questa vocazione o chiamata era che Giudei e Gentili (cioè i popoli estranei a Israele) fossero, insieme, un solo corpo e un’abitazione di Dio mediante lo Spirito Santo. Qui la misura del cammino è in rapporto con il tenore dell’epistola: la chiamata santa ed elevata che ci è stata rivolta e che è in armonia col piano di Dio (il mistero pienamente rivelato) che è quello di sottoporre a Cristo, “un solo capo”, tutte le cose, quindi anche Giudei e Gentili riuniti a formare un solo popolo, “un solo corpo” (Ef. 2:9-10 e 5:6).
– Nell’epistola ai Filippesi è detto:“Comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo” (1:27), degno di questa buona notizia che, portando la salvezza, libera l’uomo dalla potenza del peccato e gli presenta Cristo come vita, come modello, come scopo e come forza. I Filippesi che avevano provato la potenza di questo Evangelo annunziato loro da Paolo e di cui gustavano le benedizioni, prendevano parte di cuore alla predicazione (1:5). Perseverando nella fede, potevano resistere agli avversari e comportarsi in modo da glorificare questo Evangelo.
– Ai Tessalonicesi Paolo scrive: “Abbiamo esortato… ciascuno di voi a comportarsi in modo degno di Dio, che vi chiama al suo regno e alla sua gloria” (1° Tess. 2:12). È verso il Dio vivente e vero che si erano volti lasciando gl’idoli; e Lui dovevano ora servire. La loro speranza era il regno e la gloria di Dio; perciò sono esortati a camminare nella santità che corrisponde al suo carattere (vedi 3:13, 4:1-8, 5:23). Ma qui, in questa Epistola che riconduce tutto a Cristo, che è posto continuamente sotto gli occhi dei credenti, la misura del cammino è in modo “degno del Signore Egli è il Signore, termine che esprime la sua autorità e, nello stesso tempo, la responsabilità che abbiamo noi nei suoi confronti.
Noi gli apparteniamo; che il nostro cammino corrisponda alla gloria del nostro Signore! E questo, come abbiamo visto al versetto precedente, sarà il risultato della conoscenza della sua volontà, acquisita mediante la sapienza e l’intelligenza spirituali che derivano dalla comunione con Dio.
Notiamo l’espressione “per piacergli”, cioè per essergli graditi, godendo così della sua approvazione; e, questo, “in ogni cosa”. La vita cristiana non è a settori: una parte per Cristo e l’altra per noi stessi o per il mondo. No, è un tutt’uno, ogni aspetto della nostra vita deve piacere al Signore, per cui è necessario essere “ricolmi della profonda conoscenza della volontà di Dio”. È quella volontà in cui Cristo si deliziava (vedi Giov. 4:34, Ebrei 10:7), per cui poteva dire: “Faccio sempre le cose che gli piacciono” (Giov. 8:29). Quale potente motivazione, per ogni attività del credente, piacere al suo Signore! (vedi Luca 19:17, Matteo 25:21). Possiamo ben capire l’importanza della preghiera di Paolo.
“portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio;” (v. 10).
È così che si piace al Signore in ogni cosa. La presenza del frutto dimostra che l’albero è vivo. La vita di Dio nel credente è resa evidente dal frutto che produce, da ogni opera buona. Non una certa opera particolare, come ci parrà bene, secondo i nostri gusti, ma “ogni buona opera”.
Che cos’è che fa diventare buona un’opera davanti a Dio? È il fatto che essa derivi dalla conoscenza della sua volontà, che sia consona alla sua natura, che sia compiuta nel nome del Signore Gesù, e che abbia questi caratteri: misericordia, bontà, umiltà, dolcezza, longanimità, reciproca sopportazione, spirito di perdono e di pace (vedi in questa epistola cap. 3 v. 12-17). Paolo desiderava che la vita dei Colossesi fosse composta da tutte queste cose, ed è ciò che dobbiamo desiderare anche per noi. Ma è anche detto: “crescendo nella conoscenza di Dio”. Qui si tratta non tanto di conoscere la volontà di Dio ma Dio stesso, nel cuore e non solo nell’intelligenza; conoscere il suo carattere, il suo amore, la sua sapienza, la sua bontà, e la nostra relazione con Lui. È una conoscenza che, in quanto agisce sugli affetti, ci attira e ci attacca sempre più a Lui, e fa sì che l’anima si elevi e aumenti in amore, in santità, in somiglianza con Dio (vedi 2 Pietro 1:2), svincolati da tutto ciò che potrebbe arrestarne lo sviluppo. Se il nostro cuore è occupato di Dio, di ciò che Egli è, di ciò che ha fatto e fa per noi, le cose della terra cessano di avere influenza su noi, e cresciamo spiritualmente nella misura in cui questo avviene. Beata situazione quella in cui Dio riempie sempre più l’anima della sua luce e del suo amore!
“fortificati in ogni cosa dalla sua gloriosa potenza, per essere per sempre pazienti e perseveranti;” (v. 11).
Per realizzare tutto quanto abbiamo visto prima, ci occorre la forza. La conoscenza di Dio ci fa vedere dov’è il segreto della forza. Essa si trova in Lui, ed è da Lui che la riceviamo. Il credente è fortificato da una forza che viene da alto, dalla gloria, dove la potenza di Dio ha posto Cristo dopo averlo risuscitato dai morti (Ef. 1:19-20). È questa potenza infinita, vista in Cristo glorificato, che fortifica il credente “in ogni cosa”; non solo una forza per una circostanza particolare, ma quella di cui si ha bisogno in ogni momento per realizzare la vita di Cristo quaggiù. È la vita celeste nelle circostanze terrene; una vita in armonia con il carattere di Dio. Non ci sono posti limiti; non c’è forse di che essere incoraggiati e sostenuti nel cammino? Tuttavia questa potenza non ci è data per compiere degli atti clamorosi di fronte agli uomini, ma per realizzare la vera vita cristiana, come ha fatto il Signore sulla terra. Si è fortificati per essere sempre pazienti e perseveranti. Pene, afflizioni, opposizioni e difficoltà di ogni sorta abbondano nel cammino della fede; il Signore non l’ha nascosto ai suoi e gli apostoli lo ricordano (Giov. 16:33; Atti 14:22). Egli stesso ha incontrato tutte queste prove e ha mostrato in esse la sua pazienza e la sua sopportazione costanti. È evidente che per seguire un tale cammino è necessario che la propria volontà sia soggiogata.
Il Signore non aveva altra volontà che quella del Padre (Giov. 4:34; 5:30; 6:38). Da ciò derivava la sua costanza, indipendentemente dall’opposizione dei peccatori e dagli sforzi del nemico.
Non c’è nulla che manifesti la forza come la pazienza: non quella pazienza passiva che si sottomette perché non può fame a meno, ma una pazienza attiva che sopporta perché sa che si tratta della volontà di Dio; essa quindi non ha nulla a che fare con l’apatia o l’indifferenza. La pazienza sa aspettare. Sa che viene il momento in cui le pene e le difficoltà saranno passate, e si arriverà alla gloria da cui ora proviene la forza. Questa prospettiva incoraggia alla pazienza nei problemi della vita (vedi Ciac. 5:8; 2 Tess. 3:5).
“ringraziando con gioia il Padre che vi ha messi in grado di partecipare alla sorte dei saliti nella luce.” (v. 12).
Nel cammino dell’ubbidienza e della pazienza si trova anche la gioia che viene dall’alto, la stessa gioia che gustava il Signore Gesù nella sua comunione costante col Padre e della quale aveva parlato ai suoi discepoli: “Vi ho detto queste cose, affinché la mia gioia dimori in voi e la vostra gioia sia completa” (Giov. 15:17; vedi anche 17:13).
È una gioia che deriva dal privilegio di chiedere al Padre nel nome del Signore Gesù, che è nella gloria, tutto ciò che concerne i nostri bisogni. Una gioia che non può esserci tolta (Giov. 16:22-24). Possiamo così capire le ripetute esortazioni dell’apostolo Paolo a rallegrarci nel Signore e ad essere sempre gioiosi (Fil. 3:1; 4:4; 1 Tess. 5:16), e l’affermazione di Pietro: “Credendo in lui, benché ora non lo vediate, voi esultate d’una gioia ineffabile e gloriosa” (1 Pietro 1:8).
Questa gioia trova la sua espressione nel ringraziamento, nella lode, nella riconoscenza sincera. Notiamo che non è detto che Dio ci metterà in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. Non è una cosa da aspettare, e in cui si faranno dei progressi, ma una posizione che ci è stata data, una grazia che ci è stata concessa e che già possediamo. “Ci ha messi in grado”; è un fatto, una cosa già avvenuta. Notiamo che qui Dio è presentato come Padre in quanto si tratta della nostra relazione con Lui, e quindi della grazia. Così è scritto: “Vedete quale amore ci ha manifestato il Padre, dandoci di essere chiamati figli di Dio!” (1 Giov. 3:1).
La grazia di cui ci è parlato qui è di “partecipare alla sorte dei santi nella luce”. “Dio è luce” (1 Giov. 1:5) ed egli abita nella luce. Questa luce, cioè la santità e la purezza perfette, al di fuori di ogni contaminazione, mette a nudo tutto ciò che non è conforme alla natura di Dio. Si può essere in relazione con Dio solo in questa luce (1 Giov. 1:6-7); ecco perché dobbiamo essere santi, cioè separati dal male. La “sorte” dei santi è nella luce, in Dio stesso.
Chi potrebbe vantarsi di arrivarci? Dio solo, con la sua onnipotenza, è in grado di rendercene capaci o degni, e lo ha fatto con un atto di grazia.
Il primato di Cristo (v. 13-23)
“Dio ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del suo amato Figlio (lett.: del Figlio del suo amore).” (v. 13).
Nel nostro stato naturale non eravamo nella luce. Ci trovavamo sotto il potere delle tenebre, sotto l’impero e la dominazione di Satana (vedi Atti 26:18, Ef. 6:12), che è il principe delle tenebre (2 Cor. 4:4). Le tenebre nelle quali Satana opera ed esercita il suo potere sull’uomo, che ha fatto suo schiavo tramite il peccato, sono in contrasto assoluto con la luce in cui Dio abita (e che è la sua natura stessa e a cui ci
fa partecipare per grazia). Egli, intervenendo con grande potenza, ci ha liberati per sempre dal dominio sotto il quale ci trovavamo. Dal potere di Satana, spezzando le catene e aprendoci la porta della nostra oscura cella, ci ha trasportati nel regno della luce. Apprezziamo come dovremmo questa grazia immensa?
Ma c’è ancora di più. “Dio è amore” (1 Giov. 4:8) tanto quanto è luce; amore e luce coesistono in Lui. Il regno in cui ci ha trasportati è quello del suo amato Figlio Ci troviamo nuovamente di fronte a un fatto; è una posizione nella quale la sua grazia sovrana e la sua potenza ci hanno posti. E una cosa sulla quale non insisteremo mai abbastanza per la nostra gioia e la nostra pace: una sorte nella luce, un posto nel regno del suo Figlio. Tutto viene dal Padre. In Efesini 1:4-5 e 2:1-6 troviamo lo stesso concetto ma dal punto di vista del pensiero di Dio, secondo i suoi consigli.
“Trasportati” ci fa pensare all’azione della potenza di Dio che ci libera, che ci strappa al potere del nemico; dopo avergli “rapito la preda”, la porta in un luogo lontano dai suoi assalti. Là siamo custoditi dal suo amore. Questa potenza di Dio ci pone in una relazione con Lui completamente nuova.
L’espressione “regno del Figlio del suo amore”, che troviamo solo in questo passo, ci fa pensare alla relazione eterna del Signore Gesù con il Padre, come suo Figlio unico, della sua stessa essenza, oggetto del suo amore ineffabile. Il regno è la sfera attuale, invisibile e celeste, in cui questa relazione è manifestata e conosciuta da quelli che vi sono “trasportati”. È la persona adorabile del Figlio che ci è presentata, Colui che fa le delizie del Padre. Questo amore del Padre che si riversa sul suo Figlio è ciò che c’è di più elevato; ci è presentato perché lo contempliamo e l’adoriamo. Questo attacca il cuore al Signore e ci libera dal mondo e dai suoi ordinamenti. Noi siamo nel regno dell’amore, dove l’amore regna e domina tutto, ne è la regola e la legge. Che possiamo gustarlo, e apprezzare sempre di più la posizione nella quale la grazia ci ha messi!
‘In lui abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati. ” (v. 14)
Ecco la base sulla quale abbiamo potuto avere la nostra parte nella luce e l’ingresso e un posto nel regno del Figlio dell’amore del Padre. La redenzione, che ha comportato il pagamento del nostro riscatto, è la manifestazione dell’amore di Dio verso noi; essa infatti è stata compiuta dal suo Figlio mediante l’opera della croce. Il risultato di quest’opera è il perdono dei peccati. Perdonati in virtù della redenzione, partecipiamo alla sorte dei santi nella luce, siamo strappati al potere di Satana e posti nel regno del Figlio in cui l’amore ha la sua piena e sovrana manifestazione. Quale grazia!
Nei versetti che seguono (15-20), lo Spirito Santo, per mezzo della penna di Paolo, dispiega davanti a noi tutte le glorie che appartengono al Figlio di Dio, tutte le dignità di cui è rivestito. Qui è parlato solo di Lui, e non di noi, e se la Chiesa è citata lo è soltanto per far risaltare la Sua gloria anche a questo riguardo.
L’apostolo pone Cristo davanti ai Colossesi per liberarli dal pericolo di diventare schiavi degli ordinamenti umani. È sempre la sua persona adorabile che è presentata sotto vari aspetti.
“Egli è l’immagine del Dio invisibile, il primogenito d’ogni creatura;” (v. 15).
Anzitutto, Cristo è l’immagine del Dio invisibile, primo aspetto della sua gloria personale. Più volte nella Scrittura troviamo questa dichiarazione: Dio è invisibile. Questo non significa invisibile fisicamente, ma che non può essere conosciuto, contemplato nella sua essenza e nelle sue perfezioni,da alcuna creatura. È ciò che l’Eterno disse a Mosè (Esodo 33:20). Lo Spirito Santo dichiara: “Nessuno ha mai visto Dio” (Giov. 1:18). L’apostolo Paolo scrive, parlando di Dio: “Il solo che possiede l’immortalità e che abita una luce inaccessibile: che nessun uomo ha visto né può vedere” (1 Tim.6:16).
Ma Cristo è l’immagine del Dio invisibile: nella sua natura, nel suo essere, presenta ciò che è Dio, la sua gloria, i suoi attributi, le sue perfezioni morali, il suo carattere. Notiamo: Cristo è l’immagine di Dio, non è detto che lo era, né che lo è diventato. Quando si è fatto uomo, Cristo ha manifestato ciò che Dio è. Sulla terra è stato “Dio manifestato in carne” (1 Tim. 3:16). Se nessuno ha mai visto Dio, “l’unigenito Figlio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere” (Giov. 1:18). Nella sua persona, ha rivelato agli uomini l’essenza e i caratteri di Dio, perché chi ha visto Lui ha visto il Padre (Giovanni 14:9), ed è “apparso agli angeli” (1 Tim. 3:16) come Dio manifestato in carne. Io non posso vedere Dio, né conoscerlo se non per mezzo di Cristo e in Cristo. Quando conosco Cristo, conosco Dio in gloria, in potenza, in santità, in giustizia, in amore. Cristo ha mostrato questi caratteri sulla terra, Lui che è “l’immagine di Dio”, “splendore della sua gloria e impronta della sua essenza” (Ebrei 1:3).
Adamo, creato a immagine di Dio, era la figura di Cristo perché era centro e capo della creazione che gli era sottoposta. Ma Cristo, l’unigenito Figlio, è l’immagine di Dio ancora prima che la creazione esistesse. Per questo motivo, quando entra nella creazione lo fa per essere centro e capo di tutte le cose. Non può occupare altro posto. Il titolo di primogenito esprime la sua supremazia su tutto ciò che è stato creato. Paolo non vuole dire che Egli è stato la prima creatura in ordine di tempo.
Dio si serve di questa stessa espressione per mostrare l’eccellenza di Salomone, che è un tipo di Cristo, rispetto agli altri re: “Lo costituirò mio primogenito, il più eccelso dei re della terra” (Salmo 89:27).
“poiché in lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra, le visibili e le invisibili: troni, signorie,principati, potenze; tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. ” (v. 16).
Questo versetto ci dice la ragione che eleva Cristo al di sopra della creazione. È perché l’ha fatta: è il Creatore. Siamo davanti a un’altra delle sue glorie. Quindi Cristo non è una creatura. Nulla stabilisce più saldamente la sua divinità dell’espressione “in lui sono state create tutte le cose”: essa indica che la potenza creatrice risiede in lui.
Dopo aver definito la creazione “tutte le cose”, l’apostolo le specifica, per rispondere agli errori insegnati da certi dottori. Essi sostenevano che Dio aveva scelto degli angeli per creare il mondo. No, dice Paolo. Tutte le cose, terra, cielo e tutto l’universo è stato fatto dalla potenza creatrice del Figlio. E, per non lasciare alcun dubbio, aggiunge “le visibili e le invisibili”. Le cose invisibili sono quegli esseri intelligenti, quegli spiriti che, pur essendo nel mondo, non sono percepiti dai nostri sensi, ma che, lungi dall’essere stati agenti della creazione, sono anch’essi delle creature. Fra esse Paolo menziona le più elevate: troni, signorie, principati, potenze (o autorità).
Paolo stronca quindi la venerazione che alcuni avrebbero reso a delle creature, quel culto idolatra a cui i Colossesi avrebbero potuto essere spinti (vedi cap. 2 v. 18). Egli mostra il Figlio, elevato al di sopra di tutto, nella sua dignità divina di Creatore, per mezzo del quale esistevano tutte le cose, e“in vista” del quale, cioè per il quale erano state fatte: quindi Egli le possiede perché ne ha diritto.
“Egli è prima di ogni cosa e tutte le cose sussistono in lui. ” (v. 17)
Per essere il Creatore di tutte le cose, bisognava che Cristo fosse prima di esse. Qui è affermata la sua preesistenza. Notiamo che Paolo non dice come Giovanni, che presenta la storia della Parola eterna: “Nel principio era la Parola”. Paolo esprime la permanenza dell’essere in Cristo: “Egli è prima di ogni cosa”. Nuova prova della sua divinità eterna, come quando il Signore stesso disse: “Prima che Abraamo fosse nato, io sono” (Giov. 8:58), e non io ero. Non noteremo mai abbastanza le cure che la Parola dedica nel far risaltare l’eccellente grandezza di Cristo.
Ma queste cose che ha creato, come sussistono? Chi le mantiene all’esistenza? Sussistono da sole? No: cadrebbero presto nel caos e nel nulla. La stessa potenza creatrice che le trasse dal nulla impedisce loro di ricadérvi; essa è essenziale per la loro conservazione. Così troviamo nell’epistola agli Ebrei 1:3: “Egli sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza”. Eppure Lui, rivestito di tutti questi attributi esclusivamente suoi, si è abbassato fino a diventare simile a noi per riscattarci! Adoriamolo e serviamolo dunque; ne è degno!
“Egli è il capo del corpo, cioè della chiesa; è lui il principio, il primogenito dai morti, affinché in ogni cosa abbia il primato.” (v. 18).
Siamo di fronte a una nuova gloria di Cristo, a un altro genere di supremazia. Ora lo vediamo essenzialmente come uomo, Uomo risuscitato che ha vinto la morte, e come tale occupa ancora il primo posto in una sfera del tutto nuova, quella della nuova creazione. In essa Egli è visto in relazione con altri che appartengono a questa creazione e che partecipano alla sua gloria, in virtù della redenzione che ha compiuto e della potenza di vita che è in Lui.
Cristo “è il capo (la testa) del corpo, cioè della Chiesa”. Quelli che Egli ha riscattato, che per suo mezzo hanno la remissione dei peccati (v. 14), formano questa Chiesa, il corpo di cui Lui è il capo. Il termine “capo” indica l’autorità; quando contempliamo Cristo risuscitato dobbiamo sempre tenerlo presente.
Ma poiché capo significa anche testa, abbiamo un concetto in più. Come le membra del corpo umano sono indissolubilmente legate alla testa, così ogni credente è indissolubilmente unito a Cristo, la Testa, nel cielo. La testa esprime l’unione intima in cui si trovano i riscattati con Cristo. I Colossesi avevano bisogno che fosse loro ricordata questa unione con Cristo. Quanti cristiani di oggi, purtroppo, dimenticano questa verità capitale, così ricca di preziose conseguenze pratiche! “È lui il principio”. Nei versetti precedenti abbiamo visto Cristo come principio della prima creazione, quella della natura, di “tutte le cose”. Qui lo vediamo come Uomo che, in virtù della gloria divina, è il principio della nuova creazione (vedi anche Apoc. 3:14). E la potenza divina che si estrinseca non nel creare degli esseri dal nulla, ma nel dare le vita a coloro che erano sottomessi alla potenza della morte. Cristo è il principio di questa vita nuova, sulla quale la morte non ha alcun potere. A questa morte si è volontariamente assoggettato ma l’ha annullata tramite la sua risurrezione dai morti.
E per questo che è chiamato “il primogenito dai morti”. Lui, per primo, è uscito dalla tomba in potenza di vita – una vita imperitura, che non finirà mai. E in questa vita che introduce quelli che ha riscattato, le membra del suo corpo, la Chiesa, contro la quale le porte dell’Ades non possono prevalere. E tutto ciò “affinché in ogni cosa abbia il primato”.
Cristo ha dunque la supremazia, sia come Creatore che come Capo (o Testa) della Chiesa. È in queste due sfere che si manifesta la gloria di Dio; è in queste due sfere che Cristo occupa il primo posto. Quant’è grande la gloria della sua Persona!
“Poiché al Padre piacque di far abitare in lui tutta la pienezza…’’ (v. 19).
Qui abbiamo la ragione di ciò che precede e di ciò che segue. Tutta la pienezza abita in Lui. La pienezza di che cosa? il v. 9 del capitolo seguente ci dà la risposta: “In lui abita corporalmente tutta la pienezza della Deità”. Dio si è rivelato pienamente in Lui. Tutto ciò che Dio è in potenza creatrice di vita, in sapienza e in amore, è stato manifestato in Cristo uomo. Tale è il Salvatore glorioso che conosciamo e che amiamo. Mediante lo Spirito Santo, la cui pienezza era in Lui e che ci ha comunicato, conosciamo il Padre, rivelato nel Figlio, e conosciamo il Figlio dell’amore del Padre. Preziosa grazia per noi! Che possiamo fissare lo sguardo su Lui, e che i nostri cuori possano godere sempre più di tutto ciò che Egli è e che ci ha rivelato.
“…e di riconciliare con sé tutte le cose per mezzo di lui,avendo fatto la pace mediante il sangue della sua croce; per mezzo di lui, dico, tanto le cose che sono sulla terra, quanto quelle che sono nei cieli. ” (v. 20).
Abbiamo qui una nuova gloria di Cristo, l’opera della riconciliazione che ha compiuto, e che non avrebbe potuto compiere se in Lui non fosse abitata tutta la pienezza della Deità. Per fare questo doveva essere Uomo ma anche Dio, in una sola Persona.
Per colpa del peccato la creazione era contaminata, lontana da Dio, senza relazione con Lui. Ma la pienezza della Deità si è compiaciuta nel riconciliare tutte le cose (*) con Se stessa, di ravvicinarle, di rimettere ogni cosa in relazione immediata con Dio, dopo averle rese adatte a questo. il fondamento di questa riconciliazione è l’opera compiuta da Cristo sulla croce.
È bene sottolineare che il fondamento è posto, che la pace è fatta, in virtù della morte del Signore sulla croce. Com’è detto nell’epistola agli Ebrei cap. 9 v. 26, “una volta sola, alla fine dei secoli, è stato manifestato per annullare il peccato con il suo sacrificio”. E ancora: “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Giov. 1:29).
Ma oggi la potenza divina non è ancora intervenuta per stabilire concretamente i risultati di questa riconciliazione di tutte le cose, cioè per stabilire questo nuovo regime in cui tutto rientrerà nell’ordine, in cui i cieli e la terra, liberati dalla presenza e dalla potenza del male, godranno della relazione con Dio e delle relative benedizioni. Una prima manifestazione di questa riconciliazione avrà luogo nel Millennio, durante il quale vi sarà ancora, comunque, qualche manifestazione del male, peraltro immediatamente repressa. Ma quando saranno stabiliti “i nuovi cieli e la nuova terra” nei quali abiterà la giustizia (2 Pietro 3:13, Apoc. 21:1-5), il male sarà completamente abolito; allora la riconciliazione avrà il suo pieno effetto.
“E voi, che un tempo eravate estranei e nemici a causa dei vostri pensieri e delle vostre opere malvagie, ora Dio vi ha riconciliati nel corpo della carne di lui, per mezzo della sua morte, ” (v. 21,22).
L’opera della riconciliazione è duplice. C’è la riconciliazione delle cose, che è futura; e c’è anche la riconciliazione delle persone, cioè dei credenti, che è già compiuta. Quelli che ora sono riconciliati non erano soltanto contaminati dal peccato, come la creazione, ma erano “estranei e nemici” di Dio nei loro “pensieri” e nel loro agire.
Gli uomini, creature intelligenti, hanno una facoltà che li mette al di sopra degli animali, e li rende capaci di essere in una relazione cosciente con Dio. Ma il peccato li ha separati e allontanati da Dio; non lo conoscono, non sono più in relazione con Lui, gli sono totalmente estranei, e i loro pensieri oscurati si sono volti al male, fino al punto di diventare nemici di Dio. Questo stato morale è poi reso evidente dalle “opere malvage”. Sono questi esseri che ora sono riconciliati, riavvicinati a Dio, resi adatti ad essere in relazione con Lui e a godere della sua presenza e del suo amore.
È Cristo che ha prodotto questo risultato; è in virtù dell’opera perfetta che ha compiuto “nel corpo della sua carne”, soffrendo e morendo, che la riconciliazione è stata effettuata. Ed è già fin d’ora che i credenti godono dei benefici di questa riconciliazione, anche se i risultati gloriosi e benedetti saranno visti pienamente solo nella gloria, come troviamo nel seguito del v. 22.
Notiamo ancora che l’apostolo applica personalmente ai Colossesi questa preziosa verità: “E voi”, dice loro, insistendo sul fatto che essi erano in quella posizione eccellente soltanto in virtù della morte di Cristo.
“per farvi comparire davanti a sé santi, senza difetto e irreprensibili” (v. 22).
È il risultato finale e glorioso della riconciliazione delle persone. In Cristo noi siamo già santi e irreprensibili per Dio (Ef. 1:4); però noi dobbiamo essere, nella nostra condotta in questo mondo, “irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo” (Fil. 2:15). Ma qui, il fatto di essere presentati “santi, senza difetto e irreprensibili” è la meta finale,nella gloria.
Quindi, mentre “tutte le cose” saranno riconciliate in futuro, i credenti lo sono già ora, e sono in attesa di trovarsi nel cielo così come Dio li vuole e come Cristo li ha fatti. Gli increduli, che avendo rifiutato Cristo rimangono nei loro peccati, saranno fuori da quella scena gloriosa di felicità (Apoc.22:15; 21:8).
“se appunto perseverate (ossia rimanete fermi) nella fede,fondati e saldi e senza lasciarvi smuovere dalla speranza del vangelo che avete ascoltato, (v. 23).
Aver parte a un futuro così glorioso presuppone necessariamente che si perseveri nella fede fino alla fine. Come abbiamo detto, i Colossesi correvano il pericolo di lasciarsi distogliere dalla speranza gloriosa del vangelo, che è “riservata nei cieli” (v. 5) per quelli che perseverano. “Lasciarsi smuovere” nel testo originale è un’espressione forte che significa “essere trasportato lontano da”, come una nave trascinata dalla tempesta lontana dal porto. Era questo il pericolo che i falsi dottori facevano correre ai Colossesi con i loro ordinamenti giudaici e le loro speculazioni filosofiche.
“Se perseverate…”; i “se” nella Parola di Dio sono in relazione alla nostra responsabilità in terra, e non alla nostra! posizione in Cristo. Si rivolgono alla coscienza, e hanno lo scopo di impedire al credente di addormentarsi in una falsa sicurezza e di rilassarsi nella condotta. Il credente è salvato per l’eternità ed entrerà alla presenza di Dio. Ma, se il suo cammino non ha glorificato il Signore, Dio non lo troverà santo e irreprensibile. Sarà salvato comunque, però “come attraverso il fuoco” (1 Cor. 3:15), e perderà il premio. Ma accanto a questi avvertimenti tanto solenni leggiamo anche delle consolanti promesse per incoraggiare quelli che desiderano camminare fedelmente e che sentono la loro debolezza. Dio ha promesso di proteggerli nel cammino, e in queste promesse non ci sono dei “se” (vedi Giuda 24; 1 Cor. 1:2; 10:13, ecc…).
Per rimanere fermi è necessario essere fondati, radicati. Un albero senza radici sarebbe presto rovesciato dal vento; una casa senza fondamenta non resisterebbe a lungo. Occorreva quindi che i Colossesi fossero fondati, convinti delle cose che Dio dice, fermi nelle verità che sono il fondamento della loro fede, specialmente quella relativa alla Persona e all’opera di Cristo, sul quale si basa la speranza presentata dall’Evangelo. I Colossesi avevano udito, ora bisognava serbare; e questo vale anche per i nostri tempi in cui circolano tante dottrine errate.
“il quale è stato predicato a ogni creatura sotto il cielo e di cui io, Paolo, sono diventato servitore.” (v. 23).
Il pensiero di Paolo si porta ora sulla vasta sfera in cui si esercita la potenza dell’Evangelo e sul ministero glorioso che gli era stato affidato. Come abbiamo già visto al v. 6, la grazia offerta da Cristo va al di là dei ristretti limiti del giudaesimo e si estende a tutti gli uomini. Questo era una delle–cause dell’opposizione dei Giudei contro Paolo, com’era stato per il Signore (vedi Luca 4). Ma la grazia e la verità portate da Gesù Cristo sono per “tutte le creature”. Era di questo Evangelo universale che Paolo, l’apostolo delle nazioni (1 Tim. 2:4-7), era diventato servitore; egli era lo strumento benedetto di cui Dio si serviva per portare il Suo nome “davanti ai popoli, ai re e ai figli d’Israele” (Atti 9:15).
Il combattimento dell’apostolo (v. 24-29)
“Ora sono lieto di soffrire per voi; e quel che manca (cioè che resta ancora da soffrire) alle afflizioni di Cristo lo compio nella mia carne a favore del suo corpo che è la chiesa. Di questa io sono diventato servitore, secondo l’incarico che Dio mi ha dato per voi di annunziare nella sua totalità la parola di Dio, ” (v. 24-25).
All’apostolo Paolo era stata affidato un altro ministerio oltre quello del Vangelo; quello di essere servitore della Chiesa, il corpo di Cristo, composto da Giudei e Gentili riuniti, e posti al beneficio dei medesimi privilegi. Paolo, come strumento di cui Dio si serviva per svelare ai Gentili il “mistero” della chiesa (vedi v. 26) e per introdurli in essa, aveva dovuto soffrire e, anche incarcerato, soffriva ancora, a causa dell’ostilità dei Giudei.
Ma è con un cuore pieno di gioia che poteva dire: “Ora (cioè proprio in quel momento in cui era incatenato) sono lieto di soffrire per voi”. Soffriva perché aveva annunciato l’Evangelo, ma l’amore di Cristo, che aveva sempre nel cuore, gli faceva trovare della gioia anche nelle sofferenze. La natura del vero amore e i suoi risultati sono questi.
È per amore per la Chiesa, per poterla riscattare, che Cristo ha sofferto: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef. 5:26). E per amore per Cristo e per la sua Chiesa che Paolo sopportava le sofferenze, lavorando fra i Giudei e i Gentili. E’ in questo modo che soffriva ciò che ancora era necessario, ciò che restava ancora da soffrire oltre le afflizioni di Cristo per la Chiesa. È così che anche noi, nella nostra debole misura, possiamo partecipare a tali sofferenze, se amiamo veramente ciò che è caro al cuore di Cristo,“la sua Chiesa”, “la perla di gran valore”, per la quale, per poterla acquistare, Cristo ha lasciato tutto ciò che aveva (Matteo 13:45,46).
In mezzo a un mondo nemico di Cristo, circondati da una folla che preferisce una religione di forme associata col mondo, se il nostro cuore è attaccato a un Cristo celeste e alla Chiesa, corpo di Lui e anch’essa celeste, dovremo inevitabilmente soffrire. L’espressione “per annunziare nella sua totalità (lett.: per completare) la parola di Dio” merita qualche considerazione. Questo non significa che dopo gli scritti dell’ apostolo Paolo non ce ne potessero essere degli altri; com’è noto, Giovanni scrisse i suoi più tardi. Ma il mistero, la cui rivelazione era affidata a Paolo (vedi commento al v. 10), era l’ultimo soggetto che finalmente era svelato mediante l’apostolo. È così che egli completava la parola di Dio; è così che questa parola era annunziata nella sua totalità, senza che nessun altro soggetto potesse esserle aggiunto, nessuna altra nuova rivelazione riguardo questo mistero. La possibilità di introdurne altri è quindi esclusa.
“cioè, il mistero che è stato nascosto per tutti i secoli e per tutte le generazioni, ma che ora è stato manifestato ai suoi santi.” (v. 26).
Le età precedenti, le generazioni del passato, non avevano saputo nulla del “mistero” della Chiesa, “che fu tenuto nascosto fin dai tempi più remoti” (v. 25). I profeti e Israele non l’hanno conosciuto; gli angeli stessi l’hanno ignorato fino alla sua rivelazione (Ef. 3:9-10). Ma “ora è stato manifestato ai suoi santi”. Nell’epistola agli Efesini cap. 3 v. 5 leggiamo che “questo mistero… è stato rivelato ai santi apostoli e profeti di lui”. A noi, dunque, sono gli scritti degli apostoli e dei profeti che lo fanno conoscere.
“Dio ha voluto far loro conoscere quale sia la ricchezza della gloria di questo mistero fra gli stranieri, cioè Cristo in voi, la speranza della gloria, ” (v. 27).
In questa epistola l’apostolo Paolo non tratta, come in quella agli Efesini, dell’unione dei Giudei e dei Gentili in un solo corpo. Qui tutto è messo in relazione unicamente con gli stranieri (i Gentili), cioè i popoli estranei ai Giudei. In realtà, la rivelazione del mistero che era portato a conoscenza di questi popoli, un tempo senza Dio e senza speranza, e la loro introduzione nelle benedizioni divine in Cristo, era una cosa grandemente gloriosa. In questo Dio magnificava la sua sapienza, il suo amore e la sua grazia senza limiti.
Paolo, che era ben cosciente della grandezza di quell’ opera, rafforza ancora l’espressione del suo pensiero quando parla della “ricchezza della gloria di questo mistero”. In esso si vedono brillare non solo la gloria di Dio e di Cristo, ma le ricchezze delle benedizioni sparse sulle nazioni; non delle benedizioni temporali e terrene, come erano nelle aspettative dei Giudei, ma delle benedizioni celesti, spirituali ed eterne in Cristo, “le insondabili ricchezze di Cristo” (Ef. 3:8).
Paolo riassume in una frase queste ricchezze concesse ai Gentili: “Cristo in voi, la speranza della gloria”.
I Giudei attendevano un Messia che sarebbe stato manifestato fra loro in gloria, sulla terra, mentre i Gentili avrebbero avuto solo una parte marginale. Il “mistero” consisteva proprio in questo: Cristo che abitava in loro e in mezzo a loro in modo ancora invisibile. Cristo perciò non era la gloria stessa, ma la speranza della gloria. Di questo gli scritti dell’Antico Testamento non parlavano affatto. Ecco il mistero rivelato. Cristo in noi, che grazia immensa! Più l’afferreremo e la gusteremo, più questa speranza certa diventerà vivente.
Notiamo ancora una volta come tutto, in questa epistola, è volto ad avvicinarci alla persona del Signore. La speranza della gloria è Colui che è in noi e in mezzo a noi, nella sua grandezza di Figlio amato da Dio, nella sua divinità come creatore e come Capo della nuova creazione, con la pienezza della Deità che è in Lui, il riconciliatore di tutte le cose e dei peccatori con Dio.
Che cosa ci occorre ancora? Questo chiudeva la porta a tutte le speculazioni filosofiche e al legalismo dei dottori giudaizzanti, che non potevano offrire nulla di paragonabile.
Tutto ciò che offendesse la gloria di Cristo diminuirebbe in noi la speranza. Cristo abiti dunque nei nostri cuori per la fede (Ef. 3:17), cioè che ci sia dato di realizzare, per la fede, questa grande verità, affinché i nostri cuori siano ricolmi di gioia, conoscendo e gustando la nostra unione con Lui!
“che noi proclamiamo esortando ciascun uomo e ciascun uomo istruendo in ogni sapienza, affinché presentiamo ogni uomo perfetto in Cristo” (v. 28).
Paolo annunciava questo Cristo; sia che lo predicasse agli inconvertiti, sia che istruisse i credenti, Cristo era l’argomento dei suoi discorsi. I suoi appelli, le sue esortazioni e i suoi insegnamenti, erano secondo la sapienza di Dio, cose che lo Spirito Santo gli aveva fatto conoscere (1 Cor. 2:6-10). Paolo si rivolgeva ad ogni uomo, Giudeo o Gentile, secondo il ministero dell’Evangelo che gli era stato affidato e che si estendeva a tutta la creazione sotto il cielo.
Ma lo scopo del suo ministero non era soltanto perché ogni uomo fosse salvato. Ai nostri giorni ci si ferma troppo spesso a questo primo passo. C’è un secondo passo da compiere: “presentare ogni uomo perfetto in Cristo”, cioè presentare (non rendere, come dicono alcune versioni) davanti agli uomini, ma anche davanti a Dio, ogni uomo allo stato di uomo fatto (vedere Ef. 4:13); cioè, uomini che hanno conosciuto Cristo secondo la rivelazione che è stata data di lui, che sono “trasformati alla sua immagine” e lo riflettono nella propria vita mediante la potenza della parola di Dio e dello Spirito Santo (vedere 2 Cor. 3:18; Fil. 3:8-16). Era lo scopo degli sforzi di Paolo.
“A questo fine mi affatico, combattendo con la sua forza,che agisce in me con potenza. ” (v. 29).
Paolo lavorava e combatteva con la preghiera per raggiungere questo scopo (di cui è parlato al v. 28), per il bene degli uomini e per ubbidienza a Dio, per la salvezza dei peccatori e i bisogni spirituali dei credenti. Ma Paolo, che non era apostolo secondo la volontà propria o quella degli uomini, non agiva con l’energia propria. Tutto gli veniva da Dio,e lui non voleva avere nulla da nessun altro. Cristo operava in lui e per mezzo di lui con potenza; era con questa forza che combatteva e lavorava. Così i risultati benedetti del suo ministerio erano manifestati.
Riassumendo, in questo capitolo abbiamo:
due glorie e primati di Cristo, nell’antica creazione e nella nuova;
due riconciliazioni, corrispondenti a queste due glorie, quella di tutte le cose nei cieli e sulla terra, e quella delle persone che credono;
due ministeri dell’apostolo, quello dell’Evangelo e quello per la Chiesa.
(*)Non si deve pensare che Dio riconcigli con Sé gli angeli; quelli ubbidienti, perché non ne hanno bisogno; quelli disubbidienti, cioè Satana e i suoi accoliti, perché non lo saranno mai” (N. d. T.).
Capitolo 2
Lo scopo del combattimento (v. 1-3)
“Desidero infatti che sappiate quale arduo combattimento sostengo per voi, per quelli di Laodicea e per tutti quelli che non mi hanno mai visto di persona, ” (v. 1).
Prima l’apostolo aveva parlato in modo generale del suo lavoro e del combattimento che sosteneva per la potenza di Cristo che agiva in lui. Ma voleva che anche i credenti che non lo conoscevano personalmente conoscessero il vivo interesse e l’affetto che provava per loro come per gli altri.
Paolo cita in particolare le assemblee di Colesse e di Laodicea, perché gli stavano particolarmente a cuore; con il discernimento che aveva dal Signore, vedeva i pericoli che le minacciavano e “combatteva” per loro con energia e perseveranza nelle sue preghiere. Anche per i credenti di Laodicea le sue esortazioni ad “attenersi al Capo” (cap. 2 v.19) erano molto necessarie, ma purtroppo, come vediamo in Apocalisse nella lettera indirizzata dal Signore a quell’assemblea, essi non tennero conto di ciò che era stato loro detto e pensarono di essere “ricchi” senza Cristo (Apoc. 3:14-22)!
“affinché siano consolati i loro cuori e, uniti mediante l’amore, siano dotati di tutta la ricchezza della piena intelligenza per conoscere a fondo il mistero di Dio, cioè Cristo,nel quale tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti.” (v. 2-3).
Qui troviamo il triplice scopo del combattimento di Paolo per i Colossesi:
1. che fossero “consolati”, incoraggiati e raffermati,secondo tutto il significato di questi termini (vedi anche 1Tess. 3:2 e 2 Tess. 2:17);
2. che fossero uniti insieme nell’amore, cioè non semplicemente nell’affetto fraterno, nell’amore gli uni per gli altri,ma nella sorgente di ogni vero amore e della vera unione, cioè l’amore di Cristo, il Capo del corpo, amore che è il “vincolo della perfezione” (cap. 3:14). L’amore di Cristo, goduto in un’unione vivente con Lui da tutte le membra del corpo, è ciò che unisce, mediante la grazia e la potenza dello Spirito Santo;
3. che possedessero tutte le ricchezze della piena intelligenza per conoscere il “mistero di Dio”. Il credente ha bisogno di intelligenza per conoscere la pienezza della verità il cui centro è Cristo; non quell’intelligenza naturale che si dà a ogni specie di ragionamento e di speculazione sulle cose di Dio, perché così si smarrirebbe. È l’intelligenza rischiarata dallo Spirito Santo e che è sempre congiunta all’amore. In altre epistole l’apostolo scrive: “La conoscenza gonfia, ma l’amore edifica” (1 Cor. 8:1). “Egli illumini gli occhi del vostro cuore, affinché sappiate…” (Ef. 1:18).
Il testo originale dice: “piena certezza d’intelligenza”. Non si tratta quindi soltanto di conoscere, ma di essere assolutamente certi che ciò che si è afferrato con l’intelligenza e il cuore è proprio la verità divina, e qui la verità è Cristo. Così non si vacilla, non ci si chiede se si è proprio nel vero e se c’è da cercare qualcos’altro. Si è pienamente sicuri che Cristo e ciò che si possiede in Lui è veramente la piena e completa verità di Dio. E l’apostolo, per esprimere il valore d’una tale certezza, la presenta con queste parole: “tutta la ricchezza”.
Quindi, lo scopo del combattimento dell’apostolo è che i credenti avessero l’incoraggiamento che rafferma l’anima, l’amore nell’unione con Cristo che la riscalda, l’intelligenza della verità che la rischiara. Il possesso di queste tre grazie ci dà la capacità di resistere all’errore che fa vacillare, che tende a separare da Cristo e insinua il dubbio, l’incertezza e il turbamento nel cuore. Lo scopo finale è quindi “conoscere a fondo il mistero di Dio, cioè Cristo”.
Che cos’è questo mistero? Non è soltanto ciò che riguarda la Chiesa e che era stato nascosto fino ad allora. È di più. Questo mistero di Dio sono tutte le glorie della Persona di Cristo rivelate nel 1° capitolo e tutta l’opera della redenzione con le sue conseguenze infinite. Per questo l’apostolo aggiunge: “nel quale tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti”.
La sapienza di cui parla l’apostolo non è quella saggezza umana che regola la nostra condotta nelle cose di quaggiù, cosa peraltro molto importante, e la conoscenza non è quella che lo spirito naturale dell’uomo acquisisce con le proprie facoltà. No; qui la sapienza e la conoscenza sono in rapporto alle cose di Dio; la sapienza è la percezione delle relazioni che esistono fra di esse e la consapevolezza che sono cose “vere”. Sovente Paolo abbina nei suoi scritti la sapienza e la conoscenza (cap. 1 v. 9; 1 Cor. 12:8; Ef. 1:17). Tutte le cose nelle quali queste due facoltà vengono utilizzate sono chiamati tesori per il loro valore infinito e perché Cristo ne è il centro.
Il fatto che tali tesori siano “nascosti” non significa che l’uomo non possa conoscerli e possederli. Lo Spirito Santo li rivela nella Parola di Dio. Ma l’uomo naturale, con la sua sapienza altezzosa e la sua vana scienza, non può scoprirli (vedi 1 Cor. 2:6-8). Per lui, questi tesori rimangono nascosti. Il Signore disse: “Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e detta terra, perché hai nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli” (Matteo 11:25). Ma colui che, nell’umiltà, ha imparato a conoscere Dio in Cristo, mediante la fede penetra sempre più in questi tesori di verità e di luce che irradiano da Cristo stesso; più vi entra, più il
suo cuore si riscalda. È come se l’apostolo dicesse ai Colossesi: “Che cosa andate a cercare dietro quei dottori che pretendono di portarvi a delle altezze maggiori di quelle a cui il cristianesimo vi ha portati? Nel mistero di Dio, che Egli ha voluto rivelarvi in Cristo, nella Sua gloriosa Persona, alla quale la grazia vi ha uniti, voi avete tutto”.
Esortazioni a perseverare in Cristo (v. 4-7)
“Dico questo affinché nessuno vi inganni con parole seducenti;’’ (v. 4).
L’apostolo quindi mette in guardia i Colossesi dai falsi ragionamenti che potrebbero sembrare fondati su delle verità cristiane, e li esorta a rifiutare quei discorsi persuasivi che potrebbero avere un’apparenza di saggezza ma che tendono a introdurre qualcosa che finisce col separarli da Cristo.
“perché, sebbene sia assente di persona, sono però con voi spiritualmente, ” (v. 5).
Ancora una volta vediamo la tenera sollecitudine di Paolo per i credenti di Colosse. Sebbene non li avesse mai visti, si interessava vivamente al loro benessere spirituale. Era con loro in spirito; il suo pensiero era sempre volto a Cristo, e di conseguenza alle membra del suo corpo. Si affliggeva se qualcosa andava male, metteva in guardia se qualche pericolo li minacciava, si rallegrava se trovava qualche frutto buono nella loro condotta. Come fedele servitore del suo Signore a favore di tutta la Chiesa, e non solo della chiesa di una località particolare, è un modello per coloro che sono chiamati a lavorare nella stessa opera.
“e mi rallegro vedendo il vostro ordine e la fermezza della vostra fede in Cristo.” (v. 5).
Essendo dunque spiritualmente in mezzo ai credenti di Colosse, Paolo aveva motivo di rallegrarsi per l’ordine col quale camminavano e per la fermezza della loro fede. Li vedeva vivere e comportarsi seriamente, come dei soldati schierati in buon ordine e stretti l’uno all’altro per sostenersi reciprocamente. E poiché la loro fede era in Cristo, si appoggiavano insieme su Lui, e fino a quel momento erano rimasti saldi.
Ma il nemico cercava di sedurli, attentando alla Persona del loro vero e amato Capo. Se avessero dato ascolto a quelle dottrine perniciose, giudaizzanti e filosofiche, a poco a poco, impercettibilmente, sarebbero stati separati da Cristo; l’ordine si sarebbe rotto, la loro fede sarebbe vacillata, sarebbero diventati preda dell’avversario. Anche oggi, di fronte a tante idee che tendono a sminuire la Persona del Signore, i credenti sinceri che vogliono essergli fedeli devono stare in guardia contro ogni idea estranea alla Parola di Dio, che sovente si presenta sotto apparenze seducenti; se tali idee fossero accolte come vere, non potrebbero far altro che scuotere e sconvolgere la fede!
“Come dunque avete ricevuto Cristo Gesù, il Signore, così camminate in lui;” (v. 6).
L’apostolo dunque esorta i Colossesi a perseverare nelle buone cose che gli davano gioia. Era ciò che avevano ricevuto “dal principio” della loro fede, come troviamo sovente nella Scrittura. L’uomo vuole aggiungere le proprie idee a ciò che Dio rivela, ma con insistenza la Parola ci riconduce a ciò che era “dal principio”, cioè a Cristo, il centro dei pensieri di Dio.
L’apostolo fa appello a ciò che avevano ricevuto ed esperimentato personalmente: non un sistema di dottrine, un insieme di verità, ma Cristo stesso, una Persona, oggetto della loro fede e dei loro affetti. È Cristo nella pienezza dei suoi attributi, com’è ben espresso dai suoi nomi: Cristo, l’Unto di Dio che s’è dato per noi; Gesù, cioè l’Eterno che salva, il suo nome personale; il Signore, Colui che ha l’autorità. Tutto si ricollega a Lui, e la dottrina cristiana non è altro che lo sviluppo di ciò che Egli è, di ciò che ha fatto, e del compimento dei piani di Dio relativi alla gloria della sua persona. Conoscere Cristo è conoscere Dio, l’amore, la vita, la salvezza e la gloria. Averlo ricevuto tramite la fede nel proprio cuore è possedere tutte le cose. Cosa ci occorre ancora?
Ci occorre ciò che l’apostolo aggiunge: camminare in Lui; non soltanto per Lui, per mezzo di Lui, o con Lui, ma in Lui. Questo implica una comunione intima col Signore, che deriva dalla consapevolezza di essergli uniti, comunione nella quale gustiamo ciò che Egli è in amore, in grazia, in vita, in potenza; comunione che si riflette nel nostro cammino, nella nostra condotta giornaliera, e che istintivamente scarta tutto ciò che attenta alla sua gloriosa Persona.
“radicati, edificati in lui e rafforzati dalla fede, come vi è stata insegnata, abbondate nel ringraziamento. ”( v. 7).
Paolo ci mostra ora l’energia segreta di questo cammino in Cristo: essere radicati in Lui. Le radici d’un albero, anche se non sono visibili, sono quelle che lo mantengono in piedi. Più esse affondano nella terra, più l’albero è saldo e resiste al vento impetuoso. Mediante le radici l’albero trae l’acqua e i nutrienti disciolti nel terreno, necessari per la sua crescita e la sua stessa esistenza.
E da Cristo, tramite la conoscenza sempre più profonda, più intima della sua persona e del suo amore che sorpassa ogni conoscenza (Ef. 3:19), che il credente trae forza e attinge vita; è così che può crescere e svilupparsi, e respingere gli assalti del nemico. Paolo aggiunge: “edificati in lui”, cioè stabiliti su Lui, come un edificio costruito su un fondamento solido.
Di conseguenza, la nostra fede si rafforzerà. La conoscenza di Cristo, la comunione con Lui, il godimento di ciò che Egli è, il possesso di tutto ciò che è racchiuso nella sua Persona benedetta ci raffermano nella fede, cioè nella dottrina cristiana. Per noi non è semplicemente un problema di intelligenza; la fede s’impadronisce del cuore, delle affezioni, oltre che della vita.
Poi, richiamandosi agli inizi della vita cristiana dei suoi lettori, l’apostolo aggiunge: “come vi è stata insegnata”, non come insegnavano i falsi dottori ! Epafra, fedele servitore di Cristo, aveva fatto udire ai Colossesi “la grazia di Dio in verità” (cap.1 v. 6), ed è ciò che dovevano preservare, la grazia di Dio conosciuta secondo la verità che è in Cristo. Sovente negli scritti apostolici troviamo le stesse esortazioni a non cercare delle cose diverse da quelle che troviamo nella Scrittura e a non prestare orecchio a quelli che le insegnano.
Infine, l’anima felice, che gode dei tesori d’amore e di grazia che si trovano in Lui, esprime la sua riconoscenza con ringraziamenti a Dio Padre e al Signore Gesù Cristo.
La pienezza di Cristo che ricolma (v. 8-10)
“Guardate che nessuno faccia di voi la sua preda con la filosofia e con vani raggiri secondo la tradizione degli uomini e gli elementi del mondo e non secondo Cristo;’’( v. 8).
Ora l’apostolo avverte i Colossesi del pericolo che li minacciava, rappresentato da quei dottori filosofi e giudaizzanti, che mescolavano artificiosamente le loro speculazioni intellettuali con le cerimonie che prima Dio aveva dato al popolo d’Israele, ma che avevano fatto il loro tempo. Sostenevano il loro insegnamento dicendo che era Dio che le aveva date, e lo facevano per accreditare se stessi e le loro idee personali che tendevano a sminuire Cristo. Paolo, parlando agli anziani di Efeso, li paragonava a dei lupi: “Si introdurranno fra voi lupi rapaci, i quali non risparmieranno il gregge” (Atti 20:29). Gli anziani dovevano vegliare sul gregge; ma anche i semplici fedeli devono fare attenzione a quelli che vorrebbero dare degli insegnamenti umani e non secondo Cristo.
Per filosofia l’apostolo intende quella che “falsamente è chiamata scienza” (1 Tim. 6:20), mediante la quale l’uomo pretende, con le proprie facoltà e i propri ragionamenti, di arrivare alla conoscenza delle cose di Dio (vedi 1 Cor. 2:11). Caratteristica di questa filosofia è negare ciò che non si può comprendere e spiegare con ragionamenti umani. Anche ai nostri giorni essa attacca il mistero della Persona di Cristo e della redenzione. Purtroppo molti cristiani seguono questi ragionamenti che portano a privare il credente di ciò che ha di più prezioso, la Persona del suo Salvatore.
A queste speculazioni intellettuali, quei dottori aggiungevano l’insegnamento o la tradizione degli uomini. I Giudei avevano molte tradizioni a cui attribuivano grande autorità,pari o superiore a quella delle Scritture, come possiamo capire dai rimproveri del Signore a questo riguardo (Matteo 15:1-11). Tutto questo costituiva una religione che si adattava bene all’uomo “nella carne”. Essa era secondo “gli elementi del mondo”, cioè secondo i principi propri dell’uomo discendente da Adamo che vive in questo mondo, in pieno contrasto col cristianesimo che è celeste. Questi insegnamenti non erano “secondo Cristo” ma tendevano a sminuirlo per esaltare l’uomo, e privavano il credente dell’unica cosa che può riempirgli il cuore e la vita.
“perché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della Deità; ” (v. 9).
Paolo ritorna volentieri sul grande soggetto, Cristo, per mostrare la sua grandezza divina e la sua piena sufficienza per noi.
Egli ce lo presenta quale vero Dio e vero uomo, come alla fine del cap. 1. La pienezza della Deità esprime ciò che Dio è, la sua essenza, i suoi attributi e le sue perfezioni, le sue glorie. Essa abita corporalmente, cioè sostanzialmente e realmente, in Cristo uomo. Questa unione ineffabile di Dio con l’uomo in un solo essere, un uomo perfetto con la natura di Dio, è un mistero davanti al quale non possiamo far altro che adorare. È la Parola che è diventata carne, come dice Giovanni (cap. 1 v. 14). La pienezza della Deità si è compiaciuta di abitare in mezzo agli uomini in quest’uomo unico, Cristo Gesù, tanto che si può dire di Lui che è Dio ed è uomo.
Notiamo che è detto “abita”, e non “ha abitato”: è uno stato permanente, che esiste ora che è glorificato, come quando era sulla terra. Ovunque lo consideriamo, nella mangiatoia a Betlem o in braccio a Simeone, o dodicenne che interroga i dottori, o più tardi a Nazaret, sottomesso ai genitori; oppure nel corso del suo ministerio e poi nella gloria; oppure oggi e nell’eternità futura, Egli è Colui nel quale abita corporalmente tutta la pienezza della Deità.
“e voi avete tutto pienamente in lui, che è il capo di ogni principato e di ogni potenza;” (v. 10).
In Cristo noi siamo compiuti, abbiamo tutto, non ci manca nulla; la nostra posizione è perfetta davanti a Dio. Se si cercasse di rapire a Cristo qualcosa della sua gloria, si toglierebbe qualcosa della nostra posizione davanti a Dio. Ma noi siamo alla presenza di Dio in virtù della perfezione della sua opera e della sua persona. Che posto per il credente! E compiuto davanti a Dio in Cristo in quanto è unito al suo Capo glorioso.
L’apostolo sottolinea inoltre la posizione di Cristo come capo di ogni principato e di ogni potenza. Satana cercava di trascinare i Colossesi a piegare le ginocchia davanti agli angeli (v. 18), mediante gli insegnamenti e i ragionamenti dei falsi dottori. Ma Cristo è il capo di queste autorità e di queste potenze celesti, qualunque sia il loro livello gerarchico. È al di sopra di esse non solo come loro Creatore (cap. 1 v. 16), ma anche e soprattutto come Uomo glorificato (Ef. 1:21). In Lui noi siamo al di sopra di ogni cosa; quindi l’adorazione agli angeli non è nemmeno da prendere in considerazione. Cristo ci basta pienamente, sia perché ci dà una posizione perfetta davanti a Dio, sia perché ci ricolma il cuore. In Lui abbiamo veramente tutto.
Tutto ciò che abbiamo in Cristo (v. 11-15)
L’apostolo illustra ora in dettaglio tutto ciò che il credente ha in Cristo.
“in lui siete anche stati circoncisi d’una circoncisione non fatta da mano d’uomo, ma della circoncisione di Cristo, che consiste nello spogliamento del corpo della carne; ” (v. 11 ).
La circoncisione fatta da mano d’uomo era il segno, stabilito da Dio, della sua alleanza con Israele, il suo popolo terreno; per far parte di questo popolo, bisognava essere circoncisi. Nello stesso tempo, questo atto aveva un significato spirituale, era il simbolo dello “spogliamento della carne”. I dottori giudaizzanti, senza riconoscere tale significato, davano grande importanza alla circoncisione (vedi Atti 15:1; Gal. 6:12,13), e volevano circoncidere quelli delle nazioni, vale a dire i non Ebrei, che avevano creduto in Cristo.
Paolo respinge tali pretese dimostrando che i credenti hanno in Cristo la realtà di ciò di cui la circoncisione era soltanto il simbolo. Mediante la fede, i credenti sono messi al beneficio dell’efficacia della morte di Cristo; sono morti con Lui, e in questa morte hanno trovato, per mezzo della fede, il vero spogliamento del “corpo della carne” (non il corpo fisico), cioè l’insieme del peccato che qui è considerato come un organismo completo, un corpo.
Ora, i credenti in Cristo, poiché possiedono la potenza di vita che è in Cristo, devono considerarsi morti al peccato,come lo stesso apostolo scriveva ai Romani (6:6-7): “Il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con Lui affinché il corpo del peccato fosse annullato e noi non serviamo più al peccato; infatti, colui che è morto, è libero dal peccato”. Paolo poi aggiunge: “Fate conto di essere morti al peccato, ma viventi a Dio, in Cristo Gesù” (Rom. 6:11). Ecco il grande privilegio che il vero cristiano ha nella morte di Cristo al quale è unito. Non solo Cristo è morto per togliere i peccati e annullare la conseguente condanna, ma il credente è morto con Cristo, è unito a Lui in questa morte, perché il suo “corpo del peccato” fosse annullato. È così che l’ha “spogliato” completamente.
Notiamo che questo spogliamente non è un fatto da compiere con degli sforzi graduali; è compiuto: “siete stati circoncisi”, “il nostro vecchio uomo è stato crocifisso”. È un fatto; ed è in virtù di questa relazione con Cristo e della posizione in Lui che il credente è armato per combattere il peccato, a cui è morto e dalla cui schiavitù è liberato. La morte con Cristo e la vita in Lui sono il punto di partenza. E poiché il credente ha la vita in Cristo, se fa conto di essere morto al peccato può servire Dio. Che grazia meravigliosa!
“… siete stati con lui sepolti nel battesimo, nel quale siete anche stati risuscitati con lui mediante la fede nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti. ” (v. 12).
L’apostolo parla ora del battesimo, cerimonia cristiana che è il simbolo di un fatto spirituale, e che spiega bene ciò che ha detto prima. Il battesimo è il simbolo della nostra entrata nella morte con Cristo, “con lui sepolti nel battesimo”, e ne è anche la dichiarazione pubblica. Essere sepolti è la sparizione finale dell’uomo dalla scena presente. Essere sepolti con Cristo indica moralmente la fine dell’uomo in Adamo. Noi l’abbiamo fatta finita col nostro stato nella carne.
Ma non ci si ferma qui. Noi passiamo, o piuttosto siamo passati, in uno stato nuovo. Cristo non è soltanto morto, non è stato soltanto sepolto; Egli è anche risuscitato, passando così in quella vita nuova sulla quale la morte non ha più potere (Rom. 6:9). E noi siamo anche risuscitati insieme a Lui, siamo con Lui in questo stato nuovo, e il battesimo è il simbolo contemporaneamente della nostra morte e della nostra risurrezione con Cristo. Che meraviglioso rinnovamento! Essere morti a ciò che eravamo nella carne e che per noi non avrebbe portato altro che miseria, ed essere risuscitati e partecipi di questa nuova vita di luce, d’amore e di felicità in cui Cristo si trova, su un terreno in cui il peccato e il giudizio non hanno più posto!
Paolo ci fa poi conoscere il mezzo col quale queste cose diventano in noi una realtà vivente, e non solo un concetto intellettuale. Questo mezzo è la fede, con la quale ci appropriamo di ciò che Dio dice e lo facciamo nostro. Ma ciò che produce sia la fede che questa nuova vita in Cristo è sempre l’azione potente di Dio che è stata manifestata nella risurrezione del suo Figlio. È così che leggiamo nell’epistola agli Efesini: “Affinché sappiate… qual è verso di noi, che crediamo, l’immensità della sua potenza. Questa potente efficacia della sua forza egli l’ha mostrata in Cristo, quando lo risuscitò dai morti” (cap. 1 v. 19-20; “quando eravamo morti nei peccati, ci ha vivificati con Cristo (è per grazia che siete stati salvati), e ci ha risuscitati con lui…” (cap. 2 v. 5-6).
“Voi, che eravate morti nei peccati e nella in circoncisione della vostra carne, voi, dico, Dio ha vivificati con lui, perdonandoci tutti i nostri peccati;’’ (v. 13).
In questo versetto vediamo la morte morale nella quale eravamo a causa dei nostri peccati e la conseguente condanna che ci pesava addosso. In Cristo abbiamo la risposta a questi due problemi per noi irrisolvibili. Egli ha preso su sé la condanna dovuta al peccato, è morto per noi e così noi abbiamo per suo mezzo il perdono di tutte le nostre colpe. Non c’è più condanna per noi. Inoltre Cristo è risuscitato, e noi, risuscitati con Lui, partecipiamo a questa vita nella quale Egli è entrato; siamo usciti dalla morte nella quale eravamo e siamo vivificati insieme a Lui.
Notiamo l’espressione “nella incirconcisione della vostra carne”. I Giudei erano anch’essi, come tutti gli altri uomini, morti nei loro peccati (Ef. 2:5); però erano circoncisi, e questo era come un pegno del patto e delle promesse che appartenevano loro; avevano un Dio e una speranza (Ef. 2:11,12). Ma i poveri Gentili, i non Giudei, non avevano nulla di tutto questo. Erano morti nei loro peccati, e in più, essendo incirconcisi, non avevano alcun diritto; potevano essere solo oggetti della pura e sovrana grazia di Dio, e questa grazia si era riversata su di loro (Ef. 2:5,8). Che motivo di riconoscenza per noi!
Anche i Giudei avevano bisogno del perdono e della grazia che vivifica. La Parola di Dio, pur riconoscendo i loro privilegi speciali, li pone sullo stesso terreno dei Gentili; il peccato ci ha messi tutti nella morte e sotto la condanna. Ma in Cristo, morto e risuscitato, tutti possono trovare il perdono e la vita. Che felicità possedere questi tesori preziosi, e non soltanto sapere che esistono! Ciò che ci manca sovente è la realizzazione personale e il godimento di queste grazie.
Notiamo ancora che il perdono di Dio è alla base, è il principio di tutta la vita cristiana. È dopo il perdono che viene la vivificazione con Cristo. Egli ha annullato, con la sua morte, la condanna che aveva preso su di Sé, e noi ne siamo stati definitivamente liberati; nella sua risurrezione abbiamo la vita.
Prestiamo infine attenzione a queste parole: “tutti i nostri peccati”. Il perdono è completo, nulla resta a nostro carico. Che sicurezza per il credente!
“egli ha cancellato il documento a noi ostile, i cui comandamenti ci condannavano, e l’ha tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce;” (v. 14).
L’apostolo illustra ora un altro risultato della morte di Cristo sulla croce: “ha cancellato il documento (lett.: l’obbligazione) a noi ostile”. Com’è noto, un’obbligazione è uno scritto firmato che obbliga il firmatario a un pagamento o comunque a un impegno. Non onorarlo comporta una penalità. Questa obbligazione, che era contro i Giudei (l’apostolo infatti dice “noi”), consisteva nei comandamenti della legge di Mosè, la cui inosservanza aveva per conseguenza il castigo di Dio e la perdizione. In un certo senso, gli Israeliti avevano posto la loro firma sotto questa obbligazione dicendo: “Noi faremo tutto quello che l’Eterno ha detto” (Esodo 19:8). Poiché erano sotto la legge, essi erano tenuti ad ubbidire a questi ordinamenti. Ora, i dottori giudaizzanti volevano mettere i credenti sotto un giogo insopportabile (Atti 15:1,10), sotto questa obbligazione che l’uomo non può adempiere; così la coscienza resta sotto un peso che nessuno sforzo umano può togliere.
Questo è il caso, ancora oggi, di molte anime, peraltro sincere, che vogliono guadagnarsi dei meriti davanti a Dio, ma che si vedono sempre al di sotto di ciò che può soddisfare la sua perfetta giustizia e la sua santità. Ci auguriamo che queste persone leggano con attenzione la preziosa dichiarazione dell’apostolo, destinata a premunire i Colossesi contro un insegnamento che tendeva a metterli sotto questo documento degli ordinamenti della legge, dichiarazione che possiamo con gioia fare nostra: “(Cristo) l’ha tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce”. L’obbligazione è stata cancellata, annullata, distrutta, quando Cristo è stato inchiodato sulla croce. Là essa ha trovato la sua fine, e il credente ne è totalmente liberato. Vita, perdono e libertà, noi abbiamo tutto in Cristo. “…ha spogliato i principati e le potenze, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro per mezzo della croce. ” ( v. 15).
Un’altra cosa era contro di noi: le potenze spirituali della malvagità (Ef. 6:12), il cui capo è Satana. Cristo ha trionfato su loro per mezzo della croce. Che fatto straordinario! Era sembrato che fosse la potenza delle tenebre a prevalere, quando Cristo era stato tradito, afferrato da mani inique, spogliato, ingiuriato, inchiodato sulla croce. Gli uomini e i demoni assistevano là al trionfo apparente di Satana e all’apparente sconfitta di Cristo.
Ma in realtà, per Dio, per la sua gloria e per quella del suo Cristo, per la nostra salvezza e la nostra felicità eterna, in quell’ignominia e in quella morte del Salvatore splendeva la sua gloriosa vittoria. Egli vinceva inabissando tutta la malvagità con la quale l’odio dell’uomo, spinto da Satana, aveva agito contro Lui. Mediante la morte vinceva colui che aveva l’imperio della morte (Ebrei 2:14). Come vincitore, spogliava della loro potenza e della loro forza questi principati e queste potenze, micidiali per l’uomo e nemiche di Dio; li disarmava definitivamente; li esponeva pubblicamente, davanti agli uomini e agli angeli, alla vergogna della loro sconfitta. E questo trionfo glorioso lo ha ottenuto sulla croce e mediante la croce, dove ha brillato tutta la sua gloria. Meraviglia della sapienza e dell’amore di Dio! (1 Cor. 1:18,24).
Quindi, delle potenze “buone” (gli angeli), Cristo è il capo (v. 10); e su quelle malvagie è vincitore.
Riassumendo, Cristo è presentato come:
– la pienezza della Deità
– il Figlio dell’amore del Padre
– il Creatore onnipotente
– il Capo della Chiesa
– il Salvatore morto e risuscitato, vivente in eterno.
E noi credenti, legati a Lui in modo indissolubile, in Lui abbiamo:
– la fine dell’uomo nella carne
– la liberazione dalla condanna e dalla potenza del peccato
– il perdono
– la vita
– la liberazione dalla legge e dai suoi ordinamenti
– l’annientamento della potenza del nemico.
A Lui sia la gloria!
Avvertimenti contro le false dottrine (v. 16-23)
Paolo ritorna ora all’esortazione che aveva già rivolto ai Colossesi (v. 8), segnalando gli errori che li minacciavano. Dopo aver affermato che Cristo, ha “tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce” il documento che conteneva gli ordinamenti della legge, Paolo trae le dovute conseguenze dicendo ai Colossesi:
“Nessuno dunque vi giudichi quanto al mangiare o al bere, o rispetto a feste, a noviluni, a sabati, che sono l’ombra di cose che devono avvenire; ma il corpo è di Cristo. ” (v. 16-17).
I falsi dottori non si limitavano a voler imporre quegli ordinamenti che la legge di Mosè indicava, come la distinzione fra carni pure e impure (vedi Lev. 11); ne aggiungevano altri stabiliti dalla tradizione, come ciò che concerne il “bere”. In realtà, salvo quanto previsto per chi faceva il voto di nazireato, non era prescritto nulla per le bevande.
L’apostolo cita poi le diverse feste stabilite dalla legge mosaica che i falsi dottori volevano imporre ai cristiani; ma tutte queste cose prefiguravano ciò la cui realtà è in Cristo. Conoscendo ormai Cristo, i Colossesi non avevano più bisogno di queste figure.
Anche i Galati si erano lasciati prendere da questi errori: “Voi osservate giorni, mesi, stagioni anni!” (Calati 4:10), e Paolo definisce queste cose “deboli e poveri elementi”.
Questa è una tendenza naturale del cuore umano, alla quale la Chiesa cristiana non è sfuggita: anch’essa ha voluto avere le sue feste e i suoi rituali. Si vive come pare e piace, si segue l’andazzo del mondo… ma quando arrivano queste feste si diventa cristiani per un giorno, e poi si ritorna alla vita abituale; si crede così di aver adempiuto i propri doveri verso Dio.
Il vero cristiano invece possiede Cristo tutti i giorni e in ogni tempo, e questo gli basta. Vive con Cristo, e non ha bisogno di feste speciali per ricordargli che la sua vita è quella di Cristo, nascosta con Lui in Dio. Ha lasciato le “figure e le ombre” perché possiede la realtà.
Notiamo ancora che anche il sabato, come obbligo legale, è messo da parte. E il giorno del riposo ma per il primo uomo; e Cristo, messo a morte dall’uomo, lo ha trascorso nel sepolcro. Lui, il secondo uomo, è risuscitato il primo giorno della settimana, ed è un nostro privilegio, non un obbligo legale, ricordare le sue sofferenze e la sua morte in questo giorno, sul terreno della risurrezione. Cristo ha messo da parte tutto ciò che è del primo uomo.
“Nessuno vi derubi a suo piacere del vostro premio, con un pretesto di umiltà e di culto degli angeli, affidandosi alle proprie visioni, gonfio di vanità nella sua mente carnale. ” (v.18).
L’apostolo ritorna sulle dottrine gnostiche che distruggevano la piena sufficienza di Cristo come Mediatore e mettevano delle creature fra Lui e i credenti, separandoli quindi da Cristo, il Capo, la Testa del corpo. Dicendo “nessuno vi derubi del vostro premio”, Paolo fa allusione al caso di un giudice di gara dei giochi dell’antichità che avesse tolto ingiustamente il premio a chi aveva combattuto o corso per riportarlo.
I falsi dottori avrebbero voluto trascinare i cristiani di Colosse fuori dalla loro vera corsa (Fil. 3:14), per farli tendere verso ciò che li avrebbe distolti da Cristo, privandoli così del premio. Paolo allora getta un grido d’allarme per ricondurli verso Cristo.
Notiamo che quando tratta degli ordinamenti giudaici l’apostolo dice semplicemente “nessuno vi giudichi”, ma quando parla di eresie fatali dice: “nessuno vi derubi”. Qui infatti sono in gioco l’orgoglio dell’uomo e la sua volontà personale i quali s’ingeriscono nelle cose che solo Dio può conoscere. Inoltre, una pretesa umiltà e una falsa spiritualità portavano a rendere a delle creature, per quanto elevate come sono gli angeli, un omaggio di cui non avevano diritto.
Nella sua Parola Dio parla degli angeli soltanto come di servitori pronti a ubbidire ai suoi ordini (vedi Salmo 103:20 e Ebrei 1:14), quindi ben lungi dall’essere oggetti di adorazione. La legge mosaica diceva: “Adora il Signore, il tuo Dio, e a lui solo rendi il tuo culto” (Luca 4:8). Rendere culto agli angeli era quindi opporsi al chiaro insegnamento e alla volontà di Dio. E questo con la pretesa di essere umili, perché si dava l’impressione di abbassarsi davanti a degli esseri superiori, che potevano servire da mediatori fra l’uomo e l’Essere supremo. Sappiamo bene quanto questi fatali errori sono penetrati e hanno preso posto in gran parte della cristianità.
“senza attenersi al Capo, da cui tutto il corpo, ben fornito (o alimentato) e congiunto insieme mediante le giunture ei legamenti, progredisce nella crescita voluta da Dio. ” (v.19).
Oltre a quanto detto prima, come conseguenza della loro falsa umiltà, che nascondeva orgoglio e pensieri carnali, quei falsi dottori rinnegavano di fatto la loro unione con il Capo (o la Testa), Cristo. Non è che respingessero Cristo, ma il loro insegnamento, imponendo gli ordinamenti legali come necessari, lo sminuiva, e orientando i pensieri dei credenti verso altri soggetti diversi da Cristo li separava da Lui.
Se ci atteniamo al Capo, se siamo consapevoli di essere uniti a Lui, se godiamo della comunione con Lui, non metteremo nulla fra Lui e noi. Se siamo con Lui, siamo ben al di sopra delle creature più elevate. Quali privilegi abbiamo! Che nulla si frapponga fra la gloria del Capo e le nostre anime. Non tolleriamo in noi nulla che lo veli ai nostri cuori. Atteniamoci al Capo. Noi siamo uniti a Lui; è un fatto. Manteniamone la coscienza e il godimento!
Ed ecco la conseguenza di questa unione delle membra con la Testa: non uno sviluppo basato sul ragionamento e sull’immaginazione dell’uomo, ma la crescita secondo Dio, che proviene da Lui. I membri uniti alla Testa, Cristo, ricevono da Lui i suoi tesori di vita e di grazia. Questo alimento tiene tutte le membra sulla terra ben unite le une alle altre, e così tutto il corpo prende vigore e cresce. Le diverse parti del corpo non sono isolate, ma sussistono insieme e vivono d’una medesima vita. Dobbiamo tenere ben presente questa realtà del corpo di Cristo, che è uno benché composto da diverse membra, che sono i veri cristiani, che hanno la vita di Cristo. Il Capo, a cui dobbiamo attenerci, ha le sue membra sulla terra, cioè il suo corpo, che cresce secondo Dio. Questa unità della vera Chiesa sussiste, nonostante lo stato deplorevole della cristianità. È una cosa che rimane, anche se la realizzazione pratica e la consapevolezza di questo fatto sono limitate.
“Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché, come se viveste nel mondo, vi lasciate imporre dei precetti, quali: «Non toccare, non assaggiare, non maneggiare» (tutte cose destinate a scomparire con l’uso), secondo i comandamenti e le dottrine degli uomini?” (v. 20-21).
Siamo “morti con Cristo”. E vero che siamo anche risuscitati con Lui e uniti a Lui nel cielo, ma Paolo si basa sul fatto della nostra morte con Cristo per dimostrare l’estraneità degli ordinamenti giudaici rispetto al cristianesimo. Le disposizioni della legge sono valide per qualcuno che “vive” rispetto alle cose di questo mondo e che, per mezzo di esse, voglia entrare in relazione con Dio. Ma il cristiano è morto con Cristo, come vediamo nel cap. 6 dell’epistola ai Romani, ed è morto agli elementi del mondo. Che cos’ha a che fare un morto col mondo? La sua vita non è più diretta dai pensieri e dai princìpi del mondo; perché dunque dovrebbe agire come se vivesse nel mondo, cioè seguendo dei precetti legali?
Questi precetti, che Paolo riassume in poche parole, erano “secondo i comandamenti e le dottrine degli uomini’’. Erano un giogo che si voleva imporre ai cristiani, illudendoli che l’astensione dalle cose che Dio ha creato (vedi 1 Tim. 4:3) li avrebbe condotti alla santità. Prescrizioni meticolose che in realtà distoglievano il pensiero dalle cose del cielo e lo portavano sulle cose che periscono.
Che cosa rimane per chi si assoggetta a questi precetti? Nulla; sono “cose destinate a scomparire con l’uso”. Ci sono stati degli ordinamenti per Israele, l’antico popolo terreno di Dio, ma hanno fatto il loro tempo, hanno trovato la loro fine alla croce; perché farli rivivere per imporli ai cristiani, e persino appesantirli con divieti minuziosi? Sono cose che vengono dall’uomo, che così vuole glorificarsi nella carne.
“Quelle cose hanno, è vero, una parvenza di sapienza per quel tanto che è in esse di culto volontario, di umiltà e di austerità nel trattare il corpo, ma non hanno alcun valore; servono solo a soddisfare la carne. ” (v. 23).
Paolo ammette che in quelle astinenze ci fosse una “parvenza di sapienza”. Questo culto (o devozione) volontario, cioè arbitrario, porta a degli esseri superiori agli uomini, cioè gli angeli, questa pretesa umiltà che si dimostrava nel trattare con austerità il corpo, cioè imponendosi privazioni di ogni tipo, mettevano il devoto in buona luce agli occhi del mondo. Sappiamo bene quanto queste dottrine errate siano penetrate più tardi nel cristianesimo; tutti conoscono gli asceti, gli eremiti, uomini solitari vestiti di abiti semplici, che si lasciavano esaurire per la fame, e che si sono così acquistata una rinomanza di santità. Ma è una “sapienza” apparente; anche se in molti di loro c’è della sincerità, quel tipo di vita erano loro che se lo imponevano, di loro propria volontà; lo facevano quindi per la soddisfazione della propria carne, e non per la gloria di Cristo.
Con la morte di Cristo, il credente è stato posto sotto una “legge perfetta”, che è una “legge di libertà” (Ciac. 1:25). Essa lo libera dal giogo degli ordinamenti legali, ma non certo per usare questa libertà come “un’occasione per vivere secondo la carne” (Gal. 5:13), perché “quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri” (Gal. 5:24). Morti con Cristo, essi vivono per Dio. Morti con Cristo, sono anche risuscitati con Lui, ed è questo l’argomento del prossimo capitolo.
Capitolo 3
La vita di risurrezione in Cristo (v. 1-11)
Dopo aver presentato la dottrina sviluppata anche nel capitolo 6 dell’Epistola ai Romani, cioè che il credente è morto con Cristo, Paolo fa un passo avanti e ci mostra la nostra unione con Cristo nella risurrezione.
“Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra; ” (v. 1-2).
La potenza di risurrezione e di vita che ha fatto risorgere Cristo dai morti passa da Lui alle sue membra (confr. Ef. 1:19; 2:6). Siamo morti con Cristo e morti a tutti gli ordinamenti relativi a una vita di carattere terreno; ma siamo anche risuscitati con Cristo, e in tal modo siamo entrati in una nuova vita che non è della terra, ma è di un’altra sfera, quella celeste.
Ci si potrebbe chiedere: Quanti’è che siamo stati risuscitati con Cristo? La risposta è: Quando Cristo è stato risuscitato. Questo è analogo a quanto avvenuto alla croce: quando Cristo è stato crocifisso èd è morto, noi siamo morti con Lui (Rom. 6:6,11). Il fatto è avvenuto e i risultati sussistono; è chiaro però che tutto ciò vale per la nostra anima solo da quando crediamo. Che conseguenza ha per noi questa nostra risurrezione con Cristo? È evidente che non si risuscita per poi rientrare in una vita alla quale si è morti. Ci troviamo in una vita nuova, quella di Cristo risuscitato. È dunque una vita dal cielo, dall’alto, e nel cielo, dov’è Cristo. Abbiamo già notato che in quest’epistola il credente, benché risuscitato con Cristo, è considerato come qualcuno che è ancora in terra, mentre nell’epistola agli Efesini è visto già seduto nel cielo in Cristo (cap. 2 v. 6). Ma la vita del credente, benché ancora in terra, non gli appartiene, e l’apostolo lo esorta ad agire come uno che è entrato in una nuova vita, e a desiderare e ricercare “le cose di lassù”. Queste cose sono tutti i beni e i privilegi celesti, tesori spirituali di grazia e d’amore che hanno Cristo come centro e sorgente, e che ci appartengono già oggi, in attesa di averne nel cielo il pieno possesso.
L’apostolo ci mostra la gloria del Signore Gesù: Egli è seduto alla destra di Dio. Contemplandolo là, comprendiamo tutto il valore delle cose che sono in alto.
Noi conosciamo solo in parte, ma siamo esortati a crescere nella conoscenza e nella grazia del Signore. Siamo tenuti a cercare, come si fa quando si scava alla ricerca di un tesoro, per acquisire sempre più conoscenza e godimento dei beni celesti. Lassù si trova Cristo, “tutti i tesori della sapienza e della conoscenza” (cap. 2 v. 3) sono là, in Lui.
In certo qual modo, gli insegnamenti dei falsi dottori riportavano i Colossesi alle cose della terra. “Le cose che sono sulla terra” non sono soltanto gli ordinamenti e le pratiche religiose giudaizzanti ma è anche tutto ciò che si riferisce ai pensieri, ai desideri, alle motivazioni, agli affetti del vecchio uomo. Non possiamo unire la ricerca delle cose della terra alla ricerca delle cose di lassù. Solo queste ultime devono occupare il cuore del credente. Anche se vive in questo mondo, il credente ha il cuore in alto; e questo lo preserva, lo consola e lo fortifica. Cercando le cose di lassù si impara a conoscerle, ad apprezzarle e a gustarle.
“Aspirate alle cose di lassù”, cioè pensate ad esse, mettetevi la vostra affezione. “Occupati di queste cose e dédicati interamente ad esse”, diceva Paolo a Timoteo (1 Tim. 4:15) in rapporto al suo ministerio. Lo stesso devono fare tutti i credenti riguardo alle cose del cielo. Com’è attuale questa esortazione per noi, nei nostri giorni di rilassamento e di ricerca sfrenata delle cose terrene!
Avere il cuore in alto, essere occupati di Cristo che è alla destra di Dio, vivere in questa atmosfera pura e quieta del cielo, è una grande grazia. Abbiamo compreso i privilegi che abbiamo? Dove siamo diretti? Dove speriamo di trovarci fra poco? Nel cielo, con Cristo, non è vero? Ebbene, possiamo già vivere là. Il cielo non sarà per noi un luogo estraneo, poiché vi saremo già vissuti e lo avremo già gustato. Così, le cose della terra ci sembreranno essere ciò che sono sempre, cose da nulla, nient’ altro che spazzatura.
“poiché voi moriste, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. ” (v. 3).
In questo versetto abbiamo due grandi motivi per rinunciare alle cose della terra e attaccarci a quelle del cielo: Siamo morti a questa vita della carne alla quale è legata lanostra colpevolezza e la condanna, perché era la vita in cui dominavano il peccato e la potenza del nemico. Ma per la fede noi siamo morti a queste cose in virtù del fatto che Cristo è morto per noi. Questa è la nostra posizione davanti a Dio.
Inoltre abbiamo un’altra vita, la vita di Cristo stesso. Questa vita è là dove Lui è, “nascosta con Cristo in Dio”. È dunque una vita spirituale, celeste, imperitura, è la vita di Cristo. Queste caratteristiche la distinguono nettamente dalle cose della terra. Gli scopi di questa vita devono necessariamente corrispondere alla natura di Cristo, e non possono essere altro che “le cose di lassù”.
Il Signore Gesù, dopo aver compiuto la sua opera, è scomparso dal mondo. Aveva detto: “Il mondo non mi vedrà più” (Giov. 14:19). È stato glorificato in Dio; è entrato in quella gloria divina come l’Uomo che ha adempiuto i piani di Dio, e resterà nascosto agli occhi del mondo fino al giorno della sua manifestazione gloriosa. Ora, la vita che noi possediamo è in Lui nascosta nello stesso luogo in cui Lui si trova. Abbiamo questa vita già sulla terra, ma per mezzo di essa siamo collegati al cielo, a Dio stesso. Come appaiono miserevoli le cose della terra in confronto a questa vita nascosta con Cristo in Dio! E noi possiamo così godere di Cristo e di Dio. Di quale gioia, di quale pace, di quale felicità è ripiena l’anima che ha coscienza della vita che possiede in Cristo!
Così la nostra vita è nascosta, come Cristo. Il mondo non può conoscerla. Non ci conosce come non ha conosciuto Cristo (1 Giov. 3:1). Non può comprendere le motivazioni e le risorse che ci fanno agire, quando camminiamo come morti e risuscitati con Cristo. Per il mondo tutto ciò è una follia, come diceva Pesto a Paolo: “Tu vaneggi” (Atti 26:24). Ma noi godiamo già oggi di questa vita nascosta, nutrendoci della “manna nascosta”, cioè di Cristo stesso (Apoc. 2:17), e poco importa ciò che penserà il mondo.
“Quando Cristo, la vita nostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con lui manifestati in gloria” (v. 4).
Ma questa vita non è destinata ad essere sempre nascosta. Cristo, ora nascosto nel cielo, deve essere manifestato al mondo un giorno; apparirà nello splendore della sua gloria, della gloria di cui il Padre l’ha coronato, circondato dalla gloria degli eserciti celesti (Luca 9:26). E allora noi, che siamo già risuscitati con Lui, che lo possediamo come nostra vita, saremo manifestati con Lui in gloria. Egli stesso ha detto: “Io ho dato loro la gloria che tu hai data a me” (Giov. 17:22). Quelli del mondo, vedendoci in questa gloria di Dio. capiranno dov’era la nostra vita e quali erano i motivi della nostra separazione da loro. La gloria è la sfera propria di questa vita eterna che abbiamo in Cristo, ed è in questa gloria che noi appariremo con Lui.
“Fate dunque morire ciò che in voi è terreno (lett.: mortificate le vostre membra che sono sulla terra): fornicazione,impurità, passioni, desideri cattivi e cupidigia, che è idolatria. Per queste cose viene l’ira di Dio sui figli ribelli (lett.: figli della disubbidienza, vale a dire gli increduli). ” (v. 5-6).
L’apostolo illustra ora le conseguenze pratiche di ciò che precede. Il possesso di una vita che ha come oggetto le cose del cielo ci rende capaci di mortificare le nostre membra che sono sulla terra, che appartengono a un ordine di cose al quale siamo morti. Dobbiamo rinnegarle in pratica, non avere nulla a che fare con esse. Queste membra sono le varie concupiscenze e i loro frutti.
La fornicazione e le impurità sono degli atti. Le passioni, i desideri cattivi e la cupidigia sono dei sentimenti interiori.
Le passioni qui sono le affezioni sregolate che si volgono verso cose illecite, oppure, indipendentemente dal fatto che siano lecite o no, affezioni che si sregolano e degenerano in modo tale che non si riescono più a frenare.
I desideri cattivi sono i desideri del cuore carnale verso delle cose cattive. La cupidigia, in senso generale, è il desiderio di appropriarsi di ciò che appartiene ad altri, usando qualsiasi mezzo pur di riuscirvi. Questo termine si applica tanto al desiderio di impadronirsi di qualcosa che è contrario all’integrità dei costumi (vedi 1 Tess. 4:4-7), quanto al desiderio smodato di possedere del denaro. In una parola, è tutto ciò che il decimo comandamento (Esodo 20:17) comprende. E se il nostro cuore va dietro a ciò che concupisce, si tratta di idolatria, perché sono cose che distolgono da Dio.
In sintesi, quanto detto sopra è “il peccato” insito nella nostra carne e nelle sue manifestazioni. E il peccato attira l’ira di Dio; quelli che sono in questo stato e compiono queste azioni sono “figli della disubbidienza” nei confronti di Dio.
Notiamo per inciso che l’espressione “le vostre membra” che troviamo in Romani 6:13 ha un altro significato: là sono le nostre facoltà intellettuali e le nostre capacità fisiche che, ora che siamo “morti fatti viventi”, possono servire da strumenti alla nostra nuova vita per fare il bene (vedi anche i v. 12 e 19 dello stesso capitolo). Analogamente, il versetto 1 del capitolo 12 di Romani ci esorta “a presentare i nostri corpi in sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; questo è il nostro culto (o servizio) spirituale”.
“E così camminaste un tempo anche voi, quando vivevate in esse. ” (v. 7).
“Camminaste” e “vivevate” non sono una ripetizione dello stesso concetto con parole diverse. Per camminare dobbiamo intendere la condotta, gli atti; il termine vivere esprime il persistere di questi atti, diventati parte integranti della vita.
I Colossesi, in quanto Gentili, un tempo avevano camminato in questa corruzione morale che è uno dei tratti salienti del paganesimo (vedi Rom. 1:29-31) e che purtroppo ritroviamo anche nella cristianità professante (vedi 2 Tim. 3:1-5); era la manifestazione della vita della carne in cui vivevano allora. Ma ora i credenti di Colosse non si trovavano più nella vita in cui queste cose si praticano. Erano morti con Cristo ed erano risuscitati con Lui e introdotti in una nuova vita. Il credente è tenuto a realizzare questa nuova vita nella sua condotta, come troviamo esposto nei versetti seguenti.
“Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira,collera, malignità, calunnia; e non vi escano di bocca parole oscene. Non mentite gli uni agli altri, perché vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue opere…” (v. 8,9).
Bisogna dunque rinnegare, respingere completamente dalla vita di ogni giorno questi atti della propria volontà sregolata. Essi sono incompatibili con la vita di Cristo, che è la nostra vita. Facciamo attenzione e vigiliamo, affinché questi caratteri del vecchio uomo non si manifestino.
Abbiamo forse visto una sola di queste cose nella vita del nostro Salvatore, Lui che non era altro che dolcezza e pazienza? “Io sono mansueto e umile di cuore”, diceva (Mat.11:29). “Non contenderà, né griderà e nessuno udrà la sua voce sulle piazze”, disse di Lui il profeta Isaia (Mat. 12:19). “Oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; soffrendo, non minacciava…” (1 Pietro 2:21-24). Inoltre, Egli era la Verità stessa. Noi dobbiamo seguire le sue orme e, come Lui, camminare nella verità in ogni cosa.
Notiamo che in questi due versetti abbiamo:
1- la malvagità esteriore, che si mostra in quegli atti e parole tipici dell’uomo naturale e a cui il credente deve rinunciare;
2- la menzogna, che è tipica del “vecchio uomo”. Ma il credente, in quanto morto con Cristo, ha spogliato il vecchio uomo e ciò che lo contraddistingue.
“…e vi siete rivestiti del nuovo, che si va rinnovando in conoscenza(*) ad immagine di colui che l’ha creato.” (v. 10).
Da un lato il credente ha spogliato il vecchio uomo -e questo è un fatto – e deve quindi camminare rinnegando tutto ciò che ha a che fare con esso; dall’altro, ha rivestito l’uomo nuovo, risultato della sua risurrezione con Cristo. Nell’epistola ai Romani non troviamo il termine “uomo nuovo” perché tratta della nostra morte con Cristo. In questa epistola ai Colossesi è detto che il credente, in quanto risuscitato con Cristo, ha già rivestito l’uomo nuovo; non è detto che deve rivestirlo. È un fatto acquisito.
L’uomo nuovo ha ciò che l’uomo naturale non possiede, cioè l’intelligenza di Dio e delle sue cose. Egli è rinnovato, è una cosa del tutto nuova; e questo implica che abbia dei caratteri della natura di Dio, moralmente parlando. L’uomo nuovo possiede la luce di Dio, e Dio è per lui la misura del bene e del male. Questo meraviglioso rinnovamento in conoscenza di Dio, della sua natura, di Cristo, della nostra partecipazione morale a questa natura, i giusti dell’Antico Testamento non potevano averla, benché fossero nati di nuovo, e quindi conoscessero le caratteristiche dell’uomo nuovo e avessero pure coscienza di quelle dell’uomo naturale.
L’uomo nuovo “è creato”; è un’opera di Dio nell’anima. È uno stato al quale non si perviene né da se stessi né progressivamente. E creato “ad immagine” di Dio, immagine morale che comprende la santità, la giustizia, la verità. Cristo ne è il modello perfetto. La natura dell’uomo nuovo è Cristo stesso.
“Qui non c’è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto e in tutti. ” (v. 11 ).
Fra gli uomini non convertiti, cioè “nella carne”, si fanno distinzioni di ogni genere: “Greco o Giudeo” (cioè pagani e coloro che avevano conoscenza di Dio in quanto scelti da Dio come suo popolo); “circoncisione o incirconcisione” (cioè privilegi religiosi o no, vedi Ef. 2:11-12); “barbaro o Scita” (cioè quelli che erano fuori dei confini della civiltà greca e latina, fra i quali gli Sciti erano considerati i più arretrati); “schiavo o libero” (cioè la disuguaglianza di condizione sociale).
Tutte queste distinzioni nell’uomo nuovo sono scomparse; dal credente, il vecchio uomo è riconosciuto solo come morto. Nella nuova creazione di Dio, tutti sono uguali;
Cristo è tutto in tutti i credenti. Tutte le barriere che separano gli uomini cadono; il legame comune, quello che unisce tutti i credenti, è Cristo. Egli è tutto per loro e in loro. Grazia preziosa! È Lui solo che possiamo vedere e riconoscere. Invece, le false dottrine che erano portate ai Colossesi mantenevano delle distinzioni fra gli uomini; il vecchio uomo era ancora presente.
La nuova vita nella pratica (v. 12-17)
Notiamo anzitutto che come l’aver “spogliato il vecchio uomo” è il punto di partenza per “mortificare le membra che sono sulla terra”, così il fatto di aver “rivestito l’uomo nuovo” è il punto di partenza per manifestare praticamente le caratteristiche di Cristo. Quindi, l’uomo nuovo non è uno stato pratico del nostro cammino quaggiù, ma è lo stato nel quale possiamo essere riconosciuti da Dio, sia in cielo, sia sulla terra.
Qui comincia l’applicazione pratica del fatto di aver “rivestito il nuovo uomo”. “Rivestito”, perché i caratteri morali dei credenti in Cristo devono essere evidenti, così come un vestito è ben visibile in chi lo indossa. Che cosa servirebbe possederlo se non lo si portasse? E se lo si fa non è per gloriare se stessi, ma per glorificare Cristo, manifestando nella nostra condotta ciò che Egli è, cioè la nostra vita.
“Rivestitevi dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza.” (v. 12).
“Rivestitevi dunque…”. Ogni credente faccia attenzione a questa esortazione che dà inizio al riassunto più completo della vita cristiana pratica che possiamo trovare nella Scrittura.
“Eletti di Dio, santi ed amati”, tali sono i titoli dati ai credenti in Cristo. Il primo, “eletti di Dio”, fa riferimento al pensiero di grazia di Dio, fin dall’eternità, a nostro riguardo. Il secondo, “santi”, è in relazione alla nostra messa a parte per manifestare il carattere che si addice alla natura di Dio, come dei “vasi” purificati per il suo servizio. Infine, “amati” (o diletti), perché, in quanto portiamo i caratteri suddetti, saremo la delizia di Dio. Come ha scritto un fratello, “vedete a quale altezza si pone l’apostolo e con quale tenera affezione ci esorta! Invece di far pressione su di noi con dei comandamenti e delle leggi, ci attira col ricordo della grazia di Dio, per ottenere dei frutti dalla nostra fede, liberamente e gioiosamente”.
“Rivestitevi… con sentimenti di misericordia, di benevolenza ecc…”. Il testo originale usa un’espressione molto forte: viscere di misericordia, che ci fa capire che non si tratta di essere misericordiosi soltanto in alcune occasioni, ma che dobbiamo possedere questa caratteristica nel più profondo del nostro essere interiore, e che esso deve emanare.
La misericordia è la compassione che si prova per i deboli, i sofferenti, gl’infelici, e persino per i colpevoli. Noi abbiamo avuto bisogno della misericordia divina, e ne abbiamo bisogno continuamente. È la compassione infinita di Dio verso dei peccatori colpevoli e perduti che l’ha spinto ad inviare il suo Figlio, per salvarli e introdurli nella luce.
Il nostro adorabile Salvatore, quando è stato sulla terra, ha mostrato sempre questa misericordia quando si chinava con amore verso tutti quelli che soffrivano, sia nel corpo che nell’anima, a causa del peccato; e quante volte lo vediamo “mosso a compassione” ! Anche la nostra vita, che abbiamo da Lui, dev’essere permeata degli stessi sentimenti. Del resto, le altre cose che sono raccomandate ai santi (benevolenza, umiltà, mansuetudine, pazienza) devono uscire dal fondo dei nostri cuori.
“Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha dì che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi. ” (v. 13).
La sopportazione è legata al nostro stato attuale di debolezza: ignoranza, errori, diversità di carattere, di punti di vista, di abitudini ecc… Sotto tutti questi aspetti, dobbiamo sopportare gli altri, con uno spirito di pazienza, come Cristo ha fatto tante volte verso i suoi discepoli. Qui non si tratta del male morale; questo non dobbiamo sopportarlo, ma riprenderlo. Ma può capitare che qualcuno abbia agito male verso noi e che abbiamo quindi un motivo fondato per lamentarci; allora dobbiamo perdonare, senza serbare alcun risentimento. Cristo non ci ha forse perdonati così?
“AI di sopra di tutte queste cose rivestitevi dell’amore che è il vincolo della perfezione. ” (v. 14).
Si direbbe che chi pratica tutte queste qualità abbia già raggiunto la perfezione morale. Ma Paolo, in questo versetto, aggiunge a tutto ciò un altra virtù: l’amore, che è la natura stessa di Dio. Esso imprime un sigillo divino a tutte le qualità enumerate, le riunisce e le mantiene unite come in un fascio, animandole con la sua vita e il suo calore. Non è forse proprio l’amore che dominò in Cristo e diede alla sua vita quella perfetta unità, quell’accordo e quell’armonia perfetta che solo in Lui possiamo trovare? E non era proprio l’amore la sorgente di tutto questo?
Notiamo ancora che potremmo avere queste qualità in relazione alla consapevolezza che avremo della nostra posizione benedetta davanti a Dio: “eletti di Dio, santi ed amati”. E nel sentimento di questo meraviglioso favore che la grazia si sviluppa nei nostri cuori. Analogamente, agli Efesini è detto: “Siate dunque imitatori di Dio perché siete figli da lui amati” (5:1).
È possibile che in qualcuno si trovino delle qualità naturali simili a quelle indicate ai versetti 12 e 13, ma è raro trovarle riunite come quando l’amore divino è il legame che ne fa un tutto unico. Sovente, poi, esse degenerano in difetti: la dolcezza può diventare lassismo; la bontà debolezza; la sopportazione e la pazienza andranno a scapito della santità e della verità. Invece, nella vita divina troviamo l’energia d’amore che proviene dalla comunione con Dio e che mantiene i caratteri di Dio. E proprio questo che manca alle inclinazioni naturali.
Solo l’amore divino può dare il discernimento per una giusta applicazione di queste qualità. E Dio stesso che agisce nella natura che ci ha comunicato, poiché “chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio rimane in lui” (1 Giov. 4:16). Notiamo che in 2 Pietro 1:7 siamo esortati ad aggiungere “all’affetto fraterno l’amore”, perché anche nel credente, se non c’è coscienza della presenza di Dio, se non c’è comunione con Dio nell’amore, gli affetti cristiani possono trasformarsi in simpatie umane che non ci mettono al riparo dal male ma possono indurci a scusarlo e a sopportarlo.
Per concludere, la perfezione è l’insieme armonioso di tutte le qualità, ma questo insieme esiste unicamente per mezzo dell’amore. Come tutto ciò è stato realizzato perfettamente in Cristo! Egli è la nostra vita, ed è nostro privilegio “camminare com’egli camminò” (1 Giov. 2:6).
“E la pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati per essere un solo colpo, regni nei vostri cuori; e siate riconoscenti . ” (v. 15).
Qui non c’è un’esortazione, ma un augurio. La “pace di Cristo” è quella pace dolce e ineffabile di cui Egli godeva e che non poteva essere turbata, benché fosse sottoposta a ogni genere di prova, perché Cristo camminava con Dio. “Io vi do la mia pace”, disse Gesù ai suoi (Giov. 14:27). Il credente che segue il sentiero dove Gesù ha camminato, godrà di questa pace; ne avrà il cuore colmo, tutta la sua vita ne porterà l’impronta.
Che dolce riposo in questo mondo agitato, in mezzo a tanti turbamenti! A questo Dio – il Dio di pace – ci ha chiamati. Il Salvatore non vuole che il nostro cuore sia turbato, ma che vi regni la sua pace.
Nelseguito del versetto Paolo parla anche di “essere un solo corpo”, cioè realizzare insieme questa unità nella pace di Cristo. Questa pace, se regnerà nei nostri cuori, influenzerà anche le nostre relazioni fraterne ed escluderà ogni asprezza, ogni animosità.
“E siate riconoscenti”. L’anima che gode della pace di Cristo e di tutte le grazie che derivano dall’amore di Dio, e che è consapevole dell’attività costante di questo amore, è colma di riconoscenza,x trabocca di ringraziamenti. Perché dunque l’esortazione? È perché siamo inclini a dimenticare, e non sempre siamo consapevoli di ciò che Dio è per noi. Paolo quindi ci ricorda che noi riceviamo tutto da Lui.
Non dobbiamo dimenticare di essere riconoscenti per ciò che riceviamo dal Signore tramite i nostri fratelli o anche da altre persone animate da buone intenzioni. Anche per le piccole cose, per un semplice servizio, per una buona parola, abbiamo da essere riconoscenti. Dio apprezza anche gli spiccioli della vedova (Luca 21:1-4) e il dono d’un bicchiere d’acqua fresca (Matteo 10:42). La riconoscenza è uno dei tratti salienti del cristiano, mentre l’ingratitudine è tipica dell’incredulo.
“La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente; ” (v. 16).
Al cristiano, perché possa godere di Dio ed essere utile agli altri per mezzo dell’amore, è necessaria la “parola di Cristo”, così chiamata perché tutto, in questa epistola, è messo in rapporto a Cristo. La parola di Cristo è ciò che nella Sacra Scrittura tratta in particolare di Lui. Il credente, “l’uomo nuovo”, ha l’intelligenza illuminata dallo Spirito Santo chegli fa trovare Cristo nell’Antico Testamento, in qualche figura o nelle profezie. A maggior ragione il cristiano trova Cristo negli evangeli o negli altri scritti del Nuovo Testamento.
Siamo dunque esortati a far abitare abbondantemente questa parola in noi, affinché il nostro cuore possieda mito ciò che nella Scrittura è l’espressione di Cristo. Essa è il nutrimento come pure la gioia dell’anima; è ciò che ci fa crescere e ci fortifica per agire secondo Dio. Il “serbare la sua parola” (Apoc. 3:8) comporta l’approvazione del Signore. Qui l’esortazione va oltre: non solo serbarla, osservarla, ma farla “abitare” in noi, che è un’espressione più intima e profonda; è la parola nascosta nel cuore (Salmo 119:11), che vi abita come un ospite santo e benedetto, la cui influenza si fa sentire dappertutto, al nostro interno e nella vita. “Abbondantemente in voi” significa che la parola di Cristo deve essere presente in noi con tutta l’abbondanza dei suoi divini insegnamenti, per consolare e rallegrare il cuore in ogni circostanza, facendoci conoscere Cristo, e Dio per mezzo di Lui, sempre di più e meglio, in tutto il suo amore, la sua grazia, le sue compassioni, la sua piena sufficienza in tutto e per tutto. La parola di Cristo risponde ai bisogni dell’uomo nuovo, lo forma e lo dirige secondo Dio.
“Invoi” significa anche “fra voi”; che nelle nostre relazioni fraterne, questa parola occupi pienamente il posto che le spetta! Negli incontri, nelle riunioni dell’assemblea, sia essa a dominare e regolare tutto.
“istruitevi ed esortatevi gli uni gli altri con ogni sapienza;’’ (v. 16).
Se la parola di Cristo abita effettivamente in noi, siamo resi capaci di istruirci ed esortarci a vicenda con sapienza, come faceva Paolo con i Colossesi (cap. 1 v. 28). I credenti hanno Io stesso compito. La “parola di Cristo” ci conduce alla sorgente stessa della sapienza, a Lui, che è la Sapienza non creata, eterna.
Questa sapienza, ben diversa da quella del mondo perché “viene dall’alto, anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia” (Ciac. 3:17). Essa regola e dirige tutta la vita cristiana. È con questa sapienza che ci si istruisce e ci si esorta gli uni gli altri.
Ciascuno, quando ha la vita divina attiva in sé, può istruire il proprio fratello. L’insegnamento non cade dall’alto di una cattedra, né necessariamente dalla bocca di un “dottore”; i credenti che si nutrono della Parola e che vi trovano il loro piacere, devono essere in grado di comunicare agli altri ciò che hanno imparato nella comunione col Signore. Ma questo presuppone di non essere troppo assorbiti dalle occupazioni della vita e dalla preoccupazione delle cose terrene, perché altrimenti la Parola è come relegata in un angolo remoto dell’anima. Se essa non ha istruito me, come potrei io insegnare agli altri? Era il caso degli Ebrei che Dio giustamente rimproverava (cap. 5 v. 11-14).
Anche l’esortazione reciproca, cioè l’avvertire i nostri fratelli, è un dovere, ma dev’essere adempiuto nell’amore. Quanto abbiamo bisogno della vera sapienza! Essa permette di discernere quando è necessario l’avvertimento e ci mostra come farlo efficacemente. Per questo, è necessario vivere ben vicini al Signore. Non è bene riprendere con durezza, perché non ne abbiamo il diritto, e un tale atteggiamento provoca delle ferite a volte irreparabili.
L’esortazione tende non soltanto a prevenire un pericolo o a far uscire da una cattiva strada, ma soprattutto ad incoraggiare, evitando che colui che è debole si lasci abbattere, perda la fiducia nel Signore e presti così il fianco al nemico. Possiamo anche esortarci a rimanere saldi e a camminare con gioia nei sentieri di Dio, malgrado gli ostacoli e l’opposizione del mondo.
Troviamo molti esempi di avvertimenti, incoraggiamenti ed esortazioni nelle parole del Signore e negli scritti degli apostoli. Dobbiamo ricordarli gli uni gli altri. Ma ricordiamoci che è l’esperienza, acquisita alla presenza di Dio, del suo amore e delle sue cure sollecite e costanti verso noi, che ci rendono capaci di esortare. “Per la tua luce (o: nella tua luce) noi vediamo la luce” (Salmo 36:9).
“cantando di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia, salmi, inni e cantici spirituali.” (v. 16).
I sentimenti del cuore prodotti dalla conoscenza e dal godimento dell’amore di Cristo e della comunione con Dio si esprimono con questi canti, che diventano così un mezzo d’insegnamento e d’esortazione. Se proviamo una certa difficoltà a capire questo, non è forse perché realizziamo debolmente la presenza di Cristo in noi, e quindi abbiamo poca gioia e poca lode nei nostri cuori? Quando l’eccellenza del Salvatore e il suo amore riempiono veramente l’anima, la lode sorge spontanea e abbondante. Anche nell’assemblea, la preghiera, il canto e i ringraziamenti, prodotti dallo Spirito Santo ed espressi con intelligenza spirituale, sono destinati a edificare (1 Cor. 14:14-16).
Paolo dice di cantare “di cuore a Dio, sotto l’impulso della grazia”. Dobbiamo quindi cercare di coltivare queste buone e sante disposizioni di cuori che conoscono la grazia, e nei quali essa risiede ed agisce. La felicità di cui la nostra anima è ricolma si comunica agli altri, e così si è all’unisono per cantare a Dio, per lodarlo e benedirlo. Sono rari i cristiani felici, in cui vi è costantemente un canto di gioia! Essere “sempre allegri” (1 Tess. 5:16) è un nostro privilegio, ed è una delle cose che glorificano il Signore.
Ascoltiamo l’esortazione dell’apostolo, e i nostri cuori siano con maggior intensità e costanza occupati di Colui del quale canteremo nell’eternità, con un nuovo cantico, l’amore, le glorie e le perfezioni!
“Qualunque cosa facciate, in parole o in opere, fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù ringraziando Dio Padre per mezzo di lui.” (v. 17).
Il vero cristiano non fa nulla senza Cristo, ma fa tutto alla sua presenza e nel suo nome, e questo dà un’impronta alla sua vita di cristiano. Anche compiendo le cose più abituali,come mangiare e bere, il cuore è occupato di Lui. Egli agisce e parla nel suo nome, e questo lo preserva da intemperanze e da eccessi. È così anche per noi? La nostra vita ha l’impronta di Cristo? È un privilegio e una gloria sventolare la sua bandiera! Se non facciamo così, se lo scopo e il movente della nostra vita non è Lui, significa che lo è la nostra carne. Non c’è via di mezzo: o Cristo o la carne. 9 “Fate ogni cosa nel nome del Signore Gesù”. Questo è decisivo quando si tratta di valutare che cosa si può o non si deve fare. Il criterio non è “c’è del bene o del male in questo o in quello?”, ma “posso associarvi il nome del Signore Gesù, cioè Egli stesso?” Vi sono delle situazioni in cui non vi sarebbe nulla di male, ma nelle quali il cristiano fedele non potrebbe trovarsi nel nome del Signore Gesù.
Quando lo scopo della nostra vita è il Signore, quando si realizza che Egli vive in noi, in modo che tutto si fa in vista di Lui, allora, nella coscienza della sua approvazione e nella gioia della sua presenza, si “ringrazia Dio Padre per mezzo di lui”, perché non c’è nulla che turba la relazione col nostro Padre. Questa riconoscenza per il fatto di essere stati liberati, ricevuti e introdotti nel regno del Figlio del suo amore, questi ringraziamenti per la vita di Cristo che ci è stata comunicata e della quale viviamo, salgono a Dio Padre per mezzo del Signore Gesù che glieli presenta con tutto il profumo della sua Persona adorabile.
Doveri cristiani nella vita nuova (v. 18-25)
Dopo questi principi generati e di grande importanza per la vita cristiana, Paolo insegna i doveri dei fedeli nelle varie relazioni in cui si trovano: in primo luogo, nelle relazioni naturali, cioè nella famiglia, poi nelle relazioni esterne.
Le relazioni nell’ambito della famiglia sono stabilite da Dio, come vediamo fin dall’inizio. Il Signore stesso (vedere Mat. 15:4-6 e 19:1-12) e lo Spirito Santo attraverso gli scritti degli apostoli (vedere le esortazioni di Efesini cap. 5 e 6) sanciscono questi principi, quindi i cristiani devono comportarsi in maniera adeguata. Notiamo che in queste relazioni è introdotto dappertutto Gesù Cristo il Signore, cioè Colui che ha l’autorità e che è la sorgente di ogni autorità.
Nella famiglia cristiana Egli è dunque presente come Signore. I doveri e i compiti devono essere svolti come in sua presenza, per piacere a Lui, ma riconoscendo la sua autorità,perché essere cristiani è confessare che Cristo è il Signore. Questa autorità è il fondamento di tutti gli insegnamenti rivolti a chi è in posizione di subordinazione.
Se le mogli devono essere sottomesse, è perché “si conviene nel Signore” (v. 18); se i figli devono ubbidire, è perché “questo è gradito al Signore” (v. 20). Quale alta motivazione per comportarsi secondo questi insegnamenti è “il Signore”, Colui che ci ha acquistati perché fossimo suoi! Pensateci, mogli cristiane, e voi figli allevati sotto gl’insegnamenti del Signore.
I nostri doveri sono prima di tutto verso il Signore, indipendentemente da come gli altri si comportano. Ciascuno è responsabile per se stesso verso il Signore.
“Mogli, siate sottomesse ai vostri mariti, come si conviene nel Signore. ” (v. 18).
Alle mogli è richiesto di essere sottomesse ai loro mariti. “E marito infatti è il capo della moglie” (Ef. 5:23), e l’apostolo Paolo ce ne illustra i motivi (Ef. 5:22-24; 1 Tim. 2:11-15).Questa sottomissione della moglie non implica nulla di servile. Ilfatto che in molte società la donna sia ridotta al livello di una schiava, è una conseguenza del peccato e dell’egoismo umano. La donna è la compagna e l’aiuto adatto all’uomo (Gen.2:8-10). Ma la sua posizione è di sottomissione, e tutto ciò che tende a dare alla donna una posizione di uguaglianza o di superiorità nei ruoli che competono all’uomo è contrario ai pensieri di Dio.
È chiaro che dal punto di vista spirituale, in Cristo, non c’è né maschio né femmina (Gal. 3:28). Però la sottomissione della donna al marito “si conviene”. Le mogli cristiane devono attenersi a quest’ordine divino.
“Mariti, amate le vostre mogli, e non v’inasprite conto di loro. ” (v. 19).
Quanto al marito, è raccomandato particolarmente l’amore verso la propria moglie, quella tenerezza di cuore, quell’amabilità, quella pazienza, quei riguardi (1 Pietro 3:7) strettamente connessi all’amore e che rendono più facile la sottomissione da parte della moglie. Fra due coniugi animati da questi sentimenti tutto sarà in armonia, e la pace regnerà. Qui l’apostolo non dà né dei motivi né degli esempi, come invece fa scrivendo su questo argomento agli Efesini (cap. 5 v. 25-33), ma ricorda semplicemente che questo amore, caratteristico dalla vita di Dio, dev’essere esercitato specialmente nelle relazioni coniugali.
Notiamo il seguito dell’esortazione: “Non v’inasprite contro di loro”. La donna ha un bisogno particolare di affetto, e il suo cuore sa ricambiarlo. Ma, per natura, è fragile, “un vaso più delicato” (1 Pietro 3:7); più fragile non soltanto nel corpo, che è esposto a sofferenze che possono influire negativamente sull’umore, ma soprattutto nei sentimenti e nella sensibilità.
Mariti, fate dunque attenzione a non inasprirvi contro la vostra moglie; trattate, sopportate e sostenete con amore questo vaso più fragile. Badate a tutto ciò che potrebbe urtarlo e danneggiarlo. Togliete ogni asprezza dalle parole, anche se aveste qualche motivo per lamentarvi.
“Figli, ubbidite ai vostri genitori in ogni cosa, poiché questo è gradito al Signore. ” (v. 20).
I figli devono essere ubbidienti. Nella famiglia cristiana,essi sono allevati nella disciplina e sotto gl’insegnamenti del Signore. Ma anche se il cristianesimo non fosse praticato, l’obbligo dell’ubbidienza dei figli ai genitori sussiste comunque. Anche gli increduli lo riconoscono ancora. La disubbidienza ai genitori è uno degli aspetti della corruzione nel paganesimo (Romani 1:30), e lo ritroviamo nella corruzione che pervade il cristianesimo (2 Tim. 3:2) in questi ultimi tempi.
Ai nostri giorni, infatti, constatiamo con tristezza il disprezzo per ogni tipo di autorità, e per questo la società si dissolve e va in rovina. Ragione di più perché nella famiglia veramente cristiana, in cui il Signore ha il posto che gli è dovuto, il principio dell’ubbidienza sia fermamente mantenuto e richiesto ai figli fin dai primi mesi di vita, perché la tendenza all’indipendenza si manifeste ranno molto presto.
Nelle famiglie dove c’è una vita cristiana reale, dove si prega, si legge la Parola, si vive separati dal mondo, il bambino imparerà che l’ubbidienza verso i genitori è imposta dal Signore. Vedrà nei suoi genitori l’amore per Cristo e la sottomissione alla sua Parola, e desidererà fare anche lui ciò che è gradito al Signore. L’esempio supremo lo troviamo in Gesù che, tornato a Nazaret, benché fosse Figlio di Dio era sottomesso a Giuseppe e Maria (Luca 2:51). I figli che camminano nell’ubbidienza hanno una vita felice che servirà anche da preparazione per il loro futuro.
L’ubbidienza non è dovuta solo ai padri, ma anche alle madri: “Ubbidite ai vostri genitori”. Il padre dovrà far sì che alla madre siano resi lo stesso rispetto e la stessa ubbidienza. È bene leggere alcuni passi dell’Antico Testamento a questo riguardo: Lev. 19:3; Deut. 21:18-21; Prov. 6:20, 23:22,30:17.
Notiamo ancora che l’ubbidienza è “in ogni cosa”. Non solo nelle cose che piacciono, ma anche in quelle per cui non c’è alcun gusto ad ubbidire. Forse il figlio ubbidirà volentieri nelle cose che sono in armonia coi propri desideri e farà resistenza in altre. Talvolta vorrà mettere in discussione il perché, l’opportunità di ciò che gli è ordinato o proibito. Dio lo chiama semplicemente a ubbidire in tutto; è la sua responsabilità come figlio. I padri devono insegnare loro questa ubbidienza e spiegare loro, dove è possibile, i motivi delle loro proibizioni; e i figli sono tenuti ad ubbidire. L’ipotesi che possa essere ordinato ai figli qualcosa che vada contro coscienza o contro la volontà di Dio non è prevista qui, anche se potrebbe avvenire, perché l’apostolo tratta dell’ordine normale nella famiglia cristiana.
Il testo originale greco dice: “Questo è gradito nel Signore” (naturalmente è anche vero che l’ubbidienza è gradita al Signore). Questo è un incoraggiamento per i figli ad essere ubbidienti. La posizione dei figli, come pure dei genitori, nella famiglia cristiana è nel Signore. L’ubbidienza ai genitori è secondo i suoi pensieri; ecco perché devono farlo. Disubbidire ai genitori significa uscire dalla relazione benedetta che unisce genitori e figli nel Signore. Come si può essere felici al di fuori del Signore, privi della sua approvazione, lontani dalla sua benedizione? Invece, camminando nell’ubbidienza, il figlio avrà la coscienza libera da pesi, sentirà che ciò è gradevole e il suo cuore si rallegrerà, come tutto ciò che è fatto nel Signore e per piacere a Lui.
“Padri, non irritate i vostri figli, affinché non si scoraggino. ” (v. 21 ).
In questo contesto non poteva mancare l’esortazione ai padri. Essi sono tenuti a istruire i figli, a dirigerli, a riprenderli, anche a castigarli se necessario (Ef. 6:4; Gen. 18:19; 1 Sam. 2:23,24; Prov. 13:24; 19:18; 22:15; 23:13,14). In quest’epistola non troviamo questi precetti, ma l’autore mette in rilievo lo spirito col quale i padri devono applicarli: uno spirito di saggezza e d’amore, simile a quello col quale Dio, nostro Padre, tratta noi.
Una severità eccessiva, non ponderata, che non distingua le colpe secondo la loro gravità, che non tenga conto del carattere del figlio, del temperamento più o meno sensibile, oppure eccessi di severità mescolati con eccessi d’indulgenza, o ancora castighi inflitti con ira, come se ci fosse un’ingiuria personale da vendicare e non una giusta disciplina da esercitare per il bene del figlio, sono tutte cose che lo irritano. Un figlio, anche se viene castigato, non deve essere messo nelle condizioni di dubitare dell’amore dei genitori. Se è irritato da questi errori del padre, il suo affetto si raffredderà; se stava compiendo degli sforzi per soddisfare i genitori, si scoraggerà e sarà portato a cercare fuori, nel mondo, quella felicità che non trova nella cerchia della famiglia.
Nell’educazione cristiana deve prevalere un amore vero, senza debolezza ma tenero, come si addice a un bambino in cui tutto è in formazione, e che ha bisogno di cure e soprattutto di calore da parte di quelli che si occupano di lui. Non è forse così che agisce Dio Padre, di cui noi dobbiamo essere imitatori? Se ci castiga, è per il nostro profitto ed è per farci partecipare alla sua santità.
Padri cristiani, per allevare i vostri figli dovete mostrare nello stesso tempo tenerezza, discernimento, saggezza, fermezza. Come adempiere un compito così nobile e importante, ma anche così difficile? Essenzialmente vivendo vicini a Dio, vicini a Cristo, in comunione con Lui, per mantenere la calma e l’equilibrio necessari all’esercizio del vostro dovere paterno.
Notiamo che, mentre i figli sono esortati a ubbidire a tutti e due i genitori, qui l’esortazione è rivolta solo ai padri. Forse perché nei cuori delle madri c’è una tenerezza per i figli che rende superflua una tale esortazione. Ma le madri cristiane tengano presente che questa tenerezza non deve mai diventare un’indulgenza che le porti a giustificare o a nascondere le colpe dei figli.
La famiglia cristiana che vive in quest’atmosfera di amore, di pace e di tenerezza, in cui il Signore regna con tutta la sua grazia, è una famiglia felice, ed è una potente testimonianza in mezzo al mondo.
“Servi, ubbidite in ogni cosa ai vostri padroni secondo la carne; non servendoli solo quando vi vedono, come per piacere agli uomini, ma con semplicità di cuore, temendo il Signore. ” (v 22).
Il testo originale parla di “schiavi”. La schiavitù non proveniva da un’istituzione divina primordiale, ma è la conseguenza dell’entrata del peccato nel mondo. I poveri schiavi erano proprietà dei loro padroni; ma quelli fra loro che appartenevano a Cristo erano, spiritualmente, i “riscattati” del Signore (1 Cor. 7:23). Se erano messi nelle condizioni di ottenere la libertà, potevano approfittarne; in caso contrario, non dovevano disperarsi per la loro condizione, perché questa poteva essere un’occasione per servire il Signore (cioè il vero Padrone) Gesù Cristo.
L’apostolo incoraggia e consola gli schiavi o i servi credenti elevandone i pensieri dai loro “padroni secondo la carne” al loro Signore o Padrone secondo lo Spirito. Così tutte le responsabilità e le motivazioni del loro comportamento cambiavano. Dietro ai padroni, potevano vedere il Signore, e, avendo nel cuore il suo “timore” – timore nell’amore – dovevano ubbidire in ogni cosa ai loro padroni. È perché temevano quel Padrone invisibile, che sonda i pensieri e i cuori, che dovevano servire i loro padroni, non solo in loro presenza, ma in ogni circostanza, con semplicità, senza calcoli; non cercando di piacere agli uomini per trame qualche vantaggio, ma per piacere al Signore. Che movente elevato e potente per regolare i comportamenti nelle situazioni della vita!
“Qualunque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che dal Signore riceverete per ricompensa l’eredità. Servite Cristo, il Signore!”(v. 23-24).
Agendo per il Signore e non in vista degli uomini, i servi cristiani potevano fare tutto di buon animo, anche se il loro servizio era faticoso, duro e talvolta ripugnante. Dovevano sottomettersi senza mormorare, senza discutere, dicendosi: Lo faccio per il Signore che m’ha amato, mi ha riscattato e a cui appartengo. Sono le caratteristiche della vera ubbidienza. H movente è il Signore e il suo timore.
Ecco ora due motivi per incoraggiarli in questo cammino d’ubbidienza. In primo luogo, da parte del mondo non avevano diritto ad alcuna ricompensa. Ciò che facevano erano obbligati a farlo. Inoltre, non avevano diritto di ereditare nulla; il loro corpo, il loro tempo, il loro guadagno, tutto apparteneva al padrone. Ma, per quanto riguardava il loro Padrone celeste, avrebbero ricevuto una ricompensa e un’eredità. L’eredità che tutti i riscattati condivideranno con Cristo è considerata, per loro, come una ricompensa per il loro pesante stato di assoggettamento. Obbedendo ai padroni, essi servivano Cristo, il Signore, che certamente non avrebbe dimenticato di ricompensare la fede, la pazienza e la fedeltà che essi dimostravano.
“Infatti chi agisce ingiustamente riceverà la retribuzione del torto che avrà fatto, senza che vi siano favoritismi. ” (v.25).
Ma anche ai servi è ricordato l’esistenza del governo di Dio come motivo dell’ubbidienza. Il primo motivo, Cristo il Signore (v. 24), faceva appello al loro cuore; questo, alla loro coscienza: “Chi agisce ingiustamente riceverà la retribuzione del torto fatto”, cioè il castigo per la sua ingiustizia; e ne subirà le conseguenze.
Davanti a Dio, non ci sono favoritismi. Egli si mostra pieno di tenerezza e di compassione verso quelli che sono in una condizione infelice, bassa e disprezzata, ma questa condizione non può indurlo a chiudere un occhio di fronte a un atto di ingiustizia, chiunque sia a commetterlo. Essere poveri, miseri, o addirittura schiavi, non giustifica l’ingiustizia. Da questo punto di vista, tutti sono uguali davanti al santo governo di Dio. Anche i servi dovevano ricordarsene.
Notiamo infine che queste esortazioni rivolte da Paolo ai servi contengono i princìpi e le linee di condotta che ogni credente che ha dei superiori è tenuto ad osservare (vedere anche 1 Pietro 2:18-20). Così non deve mancare il rispetto e la dovuta sottomissione verso l’insegnante, il capo ufficio, e chiunque altro occupi una posizione di autorità.
(*) Altre traduzioni hanno “È rinnovato in conoscenza ”.
Capitolo 4
“Padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo,sapendo che anche voi avete un padrone nel cielo. ” (v. 1 ).
Paolo ora si rivolge ai padroni, raccomandando loro di essere giusti ed equi. La posizione d’autorità in cui si trovavano, pressoché senza limiti in quell’epoca, poteva facilmente indurli ad esercitare i loro poteri in modo capriccioso ed arbitrario, come avveniva spesso fra i pagani, che non avevano alcun freno.
I padroni cristiani, invece, avevano un freno molto potente. Anch’essi avevano un Padrone sovrano nei cieli, dal quale dipendevano e al quale dovevano sottomettersi. Il Signore Gesù chiedeva loro di praticare la giustizia e l’equità nei confronti dei loro schiavi, i quali, se erano cristiani, erano anche loro fratelli (vedi Epistola a Filemone v. 16).
Gli schiavi, benché tali, erano delle persone umane con dei bisogni come tutti gli altri: di cuore, di coscienza e di salute. Sotto ogni aspetto i padroni dovevano concedere ciò che era giusto ed equo. Anche gli schiavi avevano dei limiti di forza e di capacità: i padroni dovevano badare a non superarli. Avevano bisogno di pazienza, di dolcezza e d’indulgenza, come pure d’incoraggiamento; era giusto che i padroni rispondessero a tali bisogni. E se le esortazioni dell’apostolo agli schiavi sono attuali per i servitori e i dipendenti dei nostri giorni, le prescrizioni di padroni hanno certamente lo stesso valore e la stessa attualità.
Raccomandazioni generali (v. 2-6)
Dopo i precetti relativi alle varie condizioni familiari e sociali in cui i credenti possono trovarsi, l’apostolo dà loro delle importanti esortazioni di carattere generale. Anzitutto, alla preghiera, alla vigilanza e ai rendimenti di grazie.
“Perseverate nella preghiera, vegliando in essa con rendimento di grazie. ” (v. 2)
La preghiera presuppone la comunione di pensiero con Dio, e nelle stesso tempo contribuisce a mantenere questa comunione. Tramite essa, siamo in rapporto intimo e felice con il Padre; ci avviciniamo con gioia a lui per esporgli i bisogni della nostra anima. Questo presuppone anche uno spirito di dipendenza; ci aspettiamo da lui ogni cosa. Possiamo andare con fiducia a quel Dio pieno d’amore che ha voluto entrare in relazione con noi. Gli parliamo come un figlio parla a suo padre; Dio risponde, e di qui nascono i rendimenti di grazie. Comunione, vicinanza a Dio, dipendenza e fiducia, ecco ciò che contraddistingue la vera preghiera.
Ma l’apostolo vuole che perseveriamo nella preghiera. I nostri bisogni sono continui, la nostra debolezza è sempre la stessa, il male ci circonda, il nemico è sempre presente: quanti motivi per perseverare nella preghiera e non privarci di quest’arma potente che fa appello a Dio!
“Vegliando in essa”: se manca la vigilanza, non si prega, si è indipendenti. Siamo quindi esortati a rimanere svegli pregando. La sentinella veglia per non lasciarsi sorprendere; se c’è pericolo, grida per chiedere soccorso. Anche il cristiano fa così. Se siamo svegli di cuore e di spirito mentre presentiamo le nostre richieste, sapremo che cosa dobbiamo dire e che cosa diciamo; le nostre preghiere saranno delle vere domande e non delle formule più o meno esattamente recitate, e nemmeno delle esposizioni di dottrine o delle ripetizioni banali. Parleremo veramente a Dio.
Alla preghiera perseverante si aggiungono i rendimenti di grazie. Sapendo che Dio ascolta e non abbandona i suoi che pregano, e che risponde alle loro preghiere, abbiamo il cuore pieno di rendimenti di grazie per tutto ciò che ha fatto e fa ancora per noi. Non è forse un grande motivo di riconoscenza poterci avvicinare a lui per esporgli le nostre richieste? (leggere Filemone v. 4). L’amore di Dio spande su noi le sue grazie preziose, e il nostro cuore risponde benedicendo.
“Pregate nello stesso tempo anche per noi, affinché Dio ci apra una porta per la parola, perché possiamo annunziare il mistero di Cristo, a motivi del quale mi trovo prigioniero, e che io lo faccia conoscere, parlandone come devo” (v. 3-4).
Ma la preghiera non deve limitarsi ai nostri bisogni personali, anzi, presenta a Dio anche i bisogni degli altri. Ci devono interessare specialmente i servitori del Signore nel difficile compito che svolgono sia nel mondo ostile che nelle chiese dei santi. L’apostolo Paolo sentiva profondamente quanto gli fossero necessari questa collaborazione e questo “combattimento” dei riscattati con le loro preghiere; per questo le richiedeva così spesso e contava su esse. Non è forse lo stesso anche oggi per i servitori di Dio? Dobbiamo ricordarci di loro e dell’opera che compiono, pregando a casa nostra e nelle riunioni dell’assemblea locale.
L’apostolo si era interamente dato all’annunzio del “mistero di Cristo”, sia quand’era libero sia ora che era prigioniero. Questo “mistero” consisteva nel fatto che i Gentili erano “partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo” (Ef. 3:6). Era proprio per questo che era incatenato, ma anche in questa condizione poteva parlarne, come vediamo in Atti 28:30,31, perché la parola di Dio non era incatenata (2 Tim. 2:9). Notiamo che qui egli non chiedeva che gli sia aperta la porta del carcere, anche se certamente lo desiderava, ma che gli fossero date delle occasioni per predicare l’Evangelo, che si aprisse la porta dei cuori per farvi penetrare la Parola. Paolo sentiva il bisogno del soccorso divino che permette ai servitori di Dio di annunziare l’Evangelo come si conviene, adattandolo ai diversi bisogni e circostanze degli uditori, ai Giudei come a Giudei, ai Gentili come a Gentili, ecc. (vedi Rom. 1:14). È ciò che faceva, ma per questo chiedeva le preghiere dei santi. E desiderava pure che i servitori di Cristo avessero gli stessi suoi sentimenti di umiltà e di dipendenza. Un operaio del Signore, per quanto sia dotato, sarà benedetto in proporzione alla sua dipendenza da Dio. “La nostra capacità viene da Dio” (2 Cor. 3:5); non dobbiamo vantarci di nulla. E se Paolo aveva bisogno delle preghiere dei credenti, quanto più ne hanno bisogno coloro che oggi sono chiamati a lavorare nell’opera del Signore!
“Comportatevi con saggezza verso quelli di fuori, ricuperando il tempo. ” (v. 5).
Ora l’apostolo tratta della nostra condotta verso quelli di fuori. Il di dentro e il di fuori sono due campi nettamente distinti nella Parola di Dio (vedi 1 Cor. 5:12; 1 Tess. 4:12). Il di dentro è la cerchia di quelli che appartengono a Dio, che compongono la sua famiglia, la Chiesa; il di fuori è il mondo, sono coloro che non hanno la vita di Dio.
Il mondo, apertamente o no, è ostile alla verità e a quelli che la professano; il di fuori è opposto al di dentro. Il mondo ha gli occhi su quelli di dentro, per coglierli in fallo, se possibile. E allora, per i credenti, si tratta di agire con saggezza, per non dare spunto al biasimo e per togliere ogni occasione per parlare male di loro, anche nelle cose che sembrano di poca importanza (vedi 1 Pietro 4:14-16).
La saggezza è prudente e vigilante, discerne ciò che conviene o no, non è precipitosa; il credente possiede questa vera saggezza, perché ha la vita di Dio che lo conduce mediante lo Spirito Santo. Si tratta di applicarla al proprio cammino in mezzo al mondo. Essa non consiste nel saper fare bene i propri affari, nell’ avere successo, come si dice (questa è la saggezza del mondo), ma nel camminare costantemente secondo Dio e con Dio, con il proprio spirito rischiarato dalla luce da alto.
Questa saggezza non esclude l’amore verso quelli di fuori; anzi, evitando di dare occasione di biasimare la propria condotta, il cristiano è tanto più pronto a manifestare questo amore verso quelli che non conoscono Dio. Se nella sua condotta c’è qualcosa da riprendere, il credente non ha più la libertà di parlare della grazia di Dio alle persone di sua conoscenza. Ma se il credente ha il cuore colmo dell’amore di Cristo per la salvezza delle anime e per la gloria di Dio, coglierà ogni occasione che gli si presenta per invitare gli altri a venire al Signore e godere della sua grazia. Com’è bella e gradita al Signore la condotta di chi “cerca sempre il bene degli altri e quello di tutti” (1 Tess. 5:15)!
“Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito con sale,per sapere come dovete rispondere a ciascuno. ” (v. 6).
La nostra vita esteriore, quella che il mondo vede, si compone di atti e di parole che dovrebbero essere sempre l’espressione della nostra vita interiore e dimostrare che trascorriamo questa vita in comunione con Dio. Qui si tratta delle nostre parole, di ciò che esce dalla nostra bocca, che deve essere “sempre con grazia”. Questa grazia, di cui ciascun credente ha beneficiato e che dovrebbe sempre riempirgli il cuore, si mostrerà dalle sue parole, impregnate di dolcezza e di bontà, che attireranno i cuori verso Colui che ne è la sorgente.
La grazia è paziente, consola, rialza il cuore abbattuto e loincoraggia. E questo, dice l’apostolo, “sempre”. La grazia escluderà dunque ogni amarezza, ogni lamento, ogni maldicenza, ogni leggerezza. Le parole vane e oziose saranno bandite dalla conversazione di chi prende sul serio l’esortazione dell’apostolo (Ef. 4:29; 5:4). Saremo così gl’imitatori di Colui del quale è detto: “La grazia è sparsa sulle tue labbra” (Salmo 45:2), e le cui “parole di grazia” gli rendevano testimonianza (Luca 4:22).
Ma la dolcezza della grazia non esclude il “sale” della santità e della verità divine; essa deve essere accompagnata da questa virtù che giudica il male e se ne separa in modo assoluto. La comunione con Dio ci fa discernere il male, e allora le nostre parole, che qualche volta potranno essere severe e forse anche indignate, non tenderanno a sottovalutare o attenuare il male; così anche gli altri sentiranno l’effetto della presenza e della santità di Dio.
Con la “grazia” e con il “sale”, potremo rispondere a ciascuno secondo i bisogni. Quanti ne troviamo sulla nostra strada! Bisogni del cuore e della coscienza, afflizioni e angosce, smarrimenti, scoraggiamenti, incredulità e dubbi, gli stati d’animo sono estremamente vari. Non sempre le stesse parole sono adatte a tutti, benché tutte provengano da uno stesso fondo d’amore. La saggezza divina deve illuminarci per poter parlare a proposito, come faceva il Signore. Pensiamo, ad esempio, alle sue risposte che troviamo al cap.15 di Matteo ai farisei, alle folle, alla povera donna cananea afflitta, e ai suoi discepoli che manifestavano ignoranza ed egoismo. Notiamo la differenza fra il carattere della sua riprensione o del suo ragionamento, e il modo con cui cerca di insegnare con pazienza o di nutrire un’anima con grazia e con sapienza. Tutto in lui era a proposito e adatto al luogo e all’occasione.
Apprezzamenti e saluti (v. 7-18)
L’insegnamento dottrinale e le relative esortazioni pratiche terminano qui. Il seguito contiene gli apprezzamenti dell’apostolo su dei suoi compagni d’opera ed i saluti di qualcuno di loro e dell’apostolo stesso. Ma tutto ciò è molto interessante perché mostra il cuore ardente d’amore di Paolo e lo zelo di molti di quelli che gli erano attorno, effetti della vita di Cristo di cui essi vivevano e che li univa gli uni agli altri.
“Tutto ciò che mi riguarda ve lo farà sapere Tichico, il caro fratello e fedele servitore, mio compagno di servizio nel Signore. Ve l’ho mandato appunto perché conosciate la nostra situazione ed egli consoli i vostri cuori;” (v. 7-8).
Tichico, che proveniva dalla provincia dell’Asia minore dov’erano situate Efeso, Laodicea e Colesse, è menzionato per la prima volta in Atti 20:4 come uno dei compagni di Paolo nel suo viaggio a Gerusalemme. Ciò che Paolo dice di lui qui e nell’epistola agli Efesini, sono una bella testimonianza resa alla sua opera nel campo del Signore, e dimostrano il suo affetto per lui.
Per l’apostolo, Tichico era un fratello caro; la sua dedizione era evidente perché serviva fedelmente Paolo come servisse il Signore (vedi Ef. 6:21), ed era anche suo compagno di servizio nell’opera dell’Evangelo. Lo vediamo infatti mandato a Efeso da Paolo prigioniero per la seconda volta a Roma (2 Tim. 4:12), prima di essere mandato da Tito, senza dubbio con un messaggio dell’apostolo (Tito 3:12).
In questi versetti vediamo che Tichico era il latore della lettera di Paolo, insieme alla lettera per gli Efesini (Ef. 6:21,22); nello stesso tempo era incaricato di dare notizie ai Colossesi dell’apostolo prigioniero. Doveva essere prezioso per loro sapere che cosa accadeva a Paolo, che cosa faceva per il Signore benché fosse in carcere, quali erano le prospettive, i pericoli a cui andava incontro e le privazioni che sopportava, come pure le consolazioni che il Signore gli dava. Siamo anche noi interessati ad avere notizie dei servitori di Cristo, soprattutto se sono in paesi lontani? Dovremmo esserlo veramente.
Ma nello stesso tempo Tichico avrebbe “consolato” i Colossesi incoraggiandoli a rimanere fermi contro gli errori insegnati dai falsi dottori; c’era veramente una corrente d’amore fra Paolo e i credenti, che era dimostrata da questo interesse reciproco.
“e con lui ho mandato il fedele e caro fratello Onesimo, che è dei vostri. Essi vi faranno sapere tutto ciò che accade qui. ” (v. 9).
Tichico non era solo, perché con lui c’era anche Onesimo. L’epistola di Paolo a Filemone ci fa conoscere la sua storia commovente. Onesimo era fuggito dal suo padrone Filemone e si era recato a Roma, dove c’era gente di ogni genere. Lì aveva udito l’evangelo dalla bocca di Paolo, il prigioniero del Signore, e si era convertito. L’apostolo gli aveva manifestato un grande affetto; il povero schiavo, che prima era stato “inutile”, era diventato un “fedele e caro fratello”, utile all’apostolo nel servizio dell’Evangelo (Filemone v. 11,13), ma Paolo lo aveva rimandato al suo padrone perché fosse utile a lui, non soltanto come schiavo, ma “molto più che schiavo, come un fratello caro” (Filemone v. 16). Tale è la potenza della grazia del Signore, queste sono le sue vie meravigliose verso un povero peccatore.
Il Signore aveva dato al suo servitore Paolo la gioia di vedere quel frutto del suo lavoro; “che è dei vostri”, dice Paolo ai Colossesi: non solo perché della loro città, ma uno di loro come cristiano (vedere Atti 4:23). Onesimo dunque, latore della lettera a Filemone, e Tichico, latore di quelli agli Efesini e ai Colossesi, dovevano informare quei credenti su “tutto ciò che accade qui”, cioè a Roma: certamente non gli avvenimenti politici, ma ciò che riguardava Paolo, i servitori del Signore e la chiesa.
“Vi salutano Aristarco, mio compagno di prigionia, Marco, il cugino di Barnaba (a proposito del quale avete ricevuto istruzioni; se viene da voi, accoglietelo), e Gesù detto Giusto. Questi provengono dai circoncisi, e sono gli unici che collaborano con me per il regno di Dio, e che mi sono stati di conforto.” (v. 10-11).
Tre compagni di Paolo mandano i loro saluti ai Colossesi. Il primo è Aristarco, di Tessalonica in Macedonia, che era prigioniero insieme a Paolo. Non sappiamo quando si fosse congiunto all’apostolo, ma lo troviamo con lui a Efeso, in occasione del tumulto che ebbe luogo in quella città (Atti 19:29). Poi, quando Paolo lasciò la Grecia e la Macedonia per recarsi a Gerusalemme, Aristarco ed altri precedettero l’apostolo e lo aspettarono a Troade (Atti 20:4,5). Infine, lo vediamo seguire Paolo quando l’apostolo , prigioniero, s’imbarcò per Roma (Atti 27:2). Com’è commovente questo suo attaccamento per il grande servitore di Cristo!
Potremmo stupirci vedendo menzionato qui Marco, nipote o cugino di Barnaba, come collaboratore dell’apostolo. Sappiamo che Marco era figlio di quella Maria a casa della quale erano radunati i discepoli per pregare per l’apostolo Pietro, che era stato imprigionato e stava per essere messo a morte. Il vero nome di Marco era Giovanni; Marco era un soprannome col quale più tardi sarà designato (Atti 12:12). Quando Paolo e Barnaba erano partiti per l’opera alla quale erano stati chiamati dallo Spirito Santo, Marco li aveva accompagnati per aiutarli. Ma le difficoltà e le fatiche lo avevano forse scoraggiato, e così aveva lasciato gli apostoli ed era tornato a Gerusalemme (vedere Atti 13:5,13; 15:38). In occasione d’un secondo viaggio, Barnaba, suo parente, volle riprendere Marco, ma Paolo si oppose; i due apostoli si separarono, e Barnaba, accompagnato da Marco, andò a Cipro, suo paese natale (Atti 15:37,39; 4:36). Vediamo in Barnaba l’influenza dei legami naturali, e questo non sempre è utile nel servizio del Signore. Ci sembra di capire che la chiesa, in quell’occasione, diede ragione a Paolo, benché si fosse lasciato andare all’irritazione.
Comunque sia, siamo felici di vedere in questi e in altri passi come la grazia del Signore ha agito riguardo a Marco.
Adesso è a Roma, vicino a Paolo, e l’apostolo lo raccomanda ai Colossesi qualora si recasse da loro. “Ricevetelo”, dice. Non conosciamo quali istruzioni avessero ricevuto. Più tardi Paolo, scrivendo a Timoteo, renderà a Marco una testimonianza ancora migliore: “Conducilo con te; poiché mi è molto utile per il ministero” (2 Tim. 4:11). La grazia di Dio non abbandona un debole servitore. Essa lo istruisce e lo forma a poco a poco per il servizio. È Marco che ritroviamo probabilmente ancora a Babilonia accanto all’apostolo Pietro (1 Pietro 5:13), ed infine è lui che scrive l’evangelo che porta
il suo nome.
Possiamo notare che nel cuore di Paolo non c’era alcun risentimento. Un tempo l’apostolo non aveva preso Marco con sé forse perché non voleva correre il rischio d’un nuovo abbandono; ma ora Marco, che aveva dato delle prove rassicuranti, è accettato senza riserve. Bell’esempio questo per quelli che il Signore occupa nella sua opera. Ciò che dirigeva il cuore di Paolo in tutte le cose era la gloria del suo Maestro e non i suoi sentimenti personali.
Il terzo compagno di Paolo che saluta i Colossesi è Gesù, detto Giusto. Tutto ciò che sappiamo di lui è menzionato in questi versetti. Era Giudeo, come Marco, ed entrambi ricevono la bella testimonianza di essere stati i soli collaboratori dell’apostolo per il regno di Dio, fra i Giudei, che gli fossero di consolazione e d’ incoraggiamento. In effetti vediamo in Filippesi 1:15-17 che a Roma alcuni si erano allontanati da lui.
“Epafra, che è dei vostri ed è servo di Cristo Gesù, vi saluta. Egli lotta sempre per voi nelle sue preghiere perché stiate saldi, come uomini fatti, completamente disposti a falla volontà di Dio. Infatti gli rendo testimonianza che si dà molta pena per voi, per quelli di Laodicea e per quelli di Ierapoli.”(v.12,13)
Anche Epafra era di Colesse; per mezzo suo i Colossesi avevano udito l’Evangelo, la grazia di Dio in verità (cap. 1 v. 7). In quel momento Epafra era a Roma con l’apostolo. Benché lontano, non dimenticava i Colossesi. Il loro stato spirituale gli stava molto a cuore. Sapeva che erano esposti a gravi pericoli da parte dei falsi dottori che, coi loro ragionamenti tendenziosi, cercavano di separarli da Cristo. Combatteva dunque per loro con preghiere insistenti, come pure per i credenti delle città vicine, Laodicea e Ierapoli, dove probabilmente aveva lavorato.
L’arma potente del credente contro Satana e le sue insidie è la preghiera, sia per se stesso che per gli altri. Il nemico non può resistere contro quest’ arma, perché la preghiera fa appello alla potenza stessa di Dio, la preghiera della fede, la preghiera insistente, la preghiera perseverante, la preghiera che ci impegna interamente con Dio. Epafra “combatteva”, ecco l’energia; “sempre”, ecco la perseveranza (leggere Ciac. 6:7; 5:17-18).
Lapreghiera di Epafra ha un soggetto preciso. Se preghiamo per gli altri, è per il loro stato spirituale, per i loro bisogni. Epafra chiedeva per i Colossesi che fossero “completamente disposti a far la volontà di Dio”. All’inizio della letteraPaolo aveva chiesto che fossero “ricolmi della profonda conoscenza della volontà di Dio” (cap. 1 v. 9); li aveva istruiti con ogni sapienza per presentarli “perfetti in Cristo” (cap. 1 v. 28), allo stato di uomini fatti; aveva ancora detto che essi avevano “tutto pienamente in lui” (cap. 2 v. 10). Ecco in che cosa consiste la volontà di Dio.
Ora Epafra, pieno di sollecitudine per loro, chiede che rimangano saldi in queste cose. In questa posizione non macavano di nulla, e potevano chiudere l’orecchio a quegli insegnamenti che pretendevano di farli progredire al di fuori di Cristo, che era perfettamente sufficiente. Che tutti i senatori di Cristo portino così le anime davanti a Dio! Insegnare ed esortare è buono, ma pregare, combattere, “darsi molta pena” per i fratelli, lo è ancora di più.
“Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema. ” (v. 14).
Anche Luca, il caro medico, l’autore del terzo evangelo e del libro degli Atti, era con l’apostolo e saluta i Colossesi. Probabilmente era pagano di nascita, perché non è nominato fra i collaboratori di Paolo “circoncisi”; ma non sappiamo quando e come si convertì. Nel libro degli Atti (16:20) lo vediamo unirsi a Paolo nella Troade e diventare suo fedele compagno (il termine “noi” lo fa intendere). Rimase senza dubbio a Filippi, dopo la partenza di Paolo, perché lo ritroveremo solo al cap. 20 v. 6, di partenza da Filippi con l’apostolo per accompagnarlo fino a Gerusalemme (Atti 21 fino al v. 18). Poi, quando fu deciso che Paolo sarebbe andato a Roma, Luca andò con lui in quel viaggio difficile e pieno di pericoli; è un toccante esempio di dedizione.
Eccolo quindi con l’apostolo. E quando Paolo arriverà agli ultimi giorni della sua vita, in attesa della corona del martirio e della gloria nel cielo, dirà: “Solo Luca è con me” (2 Tim. 4:11). Che toccante storia di fedeltà in questi cenni sulla vita del caro medico! Così Dio l’ha onorato, questo compagno d’opera di Paolo (Filemone v. 24).
La storia di Dema è ben diversa. La lettera a Filemone lo cita fra i collaboratori di Paolo, ma qui è menzionato solo il suo nome. Anche lui saluta i Colossesi. Ma nell’espressione dell’apostolo “e Dema” c’è una certa freddezza che fa presagire ciò che Paolo dovrà scrivere più tardi a suo riguardo: “Dema, avendo amato questo mondo, mi ha lasciato”.
Ahimè, talvolta certi servitori del Signore, dopo una carriera fedele più o meno lunga, fanno come Dema, amano il mondo e ciò che esso dà. Che cosa ne è del loro servizio? L’esempio del povero Dema è un avvertimento serio per noi.
“Salutate i fratelli che sono a Laodicea, Ninfa e la chiesa che è in casa sua. ” (v. 15).
A questi saluti, Paolo aggiunge i propri per i fratelli che erano a Laodicea, città situata a trentacinque chilometri da Colosse, e senza dubbio in rapporti fraterni frequenti con quest’ultima. Paolo saluta in particolare una certa Ninfa, a casa della quale si riuniva una chiesa, come a Colosse ce n’era una a casa di Filemone (Filem. v. 1,2), e a Roma a casa di Priscilla e Aquila (Rom. 16:3-5), i quali già a Corinto avevano la chiesa in casa loro (1 Cor. 16:19). A quei tempi, non c’ erano ancora i templi splendidi e le vaste cattedrali con i loro fastosi ornamenti, come purtroppo avverrà più tardi. Alcuni membri della chiesa locale erano felici di mettere a disposizione un locale in cui i fratelli potevano riunirsi.
“Quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che sia letta anche nella chiesa dei Laodicesi, e leggete anche voi quella che vi sarà stata mandata da Laodicea. ” (v. 16).
Si direbbe che la lettera mandata a Laodicea non fosse indirizzata proprio ai Laodicesi. Infatti, se Paolo avesse scritto loro direttamente, perché avrebbe detto ai Colossesi di salutarli? Anche l’espressione “che vi sarà stata mandata da Laodicea” non implica che la lettera fosse indirizzata esclusivamente a questa assemblea; forse, come quella agli Efesini, aveva un carattere generale
(*)Comunque sia,si vede che le lettere dell’apostolo Paolo, con i suoi insegnamenti dettati dallo Spirito di Dio, circolavano nelle chiese, anche là dove non era conosciuto di persona (cap. 2 v. 1).
Possiamo notare che la chiesa dei Laodicesi purtroppo non seppe trarre profitto dall’esortazione dell’apostolo a trovare in Cristo il solo tesoro, ad attaccarsi a lui considerandosi morti e risorti con lui, e di conseguenza a non cercare le cose della terra. In Apocalisse 3:14-18 leggiamo che questa chiesa si era arricchita, almeno così credeva, solo di ciò che aveva acquisito con le proprie forze, ed era tiepida nei confronti di Cristo. L’abbondanza di conoscenza religiosa non basta, può essere persino un grave pericolo se c’è in gioco la sola intelligenza. Cristo vuole il cuore, e lo vuole tutto.
Dite ad Archippo: “Bada al servizio che hai ricevuto nel Signore, per compierlo bene. ” (v. 17).
Paolo non dimentica le persone a cui un avvertimento può essere salutare, visto il posto che occupano. Nella lettera a Filemone, Archippo è nominato fra i collaboratori di Paolo, quindi era impegnato nell’opera del Signore. Come tale, aveva ricevuto dal Signore un servizio speciale (non sappiamo quale) a cui doveva badare per compierlo fedelmente. I servizi sono vari, il Signore dispone dei suoi servitori come gli piace. Qualunque cosa dia da fare, essi sono tenuti a “compierla” con serietà e dedizione.
Archippo è richiamato da Paolo in modo solenne perché ciò avviene nel testo di una lettera indirizzata a tutta la chiesa locale. Forse Archippo lasciava a desiderare nell’adempimento del servizio, o era agli inizi ed aveva bisogno di sentirne tutta la responsabilità. Comunque fosse, qui leggiamo una frase “condita con sale” da parte di Paolo, degna di attenzione da parte di tutti coloro che, come Archippo, hanno ricevuto un servizio dal Signore. “Quel che si richiede agli amministratori è che ciascuno sia trovato fedele” (1 Corinzi 4:1,2).
“Il saluto è di mia propria mano, di me, Paolo. Ricordatevi delle mie catene. La grazia sia con voi. ” (v. 18).
Infine l’apostolo scrive di persona il saluto finale. Era il segno dell’autenticità delle sue epistole (2 Tess. 3:17), e questo era diventato necessario perché degli uomini male intenzionati diffondevano delle lettere scritte in proprio e le spacciavano come scritte dall’apostolo (2 Tess. 2:2). Dall’epistola ai Romani vediamo che Paolo non scriveva sempre di persona le sue lettere, ma le dettava a qualche fratello (Rom. 16:22).
Ai Calati, egli precisa di aver scritto tutta la lettera di suo pugno (Gal. 6:11), per dimostrare loro tutta la sua sollecitudine e mettere in rilievo l’importanza di ciò che trattava.
Prendeva comunque delle precauzioni perché non si abusassedell’autorità del suo nome; triste necessità, che dimostra purtroppo la falsità e la frode che, fin dai primi tempi, incominciavano a dilagare nel campo religioso.
È solo alla fine della lettera che l’apostolo chiede di esser ricordato dai Colossesi per la situazione dolorosa in cui si trovava. Non c’è un solo lamento: soffriva per il Signore. Ma nel suo cuore provava il bisogno della simpatia dei santi. Che appello commovente! Certamente avrà raggiunto il cuore dei Colossesi.
Pensiamo anche noi ai servitori del Signore nelle loro difficoltà e nelle loro pene. Da parte sua, Paolo augurava ai suoi lettori che la grazia fosse con loro, grazia per accompagnarli, sostenerli, preservarli ed incoraggiarli fino alla fine, grazia dicui abbiamo tutti e sempre un bisogno così grande!
(*) Secondo alcuni, era proprio una copia di quella che noi conosciamo come lettera agli Efesini.