Seconda Lettera di Pietro

Commentario sulla seconda lettera di Pietro.
Volume pubblicato con il permesso di Edizioni IL MESSAGGERO CRISTIANO
 

Introduzione

La seconda Lettera di Pietro, scritta fra il 65 e il 68 d. C., è più semplice della prima. Essa ha lo scopo di mettere i ri­scattati in guardia contro i seduttori i quali, con belle pro­messe di libertà, trascinavano le anime nel peccato e rinne­gavano i diritti di Cristo. Gli avvertimenti di questa seconda Lettera sono rivolti agli stessi destinatari della prima. C’è la descrizione delle caratteristiche dei falsi dottori, la denun­cia energica del loro agire e del loro insegnamento, il ricordo della pazienza di Dio e l’annuncio di un giudizio conforme alla maestà di Colui che lo eseguirà.

Ma prima di dare questi avvertimenti, che incominciano dal secondo capitolo, Pietro esorta i cristiani a rendere sicura la loro vocazione ed elezione, non già nel cuore di Dio, ma nei loro cuori e nella loro vita pratica, camminando in modo da non cadere e dando una testimonianza chiara della elevata posizione che avevano in Cristo. Queste esortazioni sono fondate:

  1. su ciò che già è stato dato ai credenti;
  2. su ciò che deve ancora venire, vale a dire la mani­festazione della gloria del regno e, prima ancora, il sor­gere della Stella del mattino, il Cristo celeste, e la nostra unione con Lui prima che appaia il Sole di giustizia (Cristo nel regno);
  3. sulla prossima dissoluzione dei cieli e della terra a riprova dell’instabilità delle cose su cui gli increduli si ba­sano e quale stimolo, per i santi, ad una vita di separazione del male.

Possiamo ancora aggiungere che in ambedue le Lettere di Pietro si tratta di quello che potremmo chiamare «il go­verno» (*) di Dio. La prima, che considera il gover­no di Dio nella sua casa, si basa sulle parole che il Signore aveva rivolto a Pietro in Matteo 16:18, a proposito della Chiesa, casa composta da pietre viventi. Nella seconda, in­vece, si tratta del regno, quindi non più del governo di Dio nella Chiesa, ma nel mondo. Pietro fonda il suo dire su ciò che aveva visto personalmente alla trasfigurazione del Signore (Matteo 17).

Vediamo così che quell’agire in governo di Dio prenderà fine con la distruzione della prima creazione, la quale verrà sostituita dai nuovi cieli e dalla nuova terra, dopo che la giu­stizia avrà «regnato» nel mondo nei mille anni del regno di Cristo. Per capire bene questo è utile ricordare Deuteronomio 32:8: “Quando l’Altissimo diede alle nazioni la loro eredità, quando separò i figli degli uomini, egli fissò i confini dei popoli, tenendo conto del numero dei figli d’Israele”. Dio prese certe misure verso questo mondo e stabilì i confini delle nazioni nella prospettiva del suo popolo terrestre, cen­tro del suo governo; Dio rimetterà di nuovo queste medesi­me nazioni in relazione con Israele, sia per giudicarle, sia per instaurare il regno di Cristo.

Il popolo d’Israele è stato disubbidiente, ed ora questo governo di Dio è divenuto invisibile; ciononostante esiste. Quando Dio governa, giudica il male e ricompensa il bene, anche nei confronti dei suoi figli, di noi credenti in Cristo. Noi abbiamo, è vero, una posizione celeste e delle benedi­zioni eterne, ma Dio agisce qui sulla terra secondo il medesi­mo principio. Egli incomincia dalla sua casa (1a Lettera), poi si occupa del mondo (2a Lettera).

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(*) Intendiamo con questo termine l’agire di Dio nella sua veste di uno che governa, con l’autorità, la giustizia, la saggezza e la severità che sono proprie di un saggio e fermo sovrano nei confronti dei suoi sudditi. Dio agisce così non solo verso il mondo e Israele, ma anche verso la sua Chiesa e ogni singolo credente.

Capitolo 1

«Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo, a coloro che hanno ottenuto una fede preziosa quanto la nostra nella giustizia del nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo:» (v. 1)

I credenti ai quali Pietro si rivolgeva avevano ricevuto la nostra stessa fede, una fede «preziosa quanto la nostra». Qui, con «fede» s’intende l’insieme delle verità cristiane che abbiamo accetta­te per fede, nell’attesa di poterne godere pienamente quan­do saremo nel cielo. L’apostolo Paolo parla della fede con questo medesimo significato in Timoteo e in Tito; e così fa pure Giuda.

È una fede di grande valore perché ci ha rivelato le cose meravigliose che Dio aveva in serbo per noi, e l’abbiamo ri­cevuta per mezzo della giustizia del nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo. Qui non è la “giustizia di Dio” com’è presentata nella Lettera ai Romani. Qui Dio, giusto e coerente con se stes­so, è coerente riguardo alle promesse che ha fatto. In altre parole Dio, fedele alle sue promesse, le porta a compimento e le presenta come oggetto della fede. Colui che è giusto per compierle è il nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo, due titoli che sono la rivelazione completa di Dio in quella rivelazione ricevuta per fede dai credenti, due manifestazioni della medesima Persona.

«grazia e pace vi siano moltiplicate nella conoscenza di Dio e di Gesù, il nostro Signore. » (v. 2)

È nella conoscenza di Dio e di Gesù nostro Signore che la grazia e la pace ci sono moltiplicate. Non per la conoscen­za di Dio come poteva averla un Giudeo sotto la legge, ma del Dio rivelato nella grazia. La grazia e la pace le abbiamo per mezzo della fede, ma potremmo non goderne; soltanto se coltiviamo la conoscenza di Dio in Cristo vedremo molti­plicarsi in noi e per noi la grazia e la pace di cui abbiamo bisogno. Questa grazia è il favore di Dio che riposa sopra di noi (vedere Luca 1:28).

«La sua potenza divina ci ha donato tutto ciò che riguarda la vita e la pietà mediante la conoscenza di colui che ci ha chiamati con la propria gloria e virtù.» (v. 3)

Troviamo in tutti questi versetti delle ricchezze infinite; essi ci fanno conoscere ciò che Dio mette a nostra disposi­zione, vale a dire tutto ciò che ha attinenza con la vita prati­ca di un cristiano in questo mondo, e alla pietà che è l’espres­sione dei rapporti di timore e di fiducia dell’anima con Dio, in modo da comprendere il suo pensiero e la sua volontà. Tut­to ciò che riguarda la vita e la pietà deve essere realizzato pra­ticamente, come vediamo nei versetti da 5 a 7. Tutto quanto è necessario a questo scopo lo possediamo. Ma come lo usia­mo? Un’automobile ha tutto ciò che occorre per muoversi, ma rimane ferma se non mettiamo in azione alcune delle sue parti.

Così la potenza divina ci ha dato tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere nella santità e per raggiungere, alla fi­ne, la gloria, ad immagine di Cristo. Conoscendo Colui che ci ha chiamati grazie alla propria gloria e virtù, possedia­mo tutte queste cose e possiamo viverle.

La propria gloria è il mezzo che Dio usò per convincere Abramo a lasciare il suo paese e la sua parentela (Atti 7:2). Dio si presentò al patriarca come il Dio della gloria; que­st’uomo era dunque assolutamente sicuro che avrebbe tro­vato la gloria al termine del suo cammino. Abramo, per la verità, non la trovò nel paese di Canaan ma, grazie alla fede che gli face­va volgere lo sguardo verso l’alto, la vide nella città «che ha le vere fondamenta e il cui architetto e costruttore è Dio» (Ebrei 11:10). Egli si rallegrò antivedendo il giorno del Signore. Nel­lo stesso modo, Saulo da Tarso fu chiamato sulla via di Da­masco (Atti 9); e così è ogni chiamata celeste.

Altro carattere di questa chiamata è la virtù. Lasciati a noi stessi non potremmo raggiungere la gloria, ma Dio ci chia­ma ad essa per mezzo della virtù. La virtù è il coraggio mo­rale, l’energia spirituale di cui abbiamo bisogno per perveni­re alla gloria, nonostante gli ostacoli di ogni genere che incontriamo nella nostra vita.

Al coraggio morale è legata la separazione dal male. Ebrei 12:1 dice: «Deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza». Qui si tratta del pec­cato che proviene dal di fuori, e della virtù esercitata secon­do l’esempio del Signore stesso, il nostro modello in ogni co­sa. Nel suo cammino il Signore ha incontrato tutta l’opposizione di Satana ed ha sopportato la croce, ha disprez­zato il vituperio; ha ottenuto così per mezzo della virtù, una larga entrata nella gloria dove, secondo il Salmo 24, le porte eterne si sono alzate per farlo entrare.

«Attraverso queste ci sono state elargite le sue preziose e grandissime promesse perché per mezzo di esse voi diventaste partecipi della natura divina dopo essere sfuggiti alla corruzione che è nel mondo a causa della concupiscenza. » (v. 4)

Per la gloria e la virtù, Dio ci ha elargito le sue preziose e grandissime promesse. Le promesse fatte ai padri non era­no né grandissime, né preziose; essi non entrarono in pos­sesso di ciò che era stato loro promesso; ma, per la fedeltà di Dio, noi le possediamo tutte per mezzo di Cristo.

Le grandissime e preziose promesse sono:

Lo Spirito Santo, co­me vediamo in Efesini 1:13; Galati 3:4; Atti 1:4; 2:33.

La vita: 2 Timoteo 1:1; Tito 1:2.

La relazione con Dio: 2 Co­rinzi 7:1.

L’eredità: Ebrei 9:15.

La venuta di Cristo: cap. 3 di questa Lettera.

La giustizia: Isaia 36:13 e 51:6.

In­fine, e ovunque, la gloria.

Possedendo queste cose siamo com­partecipi della natura divina. Esse ci sono state date e fanno parte del nostro “uomo nuovo”. Non significa qui essere in Cri­sto o essere figli di Dio, ma partecipare alla natura morale di Dio già in questo mondo.

Con la conversione siamo sfuggiti alla corruzione che regna nel mondo; da quel momento siamo partecipi dei ca­ratteri morali di Dio, e i nostri pensieri rinnovati (Romani 12:2, Efesini 4:23) si muovono in una sfera assolutamente nuova. Chi non è passato attraverso la conversione non lo può realizza­re. Al v. 20 del cap. 2 è parlato di quelli che avevano fatto professione di cristianesimo senza aver parte alla natura divina. Essi avevano “fuggito” la corruzione del mondo grazie alla conoscenza del Signore e Salvatore Gesù Cristo, ma erano stati nuovamente attratti da esse e vin­ti. La semplice conoscenza del cristianesimo produce una cer­ta separazione dalle contaminazioni del mondo che, però, non può essere mantenuta a lungo perché non è il frutto di un reale rinnovamento interiore; così il cuore ritorna presto o tardi a ciò che aveva abbandonato. Il credente è invece “sfuggito” una volta per sempre alla conversione, quando è nato di nuovo. Da quel momento dovrà esservi un progresso, uno svilup­po, cioè la realizzazione pratica di questa realtà. Lo vedre­mo nei versetti che seguono.

 «Voi, per questa stessa ragione, mettendoci da parte vostra ogni impegno, aggiungete alla vostra fede la virtù; alla virtù la conoscenza; alla conoscenza l’autocontrollo; all’autocontrollo la pazienza; alla pazienza la pietà; alla pietà l’affetto fraterno; e all’affetto fraterno l’amore.» (v. 5 a 7)

«Per questa stessa ragione», vale a dire perché «la sua potenza divina ci ha donato tutto ciò che riguarda la vita e la pietà» (v. 3). Non si possono possedere queste cose senza metterle in risalto; dobbiamo far valere ciò che abbiamo ricevuto mettendo in questo tutto il nostro im­pegno, così da ottenere ampiamente l’ingresso nel regno eter­no del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo. Dobbiamo confessare che in molti di noi questo impegno fa difetto, che c’è po­ca separazione dal male e, di conseguenza, la manifestazio­ne dei caratteri di Dio nella vita d’ogni giorno è quanto mai debole.

La fede è il primo anello della meravigliosa catena che questi versetti ci presentano; se manca questo non se ne possono aggiungere altri. Tutte le qualità elencate dipendono l’una dall’al­tra, e se ne manca una la catena si spezza. Si potrebbe fare il paragone con una pianta il cui seme contiene già, in ger­moglio, tutto ciò che si svilupperà in seguito; ma perché lo sviluppo avvenga normalmente occorre che sia posta nelle condizioni favorevoli di umidità, di calore, di luce. Ma a diffe­renza della pianta, il credente deve egli stesso aggiungere con cura, e una dopo l’altra, le qualità che contraddistinguono la sua natura e la manifestano. Egli è fornito di ogni risorsa per questo scopo. Se non lo fa, è ozioso e sterile, soggetto a fallire, e l’ingresso nel regno eterno non gli è concesso “ampiamente”.

Alla fede bisogna aggiungere la virtù. Come abbiamo vi­sto, la virtù è il coraggio morale, l’energia che è propria del­la natura divina e che ci rende capaci di vincere le difficoltà che si oppongono ad una piena ubbidienza. Un credente che si accontenta della fede che gli da diritto ad un posto nel cie­lo, non ha capito il perché Dio lo lasci in questo mondo do­po la sua conversione. Così, non ha nessuna energia per su­perare le difficoltà che, strumentalizzate da Satana e dalla nostra carne, si oppongono ad un cammino fedele. Il cap. 3 di Filippesi è un bell’esempio di virtù. Ecco come faceva Paolo: «Dimenticando le cose che sono dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la meta»; le sue forze erano impegnate per raggiungere il palio e ottenere il premio.

Alla virtù bisogna aggiungere la conoscenza. Dio non può comunicare i suoi pensieri a colui che non spende nessuna energia per separarsi dal male sotto ogni sua forma; il carat­tere fondamentale della virtù è la santità pratica e, di conse­guenza, l’ubbidienza; ambedue sono condizioni indispensa­bili per fare dei progressi nella conoscenza. In Giovanni 14:21 vediamo che il Signore si fa conoscere a chi osserva i suoi comandamenti. La conoscenza di Dio illumina e rende il cre­dente sempre più idoneo a crescere nella virtù. Essa è prezio­sa all’anima, ma è anche un fuoco che consuma tutto ciò che non è di Dio e giudica ogni infedeltà.

Alla conoscenza dobbiamo aggiungere l’autocontrollo, cioè la capacità di governare se stes­si. Essa dipende dalla conoscenza dei pensieri di Dio che ci rende capaci di dominare le cattive di­sposizioni della nostra vecchia natura. L’autocontrollo, così come la temperanza, spa­venta la carne perché la priva di ciò che desidera. L’esempio di Felice, in Atti 24:25, lo dimostra: «Siccome Paolo parlava di giustizia, di temperanza [o di autocontrollo] e del giudizio futuro, Felice si spaventò e replicò: “Per ora va’…”. Egli non poté sopportare quelle parole, e mandò via Paolo.

La capacità di dominarsi, secondo la conoscenza che si ha di Dio, comporta la rinuncia a se stessi. Dalla volontà sottomessa a Dio nasce la pazienza, che viene ad aggiungersi alla tem­peranza. Il credente allora dipende soltanto da Dio, avendo fatto l’esperienza che non può sperare in se stesso, né negli uomini. Pazienza nelle difficoltà e sofferenze, pazienza verso le debolezze degli altri, pazienza nell’attesa del ritorno del Signore. Questa pazienza, longanime e perseverante, è qualità indispensabile per sopportare ogni cosa, in vista della me­ta celeste.

La gloria che abbiamo davanti ci deve attrarre, e la virtù ci deve spronare durante tutta la corsa cristiana. E quando avremo aggiunto tutte queste cose e saremo arrivati alla meta, Dio stes­so vi aggiungerà la gloria!

Con la pazienza si sopporta ogni cosa e non si rimane scos­si dalle delusioni che si incontrano. Si è, anzi, spinti verso Dio, rendendosi conto di quanto si ha bisogno di Lui. Si ag­giunge, così, alla pazienza la pietà, che è la pratica abituale dei nostri rapporti con Dio, nella fiducia in Lui solo e nel timore di dispiacergli. Paolo esortava Timoteo ad esercitarsi alla pietà, «poiché la pietà è utile ad ogni cosa, avendo la promessa della vita presente e di quella futura» (1 Timoteo 4:7,8). Nel capitolo 6:6 egli dice: «La pietà con ani­mo contento del proprio stato, è un gran guadagno». Potremmo avere la forma della pietà, la pretesa d’aver a che fare con Dio e di servirlo, ma rinnegarne la potenza.

A questa pietà, frutto dei veri rapporti dell’anima con Dio, bisogna aggiungere ancora l’affetto fraterno (*) che si riferisce ai nostri rapporti con gli altri credenti. I fratelli sono tutti coloro che sono nati da Dio. Se scarseggiamo nella pietà, scarseggere­mo anche nell’amore fraterno. Chi è povero nella pietà, tro­verà sempre qualche male da dire sul conto dei suoi fratelli. I nostri fratelli in Cristo sono, come noi, oggetti del medesi­mo amore, e la pietà ci permette di considerarli così. Colui che ama Dio «ama anche chi è stato da lui generato» (1 Giovanni 5:1). V’è un così intimo legame tra il Signore e i suoi che, se amiamo Lui, amiamo necessariamente anche coloro che sono suoi.

Ma l’amore è al di sopra di tutte queste cose; le corona e le contraddistingue. Deve essere aggiunto all’affetto fraterno. Lo vediamo in Colossesi 3:14: «Al di sopra tutte queste co­se vestitevi dell’amore che è il vincolo della perfezione». L’a­more è la natura stessa di Dio. Dio è amore. Egli ha operato con potenza verso noi peccatori per soddisfare il suo amore. L’amore attinge la sua ragion d’essere in se stes­so; non è mai condizionato dall’attrattiva della natura, né dalla repulsione; è estraneo cioè alle simpatie e alle antipatie. Non ricerca il proprio interesse. Ecco perché dobbiamo aggiun­gerlo all’affetto fraterno. Nella debolezza della nostra natura umana, siamo propensi a rilevare i difetti dei nostri fratelli, oppure le qualità, dando delle motivazioni carnali al nostro affetto fraterno. Per fare questo, non è necessario essere na­ti da Dio, poiché il Signore dice: «Se amate quelli che vi amano, quale grazia ve ne viene? Anche i peccatori amano quelli che li amano» (Luca 6:32).

(*) Il greco del Nuovo Testamento per il verbo “amare” usa due termini: “fileo” e “agapao”. Fileo è soprattutto usato per indicare l’affetto, l’amicizia; ed è il termine usato qui (“filadelfian”) e giustamente tradotto con “affetto” fraterno. A questo dobbiamo aggiungere, dice Pietro, “l’amore”; e qui usa l’altro termine (“agapen”) che generalmente esprime l’amore nel senso più elevato, ad esempio l’amore di Dio e del Signore per noi e l’amore che i credenti hanno per Dio.

Se l’amore di Dio è attivo nei nostri cuori supereremo facilmente tutto ciò che potrebbe deluderci e scoraggiarci nel realizzare l’affetto fra­terno. Quando, ad esempio, un fratello ci fa un torto, non c’è ragione per non amarlo; anzi, la dimostrazione del nostro affetto, secondo gl’insegnamenti della Parola, lo aiuterà forse a capire e a pen­tirsi. È vero che l’affetto non si può sempre manifestare nel medesimo modo; se un fratello vive nel peccato, il nostro affetto, per fedeltà al Signore, può apparire freddo, poco espansivo, perché non lo si può associare con il male o con la disubbidienza. Per testimoniare affetto a un credente che cammina nel male bisogna fargli conoscere il suo peccato, allo scopo di aiutarlo a giudicarlo; 1 Giovanni 5:2 di­ce: «Da questo sappiamo che amiamo i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti». L’amore per Dio è quello che regola l’affetto per i fratelli. Abbiamo molto bisogno di aggiungere «l’amore» all’affe­tto fraterno, affinché questo non degeneri in affezione car­nale, svuotata del suo carattere divino. In questo siamo molto mancanti.

Possiamo concludere dicendo che si può aggiungere nessuna delle cose indicate qui senza aver rea­lizzato quelle che si hanno già, in quanto vanno aggiunte l’una all’altra e sono legate l’una all’altra; ci vuole molto impegno, sia nella loro realizzazione sia nell’aggiunta dell’anello successi­vo. L’errore che commettiamo sovente è di fermarci a metà strada. In Lot, per esempio, mancò la virtù, in Mosè la pazienza, in Davide la temperanza, in Salomone la pietà.

«Perché se queste cose si trovano e abbondano in voi, non vi renderanno né pigri, né sterili nella conoscenza del nostro Signore Gesù Cristo.»  (v. 8)

Grazie alla conoscenza di Dio che ci ha chiamati con la propria gloria e virtù, possediamo tutte le cose che appar­tengono alla vita e alla pietà (v. 3). L’oggetto primario di questa conoscenza è il Signore nostro Gesù Cristo, caro al nostro cuore. Per crescere nella conoscenza della sua perso­na, dobbiamo aggiungere, le une dopo le altre, le cose che abbiamo esaminato. Se non facciamo così, siamo pigri e ste­rili, e saremo inattivi e improduttivi, con uno sviluppo spiri­tuale scarso. Invece di crescere nella conoscenza rimarremo allo stato di “bambini” (Efesini 4:13, 14), di credenti muti e insensibili quando si dovrebbe parlare del Signore.

È molto triste vede­re quanta ignoranza c’è sulla persona di Cristo. La conoscen­za di Lui dev’essere lo scopo della nostra vita. Ad essa sono giunti i padri; essi hanno conosciuto Colui che è fin dal principio (1 Giovanni 2:14).

«Ma colui che non ha queste cose è cieco oppure miope, avendo dimenticato di essere stato purificato dei suoi vecchi peccati.»  (v. 9)

Tre cose dunque contraddistinguono colui nel quale non si trovano queste caratteristiche spirituali:

  1. È cieco. Quando Cristo è amato al di sopra di tut­to, l’occhio è semplice e tutto il corpo è pieno di luce. Un occhio semplice guarda un oggetto solo alla volta. Quando il nostro sguardo si posa su molte cose, l’occhio è maligno e il nostro corpo è nelle tenebre.
  2. È miope. La miopia spirituale non permette di discernere ciò che ci circonda e ci rende inca­paci di valutare le cose correttamente e secondo l’apprezza­mento divino.
  3. Ha dimenticato di essere stato purificato dei suoi vecchi peccati. Mentre chi ha sempre bene presente di essere stato pu­rificato dai suoi peccati mantiene un cammino coerente, colui che è ozioso e sterile nella conoscenza del Si­gnore torna a riprendere, un po’ per volta, quello che aveva abbandonato, quando la luce divina aveva illuminato i suoi pensieri e il suo cuore. Egli ha dimenticato la purificazione dei suoi vecchi peccati! La nostra ignoranza riguardo alla per­sona di Cristo spiega il fatto che ci permettiamo tante cose che avevamo giudicato un tempo; così, invece di progredire, retrocediamo.

«Perciò, fratelli, impegnatevi sempre di più a render sicura la vostra vocazione ed elezione; perché, così facendo, non inciamperete mai.»  (v. 10)

Dobbiamo consolidare la nostra vocazione e la nostra ele­zione, cioè pensarci seriamente, esserne convinti, per rima­nere fermi e non inciampare. La vocazione è la chiamata di Dio, con la sua «gloria e virtù»; dobbiamo rafforzare que­sta chiamata nei nostri cuori e realizzarla praticamente; sarà anche una testimonianza per quanti ci osservano. Tutti sa­pevano che i Tessalonicesi erano degli «eletti», e questo grazie alla loro testimonianza. Noi abbiamo, davanti a Dio e agli uomini, una certezza, quella di essere eletti, che ci procura molta gioia. «Da questo conosceremo che siamo della verità e renderemo sicuri i nostri cuori davanti a lui» (1 Giovanni 3:19).

Facendo queste cose, non inciamperemo mai, eviteremo di cadere. Se pecchiamo è eviden­te che non mettiamo in pratica queste cose. Vi sono molti passi che ci mostrano che possiamo rimanere saldi in una vi­ta di fede e di santità, senza vacillare: «Prego… perché possiate apprezzare le cose migliori, affinché siate limpidi e irreprensibili per il giorno di Cristo» (Filippesi 1:10); «siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo» (Filippesi 2:15); «il Dio della pace vi santifichi egli stesso completamente; e l’intero essere vostro, lo spirito, l’anima e il corpo, sia conservato irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo» (1 Tessalonicesi 5:23); «a colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire irreprensibili e con gioia davanti alla sua gloria… » (Giuda 24). Questa non è la dot­trina della perfezione della carne che pretende di raggiungere una condizione in cui non si pecca più; al contrario, è la piena consapevolezza della propria debolezza, che induce a cerca­re ogni giorno, col cuore occupato di Cristo, i mezzi per ri­durre al silenzio la carne, sempre pronta ad agire.

«In questo modo infatti vi sarà ampiamente concesso l’ingresso nel regno eterno del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo.»  (v. 11)

Questo versetto è la promessa del premio a chi cammina fedelmente. Se realizziamo i caratteri morali di Dio e del suo re­gno, andiamo verso il momento in cui l’entrata in quel re­gno nella gloria ci sarà concessa ampiamente come lo fu per il Si­gnore che camminò fedelmente quaggiù nel sentiero che lo portò alla gloria. Di là noi lo aspettiamo quando verrà per introdurre il suo popolo sia nella gloria del suo regno terre­no, secondo il Salmo 24, sia nel suo regno eterno.

«Perciò avrò cura di ricordarvi continuamente queste cose, benché le conosciate e siate saldi nella verità che è presso di voi.»  (v. 12)

L’apostolo Pietro faceva di tutto perché i credenti ricordassero ciò che avevano imparato; li tiene svegli (v. 13) e si impegna affinché, dopo la sua morte, possano ricordarsi di quelle co­se (v. 15). Egli risveglia la loro mente sincera, facendo ap­pello alla loro memoria (3:1). Essendo lo scopo di questa Lettera eminentemente pratico, Pietro desidera che il pro­gresso non sia soltanto a livello di intelligenza, un progresso nella conoscenza, ma abbia dei risultati evidenti nella loro con­dotta. Ciò che vuole inculcare nei cristiani è una conoscenza più grande e più profonda della persona di Cristo. Essi era­no radicati nelle verità del cristianesimo, ma non dovevano fermarsi lì, altrimenti avrebbero perduto terreno e reso vani i risultati ottenuti.

«E ritengo che sia giusto, finché sono in questa tenda, di tenervi desti con le mie esortazioni. So che presto dovrò lasciare questa mia tenda, come il Signore nostro Gesù Cristo mi ha fatto sapere.»  (v. 13,14)

Quei credenti avevano bisogno di essere svegliati; non che fossero moralmente in un cattivo stato, ma l’esortazione era necessaria poiché, nella notte in cui vivevano, e nella quale viviamo anche noi, tutto contribuiva a farli addormentare. Pietro desidera che siano desti tanto più che il momento della sua morte era vicino e li avrebbe privati delle sue cure apostoliche e pastorali. Era stato avvertito dal Signore stesso con che morte avrebbe glorificato Dio (Giovanni 21:19) e lui sentiva che presto avrebbe lasciato la sua tenda.

Il ministero di Pietro è im­pregnato dal ricordo di tutto ciò che aveva visto e udito dal Signore quando era in terra. Le sue due Lettere mostrano che egli ha assolto fedelmente la missione alla quale il Signore lo aveva chiamato quando gli affidò le sue pecore e i suoi agnelli.

«Ma mi impegnerò affinché dopo la mia partenza abbiate sempre modo di ricordarvi di queste cose.»  (v. 15)

Pietro vuole che, dopo la sua partenza, i credenti di ogni tempo si ricordino di quelle cose. Oggi, per mezzo della Parola scritta, abbiamo il privilegio di ricordarle, se­condo il suo desiderio. Queste parole di Pietro, come quelle di Paolo in Atti 20:32, negano formalmente qualsiasi suc­cessione apostolica. È appunto per il fatto che questa suc­cessione non esiste che abbiamo in mano i loro scritti. Non appena la Parola fu completata, gli apostoli scomparvero; e al loro posto abbiamo la Parola ispirata. La fine di questo capitolo ci offre la definizione più completa dell’ispirazione delle Scritture.

«Infatti vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole abilmente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua maestà. Egli, infatti, ricevette da Dio Padre onore e gloria quando la voce giunta a lui dalla magnifica gloria gli disse: “Questi è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto”.»  (v. 16,17)

Le cose che i credenti dovevano ricordare dopo la morte dell’apostolo erano certe e vere. Non era con favole, con leg­gende, con invenzioni umane, che gli apostoli avevano fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore; né Pietro lo aveva fatto descrivendo loro la potenza e la gloria del regno che Cristo, ora rigettato, stabilirà alla sua venuta. Anzi, tre apostoli (che rappresentano una testimonianza completa) avevano visto con i loro propri occhi, in un quadro ridotto ma di immensa portata, la maestà del Figlio e il carattere di quel regno dove tutti i fedeli entreranno, quando raggiungeran­no insieme le cose di cui Pietro parla.

In un istante, quel quadro meraviglioso della trasfigurazione del Signore (Marco 9) aveva mostrato loro tutto ciò che formava l’oggetto della profe­zia: la potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo. Il Signore dice (Marco 9:1): «Alcuni di coloro che sono qui presenti non gusteranno la morte, finché non abbiano visto il regno di Dio venuto con potenza».

Dopo aver contempla­to il regno nelle sue due parti: la parte celeste, rappresentata da Mosè ed Elia glorificati (ovvero i santi risuscitati e tra­mutati), e la parte terrestre, rappresentata dai discepoli stes­si (ovvero i santi viventi sulla terra), i discepoli furono come introdotti nella gloria, alla presenza di Dio Padre, quando entrarono nella nuvola, dimora di Dio. Lì, in quella gloria magnifica, essi udirono la voce del Padre che proclamava la gloria e l’onore di Cristo: «Questi è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto». Pietro, riversando qui sul Signore tutta la gloria di quella scena, dice che la voce fu rivolta a Lui, mentre nell’Evangelo la voce è rivolta ai di­scepoli, ai quali è aggiunto: «Ascoltatelo».

Dal punto di vi­sta della “dispensazione”, Mosè ed Elia rappresentavano la legge e i profeti; e Pietro, ignorando che il loro ministero rivolto all’uomo in Adamo era stato vano, li associò a Cri­sto quando propose di fare una tenda per ognuno di loro. È allora che la nube nascose i discepoli e il Padre intervenne per proclamare la gloria del suo Figlio e dir loro che ora dove­vano ascoltare Lui solo. La sua morte, necessaria per l’adem­pimento delle promesse divine e l’introduzione dell’uomo nel­la gloria, fu l’argomento della conversazione di quegli uomini glorificati.

«Egli ricevette da Dio Padre onore e gloria». L’amore di Dio si riversava così sull’Uomo dei suoi consigli, venuto quaggiù nell’umiliazione; perché Dio si compiace sempre di proclamare la gloria del suo Figlio quando è nell’abbassa­mento, come avvenne già nel momento del suo battesimo al Giordano. Troviamo il medesimo pensiero nel Salmo 102, quando di fronte alla morte il salmista, profetizzando di Cri­sto, dice: «Dio mio, non portarmi via a metà dei miei giorni!». Allora Dio risponde: «Nel passato tu hai creato la terra e i cieli sono opera delle tue mani; essi periranno, ma tu rimani», e: «Ma tu sei sempre lo stesso e i tuoi anni non avranno mai fine».

«E noi l’abbiamo udita questa voce che veniva dal cielo, quando eravamo con lui sul monte santo.»  (v. 18)

Quella voce proveniva dal cielo, dalla nube che avvilup­pava i discepoli sul monte santo. Il monte santo, nei Salmi e nei profeti, è la montagna di Sion, la montagna della gra­zia regale. Il «monte santo» è il centro glorioso del regno del Figlio dell’uomo. Non sappiamo su quale monte ebbe luo­go la trasfigurazione, ma questo non ha importanza: per Pietro, esso era il monte santo, scenario della gloria di Colui che regnerà in Sion.

«Abbiamo inoltre la parola profetica più salda: farete bene a prestarle attenzione, come a una lampada splendente in luogo oscuro, fino a quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori.»  (v. 19)

Quel glorioso quadro simbolico della trasfigurazione, che presentava l’adempimento di tutto ciò che i profeti avevano annunciato, rendeva la parola profetica più ferma. Pietro poteva dire che ciò che i profeti avevano annunziato lui e gli altri due discepoli lo avevano veduto con i loro propri occhi. L’insediamento del regno era un soggetto caro al cuore di quei nuovi credenti che attraversavano questo mondo perseguitati e senza possedere nulla; tanto che la loro fede era potentemente incoraggiata dal racconto della trasfigurazione riferita da Pietro. Essa rendeva più fer­ma la parola profetica alla quale facevano bene di prestare attenzione, «come a una lampada splendente in luogo oscu­ro, finché spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vo­stri cuori».

Le parole «come a una lampada splendente in luogo oscuro» formano una parentesi in questo passo, per mostrare che la profezia è come una lampada, una luce, come un faro che indica la riva o il porto da raggiungere, e che illumina, nella buia notte, i marinai che non hanno altro segnale fino allo spuntare del giorno. La parola profetica attira il nostro cuore verso il punto in cui sta per sorgere il giorno, e ci illu­mina sullo stato del mondo, affinché non ci attardiamo nel cammino, e viviamo come in un luogo sul quale sta per ca­dere il giudizio, quando Cristo, il sole di giustizia, si leverà per stabilire il suo regno.

Per quanto riguarda il regno, soltanto la luce della paro­la profetica può orientarci e guidarci mentre aspettiamo il suo insediamento sulla terra; anche se noi, pur attendendo quel giorno, facciamo parte d’un ordine di cose celesti, infinitamente più gloriose del regno sulla terra. Questa parte benedetta è il soggetto degli insegnamenti di Paolo, i cui scritti erano dif­ficili da capire per dei credenti che avevano difficoltà ad afferrare un Cristo diverso da quello che ristabilirà il regno per Israele. Il credente, fatto partecipe del regno celeste di cui Pietro parla di sfuggita, possiede molto di più della parola pro­fetica; egli ha la gioia e la luce nella notte di questo mondo, poiché il giorno sta per apparire e la stella mattutina è già sorta nel nostro cuore. Quella stella è Cristo che viene nella sua gloria celeste per prendere la Chiesa presso di sé, prima di apparire quale «sole della giustizia» (Malachia 4:2).

Il cre­dente si rallegra in Lui, adesso, nell’attesa della sua venuta. La nostra gioia, infatti sarà completa a motivo della Perso­na di Cristo, più di quanto lo sarà per il regno, perché il no­stro cuore già si rallegra al pensiero della “Stella del matti­no”, durante le veglie della notte attuale. Per il credente, il giorno è come se fosse già spuntato: «Le tenebre stanno pas­sando, e già risplende la vera luce» (1 Giovanni 2:8).

Quella stella, Cristo stesso che viene ad incontrare i suoi sulle nuvole per prenderli con Sé, sta per apparire. Ma essa, come si è detto, è già spuntata, per la fede, nel nostro cuore; essa ci illumina e ci colma d’una gioia ineffabile e gloriosa; tuttavia, la parola profetica è anche per noi, mentre siamo nel mondo; dopo il rapimento dei santi continuerà nel suo ufficio, illuminando, dirigendo e sostenendo il residuo pio d’Israele fino a quando Cristo apparirà come il “sole della giu­stizia”, compimento di ogni profezia.

Vediamo che l’apostolo, pur confermando a questi cre­denti, che erano Giudei, l’adempimento delle profezie del Vecchio Testamento con la venuta di Cristo attualmente rifiutato, cerca di portarli a godere di una parte migliore in Lui, una parte celeste ed eterna. Egli ha già messo in eviden­za in quale maniera la potenza divina aveva dato loro tutto quanto riguardava la vita e la pietà, per mezzo della cono­scenza di Colui che li aveva chiamati con la sua gloria e vir­tù. Ora, mostra loro che la parola profetica li porta a Lui stesso, e che lo possiedono, come stella lucente e mattutina che precede il giorno annunziato da questa Parola. Nel cap. 3, dopo aver parlato della venuta del giorno del Signo­re, invece di attirare la loro attenzione sulla gloria di quel giorno, porta direttamente i loro pensieri allo stato eterno, al giorno di Dio, quando i nuovi cieli e la nuova terra saran­no stabiliti. Poi termina esortandoli a crescere nella grazia e nella conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo.

«Sappiate prima di tutto questo: che nessuna profezia della Scrittura proviene da un’interpretazione personale;» (v. 20)

Con la stella del mattino sorta nel loro cuore, essi posse­devano già per fede Colui che era l’oggetto di tutte le profe­zie, cioè Cristo, che stabilirà il suo regno sulla terra, col suo trono in Sion in mezzo ad Israele e a tutte le nazioni, bene­dette sotto il suo scettro. Nessuna profezia può avere la sua giusta interpretazione se è disgiunta dall’insieme, che termi­na e si conclude con la gloria del suo Figlio su questa terra, a compimento dei progetti di Dio. Ogni profezia è un parti­colare di quest’insieme, e presenta degli avvenimenti il cui adempimento in parte ha già avuto luogo, e in parte deve an­cora realizzarsi prima dell’avvento del regno di Cristo.

«infatti nessuna profezia venne mai dalla volontà dell’uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo.» (v. 21)

La profezia è sicura; è il solo mezzo per conoscere la ve­rità sull’avvenire, poiché «nessuna profezia venne mai dalla volontà dell’uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo». Dio si è servito di uomini diversi e in circostanze, tempi e am­bienti molto differenti; ma tutti sono chiamati santi uomini di Dio, uomini separati dal male che sovente imperversava nel tempo in cui furono suscitati. Fu a motivo della loro se­parazione dal male, come indica l’attributo di santi, che poterono essere adoperati dallo Spi­rito Santo. Egli dettò loro il pensiero di Dio che si riferiva alle circostanze nelle quali il suo popolo si trovava allora, ma nello stesso tempo esprimeva ciò che sarebbe avvenuto alla fine, all’avvento del regno di Cristo. Se quegli uomini aves­sero parlato dicendo cose inventate da loro, come avrebbero potuto farlo in modo che, nonostante le circostanze e i tem­pi così diversi e lontani gli uni dagli altri, i loro scritti faces­sero parte di un tutto unico che Dio solo conosceva?

Dob­biamo dunque attenerci esclusivamente alla Parola per avere conoscenza degli avvenimenti futuri. E non giu­dichiamo mai la profezia in base ad avvenimenti storici o politici che sembrano giustificarla, ma invece giudichiamo gli avvenimenti in base alla profezia rivelata, e in base a ciò che essa ci insegna.

Queste parole di Pietro, inoltre, anche se relative alla pro­fezia, si possono applicare a tutta la Scrittura. Tutta è «ispirata da Dio» (2 Timoteo 3:16), tutta è stata dettata dallo Spirito Santo, come conferma Davide: «Lo spirito del SIGNORE ha parlato per mio mezzo e la sua parola è stata sulle mie labbra» (2 Samuele 23:2), e come leggiamo anche in Isaia: «Quanto a me, dice il SIGNORE, questo è il patto che io stabilirò con loro: il mio spirito che riposa su di te e le mie parole che ho messe nella tua bocca non si allontaneranno mai dalla tua bocca, né dalla bocca della tua discendenza, né dalla bocca della discendenza della tua discendenza, dice il SIGNORE, da ora e per sempre» (Isaia 59:21).

Capitolo 2

«Però ci furono anche falsi profeti tra il popolo, come ci saranno anche tra di voi falsi dottori che introdurranno occultamente eresie di perdizione, e, rinnegando il Signore che li ha riscattati, si attireranno addosso una rovina immediata.» (v. 1)

Come vi furono falsi profeti in mezzo al popolo d’Israele che dicevano: «Così dice il Signore », Pietro avverte che vi sa­ranno anche falsi dottori tra i cristiani. In mezzo al popolo terreno, dopo il rapimento dei santi della Chiesa e prima dello stabilirsi del regno, il Signore dice che vi saranno di nuovo falsi profeti (Matteo 24:11). Nella Chiesa, dove c’è il sano insegnamento, sono sorti e sorgono ancora dei falsi dottori i quali, invece di far valere la parola di Cristo e il suo insegnamento, formano delle scuole teologiche; e invece di insegnare, come fece Barnaba ad Antiochia a rimanere attaccati al Signore (Atti 11:23), attirano dei discepoli a sé (Atti 20: 30).

Due cose contraddistinguono quei falsi dottori: essi in­troducono furtivamente delle teorie di perdizione, delle eresie, e rinnegano il Signore che li ha riscattati. L’insegnamento della verità dev’essere proclamato apertamente, con ogni dirittura; invece, coloro che falsificano la verità usano vie sub­dole e nascondono le loro intenzioni sotto un “parlare dolce e lusinghiero” (Romani 16:18). L’apostolo Paolo disse agli anziani di Efeso: «Non vi ho nascosto nessuna delle cose che vi erano utili, e ve le ho annunziate e insegnate in pubblico e nelle vostre case, e ho avvertito solennemente Giudei e Greci di ravvedersi davanti a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù Cristo» (Atti 20:20, 21); e ai Corinzi: «Non ci comportiamo con astuzia né falsifichiamo la parola di Dio, ma rendendo pubblica la verità, raccomandiamo noi stessi alla coscienza di ogni uomo davanti a Dio. Se il nostro vangelo è ancora velato, è velato per quelli che sono sulla via della perdizione» (2 Corinzi 4:2 e 3).

Le eresie (il termine greco significa “sette”) sono dette “di per­dizione” perché è appunto alla perdizione che porta il falso insegnamento. Una falsa dottrina può non essere individua­ta all’inizio, ma sappiamo dove può portare anche un picco­lo scostarsi dalla verità; la Parola di Dio ci istruisce a questo riguardo. Nei nostri giorni, i falsi insegnamenti pullulano, e dobbiamo essere guardinghi per discernere la loro falsità e le loro conseguenze, nonostante le apparenze a volte sedu­centi. Vi sono insegnamenti che, subito, non sembrano com­promettere i fondamenti del cristianesimo, ma che sono invece un capovolgimento della verità. Gran parte della false dottrine introdotte fra i credenti dopo la morte degli apostoli sono state accolte dalla chiesa Cattolica Romana il cui insegnamento abbonda di eresie, di tradizioni, di riti pagani.

Oggi, dob­biamo ancora lottare contro tutto quello che tende a falsifi­care, a indebolire e, alla fine, a fare scomparire le verità messe in luce dagli apostoli, nelle quali dobbiamo perseverare. È scritto: «Tu, invece, persevera nelle cose che hai imparate e di cui hai acquistato la certezza, sapendo da chi le hai imparate» (2 Timoteo 3:14). L’insegnamento secondo la verità ci unisce a Cristo. Ogni falso insegnamento ci allontana da Lui e vol­ge lo sguardo dei credenti sull’uomo, per portarlo poi a «rin­negare il Signore che li ha riscattati». I falsi dottori respin­gono così i diritti che il Signore ha acquisiti sull’uomo, ri­scattandolo, e sostituiscono i loro insegnamenti a quelli di Cristo, rifiutando di ubbidirli. Così facendo si espongono ad una punizione eterna.

«Molti li seguiranno nella loro dissolutezza; e a causa loro la via della verità sarà diffamata.» (v. 2)

Se la testimonianza è compromessa, l’obbrobrio ricade sulla verità, poiché il mondo è abile a scoprire le contraddi­zioni nel cammino dei cristiani e a dire che la colpa è della Ve­rità, della dottrina cristiana.

«Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false; ma la loro condanna già da tempo è all’opera e la loro rovina non si farà aspettare.» (v. 3)

Essendo «l’io» e non Cristo il movente della loro attivi­tà, i falsi dottori sono guidati dalla cupidigia e i credenti che prestano attenzione alle loro parole artificiose diventano lo­ro vittime: «Vi sfrutteranno con parole false». Ma c’è un termine a tutto questo; il loro giudizio è all’opera già da tem­po, e la loro rovina non sonnecchia. Il tempo del castigo di Dio verrà per loro, com’è venuto per gli angeli che hanno peccato o per il mondo antidiluviano o per le città di Sodo­ma e Gomorra.

«Se Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li inabissò, confinandoli in antri tenebrosi per esservi custoditi per il giudizio;» (v. 4)

I versetti da 4 a 9 formano una specie di parentesi per dare un esempio dei giudizi che colpiranno coloro che seguono una simile via. Gli angeli che hanno peccato sono quelli di cui parla Giu­da (v. 6 e 7) e, secondo alcuni commentatori, quei «figli di Dio» di Genesi 6:2 e 4. Dio ha voluto lasciare nell’ombra i particolari relativi al loro pec­cato. Genesi dice che il peccato fu commesso e qui, come in Giuda, è parlato del giudizio che ne seguì. Quegli angeli fu­rono precipitati nell’abisso dove, in preda alle tenebre, at­tendono il giudizio.

Questo è un avvertimento per gli uomi­ni, perché una simile mostruosità non si ripeta. Satana e gli altri suoi angeli sono invece tuttora liberi, seppure sotto il controllo di Dio. Pietro presenta l’atto di quegli angeli come peccato morale; Giuda lo presenta dal punto di vista dell’a­postasia, e dice che «non conservarono la loro dignità e abbandonarono la loro dimora» (Giuda v. 6).

«se non risparmiò il mondo antico ma salvò, con altre sette persone, Noè, predicatore di giustizia, quando mandò il diluvio su un mondo di empi;»  (v. 5)

Il diluvio è un altro esempio del giudizio di Dio sui mal­vagi. Noè e la sua famiglia furono risparmiati (1 Pietro 3:20). Egli, come predicatore di giustizia, annunciò agli uomini empi che il giusto giudizio d’un Dio perfettamente giusto stava per cadere sopra di loro. Nell’Antico Testamento, quando è par­lato di «giustizia», come qui, è generalmente fatta allusione alla giustizia pratica, cioè il condursi come Dio vuole.

«se condannò alla distruzione le città di Sodoma e Gomorra, riducendole in cenere, perché servissero da esempio a quelli che in futuro sarebbero vissuti empiamente; e se salvò il giusto Lot che era rattristato dalla condotta dissoluta di quegli uomini scellerati (quel giusto, infatti, per quanto vedeva e udiva, quando abitava tra di loro, si tormentava ogni giorno nella sua anima giusta a motivo delle loro opere inique), ciò vuol dire che il Signore sa liberare i pii dalla prova e riservare gli ingiusti per la punizione nel giorno del giudizio;» (v. 6 a 9)

La distruzione delle città di Sodoma e Gomorra serve d’e­sempio a coloro che vivono nell’empietà, mentre la libera­zione di Lot è un incoraggiamento per i fedeli, facendo ve­dere che Dio può liberare dalla tentazione gli uomini pii. Così avverrà al residuo giudeo fedele della fine. Dio parla qui di Lot come d’un giusto «rattristato dalla condotta dissoluta di quegli uomini scellerati»; quel giusto, infatti, quando abitava fra loro, «si tor­mentava ogni giorno nella sua anima giusta». Dio lo riteneva “giu­sto”, benché questo suo essere giusto si ve­desse soltanto nel fatto ch’egli si «tormentava nella sua anima», testimone com’era dell’iniquità dei suoi contemporanei dai quali avrebbe dovuto separarsi. Egli «abitava» in mezzo a loro; Abrahamo, invece, aveva scelto per dimora i pascoli delle montagne, lontani dal mondo abitato e corrotto della pianura.

Ci sono molte anime che si tormentano per lo stato cor­rotto di certi ambienti, dai quali però non hanno l’energia né forse la volontà di separarsi. Ma il credente, pur soffrendo dello stato nel qua­le si trova il mondo, deve godere delle benedizioni celesti nella comunione con Dio; e questa comunione non può esserci se non nella separazione pratica dal mondo, dal suo modo di vivere e di pensare.

«e soprattutto quelli che vanno dietro alla carne nei suoi desideri impuri e disprezzano l’autorità. Audaci, arroganti, non hanno orrore di dir male delle dignità; mentre gli angeli, benché superiori a loro per forza e potenza, non portano contro quelle, davanti al Signore, alcun giudizio ingiurioso. » (v. 10, 11)

Se Dio può liberare gli uomini pii (sia Noè, predicatore di giustizia, sia Lot, che non sapeva far altro che tormentar­si), Egli riserverà gli ingiusti per il giudizio, specialmente «quelli che vanno dietro alla carne nei suoi desideri impuri, e disprezzano l’autorità». È da loro che Pietro mette in guardia i credenti. Lo Spirito di Dio svela lo stato morale di quelle persone e ce lo descrive senza mezzi termini. Veden­doli in mezzo ai santi, mentre insegnavano e partecipavano ai loro conviti, nessuno li avrebbe dipinti così. Anche Giu­da, come qui Pietro, segnala questa situazione che raggiun­gerà il culmine prima della venuta del Signore, ma i cui prin­cipi germogliavano già allora. Pietro presenta ciò che noi vediamo adesso nella cristianità; e Giuda descrive l’aposta­sia, esattamente come la vediamo noi oggi.

Si ritrovano così i due caratteri del male menzionati nei primi versetti del capitolo: il disprezzo dell’autorità e l’im­purità legata alla falsa dottrina. Si tratta di gente audace, schiava del proprio modo di vedere, che ha il solo timore di non poter seguire fino in fondo la propria via corrotta. Essi disprezzano l’autorità e non temono di ingiuriare la dignità. «Autorità» e «dignità» indicano gli angeli, in questo caso quelli decaduti; essi devono sem­pre essere considerati da noi secondo la dignità di cui il Crea­tore li aveva rivestiti. Giuda ci offre un esempio raccontan­do il fatto di Michele che pur essendo un arcangelo, invece di ingiuriare Satana, lasciò al Signore la cura di censurarlo.

Abbiamo bisogno di tener presente questo, non solo perché l’ordine stabilito da Dio nella creazione va riconosciuto, ma anche per non esporci a terribili sconfitte, credendo di poter affrontare impunemente queste “potenze” e queste “auto­rità”. Un solo mezzo ci è dato per non essere vinti: manife­stare i caratteri di Cristo nell’umiltà e nell’ubbidienza alla Parola. In questo modo Egli stesso è stato vincitore su Sata­na e le sue potenze.

Ma bisogna anche vigilare sul proprio modo di giudicare e di considerare le cose, e non credere che il nostro pensiero sia il solo vero e giusto. Se qualcuno pensa di aver ragione, farà bene ad aspettare che gli altri possano capire le sue idee, e pensare che gli altri potrebbero aver ragione quanto lui, senza voler imporre il proprio pensiero, fino a che le cose non si siano chiarite alla luce della Parola di Dio (Tito 1:7). Agire secondo il proprio modo di vedere, senza tener conto di quello degli altri, fa perdere ogni autorità, sia nel servizio di pastorale che nell’insegnamento.

«Ma costoro, come bestie prive di ragione, destinate per natura a essere catturate e distrutte, dicono male di ciò che ignorano, e periranno nella propria corruzione, ricevendo il castigo come salario della loro iniquità. Essi trovano il loro piacere nel gozzovigliare in pieno giorno; sono macchie e vergogne; godono dei loro inganni mentre partecipano ai vostri banchetti.» (v. 12,13)

Quelle persone paragonate a bestie, ad ani­mali, sono prive di qualsiasi vera spiritualità; esse parlano in modo sconveniente delle cose che neppure conoscono, cose relative alla sfera spirituale. Giuda dice: «Questi, invece, parlano in maniera oltraggiosa di quello che ignorano, e si corrompono in tutto ciò che sanno per istinto, come bestie prive di ragione» (Giuda v. l0). E Pietro dice: «Periranno nella propria corruzione» (v. 12).

È sorprendente vedere quanto la corruzione morale sia legata a quella dottrinale: «Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false» (v. 3). La cupidigia è l’avidità nell’appropriarsi di ciò che appartiene ad un altro, nel trarre profitto a scapito di altri. Que­sto termine è applicabile anche alla concupiscenza carnale ol­tre che alla bramosia del denaro. È veramente umiliante pensare che, attraverso parole artificiose e con la pretesa di parlare delle cose di Dio, alcuni cercassero di adescare delle donne, a profitto della carne. Si capisce che lo Spirito di Dio dica: «Periranno nella loro propria corruzione, ricevendo il castigo come salario della loro iniquità». Essi sono occupati soltanto dalla propria soddisfazione, e consacrano tutte le loro attivi­tà a un godimento presente e passeggero. L’espressione «tro­vano il loro piacere nel gozzovigliare in pieno giorno» (v. 13) può anche essere tradotta con «trovano piacere nelle voluttà di un giorno», in allusione alla fugacità dei piaceri della carne.

«Hanno occhi pieni d’adulterio e non possono smetter di peccare; adescano le anime instabili; hanno il cuore esercitato alla cupidigia; sono figli di maledizione!» (v. 14)

Questi versetti descrivono uno stato morale che più bas­so non potrebbe essere. Questi falsi credenti, che vivono fra i credenti, non sono cristiani caduti momentaneamente nel peccato. Essi gozzovigliano e «godono dei loro inganni, mentre partecipano ai vostri conviti». Il loro modo d’agire è molto pericoloso: «hanno occhi pieni d’adulterio e non possono smettere di peccare; adescano le anime instabili; han­no il cuore esercitato alla cupidigia, sono figli di maledi­zione». Essi trascinano i deboli e la loro parola non si rivol­ge né al loro cuore, né alla loro coscienza; perché, se così fosse, sarebbe loro d’aiuto. Non così agì Mosè, il quale scel­se piuttosto di essere nell’afflizione con il popolo di Dio, che di godere per un breve tempo le delizie del peccato (Ebrei 11:25). Paolo esorta i credenti a praticare «la pietà» (1 Timoteo 4:7), ma costoro sono immersi nella cupidigia. «Gli anticri­sti» di cui parla Giovanni erano usciti di fra i santi (1 Giovanni 2:19), ma qui, in Pietro, sono ancora in mezzo a loro come macchie e vergogne, come terribili strumenti di Sa­tana che rinnegano il Signore che li ha «riscattati» (letteral­mente: che li ha «comprati», vale a dire che ha pagato il prez­zo per la loro liberazione, della quale però non hanno usufruito in quanto non hanno la fede).

Per sfuggire all’attività pericolosa di questi individui, dob­biamo vigilare su tutta la nostra condotta, sui nostri pensie­ri, sul nostro parlare e sulle nostre azioni. L’abbandono di una «buona coscienza» porta al naufragio della fede (1 Timoteo 1:19). Una «coscienza pura» (Atti 24:16) è quella di un credente a cui Dio non ha nulla da rimproverare; una coscienza “senza colpa” è quella di un credente che, in tutta sin­cerità, ritiene di non aver nulla da rimproverarsi (1 Corinzi 4:4).

È importante che rimaniamo sottomessi al Signore che ci ha riscattati, rinunciando alla nostra propria volontà; poiché il riscattato non appartiene a se stesso (1 Colossesi 6:19) ma è pro­prietà del Signore che ha ogni diritto su di lui. L’indipendenza prende sempre più piede nelle nuove generazioni; resistiamo fermi e opponiamoci alla sua influenza!

L’apostolo Paolo, pensando ai gravi pericoli che i santi avrebbero incontrato dopo la sua partenza, dice agli anziani di Efeso: «Badate a voi stessi… Io so che dopo la mia partenza si introdurranno fra di voi lupi rapaci, i quali non risparmieranno il gregge… Perciò vegliate, ricordandovi che per tre anni, notte e giorno, non ho cessato di ammonire ciascuno con lacrime. E ora, vi affido a Dio e alla Parola della sua grazia, la quale può edificarvi e darvi l’eredità di tutti i santificati» (Atti 20:28 a 32).

Ahimè! l’assenza del timore del Signore, la ricerca della propria soddisfazione, non sono forse anche la causa del co­sì basso stato morale e spirituale in cui ci troviamo oggi? «Colui che semina per la sua carne, mieterà corru­zione dalla carne » (Galati 6:8). Il primo passo per porvi rimedio è di giudicare noi stessi e fare sempre il punto della nostra vita.

In contrasto con la condotta delle persone di cui l’apo­stolo Pietro parla, è bello considerare ciò che Paolo dice del­la sua condotta agli anziani di Efeso a Mileto (Atti 20:17 a 38): aveva servito il Signore con ogni umiltà e con lacri­me; non aveva bramato né l’argento, né l’oro, né le cose di altri; aveva lavorato con le proprie mani per provvedere ai suoi bisogni. Paolo si era «raccomandato» come ministro di Dio non dando «nessun motivo di scandalo» affinché il suo servizio non fosse biasimato (2 Corinzi 6:3). Anche il profeta Samuele, alla fine della sua carriera, poté fare ap­pello alla serietà della sua condotta dinanzi a tutto il popolo (1 Samuele 12). E il profeta Geremia, in un tempo molto triste, poté dire all’Eterno: «Tu sai tutto, o SIGNORE!» (15:15 a 18).

Facciamo nostra l’esortazione dell’apostolo Pietro; badia­mo a noi stessi e vegliamo; saremo protetti e resi capaci di discernere il male, sia in noi, sia in coloro che possono avere su di noi una cattiva influenza. «Voi, dunque, carissimi, sapendo già queste cose, state in guardia per non essere trascinati dall’errore degli scellerati e scadere così dalla vostra fermezza; ma crescete nella grazia e nella conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo» (2 Pietro 3:17,18).

«Lasciata la strada diritta, si sono smarriti, se­guendo la via di Balaam, figlio di Beor, che amò un salario d’iniquità,» (v. 15)

Come sono arrivati quei falsi dottori a un così spaventoso stato morale e a un’attività così pericolosa per chi li ascolta? Hanno abban­donato la diritta strada e si sono smarriti seguendo la via di Balaam (Numeri 22)! È come una catena: si lascia la strada diritta, si erra, ci si smarrisce. Quando si ama il «salario d’i­niquità», si fa tacere la voce della coscienza, e si diventa in­calliti nel male. Balaam agì da ipocrita. In apparenza egli di­sprezzava i tesori di Balac, ma, in realtà, bramava possederli; egli volle apparire uomo pio, mentre non era altro che un malvagio, senza timore di Dio.

«ma fu ripreso per la sua prevaricazione: un’a­sina muta, parlando con voce umana, represse la follia del profeta.» (v. 16)

È umiliante vedere che l’uomo, in simile stato, ha meno discernimento d’una bestia, d’un asina, di cui Dio si servì per reprimere «la follia del profeta»!

«Costoro sono fonti senz’acqua e nuvole sospinte dal vento; a loro è riservata la caligine delle tenebre. Con discorsi pomposi e vuoti adescano, mediante i desideri della carne e le dissolutezze, quelli che si erano appena allontanati da coloro che vivono nell’errore; promettono loro la libertà, mentre essi stessi sono schiavi della corruzione, perché uno è schiavo di ciò che lo ha vinto.» (v. 17 a 19)

I falsi dottori si presentano ai credenti in abito da pecora, ma dentro sono lupi rapaci (Matteo 7:15). Le loro «fonti», per così dire, non hanno nulla in comune con la «sorgen­te», sono fonti asciutte. Assomigliano a nuvole sospinte dal ven­to di tempesta, che non portano nessuna benedizione. A lo­ro è riservata l’oscurità delle tenebre, per sempre. Con i loro discorsi orgogliosi e vani hanno la pretesa di portare la luce agli altri e adescano coloro che sono appena sfuggiti all’er­rore; sono schiavi della corruzione e promettono la libertà! Chi è vinto dal peccato è schiavo del peccato; ma il vero cre­dente, fedele al Signore, è libero dal peccato ed è vincitore (anzi, più che vincitore) in virtù di Colui che lo ha amato (Romani 8:37)

«Se infatti, dopo aver fuggito le corruzioni del mondo mediante la conoscenza del Signore e Salvatore Gesù Cristo, si lasciano di nuovo avviluppare in quelle e vincere, la loro condizione ultima diventa peggiore della prima. Perché sarebbe stato meglio per loro non aver conosciuto la via della giustizia, che, dopo averla conosciuta, voltar le spalle al santo comandamento che era stato dato loro. È avvenuto di loro quel che dice con verità il proverbio: “Il cane è tornato al suo vomito”, e: “La scrofa lavata è tornata a rotolarsi nel fango”.» (v. 20 a 22)

Coloro che sono sfuggiti alla corruzione, grazie alla co­noscenza del Signore e Salvatore Gesù Cristo, ma che poi vi sono tornati, si trovano in una condizione peggiore della pri­ma; che opera satanica! È solenne venire a sapere, dalla boc­ca stessa del Signore, che così è stato dei Giudei, e così sarà della cristianità: «Così avverrà anche a questa malvagia ge­nerazione» (Matteo 12:45).

Il v. 22 e Ebrei 6: 4 a 6 parlano delle medesime per­sone: hanno udito la Parola, hanno gustato la presenza e i doni dello Spirito Santo, ma poi se ne sono andati e sono sprofondati negli affanni, nell’amore delle ricchezze e nella voluttà della vita. Così il cane, animale impuro a quel tem­po, ritrova il suo carattere di cane, e la troia, che già era sta­ta lavata, quello di troia, come prima. Questo passo non de­ve far pensare che si possa perdere la salvezza. Quelli non erano convertiti. La Parola aveva prodotto su di loro degli effetti soltanto esterio­ri; erano diventati dei professanti; avevano anche una certa attività, come vediamo nel nostro capitolo e in 1 Corinzi 9:27, ma in loro non era avvenuta la nuova nascita; erano rimasti quelli di prima e, naturalmente, erano tornati a ciò che avevano momentaneamente lasciato.

Tuttavia, queste parole toccano anche le nostre coscienze, poiché anche quelli che hanno la vita di Dio possono trarne pro­fitto. Dio ci avverte sulla «conclusione» delle nostre vie: «Se vivete secondo la carne, voi morrete (letteralmente: «siete sulla via che porta alla morte» (Romani 8:13). Il vero credente non perde la vita ma, se è sulla via che porta alla morte, disonora il Signore e perde la pace interiore e il suo carattere di testimone di Dio nel mondo.

«Non v’illudete; né fornicatori, né idolatri, né adul­teri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriachi, né oltraggiatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio» (1 Corinzi 6:9,10). Se abbiamo conosciuto la via della giustizia, stiamo attenti a non allontanarcene! C’è un santo comandamento; sottomettiamoci ad esso; questa è la via retta, la via della vita, della pace, della santità, del riposo dell’anima (vedere Geremia 6:16; 21:8; Isaia 35:8; 59:8).

Capitolo 3

Viviamo in tempi di permissivismo e di ricerca dei piaceri e degli interessi personali; stiamo attenti! Se il Signore non soddisfa il cuore, c’è il rischio di correre verso quello che piace alla carne, tanto più che i mezzi e le occasioni di godimenti mondani si moltiplicano ogni giorno e sono alla portata di tutti e per tutti i gusti. Sottomettiamoci e amiamo la «signo­ria» di Gesù il quale ci ha amati e ha dato se stesso per noi, acquisendo ogni diritto sui nostri cuori e nella nostra vita.

«Carissimi, questa è già la seconda lettera che vi scrivo; e in entrambe io tengo desta la vostra mente sincera facendo appello alla vostra memoria,» (v. 1)

L’apostolo Pietro sapeva che il tempo della sua morte era ormai giunto; egli era legato ai credenti dall’interesse che ave­va per loro; questa era già la seconda lettera che scriveva.

Le sue lettere avevano e hanno lo scopo di provocare un risveglio tra i fratelli, non presentando loro cose nuove, ma ricordan­do cose già conosciute. È di questo che abbiamo bisogno og­gi in modo del tutto particolare, poiché le cose che conoscia­mo hanno perduto il loro effetto santificante sul nostro cammino, e dobbiamo essere risvegliati. Quando siamo sen­sibilizzati sull’importanza di questo fatto e sulla necessità di un rinnovamento in noi e nella nostra vita, la via si apre ad un risveglio reale e benedetto.

Nelle sue lettere, Pietro vuole risvegliare la mente sin­cera dei santi, facendo appello alla loro memoria, perché ri­cordino le parole già udite. È l’unica volta in cui troviamo l’espressione «sincera» applicata all’intelligenza, alla men­te, e questo è molto importante ai giorni nostri, nei quali i nostri pensieri sono così facilmente contaminati da insegna­menti erronei. La «mente sincera» è una mente purificata dal peccato e mantenuta pura tramite l’azione della Parola, perché è solo la Parola che le impedisce di essere contamina­ta dai principi che prevalgono in questo mondo e che si insi­nuano nella mente dell’uomo. L’insegnamento divino è il solo mezzo per mantenere la mente sincera ed equilibrata, in gra­do di giudicare i ragionamenti dello spirito umano.

Pietro presenta dunque tre cose in grado di risvegliare la mente sincera dei santi:

  1. Tutto ciò che la potenza divina ha dato, per quanto concerne la vita e la pietà.
  1. L’ingresso nel regno eterno del nostro Signore e Salva­tore Gesù Cristo, che non può essere accordata «ampiamente» a coloro la cui vita pratica non corrisponde al carattere del regno.
  2. Il pensiero della venuta del Signore (pur non essendo qui il soggetto principale), e un conseguente cammino che realizzi i caratteri santi del giorno di Dio, che seguirà alla dis­soluzione dei cieli e della terra di adesso.

«perché vi ricordiate le parole già dette dai santi profeti, e il comandamento del Signore e Salvatore trasmessovi dai vostri apostoli.» (v. 2)

Dobbiamo ricordare le verità trasmesse per mezzo dei santi profeti, e i comandamenti che il Signore ci ha dato tramite gli apostoli. Dei santi profeti dell’Antico Testamento è par­lato al cap. 1:21 e nella prima Lettera cap. 1:10, 12. Essi si distinsero per la santità del loro comportamento che per­mise a Dio di comunicare loro i suoi pensieri. Vi furono pu­re dei falsi profeti, uomini che pretendevano di essere illu­minati da Dio; ed ancora una terza classe: coloro che, come Balaam, pur essendo profeti, non camminavano nella santi­tà, ma che, quando Dio lo comandava, erano costretti a pro­nunciare soltanto quello che Lui diceva. Infatti l’Eterno dis­se a Balaam: «Va’ pure con quegli uomini; ma dirai soltanto quello che io ti dirò». Suo malgrado, egli non poté far altro che eseguire gli ordini di Dio.

Le cose dette in anticipo dai santi profeti, così come il co­mandamento del Signore e Salvatore trasmesso dagli apostoli, sono la rivelazione delle verità che fanno parte del cristiane­simo, per produrre un cammino in armonia con il glorioso regno di Dio, nell’attesa che venga stabilito. La verità rive­lata costituisce, nel suo insieme, un santo comandamento dal quale si erano allontanati coloro di cui è parlato nel cap. 2. È un comandamento che «apparta» per Dio e che deve produrre una testimonianza pratica, di giustizia e santità, e che non può essere legata a una vita dissoluta. Tito 2:11 a 14 ci offre un riassunto di questo santo comandamento. In Atti leggiamo che il governatore Felice, messo di fronte a que­sto comandamento, tutto spaventato mandò via Paolo (Atti 24:25). Da esso, alcuni di quelli che avevano conosciuto la via della giustizia si erano allontanati (cap. 2:20).

«Sappiate questo, prima di tutto: che negli ultimi giorni verranno schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo i propri desideri peccaminosi e diranno: “Dov’è la promessa della sua venuta? Perché dal giorno in cui i padri si sono addormentati, tutte le cose continuano come dal principio della creazione”.» (v. 3, 4)

È dunque importante ricordare l’insegnamento dei pro­feti e degli apostoli del Signore, per non essere scossi dalle affermazioni dei beffardi. Essi «parlano», ma prima di loro hanno «parlato» coloro a cui Dio ha trasmesso le sue paro­le. La venuta del Signore infastidisce gli increduli, perché la loro parte in questa venuta è il giudizio dovuto alla loro vita di concupiscenza. La venuta del Signore porterà nel creato, secondo l’insegnamento dei profeti e degli apostoli, non so­lo dei cambiamenti ma la sua «dissoluzione». Ora, per po­ter dire che questa venuta non ci sarà, essi cercano di auto­convincersi, dicendo che, dal principio della creazione, tutte le cose continuano nel medesimo stato.

«Ma costoro dimenticano volontariamente che nel passato, per effetto della parola di Dio, esistettero dei cieli e una terra tratta dall’acqua e sussistente in mezzo all’acqua; che, per queste stesse cause, il mondo di allora, sommerso dall’acqua, perì; mentre i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della perdizione degli empi.» (v. 5 a 7)

Gli empi hanno fiducia nella stabilità delle cose visibili e non tengono conto della parola di Dio. Vogliono ignorare che esistettero dei cieli e una terra tratta dall’acqua, e che il mondo d’allora sommerso dall’acqua del diluvio perì. Quando Dio intervenne nello stato di caos in cui era la terra (Genesi 1:2), separò le acque che erano di sotto, da quelle che erano sopra la distesa, e trasse la terra dalle acque; più tardi, quelle acque la ricoprirono quando venne il diluvio per mezzo del quale il mondo d’allora perì. Vediamo dunque che le cose non sono nel medesimo stato dell’inizio della crea­zione.

Questi schernitori, che si trovano nella cristianità, poiché siamo agli ultimi giorni, negano che la creazione sia opera di Dio e l’attribuiscono piuttosto a una forza estranea senza credere a ciò che Dio ci dice nella narrazione tanto bella del­la sua opera nel principio (*). Essi ignorano volontariamen­te la distruzione causata dal diluvio, e quella finale che av­verrà per mezzo del fuoco. Poiché «i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della perdizione degli empi». Con la sua Parola, Dio crea e fa sussistere; e distruggerà con il fuoco. I credenti confidano nella Parola; i beffardi, nelle cose che vedono. Per loro, la materia è eter­na; per i credenti è la Parola di Dio che è eterna!

La distruzione dei cieli e della terra è in relazione con il giudizio degli uomini empi; lo vediamo in Apocalisse 20:9,10. Alla fine del millennio, gli eserciti in rivolta saranno consu­mati dal fuoco che scende dal cielo, e il diavolo che li aveva coalizzati verrà gettato nello stagno di fuoco, dove sono la bestia e il falso profeta. Poi verrà il gran trono bianco col giudizio dei morti.

(*) Essi preferiscono attribuire la creazione a una forza di fronte alla quale non han­no nessuna responsabilità. Ma la responsabilità essi l’hanno, invece, davanti a Dio, autore d’ogni cosa. Egli dovrà un giorno giudicare giustamente la terra, per mezzo dell’uomo ch’Egli ha destinato a questo, Colui di cui loro negano la prossima venuta. Ecco il motivo per cui rifiutano Dio e la sua Parola.

Pietro fa molte volte allusione al diluvio, giudizio che ave­va messo fine al mondo d’allora (salvo otto persone), per­ché da allora non v’è più stata una distruzione generale dei malvagi. Dio stesso l’aveva promesso (Genesi 8:21,22). Ma, dice Pietro, se Dio tiene fede alla sua Parola per quanto ri­guarda il patto con la creazione fatto dopo il diluvio, allo stesso modo, per la medesima Parola, «conserva» questa terra per il fuoco, per la distruzione completa che avrà luo­go nel giorno del giudizio e della distruzione degli uomini em­pi. La distruzione di Sodoma e Gomorra è stata come un esempio del giudizio futuro che avverrà per mezzo del fuoco.

«Ma voi, carissimi, non dimenticate quest’unica cosa: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. Il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento.» (v. 8, 9)

Il Signore incoraggia quelli che desiderano ardentemente la sua venuta, col pensiero che, per Lui, un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno. Non v’è nessun ritardo nella sua promessa, anche se alcuni potrebbero pen­sarlo. Senza che vi sia incredulità o scetticismo, qualcuno po­trebbe essere stanco dell’attesa o dell’apparente ritardo del­la venuta del Signore; ma questo apparente ritardo è soltanto da attribuirsi alla bontà di Dio che vuole ancora salvare gli uomini. Egli è paziente verso i Giudei, dice Pietro, altrimenti nessuno sa­rebbe salvato; ma la medesima pazienza è verso tutti, poi­ché Dio non vuole la perdizione di nessun essere umano. Occorre dunque la pazienza perché tutti gli eletti siano manifestati. In fondo, tutti noi abbiamo beneficiato di questa pazienza!

«Il giorno del Signore verrà come un ladro: in quel giorno i cieli passeranno stridendo, gli elementi infiammati si dissolveranno, la terra e le opere che sono in essa saranno bruciate.» (v. 10)

Il giorno del Signore, che inizierà dopo il rapimento della Chiesa, verrà come un ladro. Quando gli uomini diranno «pace e sicurezza» (1 Tessalonicesi 5:3), una subitanea distruzione cadrà su di loro, come il libro dell’Apocalisse descrive. Alla fine di quel «giorno» avrà luogo la distruzione totale dei cieli e della terra.

In questo capitolo sono menzionati i «giorni» sotto tre caratteri:

  1. IL GIORNO DEL GIUDIZIO (v. 7); esso indica sia il giudi­zio che il Signore eseguirà combattendo, prima del millennio, sia la sua seduta giudiziaria come Figlio dell’uomo in mez­zo alle nazioni (Matteo 25:31), sia il «grande trono bianco», alla fine del millennio (Apocalisse. 20:11, 15).
  2. IL GIORNO DEL SIGNORE (v. 10) comprende tutto il pe­riodo che intercorre dal momento della sua venuta per rapi­re la Chiesa sino alla distruzione dei cieli e della terra. Esso ha inizio col giudizio dei viventi e termina con la distruzione dell’attuale creazione, alla fine del regno di giustizia e di pa­ce, e dopo il giudizio «dei morti» al grande trono bianco.
  3. IL GIORNO DI DIO (v. 12). Esso inizierà dopo la disso­luzione dei cieli e della terra. Allora, e per l’eternità, Dio sa­rà «tutto in tutti», in contrasto con il giorno attuale, carat­terizzato da ciò che l’uomo è.

Paolo accenna sovente anche al giorno di Cristo (o di Gesù Cristo): è il giorno nel quale Cristo sarà manifestato e pie­namente riconosciuto da tutti nel mondo intero. Nell’attesa di quel giorno spetta a noi riconoscere tutti i diritti del Si­gnore su noi stessi e su ogni cosa. È estremamente prezioso, quando pensiamo a Cristo, sapere che un giorno Egli sarà universalmente riconosciuto e visto nella sua gloria, dopo es­sere stato per così tanto tempo misconosciuto e disprezzato.

Si può ancora osservare che, benché il regno millenario vi sia compreso, il «giorno del Signore» indica l’epoca dei giudizi. Pietro parla dell’insediamento di quel regno nel pri­mo capitolo e non vi ritorna nel versetto 10, dove menziona soltanto i giudizi; quel giorno giunge come un ladro, inaspet­tato dal mondo e portatore di terribili guai per l’umanità in­credula.

È il Nuovo Testamento che ci rivela in modo esplicito la distruzione dei cieli e della terra. La prima allusione nell’An­tico Testamento la troviamo in Genesi 8:22: «Finché la ter­ra durerà…», il che indica che non durerà per sempre. Vi sono molte allusioni di questo genere anche in Isaia, il qua­le, pur parlando soprattutto del millennio, estende il suo pen­siero sino all’eternità (51:6; 66:16); e in Aggeo 2:6, citato in Ebrei 12:26, dove le cose mutevoli sono scrollate e sosti­tuite da quelle stabili e immutabili. In Apocalisse 20:11 è det­to semplicemente: «La terra e il cielo fuggirono dalla sua presenza e non ci fu più posto per loro»; e nel cap. 21:1: «Il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più».

Il v. 10 del nostro capitolo è il solo a descrivere chiaramente la distruzione dei cieli e della terra. Gli «elementi» sono le ma­terie con cui è formato l’universo. Si sa che la parte prepon­derante della massa della terra è allo stato d’incandescenza; tutto sarà infiammato e dissolto, e la terra e le opere che so­no in essa saranno arse. È una dissoluzione assoluta, un an­nientamento completo. Il v. 6 dice che il mondo d’allora fu «distrutto» per mezzo dell’acqua, ma la «distruzione» di una cosa non significa il suo annientamento, cioè la sua scom­parsa. La prima creazione era stata ridotta allo sta­to caotico di cui parla Genesi 1:2, ma gli elementi esisteva­no ancora, non erano dissolti. Il mondo antidiluviano fu distrutto, ma la materia era sussistita. Così fu per tante na­zioni e città dell’antichità. Ma come Dio per mezzo della sua parola trasse la creazione dal nulla, così alla fine la farà rientrare nel nulla, per mezzo della medesima parola.

«Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi, quali non dovete essere voi, per santità di condotta e per pietà, mentre attendete e affrettate la venuta del giorno di Dio, in cui i cieli infuocati si dissolveranno e gli elementi infiammati si scioglieranno!» (v. 11, 12)

Questi versetti sono il terzo e grande motivo che questa Lettera propone per un cammino santo, di separazione per Dio e di pietà. La santità della condotta è possibile a tutti, ma non può esserci senza pietà, senza un rapporto intimo e costante con Dio; e la pietà non può esistere senza una condotta santa. La santità è in oppo­sizione con il cammino degli uomini increduli, attaccati alla terra e alle cose che devono essere dissolte; essa è la separa­zione dal mondo, ed è legata a una sfera nella quale Dio oc­cupa tutto il posto.

Vivendo in queste relazioni abituali con Dio, noi aspet­tiamo l’avverarsi del giorno in cui Egli sarà «tutto in tutti»; ed affrettiamo quel giorno dimostrando, in tutta la nostra condotta, di attenderlo con certezza e perseveranza. La no­stra vita è impegnata a far sì che quel giorno ci trovi in uno stato che gli si addica. Paolo aveva questo pensiero quando diceva: «Dio ci conosce a fondo…» (2 Corinzi 5:11). Ritroviamo il medesimo pensiero in Tito 2:12, 13. Il credente deve comportarsi come se il giudizio fosse già ese­guito, applicandolo a se stesso e al mondo. D’altra parte, si deve rallegrare perché con l’ultimo giudizio (Apocalisse 20:11, 13) ci sarà la fine del giorno del Signore e l’introduzione del gior­no di Dio, che sarà per lui una fonte di eterna felicità.

I cieli e la terra di adesso sono serbati per il fuoco, ma ciò non significa che siano stati creati a questo scopo. Lo sco­po di Dio non è mai il giudizio e la distruzione. A questo Egli giunge soltanto dopo lunga pazienza nei confronti del male. I profeti, dopo aver preannunciato il giudizio, annun­ciarono sempre la benedizione. Quando i castighi sulla terra saranno stati eseguiti (Apocalisse 16:1) una gran voce dirà: «È fatto!».

Vi sarà poi un secondo: «È fatto!»; esso indicherà l’in­troduzione dei nuovi cieli e della nuova terra. I consigli eter­ni di Dio e la sua volontà in grazia allora si compiranno!

Se l’uomo non fosse caduto nel peccato, la creazione at­tuale non avrebbe avuto bisogno di essere sostituita da un’al­tra. Se Adamo non avesse mangiato del frutto dell’albero «della conoscenza del bene e del male», l’uomo avrebbe po­tuto mangiare dell’albero «della vita» ed essere felice sulla terra. Il peccato ha richiesto l’intervento severo di Dio sulla terra, ma i Suoi consigli, essendo eterni, avevano come og­getto l’eternità.

«Ma, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia.» (v. 13)

L’apostolo fa allusione a Isaia 65:17 e 66:22. Nell’Anti­co Testamento l’espressione «i nuovi cieli e la nuova terra» si riferiscono soprattutto al millennio, pur lasciando spazio al pensiero dell’eternità. Nel millennio, la terra sarà una ter­ra purificata, perché nettata da tutto ciò che la contaminava (Ebrei 12:26,27) e avrà una durata limitata nel tempo; men­tre nell’eternità la terra sarà completamente nuova. Ciò che nell’Antico Testamento ha attinenza col millennio, nel Nuovo Testamento è riferito all’eternità. Sotto il regno milleniale di Cristo la giustizia regnerà, sarà imposta, perché il peccato esisterà ancora; nell’eternità, invece, essa abiterà, non avendo più bisogno di essere imposta e salvaguardata, in quanto non ci sarà più nulla di contrario alla natura di Dio.

«Perciò, carissimi, aspettando queste cose, fate in modo di essere trovati da lui immacolati e irreprensibili nella pace;» (v. 14)

Occorre dell’applicazione per imparare bene ciò che si stu­dia. Così pure dobbiamo concentrare tutte le forze dell’uo­mo nuovo per comportarci in modo da piacere al Signore e non incorrere in qualche riprensione da parte sua.

Troviamo spesse volte l’espressione «irreprensibile» nel­la Parola: «Irreprensibili dinanzi a Lui» (Efesini 1:4); è ciò che siamo oggi dinanzi a Dio in Cristo; quando saremo nella gloria, lo saremo come Lui. Però siamo respon­sabili di mettere il nostro stato pratico, la nostra vita di ogni giorno, in armonia con questa nostra meravigliosa posizio­ne. Questo significano le parole dell’apostolo Paolo: «adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore» (Filippesi 2:12). L’esortazione ad essere irreprensibili la troviamo an­che in 1 Tessalonicesi 3:13 e 5:23. Ne è anche parlato in 1 Co­rinzi 1:8 e Colossesi 1:22. Giuda (v. 24) dice: «A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire irreprensibili e con gioia davanti alla sua gloria».

Dobbia­mo essere d’accordo con Lui e camminare secondo il suo de­siderio. Egli vuole farci rimanere nel godimento della sua gra­zia, di quella grazia che ci riempie di fiducia e che ha il potere di guardarci sino alla fine.

Dobbiamo anche impegnarci a vivere in modo da procac­ciare e salvaguardare la pace, che è l’atmosfera del cielo, per­ché potremmo avere una santa condotta e non il carattere di chi ha quella pace che sempre abita nel cuore (Colos­sesi 3:15; vedere Isaia 57:19 a 21). Nel cammino indipen­dente, dove si fa la propria volontà, non vi può essere pace. Tra Dio e noi, tutto è stato regolato perfettamente, e c’è la pace; così dev’essere anche tra noi e i nostri fratelli.

«e considerate che la pazienza del nostro Signore è per la vostra salvezza, come anche il nostro caro fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; e questo egli fa in tutte le sue lettere, in cui tratta di questi argomenti. In esse ci sono alcune cose difficili a capirsi, che gli uomini ignoranti e instabili travisano a loro perdizione come anche le altre Scritture.» (v. 15,16)

La pazienza del nostro Signore era per la loro salvezza: questo è il senso generale di ciò che l’apostolo Paolo aveva scritto a questi fratelli ebrei, secondo la sapienza che gli era stata data. «Il nostro caro fratello Paolo vi ha scritto», dice Pietro, e queste parole potrebbero essere una prova che la Lettera agli Ebrei è di Paolo. Nei suoi scritti vi erano cose difficili da comprendere per dei credenti allevati nel giudaismo i quali erano divenuti pigri nell’ascoltare e duri d’orec­chi (Ebrei 5:11,12).

Queste «cose» si riferivano alla voca­zione celeste dei credenti, e noi le capiamo meglio degli Ebrei; mentre le Lettere di Pietro e la Lettera agli Ebrei, piene di citazioni dell’Antico Testamento e che hanno come oggetto il regno, sono più comprensibili per dei credenti giudei che per noi. Gli uomini «ignoranti e instabili» che travisano la Scrittura sono coloro che non vogliono lasciarsi ammaestra­re né giudicare da essa; e ciò porta inevitabilmente alla rovi­na e al castigo di Dio. Travisare (o torcere) la Parola vuol dire farle dire delle cose che non dice e che sono secondo il pensiero umano. Bisogna torcerle, per esempio, per trovare in essa la ne­gazione delle pene eterne, come pure per tante altre false dot­trine.

C’è da notare che Pietro mette gli scritti di Paolo al livel­lo delle «Scritture», espressione che indica la Parola di Dio ed è impiegata almeno centocinquanta volte nel Nuovo Te­stamento.

«Voi dunque, carissimi, sapendo già queste cose, state in guardia per non essere trascinati dall’errore degli scellerati e scadere così dalla vostra fermezza; ma crescete nella grazia e nella conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo. A lui sia la gloria, ora e in eterno. Amen.» (v. 17,18)

Gli scellerati sono coloro che torcono la Parola e anche coloro di cui è parlato nel cap. 2. Sapendo in anticipo che si diffonderanno degli errori dottrinali, dobbiamo stare in guar­dia. Il mezzo per sfuggire alla loro influenza è di crescere nella grazia. Ebrei 13:9 dice: «È bene che il cuore sia reso saldo dalla grazia».

Ritroviamo poi la conoscenza, come nel primo capitolo, quella conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cri­sto che ci renderà capaci di realizzare un cammino simile al suo: è il segreto di tutta la vita cristiana ed è una conoscenza che non gonfia e che preserva dall’errore. Crescere nella gra­zia e nella conoscenza del Signore è in contrasto con le teorie perverse che abbondano oggi, delle quali è pericoloso anche solo interessarsi, fosse pure per confutarle.

La confuta­zione degli errori non è affare nostro, a meno che il Signore ce lo chieda dandoci anche i doni necessari. Oggi ci trovia­mo in una corrente impetuosa di errori di ogni genere; il no­stro compito è di «tenere fermamente» ciò che abbiamo ri­cevuto e di ricordare quello che è stato trasmesso ai santi «una volta per sempre» (Giuda 3). Dobbiamo stare attenti alla voce del Buon Pasto­re, con l’impegno di realizzare almeno il carattere di Filadel­fia (Apocalisse 3:7,13), perché siamo nel periodo caratterizzato dal­la «poca forza» (v. 8). Non dobbiamo dunque crescere nella conoscenza degli errori, ma nella grazia e nella conoscenza del Signore nostro e Salvatore Gesù Cristo, al quale sia la glo­ria, ora e in eterno. Amen.

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