Introduzione
Preparare la via del Signore (Cap. 1:1-20)
Il servo perfetto (Cap. 1:21-45)
Il ministero del Signore (Cap. 2)
Il cambio di dispensazione (Cap. 3)
Frutto per Dio e luce per l’uomo (Cap. 4)
La benedizione individuale (Cap. 5)
Il servizio di Cristo dopo il suo rifiuto (Cap. 6)
L’uomo messo a nudo e Dio rivelato (Cap. 7)
Cristo rifiutato (Cap. 8)
La potenza del mondo a venire (Capitolo 9)
Sofferenze e glorie (Cap. 10:1-45)
Il rifiuto del Re (Cap. 10:46 – 11:26)
I capi respinti (Cap. 11:27 — 12:44)
La grande tribolazione (Capitolo 13)
L’ombra della croce (Cap. 14)
La Croce (Cap. 15)
Resurrezione e Ascensione (Capitolo 16)
Introduzione
Dio, nella Sua bontà, ci ha donato la storia del Signore Gesù Cristo durante la Sua vita in questo mondo; abbiamo così un resoconto ispirato e, quindi, affidabile, pieno di eventi in cui è coinvolto il destino eterno di ciascuno. Dio vuole anche attirare i nostri cuori verso un Cristo vivente, facendo passare davanti a noi tutte le glorie della Sua vita, della Sua morte e della Sua risurrezione.
Per farci apprezzare queste glorie, Dio vuole che comprendiamo i diversi tipi di relazioni in cui Cristo può essere visto, così come i diversi caratteri sotto i quali viene presentato. È per questo che abbiamo quattro vangeli, ognuno dei quali offre un aspetto distinto della gloria di Cristo. Lo studio del Vangelo di Matteo mostra chiaramente che i particolari forniti nel racconto degli avvenimenti, come anche l’insegnamento, hanno in vista di presentare il Signore come il Messia a lungo promesso, il Figlio di Davide in relazione a Israele.
Nel Vangelo di Luca è altrettanto chiaro che il Signore Gesù è presentato come il Figlio dell’uomo, venuto a far conoscere la grazia di Dio a un mondo di peccatori perduti e nel Vangelo di Giovanni ci viene mostrata la gloria divina del Figlio di Dio.
Nel Vangelo di Marco tutto è in accordo con la presentazione del Signore Gesù come il Servo dell’Eterno, al servizio degli altri nell’amore. Secoli prima della venuta di Cristo, Isaia aveva annunciato che il Signore Gesù sarebbe venuto nel mondo come Servo dell’Eterno perché la parola dell’Eterno era stata rivolta al profeta, dicendo: “Ecco il mio servo, io lo sosterrò; il mio eletto di cui mi compiaccio; io ho messo il mio spirito su di lui, egli manifesterà la giustizia alle nazioni” (Isaia 42:1). Tutti i dettagli di questo Vangelo hanno in vista la presentazione del Suo servizio perfetto rispondendo ai bisogni dell’uomo: Egli è il Servo dell’Eterno e ne compie la Sua volontà.
Preparare la via del Signore (Cap. 1:1-20)
Nel Vangelo di Marco, lo Spirito Santo ci presenta il Signore Gesù in tutta la Sua grazia e la Sua umiltà come Servo dell’Eterno. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che Colui che si è abbassato fino a divenire Servo obbediente non cessa mai di essere ciò che Egli è come Persona divina anche quando è divenuto un umile Servo essendo simile agli uomini. Inoltre, per salvaguardare la Sua gloria, il Vangelo inizia con sette testimonianze della grandezza della sua Persona.
La prima testimonianza è quella dell’autore stesso di questo Vangelo, Marco, di cui lo Spirito Santo si serve per mettere davanti a noi Colui che ha annichilito Se stesso ed ha preso forma di Servo, e lo inizia ricordandoci che Egli è “Gesù Cristo il Figlio di Dio”.
La seconda testimonianza sono i profeti, che sono coloro che rendono testimonianza alla gloria della Sua Persona. Essi non hanno fatto che predire la Sua venuta e ne hanno annunciato la gloria. L’Eterno aveva dichiarato a Malachia: “Ecco, io vi mando il mio messaggero, che spianerà la via davanti a me” (Malachia 3:1) e lo Spirito Santo applica queste parole a Cristo dicendoci “Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via” (1:2). Il Gesù del Nuovo Testamento è l’Eterno dell’Antico Testamento. Nella seconda citazione che è tratta da Isaia si dice di preparare “la via del Signore”. Una volta di più è la via dell’Eterno che è preparata, perché Gesù è l’Eterno (Isaia 40:3).
La terza testimonianza che ci viene data alla gloria del perfetto Servitore è quella di Giovanni Battista, il precursore. Egli rende testimonianza, da una parte alla condizione di peccato dell’uomo e della necessità del “ravvedimento per il perdono dei peccati” e, dall’altra, della gloria di Colui che era venuto in grazia come umile Servitore per rispondere ai bisogni dell’uomo. Egli stava nel deserto e “tutto il paese della Giudea e tutti quelli di Gerusalemme accorrevano a lui” (1:5). Molti secoli prima l’Eterno aveva detto al profeta: “Perciò, ecco, io l’attrarrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Osea 2:14). Come qualcuno ha già detto: “Dio non aveva parlato al suo cuore nella fiorente e bella città, ma l’ha attirata nel deserto arido e desolato”. È là che ha parlato alla sua coscienza ed ha cercato di guadagnare il Suo cuore. E anche oggi quante volte agisce nello stesso modo sia con gli increduli che con i credenti. Spesso cerchiamo sollievo ai nostri cuori e il nostro benessere così che diventiamo freddi ed indifferenti. Allora il Signore interviene nella nostra vita tranquilla attraverso i dolori e le prove, per parlare al nostro cuore e attrarci a Sé.
Indirizzandosi alla coscienza, Giovanni mostra che i nostri peccati hanno trasformato la creazione in un deserto morale ed hanno separato l’uomo da Dio. Il suo modo di vivere nella separazione dal mondo era conforme alla sua testimonianza. Prima di tutto rendeva gloria a Colui che doveva venire. Se Colui che “non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente” (Filippesi 2:6) si è abbassato fino a diventare un uomo e prendere “forma di Servo”, Giovanni, il più grande tra i profeti, si compiaceva di riconoscere che un Servo più grande era venuto al quale non era degno di “sciogliere il legaccio dei calzari”. Giovanni poteva battezzare con acqua e, con questo segno di morte, separare coloro che andavano a lui da chi restava legato ad un mondo corrotto, ma Gesù avrebbe battezzato con lo Spirito Santo, una Persona divina, segno dell’appartenenza a Cristo in un mondo nuovo.
La quarta testimonianza è resa dalla voce venuta dal cielo alla gloria di Cristo. In una grazia infinita, il Signore Gesù si sottomette al battesimo, identificandosi col residuo fedele nella sua separazione dalla nazione colpevole. Prima di tutto si fa udire la voce del Padre che proclama la gloria del “diletto Figlio” Colui nel quale il Padre aveva trovato il Suo compiacimento. Già in precedenza l’Eterno aveva detto per mezzo del profeta: “Ecco il mio servo, …, il mio eletto di cui mi compiaccio; io ho messo il mio spirito su di lui” (Isaia 42:1) ed ora la voce dal cielo può dire: “il mio servo” è “il diletto Figlio”. A giusta ragione è stato detto che Egli è stato “suggellato dallo Spirito Santo come noi: Lui, perché ne era stato personalmente degno, noi perché Lui ci ha resi degni per mezzo della Suo opera e del Suo Sangue” (J.N.Darby).
Come quinta testimonianza, abbiamo una breve allusione alla tentazione nel deserto. La tentazione dei nostri progenitori nel giardino di Eden manifesta la loro debolezza, che permette a Satana di vincerli. La tentazione del nostro Signore, in un deserto, diventa una testimonianza della Sua perfezione infinita con cui ha vinto Satana.
Come sesta testimonianza abbiamo la creazione stessa che rende testimonianza alla gloria della Sua Persona, perché leggiamo che stava “tra le bestie selvatiche”. Malgrado il timore che quelle bestie potevano provare davanti agli uomini, esse non temevano quell’Uomo benedetto perché era il loro Creatore.
Infine, come settima testimonianza leggiamo che “gli angeli lo servivano”. Colui che era venuto per essere il Servo è Lui stesso servito dalle schiere angeliche. Egli non è niente meno che “il Figlio”, “il Primogenito” del quale è detto, quando è entrato nel mondo: “Tutti gli angeli di Dio lo adorino” (Ebrei 1:5-6).
Così ciascuno a suo turno, il cielo e la terra, i profeti e gli angeli, dichiarano la gloria di Gesù come Persona divina ed in questo modo preparano il cammino del Signore verso la posizione di abbassamento che andava a prendere come Salvatore degli uomini.
Possiamo notare che, in questo Vangelo, non c’è la genealogia del Signore Gesù né alcun dettaglio quanto alla sua nascita e ai primi anni della Sua vita. Questi dettagli, così preziosi e necessari, che altri ci forniscono non sarebbero stati al loro posto nei Vangeli di Marco o di Giovanni. Qui, come Servo, Egli prende un posto al di sotto di tutte le genealogie così come, nel Vangelo di Giovanni è al di sopra di ogni genealogia umana.
A seguito di queste sette testimonianze alla gloria della Sua Persona, noi abbiamo, in questi versetti introduttivi, il racconto dell’avvenimento che apre la via al servizio pubblico del Signore, il carattere del Suo servizio e la grazia sovrana che sceglie altri come Suoi compagni di servizio.
È significativo che questo accada dopo che “Giovanni fu messo in prigione” (1:14) e che il Signore Gesù inizi il Suo servizio. La natura potrebbe obbiettare che, essendo rifiutato il Precursore, non c’era più bisogno che il Signore Gesù iniziasse la Sua missione, ma i tempi ed i modi di agire di Dio sono molto diversi da quelli degli uomini. Il ministero di Giovanni, come anche il suo rifiuto, erano una dimostrazione del peccato e della miseria dell’uomo, ma questo preparava la via ad un ministero di grazia che poteva soddisfare il bisogno e provarne la necessità. Quando il mondo ha mostrato il suo peccato rifiutando Giovanni, Dio ha proclamato la grazia inviando Gesù.
Il grande scopo del servizio del Signore, così come ci viene riportato nel Vangelo di Marco, è riassunto in questo versetto. Il Signore era presente in mezzo ad Israele per proclamare che il regno di Dio era vicino, un regno caratterizzato dalla giustizia, la pace e la gioia (Romani 14:17). Già Giovanni, come voce della giustizia, lo aveva fatto convincendo gli uomini dei loro peccati, ma ora il Signore era presente non per giudicare gli uomini a causa dei loro peccati, ma in grazia, chiamando gli uomini a pentirsi in virtù della buona novella che proclamava il perdono dei peccati.
Scopriamo, di seguito, la grazia del Signore che associa a Se stesso altri uomini per il servizio. Egli ignora i sacerdoti già stabiliti, gli scribi istruiti ed i farisei religiosi per scegliere umili pescatori. Simone è qualcuno che potrà dire: “Dell’argento e dell’oro io non ne ho” ed il mondo potrà dire di lui che era un popolano senza istruzione (Atti 3:6; 4:13). La mancanza di ricchezze e d’istruzione umana non era un ostacolo per stare in compagnia del Signore o per essere impiegato al Suo servizio. Però, nonostante sia modesta la professione di quelli che il Signore si compiace di ingaggiare al Suo servizio, non sono senza lavoro. Questi uomini semplici svolgevano la loro occupazione di pescatori quando il Signore Gesù li chiama a diventare “pescatori d’uomini”. Il servizio del Signore non è destinato a coloro che non hanno niente da fare.
Inoltre, i servitori del Signore devono essere preparati per il servizio e questa formazione non può essere fatta che in Sua compagnia. Il Signore dice loro: “Seguitemi e io vi farò pescatori di uomini” (1:17). Questo è sempre vero, secondo le parole stesse del Signore: “Se uno mi serve, mi segua” (Giovanni 12:26). Purtroppo, possiamo anche accontentarci di ricevere l’Evangelo con profitto per le nostre anime e conoscere poco quello che è il perseverare seguendo il Signore in un sentiero di fede e di umile obbedienza che prepara un cammino di servizio. Forse non ci è richiesto di lasciare letteralmente ogni cosa come fu chiesto ai discepoli quando il Signore era quaggiù sulla terra, ma se vogliamo servirLo possiamo farlo solo quando Egli diviene, in spirito, l’Oggetto benedetto delle nostre anime. Senza dubbio, non tutti sono chiamati a lasciare la professione che svolgono ogni giorno, questo è riservato ad un numero ristretto perché è chiaramente ingiunto alla maggior parte dei figli di Dio di rimanere “nella condizione in cui era quando fu chiamato” (1 Corinzi 7:20). Il Signore, però, ha un servizio per ciascuno, perché “a ciascuno di noi la grazia è stata data secondo la misura del dono di Cristo” (Efesini 4:7). Questo servizio implica rinunciare a tutte quelle cose di questa vita che ci impacciano; è un servizio che può essere compiuto solo se restiamo vicini a Lui. Quanto ai discepoli, hanno risposto immediatamente alla chiamata del Signore perché leggiamo: “Se ne andarono dietro a lui” (1:20)
Il servo perfetto (Cap. 1:21-45)
Il cammino del Signore è stato preparato e coloro che Lo accompagneranno durante il Suo servizio sono stati scelti. In quello che segue, abbiamo il racconto di alcuni avvenimenti che mettono davanti a noi, in maniera ammirabile, il perfetto Servitore. Nella gloria della Sua Persona, egli deve essere solo, ma nel Suo servizio, noi abbiamo il modello perfetto per tutti i servitori del Signore. Pietro ci dà un bel riassunto del Vangelo di Marco quando dice: “Vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio lo ha unto di Spirito Santo e di potenza; e com’egli è andato dappertutto facendo del bene e guarendo tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (Atti 10:38). Certamente, noi non siamo chiamati a compiere miracoli di guarigione, perché in un tempo di rovina la Chiesa è spogliata dei suoi ornamenti, ma è nel modo che Lui ha servito che noi siamo invitati a seguirLo.
Accompagnato dai Suoi discepoli, il Signore Gesù entra nella sinagoga a Capernaum e, in giorno di sabato, si mette ad insegnare. All’inizio vediamo un tratto sorprendente del perfetto Servitore perché leggiamo che, in contrasto con gli scribi, “egli insegnava loro come uno che ha autorità” (1:22). Le Sue parole non consistevano in semplici argomenti facenti appello alla ragione, ma parlava con l’autorità di Colui che proclama la verità con potenza e convinzione. Ai giorni nostri e secondo la nostra misura, dobbiamo usare con autorità ogni dono dato da Dio perché, ci dice Pietro: “Se uno parla, lo faccia come si annunciano gli oracoli di Dio” (1 Pietro 4:11). Se presentiamo la dottrina con tutti gli argomenti pro e contro, lasciando agli uditori di poter giudicare quello che è vero e quello che non lo è, noi non parliamo con autorità ma siamo simili a quelli che vanno a tentoni alla ricerca della verità. Noi dobbiamo parlare come coloro che, per grazia, sono convinti della verità che proclamano. Questo non è incompatibile con l’umiltà di spirito, perché, infatti, sono gli umili che conoscono il pensiero di Dio: “insegnerà agli umili la sua via” (Salmo 25:9).
Anche il fatto di cacciare uno spirito immondo mette in evidenza un carattere del perfetto Servitore. Se Egli parla con autorità, la Sua parola porta in se stessa la potenza. All’interno della professione religiosa giudaica si trovava un uomo posseduto da uno spirito immondo. La presenza del Signore Gesù gli era intollerabile perciò “Gesù lo sgridò, dicendo: “Sta’ zitto ed esci da costui!” (1:25). Quale che fosse l’ignoranza degli uomini, i demoni sapevano che quest’umile Servitore, Gesù il Nazareno, non era niente meno che il Figlio di Dio ma, il Signore non vuole ricevere la testimonianza del diavolo. Egli sgrida il demone e gli comanda di uscire da quell’uomo. Dopo aver manifestato la sua potenza sull’uomo “straziandolo e gridando forte, uscì da lui” (1:26).
Già sorpresi che parlasse con autorità, gli astanti sono ora davanti alla potenza che accompagna la Sua parola alla quale anche gli spiriti immondi devono sottomettersi.
Un altro magnifico tratto del perfetto Servitore appare davanti a noi nella scena che segue. Benché abbia tutta l’autorità e tutta la potenza Egli è anche accessibile a tutti. Quando entra nell’umile casa di un pescatore dove qualcuno ha bisogno della Sua potenza in guarigione, noi leggiamo: “… subito gliene parlarono” (1:30). Poi, “… quando il sole fu tramontato, gli condussero tutti i malati e gli indemoniati” (1:32). Che differenza con i grandi di questo mondo! Più autorità e potere hanno, meno sono accessibili ai poveri e a coloro che sono nel bisogno. Il Signore, oggi, non è cambiato; benché sia elevato in gloria nel cielo noi possiamo “parlarGli” e “portare a Lui” tutte le nostre pene e le nostre preoccupazioni.
Non solo Egli guarisce gli uomini dalle loro svariate malattie ma li libera anche dalla potenza del diavolo. Tuttavia, pur manifestando la Sua potenza assoluta su di loro “non permetteva loro di parlare, perché lo conoscevano” (1:34). Come qualcuno ha detto: “Il Signore ha rifiutato una testimonianza perché non era da Dio. Benché questa testimonianza fosse vera, il Signore non vuole accettarla da parte del nemico”.
La scena di questa serata così animata è seguita da un’altra alle prime luci dell’alba: ”La mattina, mentre era ancora notte …” (1:35) troviamo il Signore che va in un luogo deserto per pregare. Impariamo, perciò, che la dipendenza da Dio, espressa dalla preghiera, è un altro tratto del perfetto Servitore. La potenza del servizio in pubblico risiede nella preghiera fatta in segreto. Per bocca del profeta, udiamo la voce del Signore Gesù che dice: “Il Signore, DIO, mi ha dato una lingua pronta, perché io sappia aiutare con la parola chi è stanco. Egli risveglia, ogni mattina, risveglia il mio orecchio, perché io ascolti, come ascoltano i discepoli” (Isaia 50:4). Abbiamo visto il Signore parlare con la lingua pronta, ma qui vediamo l’orecchio aperto all’ascolto come coloro ai quali viene insegnato. Impariamo così che la preghiera è alla base del Suo insegnamento (1:21) e di tutta la Sua predicazione (1:39). Cerchiamo di seguire il Suo esempio perfetto e iniziare la nostra giornata con Dio in preghiera prima di incontrare i nostri simili in pubblico perché poi, appesantiti dai nostri fardelli, sarà difficile trovare “un luogo deserto”.
I discepoli iniziano a seguire il Signore e avendoLo trovato gli dicono: “Tutti ti cercano” (1:37). Questo mette in luce un altro tratto del perfetto Servitore: il rifiuto di quello che è soltanto popolarità. La natura umana potrebbe argomentare che se tutti ti cercano bisogna restare lì, ma è proprio in quel momento che il Signore dice: “Andiamo altrove per i villaggi vicini”. Servitore dell’Eterno, il Signore non è là per guadagnare popolarità ma per fare la volontà di Dio.
Abbiamo visto la potenza del Servitore ed il segreto della Sua potenza, ora ci viene accordato di contemplare la grazia che mette la potenza al servizio del più indegno dei peccatori. Un povero lebbroso spinto dalla sua miseria e attratto da una potenza che sa essere in grado di rispondergli, si avvicina al Signore, ma dubita che la Sua grazia possa essere usata in potenza in favore di un essere la cui ripugnante malattia lo fa rifiutare dalla società. Così dice al Signore: “… se vuoi, tu puoi purificarmi” (1:40). Riguardando a Cristo non aveva nessun dubbio quanto alla Sua potenza; guardando se stesso mette in dubbio la grazia del Signore. Anche noi quando realizziamo il buio del nostro cuore potremmo, qualche volta, dubitare della grazia e delle cure del Signore fino al momento in cui, alla Sua presenza, come il lebbroso, non scopriamo che il Suo cuore si impietosisce verso i più vili dei peccatori che vanno a Lui. La Samaritana al pozzo e il brigante alla croce hanno anch’essi trovato il Signore che conosceva le cose peggiori che li riguardavano e, che proprio per questo, aveva il cuore pieno di grazia per loro. La Sua grazia è più grande del nostro peccato. Nel caso del lebbroso il Signore fuga ogni dubbio dicendo: “Lo voglio” (1:41), esprimendo l’amore e la compassione di un cuore pronto a fare uso della Sua potenza in favore di un uomo e dei suoi bisogni.
Ciò che segue presenta un altro tratto magnifico del perfetto Servitore: Egli non ricerca la propria gloria, ma la gloria di Colui che serve. Udiamo così il Signore dire al lebbroso guarito: “Guarda di non dire nulla a nessuno” (1:44) e di mostrarsi ai sacerdoti in modo che la legge diventi un testimone della presenza di Dio in grazia. Sotto la legge, Dio solo poteva guarire il lebbroso ed il sacerdote non poteva che rendere testimonianza di quello che Dio aveva fatto.
Fin dall’inizio del cammino dell’umile servizio del Signore, la Sua perfezione come Servo è messa davanti a noi. Il Suo servizio è caratterizzato dall’autorità, accompagnata dalla potenza; questa potenza è abbinata con la Sua disponibilità verso gli umili e le loro necessità ed è esercitata nella dipendenza da Dio; Egli rifiuta di impiegarla per acquisire popolarità; è unita alle tenere compassioni e non è mai utilizzata da Lui con lo scopo di esaltare Se stesso.
Il ministero del Signore (Cap. 2)
Nel primo capitolo di questo Vangelo che abbiamo appena considerato, abbiamo visto il perfetto Servitore. Questo nuovo capitolo ci mostra la perfezione del Suo servizio, la fede che ne beneficia e l’opposizione che suscita. Ci viene permesso di vedere che il Suo ministero è caratterizzato dalla giustizia e dalla grazia: la giustizia che solleva la questione del peccato (2:1-12) e la grazia che benedice i peccatori (2:13-17). Un tale ministero suscita, prima di tutto, l’opposizione degli uomini, perché la giustizia che solleva la questione del peccato disturba la coscienza e la grazia che benedice il peccatore offende l’orgoglio religioso.
Abbiamo già visto il Signore ed i discepoli a Capernaum. Ancora una volta Egli entra in questa città privilegiata e annuncia la Parola alle folle che si accalcano intorno a Lui. Si potrebbe credere che le anime siano avide di ascoltare la verità, ma ecco che poco dopo il Signore deve dire: “E tu, o Capernaum, sarai forse innalzata fino al cielo? No, tu scenderai fino all’Ades. Perché se in Sodoma fossero state fatte le opere potenti compiute in te, essa sarebbe durata fino ad oggi. Perciò, vi dichiaro, nel giorno del giudizio la sorte del paese di Sodoma sarà più tollerabile della tua” (Matteo 11:23-24).
A Capernaum un uomo era stato liberato da uno spirito immondo, la suocera di Simone era stata guarita, Gli avevano portato una moltitudine di infermi e Lui li aveva guariti e ancora là un paralitico aveva ricevuto il perdono dei suoi peccati. Capernaum era veramente stato un luogo vicino al cielo, alla potenza e alla grazia del cielo, ma invano per quanto riguardava la grande massa del popolo. In quei giorni, come ai nostri, la presenza delle folle non significa che le anime siano esercitate o le coscienze risvegliate. La venuta del Signore in mezzo ad esse non era, ai loro occhi, che la meraviglia del giorno, ma davanti a Dio, l’assenza del pentimento in presenza di un tale ministero, le metteva in una condizione terribile.
Però, là dove c’era la fede in Cristo, la benedizione era ricevuta. L’opera di Dio non si compie mai con i movimenti di massa, ma per il lavoro individuale nelle anime e, dove c’è fede ci saranno difficoltà da superare. Il paralitico non poteva fare nulla da solo perciò fu “portato da quattro uomini” (2:3) e anche loro non potevano avvicinarsi al Signore a causa della folla, ma la fede vince tutti gli ostacoli.
Il Signore riconosce la loro fede e, come in ognuna delle Sue vie verso di noi, vede al di là del semplice bisogno che può averci portato a Lui e si occupa, prima di ogni altra cosa, della radice del male. Al di là della paralisi, come al di là di ogni malattia, c’è la questione del peccato che ha introdotto la malattia e la morte nel mondo. Può darsi che quest’uomo e le persone che lo portano al Signore fossero poco esercitati quanto al peccato, tuttavia avevano fede nel Signore ed il Signore risponde immediatamente a quella fede ed inizia a rivelare le benedizioni che sono la parte di quelli che credono. Per questo può dire: “I tuoi peccati ti sono perdonati” (2:5).
Dal momento in cui il Signore fa uso della Sua potenza per perdonare i peccati, si manifesta l’opposizione. Gli uomini non fanno obiezione al fatto che i demoni vengono cacciati, né alla guarigione delle malattie o alla purificazione di un lebbroso: tali liberazioni sollevano l’uomo da prove fisiche senza necessariamente turbare la sua coscienza, ma dal momento che il Signore parla di peccato, la coscienza è toccata e gli uomini cominciano a dire: “Chi può perdonare i peccati, se non uno solo, cioè Dio?” (2:7). In linea di principio, la loro argomentazione era corretta perché solo Dio può perdonare i peccati. Ma era falsa nella sua applicazione, perché non riconoscevano la gloria della Persona che era presente: Dio “manifestato in carne”.
Gli uomini che ragionano così sono lasciati senza parole, perché il Signore agisce in maniera da mettere in evidenza la gloria della Sua Persona. Egli mostra loro che sono in presenza di Colui al quale nessun pensiero è nascosto. Non hanno detto neppure una parola, ma tutto era conosciuto da Colui che investiga i cuori e può dire: “Perché fate questi ragionamenti nei vostri cuori?” (2:8). Non è forse la risposta ai loro ragionamenti, come a tutti i ragionamenti umani, che in colui che non è cosciente dei suoi bisogni non può esserci apprezzamento della Persona di Cristo?
Nella Sua grazia il Signore, pronuncia un’altra parola che dimostra la Sua potenza divina in una maniera che anche l’uomo naturale può apprezzare: “Che cosa è più facile, dire al paralitico: “I tuoi peccati ti sono perdonati”, oppure dirgli: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”?” “ (2:10). È stato detto, a giusta ragione: “Le due cose erano ugualmente facili per Dio, ugualmente impossibili per l’uomo”. Affinché gli uomini “sappiano” che il Signore aveva il potere di perdonare, dice al paralitico: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e vattene a casa tua” (2:11). Questa manifestazione esteriore della potenza era la garanzia dell’aver ricevuto il dono della grazia e le folle dicono subito: “Una cosa così non l’abbiamo mai vista”.
La proclamazione del perdono dei peccati ha provocato il risentimento dei capi del popolo. Questa opposizione è il primo segno del rifiuto completo di Cristo, rifiuto che implica la messa da parte dei Giudei. È l’occasione di dare, nella chiamata di Levi, un’indicazione della nuova dispensazione che stava per essere introdotta dal Signore, così leggiamo: “Gesù uscì di nuovo verso il mare” (2:13). Nelle Scritture il mare è spesso impiegato per rappresentare le nazioni e questo, di conseguenza, suggerisce la grande verità che il Signore stava per diventare il centro del radunamento del cristianesimo, per i credenti sia Giudei che Gentili. Le parole indirizzate a Levi furono: “Seguimi”, inoltre il fatto che Levi fosse un pubblicano, un esattore delle imposte, mette in evidenza il tratto caratteristico del cristianesimo in contrasto con la legge. Agli occhi di un Giudeo nessuna occupazione era più vile e scandalosa che quella di un uomo che guadagnava la sua vita estorcendo i tributi per gli odiati Romani. Che il Signore potesse chiamare un uomo simile era la manifestazione della grazia immensa che eleva il peccatore dalla posizione più bassa del suo degrado al posto più elevato: al servizio del Signore come apostolo. Levi risponde subito alla chiamata e prepara in casa sua un convito al quale invita molti pubblicani e peccatori, affinché anch’essi possano incontrare il Salvatore.
Una tale manifestazione di grazia scatena l’opposizione di coloro che rappresentano l’orgoglio intellettuale e religioso, i quali sono profondamente offesi dalla grazia che li ignora e prende un peccatore sprofondato nella degradazione morale elevandolo ad un posto di gran lunga superiore al loro. Questi oppositori non si avvicinano a Cristo come avrebbe fatto un’anima esercitata, ma si rivolgono ai discepoli e, proprio come il serpente ha cercato di turbare la fiducia in Dio di Eva, cercano di turbare la fiducia dei discepoli nel Signore, ponendo quella che poteva sembrare una domanda semplice e molto sensata: “Come mai mangia [e beve] con i pubblicani ed i peccatori?” (2:16).
Il Signore risponde a questa domanda con una semplice analogia: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” poi fa un’applicazione dicendo: “Io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori” (2:17). Loro insinuavano che il Signore si associasse ai peccatori e Lui risponde dicendo che era “”venuto a chiamare” dei peccatori a lasciare il proprio stato per seguirLo. La grazia verso i peccatori non significa indifferenza riguardo ai loro peccati. I farisei acquistano fiducia. Avevano cercato di minare la fiducia dei discepoli nel Signore ponendo delle domande su di Lui, ora cercano di trovare i discepoli in fallo, sollevando davanti al Signore delle domande che riguardano loro: “Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano e i tuoi discepoli non digiunano?” (2:18).
Il Signore ricorre nuovamente ad una analogia per mettere in luce la loro follia: conviene digiunare in presenza dello Sposo? Ovvero, sarebbe opportuno digiunare in presenza di Colui che dispensa benedizione attorno a Sé? Visto che sarebbe venuto il giorno in cui Cristo non sarebbe stato più là. Solenne considerazione per coloro che si oppongono alla grazia. Allora, certamente il digiuno sarebbe stato al suo posto e non solo inteso come astensione dal cibo, ma soprattutto alla rinuncia dei piaceri di un mondo che Lo ha rigettato. Come sempre, il Signore fa di più che rispondere alla loro domanda: prova che essa mostra l’incapacità totale di entrare nelle nuove vie di Dio in grazia. Il nuovo carattere di grazia manifestato nella Sua vita, nel Suo cammino e nella Sua condotta non poteva più essere legato al vecchio ordine di cose più di quanto un pezzo di stoffa nuova possa essere cucito su un vestito vecchio. La vita interiore e la potenza di questa nuova vita non possono più essere contenute in vecchi otri. Il vino nuovo esige otri nuovi. La potenza e l’energia dello Spirito Santo non hanno niente in comune con la carne. Il Signore introduceva quello che era interamente nuovo presentato qui, in figura da: “una stoffa nuova”, “vino nuovo” e ”otri nuovi”. Quando quello che è nuovo è introdotto non si può ritornare a quello che è vecchio. Cosa questa che, purtroppo, ha cercato di fare la cristianità “cucendo” le forme del giudaesimo al cristianesimo. Sono state accolte le dottrine della grazia, ma in pratica si sono adottale le forme della legge.
Nell’episodio che ebbe luogo in giorno di sabato, vediamo, una volta di più, un’indicazione che tutto il sistema rappresentato dal sabato stava per essere messo da parte. Sollevando la questione del sabato i farisei dimostravano un grande zelo per l’osservanza esteriore di un giorno mentre erano totalmente indifferenti al fatto che il Signore del sabato ed i Suoi discepoli potessero avere fame. Essi pretendevano di glorificare Dio nel momento stesso in cui rigettavano il Suo testimone. Il Signore smaschera la loro ipocrisia ricordando loro la storia di Davide e dei suoi compagni che, nel giorno del loro rigettamento, ebbero fame. In quella circostanza, quando l’unto di Dio era rigettato, perseguitato e affamato, i pani della presentazione perdevano valore agli occhi di Dio e così, Davide e quelli che erano con lui, non commisero peccato mangiando quei pani agendo contrariamente a quello che era scritto testualmente nella legge. Era uguale per il sabato: era un giorno per la benedizione degli uomini e non per aumentare le sofferenze di persone affamate. Inoltre “il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato” (2:28) e di conseguenza al di sopra del sabato che Lui ha istituito.
Nel corso di questo secondo capitolo ci è accordato di vedere la giustizia che solleva la questione del peccato, la grazia che perdona i peccati e chiama i peccatori e la fede che ottiene la benedizione. Si vede anche l’opposizione del cuore naturale che, se è lasciato a se stesso, si eleva sempre contro un ministero di giustizia e di grazia; infine, si vede che questa opposizione diventa l’occasione per mostrare il cambiamento di dispensazione che stava per verificarsi.
Il cambio di dispensazione (Cap. 3)
Nei capitoli precedenti, abbiamo visto il perfetto Servitore nel Suo ministero di grazia e di potenza, dispensare benedizione in mezzo alla nazione giudea. Abbiamo anche visto che, se questo ministero metteva in luce la fede di un residuo fedele, suscitava anche l’inimicizia dei capi del popolo che osavano accusare il Signore di essere un bestemmiatore, di associarsi ai peccatori e violare il sabato.
Questa opposizione annunciava quel cambiamento di dispensazione che stava per verificarsi. I Giudei, che rifiutavano il loro Messia e commettevano l’imperdonabile peccato contro lo Spirito Santo, saranno messi da parte e la grazia si riverserà sui Gentili. Il vecchio ordine di cose sotto la legge ed il giudaesimo cederanno il posto al regno della grazia sotto il cristianesimo. Questo cambiamento di dispensazione è dimostrato, in questa nuova parte del Vangelo, da una serie di avvenimenti che si svolgono nella sinagoga (3:1-6), sulla riva del mare (3:7-12), sulla montagna (3:13-19) e in casa (3:20-35). Ognuna di queste scene ha un significato particolare.
Il primo avvenimento ci mostra il Signore che entra “di nuovo nella sinagoga” (3:1) mettendo così in evidenza la Sua presenza in mezzo alla nazione giudaica, perché la sinagoga era, sotto la legge, il suo luogo di radunamento. Che scena toccante abbiamo in questa sinagoga di Capernaum! Il perfetto Servitore di Dio, il Signore della gloria, è là con la Sua potenza di benedire e, la grazia del suo cuore, per far beneficiare di questa potenza colui che ne ha bisogno. L’uomo è là con tutta la profondità del suo bisogno ma, incapace di fare una qualunque cosa per il suo bene, perché ha la mano paralizzata. L’uomo religioso è là, senza alcuna coscienza del suo bisogno, cieco riguardo alla gloria del Signore e indifferente ai bisogni degli altri.
Di questi farisei è detto che “l’osservavano per vedere” e non per imparare qualcosa delle Sue vie e della grazia del Suo cuore, ma per vedere se avrebbe fatto qualcosa “in giorno di sabato” guarendo il povero infermo che si trovava là. Questo darebbe loro l’occasione di accusare il Signore di lavorare in giorno di sabato. Che testimonianza alla gloria di Cristo: i Suoi nemici non si aspettavano che facesse del male ma sapevano che avrebbe fatto del bene! Anche ai giorni nostri, in una certa misura, gli uomini del mondo non rendono inconsciamente testimonianza alla verità del cristianesimo aspettandosi che i credenti facciano il bene e agiscano in modo diverso dal loro? Se il cristianesimo fosse del tutto sbagliato, perché gli increduli dovrebbero volere che i credenti facciano meglio di loro?
Se il Signore non era il Figlio di Dio ed il Servo dell’Eterno, perché i giudei si aspettavano la guarigione di quest’uomo? Inconsciamente essi rendevano testimonianza alla grazia del Suo cuore e alla durezza del loro. Visto che il Signore sapeva bene qual era lo stato del loro cuore e che cercavano un’occasione contro di Lui, potremmo pensare che sarebbe stato prudente astenersi dal guarire quest’uomo in pubblico e privare così questi uomini malvagi di quello che stavano aspettando, ma il Signore era là per manifestare la grazia di Dio e così agisce apertamente. Dice all’uomo di alzarsi “là nel mezzo”, davanti a tutti. Per mezzo della domanda che il Signore pone ai Suoi avversari, dà loro di riflettere sulle difficoltà che stavano incontrando riguardo alla guarigione in giorno di sabato, ma noi leggiamo: “Ma quelli tacevano”. Questo silenzio non era quello della grazia umile che caratterizzava il Signore quando, in presenza degli insulti, non proferiva parola. Questo era un silenzio puramente politico. Più eloquente delle parole, tradiva l’odio impotente dei loro cuori. Il Signore li guarda con una giusta indignazione, ma dietro a questa c’era del dolore. Era rattristato dall’indurimento dei loro cuori, cuori che erano di fatto indifferenti ai bisogni dell’uomo, assolutamente incapaci di rispondervi ed opposti con accanimento a Colui che aveva sia la grazia che la potenza per benedire. Così, questi uomini, che non volevano permettere al Signore di fare del bene in giorno di sabato erano ben pronti a fare del male. In precedenza, Lo avevano osservato per accusarLo, ora tengono consiglio per far perire il Dispensatore della benedizione.
La malvagità dei giudei non fa arretrare la grazia del Signore né ostacola il Suo servizio d’amore. Infatti, Egli la manda in altri canali e porta la grazia a raggiungere un cerchio più ampio. Questo cambiamento nelle vie di Dio è suggerito dal fatto che il Signore esce dalla sinagoga, il centro giudaico, ed esce verso il mare, immagine spesso impiegata nella Parola come una figura delle Nazioni. Il rigettamento di Cristo da parte dei Giudei ha aperto la porta alla benedizione dei Gentili.
Inoltre, nella nuova posizione del Signore, abbiamo una indicazione dei nuovi principi che caratterizzano il giorno della grazia. I Giudei nella sinagoga erano diretti dalla vista: “osservavano”; i loro cuori erano induriti quanto ai loro bisogni e pieni di inimicizia a riguardo di Colui che era il solo che vi poteva rispondere. Ciò che accade sulla riva del mare è ben diverso. “Una gran folla” (3:7) che comprendeva dei Gentili, è attratta dal Signore “udendo quante cose egli faceva”. La fede viene dall’udire e proviene da un bisogno. Infatti, se erano attratti da Cristo per la Sua grazia, erano spinti verso di Lui dai loro bisogni. “Tutti quelli che avevano qualche malattia” (3:10). Salomone, nella sua preghiera, parla di ogni uomo che “riconoscerà la piaga del proprio cuore” e accenna all’unico mezzo per guarire: andare davanti a Dio. (1 Re 8:38). Una piaga nel cuore è una cosa nota solo a chi è afflitto e lo priva della sua gioia. Può essere una questione non regolata tra l’uomo e Dio o un peccato nascosto e non confessato. La fede, cosciente della grazia che è nel cuore di Cristo, può mettere a nudo la sua piaga davanti a Lui e trovare liberazione da tutto ciò che lo turba.
La scena si sposta nuovamente dal mare alla montagna. Il Signore, era stato coi Giudei nella loro sinagoga e aveva trovato solo una mano paralizzata, cuori induriti ed una inimicizia mortale. In riva al mare era stato il centro d’attrazione per le anime bisognose, tanto giudee quanto pagane ed ora siamo elevati al di sopra del mondo degli uomini per imparare, sulla montagna, qualcosa di nuovo delle vie di Dio. Nella scelta sovrana dei dodici si gettano le basi per il nuovo ordine di benedizione che doveva essere introdotto. La Chiesa è tratta dai Giudei e dai Gentili ed è edificata “sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare” (Efesini 2:20). Quando, alla fine, abbiamo una descrizione della Chiesa nella gloria, troveremo nelle fondamenta della città, i nomi dei dodici apostoli dell’Agnello (Apocalisse 21:14).
Quest’opera nuova non scaturisce dalla responsabilità dell’uomo, è interamente opera di Dio. Il Signore si era ritirato dagli uomini e dal loro mondo e “chiamò a sé quelli che egli volle” (3:13) secondo la Sua scelta sovrana. Li chiama, li stabilisce, li manda e dà loro la potenza, ma, prima di tutto, li sceglie “per tenerli con sè”. La cosa più importante e più cara al Suo cuore è di avere i Suoi vicino. Qui, però, è soprattutto in vista del servizio, per il quale la compagnia del Signore è l’unica vera preparazione. In una scena precedente il Signore aveva detto: “Seguitemi e io farò di voi dei pescatori di uomini” (1:17) [e poi: “se uno mi serve, mi segua” (Giovanni 12.26)]. Come ci insegna il “seguirLo sulla montagna”, per trovare Cristo dobbiamo essere separati dal mondo così com’è. Da lì, da questo luogo di separazione in Sua compagnia, i discepoli sono inviati a predicare la buona novella. È un fatto completamente nuovo. Nel sistema giudaico c’era infatti la lettura e la spiegazione della legge nelle sinagoghe, ma non c’era la predicazione. Questa cosa nuova doveva essere introdotta con la potenza di guarire le malattie e cacciare i demoni. Non solo Cristo fa dei miracoli ma può dare ad altri la potenza di farlo.
Dopo aver associato a Se i discepoli, il Signore ora entra nella casa. In relazione alla casa si tratta dei Suoi parenti secondo la carne. Se sulla montagna vediamo messi i fondamenti di quello che è interamente nuovo, nella casa apprendiamo che il Signore non riconosce più alcun legame con Israele secondo la carne. I Suoi parenti si vergognano di essere legati ad un Uomo che i loro capi condannano ed i cui insegnamenti e modi di agire condannano il mondo. Impreparati a sopportare l’obbrobrio di Cristo, cercano di fermarLo dicendo: “È fuori di sé”. Probabilmente avrebbero ammesso tutte le accuse che i capi pronunciavano contro di Lui, ma hanno detto: “È fuori di sé, deve essere tenuto in custodia”.
Gli scribi ed i sacerdoti che, in ragione della loro posizione ufficiale e della loro superiorità intellettuale, avevano potere ed influenza sul popolo, rifiutano di accettare il pretesto della follia perché sapevano bene che non si trattava dello spirito di un malato di mente che concentrava tutta la sua energia su un solo punto, ma di una potenza molto reale, che cacciava i demoni. Sapevano che era una potenza che andava oltre quella dell’uomo, ma non avrebbero mai riconosciuto che era quella di Dio e perciò la imputavano al diavolo, l’unica altra potenza possibile.
Questa terribile accusa suggella la loro condanna, ma notiamo con quale grazia e calma perfetta il Signore non risponde a questa malvagità. Sulla montagna il Signore chiama i dodici per associarli a Sé in un ministero di benedizione, ma qui, ora chiama i Suoi nemici per pronunciare la loro condanna. Che pensiero solenne! Colui che chiama in grazia chiama anche in giudizio. Il Signore mostra che la loro accusa non è soltanto follia ed ignoranza, ma una deliberata bestemmia contro lo Spirito Santo. Qui c’era Colui che era più potente dell’uomo forte, che saccheggia i suoi beni dopo averlo legato. Tutta questa potenza era esercitata dal Signore Gesù nella potenza dello Spirito Santo (cfr. Atti 10:38). Perciò, attribuire questo al diavolo era trattare lo Spirito Santo come un demone. Un tale peccato non poteva essere perdonato. Era la fine di tutte le speranze di Israele sul terreno della responsabilità. Tale è il culmine solenne di tutto il servizio di grazia del Signore in questo mondo. “Nell’attività della bontà divina, l’uomo non può vedere che follia e opera del diavolo” (J.N. Darby).
La scena solenne che segue è il risultato terribile per i Giudei. Ogni relazione con Israele secondo la carne è abbandonata anche se il Signore, allo stesso tempo distingue un residuo fedele che è in relazione con Lui, non in ragione di legami naturali, ma per la fede nella Sua Parola (cfr. Giovanni 6:39-40).
Frutto per Dio e luce per l’uomo (Cap. 4)
Nel capitolo quattro le quattro parabole e il racconto della tempesta sul mare ci danno un quadro completo del Servizio del Signore alla Sua prima venuta su questa terra. Inoltre vi troviamo anche il risultato di questo servizio quando, durante il tempo della Sua assenza, esso è lasciato alla responsabilità dell’uomo.
Il ripudio di Cristo da parte dei capi del popolo e la rottura da parte di Cristo stesso di ogni legame con Israele secondo la carne, che ne è il risultato, come abbiamo visto nel capitolo precedente, offre l’occasione per rivelare il vero carattere del servizio del Signore. Fino a quel momento, nel Suo ministero di grazia, il Signore sembra cercare del frutto in Israele, ma ora la parabola del seminatore mostra chiaramente che ha lavorato per produrre del frutto. Infatti, il Suo ministero fu, per Israele, una prova che dimostrava che non c’era frutto per Dio nell’uomo decaduto e lasciato a se stesso. Se deve esserci del frutto non può essere prodotto che per mezzo dell’opera di Dio Stesso nelle anime degli uomini e che è rappresentata dall’opera del Seminatore.
Inoltre, se è necessaria un’opera di Dio, questa non può essere limitata ad una nazione. Questo prova anche che i bisogni dei Giudei sono grandi quanto quelli dei Gentili ed entrambi sono incapaci di assicurarsi la benedizione. Così, il servizio di grazia del Signore ha in vista tutti gli uomini. Questa verità è evidenziata dal fatto che “Gesù si mise di nuovo a insegnare presso il mare” (4:1).
Strettamente parlando della parabola, dobbiamo riconoscere che il Signore è il Seminatore e che il seme è la Parola di Dio. Di conseguenza, il Seminatore era perfetto, la semina era senza difetto ed il seme buono. Però, a causa del carattere del suolo, in tre casi su quattro non ha prodotto un risultato duraturo. La parabola ci fa vedere che quando l’Evangelo è predicato può essere ascoltato da quattro classi differenti di persone. Per impiegare il linguaggio della parabola ci sono degli uditori che sono “lungo la strada”, degli uditori paragonati a “un suolo roccioso”, altri simili a un suolo coperto “di spine” ed infine si parla della “buona terra”.
Quelli che sono “lungo la strada”, sono quelli che odono senza che la loro coscienza sia esercitata. È come il seme che cade sul suolo duro senza penetrare sotto la superficie. Gli uccelli del cielo non hanno nessuna difficoltà a beccare il seme, e Satana può rimuovere ciò che interessa solo la mente e non tocca la coscienza.
Il seme che cade sul terreno roccioso spunta e riveste una certa apparenza, ma sotto il calore del sole si secca perché non ha radici profonde. Il Signore spiega che questi sono quelli che quando hanno udito la Parola, la ricevono anche con gioia, ma non c’è l’opera di Dio nelle loro anime. Ricevere la Parola con gioia, senza un esercizio iniziale non è buon segno. Quando Dio lavora in un’anima agisce nella coscienza, risvegliando sentimenti di peccato e di colpevolezza. Perciò, il primo effetto della Parola non è la gioia ma l’afflizione. Questa porta al giudizio di se stessi e al pentimento davanti a Dio. In seguito del giudizio di se stessi, le tenebre si dissolvono, la luce di Dio penetra nel cuore, producendo un esercizio al quale risponde l’amore di Dio che ispira la fiducia, quando la luce ha fatto la sua opera.
Nel terzo caso la buona novella è udita, ma la Parola è soffocata e non produce un frutto duraturo. In ciascun caso il Signore parla di coloro che “odono” la Parola e non di coloro che hanno udito l’Evangelo. Udire la Parola sembra implicare una certa professione religiosa che permette di sperare che vi sia una vera conversione, fino a prova contraria. Gli uditori paragonati ad un suolo coperto di spine rappresentano coloro che sono talmente schiacciati dalle preoccupazioni delle cose presenti o così assorbiti dall’inseguire le cose di questo mondo, che la loro professione svanisce. La concupiscenza soffoca la sola cosa necessaria. I poveri possono essere schiacciati dalle preoccupazioni; il ricco dall’inganno della ricchezza. Che cosa solenne, per un’anima essere rovinata dalle preoccupazioni o persa a causa delle ricchezze. Che beneficio trarrà un uomo dal guadagnare il mondo intero se perde l’anima sua?
L’ultimo caso è quello dell’uditore paragonato alla buona terra. Una buona terra è sempre un terreno ben preparato. La coscienza è stata toccata e, di conseguenza, produce del frutto ma, anche lì, ci sono diversi gradi: uno trenta, uno sessanta, l’altro cento. Le cose che possono essere fatali all’incredulo possono gravemente ostacolare il credente.
Nella seconda parabola, impariamo che colui che ha ricevuto il buon seme della Parola nel suo cuore può diventare un testimone davanti agli uomini ed è responsabile di questo. Quello che è un frutto per Dio è luce per gli uomini. Far brillare la luce non è questione di doni, né si tratta dell’esercizio di un’attività di predicazione o d’insegnamento, ma è piuttosto la nuova vita che esprime qualcosa di Cristo, essendo come Cristo “figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo” (Filippesi 2:15).
Il Signore ci avverte che, se ci sono ostacoli affinché la Parola porti del frutto, possono essercene anche perché la luce risplenda per gli altri una volta che la Parola ha veramente operato nel cuore. Come il seme può essere soffocato dalle preoccupazioni di questo secolo, o dall’inganno delle ricchezze, così la luce può essere oscurata o perché siamo assorbiti dagli affari della vita, rappresentati dal vaso, o perché cerchiamo il nostro piacere come suggerisce il letto. Il credente non è considerato la luce, ma come la base della lampada: Cristo è la luce, il cristiano il candeliere.
La misura in cui siamo stati fedeli o infedeli rendendo testimonianza per Cristo sarà manifestata alla fine. Il segreto per essere una luce per Cristo è di avere Cristo nel cuore. “Se il cuore non è ripieno di Cristo, la verità non sarà manifestata. Se il cuore è ripieno di se stessi o di altre cose, Cristo non può essere manifestato” (J.N. Darby).
Quindi, come possono i nostri cuori essere ripieni di Cristo? L’esortazione del Signore indica che per poter illuminare gli altri bisogna prima essere degli ascoltatori: “Se uno ha orecchi per udire oda” (4:23). Il Signore stesso può dire per lo Spirito profetico: “Il Signore, DIO, mi ha dato una lingua pronta, perché io sappia aiutare con la parola chi è stanco. Egli risveglia, ogni mattina, risveglia il mio orecchio, perché io ascolti, come ascoltano i discepoli” (Isaia 50:4). Se vogliamo avere una lingua pronta, iniziamo con l’avere l’orecchio del discepolo. Se vogliamo sapere come sostenere con una parola colui che è stanco, ascoltiamo prima la parola di Colui che non lo è mai. Come Maria, in un’altra circostanza, dobbiamo sederci ai Suoi piedi per ascoltare le Sue parole, prima di poterne rendere testimonianza ad altri.
Inoltre, rendendo testimonianza, saremo noi stessi benedetti, perché il Signore ha detto: “Con la misura con la quale misurate sarete misurati pure voi” (4:24). Più diamo, più ci sarà dato. Se permettiamo alla luce che c’è in noi di brillare, riceveremo ancora più luce. È stato giustamente detto che la legge del cielo è: “Spargere per aumentare”, ma ricordiamoci che se noi non ci serviamo della luce che abbiamo la perderemo. Non perderemo mai la vita, ma la luce sì.
Il Signore si serve di una terza parabola per mostrarci che il tempo durante il quale la testimonianza del credente deve essere resa è quello della Sua assenza. Il regno di Dio stava per prendere una forma nella quale il Re è assente. È come se un uomo, dopo aver gettato del seme sulla terra, non facesse nient’altro fino alla mietitura. Il Signore aveva sparso personalmente il seme quando era venuto la prima volta e, alla fine dei tempi, quando questo mondo sarà maturo per il giudizio, tornerà di persona. Tra la prima e la Sua seconda venuta è alla destra di Dio e, sebbene agisca sempre in grazia verso i Suoi, non interviene pubblicamente o direttamente negli affari di questo mondo. Il seme che il Signore ha sparso, però, cresce e porta frutto.
L’ultima parabola presenta il risultato della semina quando è lasciato alla responsabilità dell’uomo. Il cristianesimo che, al suo esordio, era in apparenza molto piccolo, quanto “un granello si senape” (4:31), diventa, tra le mani degli uomini, una grande potenza sulla terra, ma nella sua grandezza i rami diventano un riparo per il male: “All’ombra loro possono ripararsi gli uccelli del cielo”. Quello che all’inizio attraeva delle anime fuori dal mondo per radunarle attorno al Signore diventerà, alla fine, un vasto sistema nel quale abitano tutte le cose malvagie.
La tempesta sul mare ci fornisce un quadro che completa l’insegnamento di questo capitolo. Abbiamo visto il Signore seminare il buon seme e abbiamo imparato che coloro nei quali la Parola è stata produttiva sono lasciati in questo mondo per essere delle luci per Cristo. La terza parabola ci ha insegnato che questa testimonianza ha luogo durante l’assenza di Cristo, e l’ultima ci ha indicato che, durante la Sua assenza, una vasta professione religiosa si sarebbe sviluppata fino a diventare un riparo per il male. Ora apprendiamo che, in un mondo simile, quelli che appartengono veramente al Signore incontrano delle prove, ma che il Signore Gesù, benché sia assente ai nostri occhi, è presente per mezzo della fede e domina tutte le tempeste che i Suoi possono incontrare.
Questa scena toccante si apre con le parole del Signore: “Passiamo all’altra riva” (4:35). Le Sue ultime parole a Pietro prima di lasciare questo mondo sono state: “Tu seguimi” (Giovanni 21:22). Attratti a Lui per i nostri bisogni e per la Sua grazia, noi Lo seguiamo in un sentiero che porta “all’altra riva”, nel centro stesso della gloria dov’è entrato. Però, anche se siamo in Sua compagnia, dobbiamo aspettarci delle prove perché il diavolo è sempre opposto a Cristo. Così leggiamo: “Ed ecco levarsi una gran bufera di vento che gettava le onde nella barca, tanto che questa già si riempiva” (4:37). Il Signore era con loro ma dormiva su un cuscino. Così come nella parabola, dopo aver gettato il seme, Egli era come un “un uomo che … dorma” (4:27) ora, nella tempesta dormiva effettivamente. Era, per così dire, indifferente alle prove dei Suoi. Tali circostanze mettono realmente la nostra fede alla prova e, come i discepoli, possiamo arrivare anche a chiederci se si prende cura di noi. Ma se queste prove sono permesse per provare la nostra fede, allora diventano esse stesse l’occasione di manifestare la Sua supremazia su tutte le prove che dobbiamo incontrare. Così come quella volta, il Signore, “svegliatosi, sgridò il vento e disse al mare: “Taci, calmati” anche oggi, nel momento e nel modo che vorrà, può placare ogni tempesta ed introdurci in una “gran bonaccia”. Nello spirito di questo quadro così toccante, l’apostolo Paolo può scrivere ai credenti di Tessalonica: “Il Signore della pace vi dia egli stesso la pace sempre e in ogni maniera. Il Signore sia con tutti voi” (2 Tessalonicesi 3:16). La fede realizza che non importa quali siano le tempeste che dobbiamo attraversare, il Signore è con noi per donarci la pace in ogni momento ed in tutte le circostanze. Preoccupati dalla “grande bufera di vento che gettava le onde nella barca”, cioè che assalgono la nostra fragile imbarcazione, possiamo dimenticare Cristo e pensare egoisticamente solo a noi stessi e allora dire come i discepoli: “Noi moriamo”. Ma una tempesta sollevata dal diavolo riuscirà mai a sconfiggere i consigli di Dio riguardo a Cristo e i Suoi? Mai una delle Sue pecore perirà, tutte arriveranno alla fine a raggiungere l’obiettivo. Troppo spesso, come i discepoli, non abbiamo che un debole sentimento della gloria della Persona che è con noi. Essi non si rendevano conto che l’Uomo che era con loro era il Figlio di Dio.
La benedizione individuale (Cap. 5)
Abbiamo visto il perfetto Servitore seminare il buon seme, ed ora ci viene accordato di vedere un altro aspetto del Suo servizio: il Suo modo d’agire individualmente con le anime. In questo servizio di grazia non vediamo soltanto la benedizione spirituale delle anime ma anche la potenza divina trionfante sul diavolo, la malattia e la morte. Diventa evidente che, nella Persona del Signore, Dio era presente in grazia ed in potenza per liberare l’uomo dalle conseguenze del peccato, ma anche che la presenza di Dio è intollerabile per l’uomo.
La prima cosa messa davanti a noi in modo evidente nel racconto dell’indemoniato (5:1-20) è la completa miseria dell’uomo sotto la potenza di Satana. Qui vediamo un uomo che “aveva nei sepolcri la sua dimora” (5:3). Gli uomini muoiono là dove dimorano e si trova sempre un cimitero con delle tombe vicino alle loro abitazioni per ricordarci di continuo che questo mondo giace sotto l’ombra della morte. Tutta la potenza di Satana si manifesta per trascinare l’uomo alla morte. “Il ladro non viene se non per rubare, ammazzare e distruggere” (Giovanni 10:10). Vorrebbe spogliarci di ogni benedizione spirituale, uccidere il corpo e distruggere l’anima.
In secondo luogo, questo racconto ci mostra la totale incapacità dell’uomo di liberare se stesso, o di liberare un altro dalla potenza di Satana. Gli sforzi per reprime la violenza di questo pover’uomo o per domarlo erano stati tutti inutili. Anche oggi, tutti i tentativi di frenare il male o di migliorare la carne non portano mai a liberare il mondo né dalla sua violenza, né dalla potenza di Satana e sono totalmente inutili per cambiare la carne.
Come terza cosa impariamo che, malgrado la nostra rovina e la nostra incapacità, abbiamo nella Persona di Cristo Colui la cui potenza e grazia possono liberarci da ogni potere di Satana. Questo pover’uomo si è talmente identificato con lo spirito immondo che il suo corpo è la dimora e lo strumento del demone che parla attraverso di lui. I demoni, però, devono inchinarsi davanti a Colui che sapevano essere il Figlio di Dio, Colui che ha la potenza di consegnarli al loro giusto giudizio. Gli uomini possono ignorare la gloria e l’autorità di Cristo ma non i demoni. Quando alla parola di Cristo devono uscire dall’uomo chiedono di essere mandati nei maiali. Apparentemente questi spiriti immondi hanno bisogno di un corpo naturale per mezzo del quale possono agire. Avendo avuto il permesso di farlo, entrano in questi animali e la loro malvagità e desiderio di distruzione si manifestano quindi immediatamente, perché lì non incontrano alcuna resistenza e possono trionfare immediatamente. Per questo, l’intero branco si precipita immediatamente in mare e viene annientato.
Come quarta cosa, questo fatto solenne ci fa conoscere che se il potere di Satana è terribile per l’uomo, la presenza di Dio gli è intollerabile anche quando si manifesta in potenza ed in grazia per liberarlo. Qualcuno ha detto che l’uomo “teme più il Signore e la Sua grazia che il diavolo e le sue opere”. Gli uomini di quella città che sono usciti per “vedere cosa era avvenuto” (5:14) sono messi subito alla presenza della manifestazione della grazia e della potenza del Signore Gesù. L’uomo che era stato così tanto tempo un flagello per il paese, ora si trovava “seduto, vestito e sano di mente”, magnifica immagine di un’anima veramente convertita, liberata dal terribile potere di Satana e portato a gustare il riposo ai piedi del Signore. Egli non è più nudo ed esposto al giudizio ma rivestito e libero da ogni accusa, giustificato davanti a Dio, essendo Cristo la sua giustizia; è sano di mente, è riconciliato ed ogni inimicizia contro Dio è scomparsa.
È allora che leggiamo: “E si impaurirono” (5:15). Che esposizione sullo stato degli uomini in questo mondo! Hanno la prova che Dio si è avvicinato a loro ed hanno paura. L’uomo colpevole ha sempre paura di Dio. Adamo, dopo la caduta, ha avuto paura; Israele al Sinai ha avuto paura, i Geraseni hanno avuto paura. Poco importa il modo in cui Dio si avvicina, che sia come un visitatore nel giardino di Eden, nella maestà come al Sinai o in grazia come a Gerasa: la presenza di Dio è insopportabile all’uomo colpevole. Gli uomini di Gerasa preferiscono i demoni, l’indemoniato ed i porci, al Figlio di Dio, anche se è là in potenza ed in grazia per liberare. Così, noi leggiamo: “Cominciarono a pregare Gesù che se ne andasse via dai loro confini” (5:17). La loro preghiera è esaudita: il Signore se ne va.
Infine, in contrasto toccante con gli uomini di questo mondo, vediamo che colui che è stato così riccamente benedetto desidera stare col Signore. A suo tempo, il suo desiderio riceverà una gloriosa risposta, perché noi sappiamo che Cristo è morto per i credenti affinché ”viviamo insieme a Lui” (1 Tessalonicesi 5.10) e, ben presto, noi saremo sempre col Signore. Attendendo quel momento abbiamo il privilegio di essere per Lui in un mondo che Lo ha rigettato. Così il Signore ha potuto dire a quest’uomo: “Va’ a casa tua dai tuoi, e racconta loro le grandi cose che il Signore ti ha fatte, e come ha avuto pietà di te” (5:19). Quale fu il risultato? “Tutti si meravigliarono”. Più noi realizziamo la nostra totale rovina sotto il potere di Satana, più prendiamo coscienza di quello che Cristo ha fatto per noi e della compassione di cui siamo stati l’oggetto, più noi possiamo meravigliare gli altri.
Gli avvenimenti di questo capitolo nascondono anche un insegnamento dispensazionale che presenta le vie di Dio verso Israele e le nazioni. Il racconto del branco di porci precipitato nel mare ha per scopo di farci comprendere che i Giudei stavano per essere dispersi nel mare delle nazioni a causa del rigettamento del loro Messia. Nel racconto che segue, quello della fanciulla morente, abbiamo invece un’immagine della condizione morale della nazione quando il Signore era lì. Ma proprio come il Signore risuscita la ragazzina alla fine del racconto, così quando ritornerà sulla terra farà rivivere la nazione. Oltre a questo, la storia della malattia ci insegna che ovunque le persone abbiano fede in Cristo, otterranno benedizione.
Nella storia di questa donna, il Signore distingue tra la vera fede e la semplice professione esteriore. Ci viene detto che “molta gente lo seguiva e lo stringeva da ogni parte” (5:24) e si potrebbe concludere che il Signore era circondato di tanti credenti che Lo seguivano. Anche oggi, noi vediamo degli edifici religiosi pieni di coloro che professano di adorare Cristo, che il nome del Signore è pronunciato in canti e preghiere da labbra di uomini e donne del mondo, che il nome di Cristo è legato ad opere del mondo e, tutto questo, al solo scopo di farci pensare che ci sono moltitudini di persone che credono in Cristo. In effetti, gli uomini giudicano così, perché si dicono cristiani, perché chiamano i loro paesi ed i loro governi “cristiani”, ma questo implica veramente che tutti credono al Signore Gesù? Che tutti hanno una fede personale in Cristo? Sicuramente no! C’è ancora oggi una grande folla dalla professione esteriore e ancora oggi il Signore distingue coloro che hanno una fede personale in Lui; per questo leggiamo: “Il Signore conosce quelli che sono suoi” (2 Timoteo 2:19). Le persone che Lo circondavano erano forse sincere, perché avevano visto i Suoi miracoli e ne avevano gustato i benefici, ma non avevano nessuna coscienza del loro bisogno di Cristo e non avevano una fede personale in Lui. Anche oggi, si può essere del tutto sinceri nell’abbracciare, come si dice, la religione cristiana, ma questa professione esteriore di cristianesimo, unirsi alla folla per seguire Gesù, non salverà l’anima, non regolerà la questione del peccato, della morte e del giudizio; non spezzerà il potere del peccato e non libererà né dalla corruzione della carne e del mondo, né dal timore della morte.
Per avere una vera benedizione deve esserci una fede personale nel Signore Gesù. Nel caso di questa donna, questo contatto personale della fede è illustrato in maniera ammirabile. Prima vediamo che là dove c’è la fede c’è sempre anche una certa coscienza del bisogno di un personale Salvatore. Questa coscienza potrà variare dall’uno all’altro ma esisterà sempre.
In secondo luogo, questa donna non aveva solo coscienza del suo bisogno, ma realizzava quanto fosse senza speranza il suo caso, se lasciato ai propri sforzi e alle capacità degli uomini.
Terza cosa: la fede non solo ci porta ad avere coscienza del nostro bisogno e dell’incapacità di rispondervi, ma percepisce qualcosa dell’eccellenza della Persona di Gesù. Scopre che in Lui c’è la grazia e la potenza per rispondere ai suoi bisogni. Inoltre, la fede rende umili. L’anima che viene per chiedere è pronta ad abbassarsi e a dire come la donna: “Se riesco a toccare almeno le sue vesti, sarò salva” (5:28). Non dobbiamo compiere grandi cose per assicurarci la benedizione, perché questo non farebbe altro che lusingare il nostro orgoglio, ma siamo portati ad accettare il fatto di non essere niente e dare tutta la gloria a Cristo. La virtù è in Cristo e non nella fede. Il contatto della fede assicura la benedizione in noi e ci mette in relazione con Colui che ne ha tutto il merito.
In seguito vediamo che il Signore si compiace di incoraggiare la fede. Egli non vuole che colui che è stato l’oggetto della benedizione sparisca silenziosamente. Egli porta il credente alla Sua presenza per dirgli tutta la verità. Vuole che Gli dichiariamo tutto, che non ci sia distanza tra Lui ed i Suoi.
Infine, vediamo che il risultato del fatto di essere portati alla presenza del Signore è di aprire i nostri cuori davanti a Lui, come questa donna; allora potremo proseguire il nostro cammino non più ponendo fiducia nei nostri sentimenti o appoggiandoci su qualche esperienza per reale che sia, ma appoggiandoci sulla Sua Parola. È così che questa donna apprende dalla Sua bocca che è guarita, perché le dice: “La tua fede ti ha salvata” (5:34).
Mentre il Signore era occupato di questa donna, qualcuno viene dal capo della sinagoga e dichiara: “Tua figlia è morta; perché incomodare ancora il Maestro?” (5:35). Il portatore di questo messaggio conosceva ben poco la potenza della mano del Maestro e il tenero amore del Suo cuore. Per quanto profonde siano le nostre prove, non dobbiamo aver timore di “incomodare” il Signore con i nostri affanni. Egli è venuto per portare le nostre malattie e caricarsi dei nostri dolori (cfr. Isaia 53:4). Entrando nel sentimento di questo sventurato padre, il Signore porta una parola di conforto al suo cuore: “Non temere; soltanto continua ad avere fede!”. Per l’uomo la situazione ora è chiaramente senza speranza: la fanciulla è morta, ma niente è impossibile per Cristo, che dopo aver risposto a coloro che manifestano solo incredulità e messo fuori quelli che ridono di Lui, resuscita la fanciulla e si occupa dei suoi bisogni.
Il servizio di Cristo dopo il suo rifiuto (Cap. 6)
Le grandi verità messe davanti a noi nel capitolo 6 si collegano a dei fatti che hanno avuto luogo: nel paese, alla corte del re, in un luogo deserto su una montagna e sul mare agitato. I primi due ci fanno scoprire la cattiva condizione morale del mondo che rifiuta Cristo; gli ultimi tre ci mostrano la pienezza delle risorse che si trovano in Lui per coloro che Lo seguono nella separazione da questo mondo.
Nella prima scena, vediamo il Signore in un umile servizio d’amore, che si unisce agli umili della “sua patria”, tra “i suoi parenti”, e “in casa sua” (6:4). Egli viene in mezzo a loro con la saggezza e la potenza divina, annunciando la verità in mezzo ai poveri del paese e guarendo alcuni malati, ma non piegandosi mai alla vanità della natura umana che ama l’ostentazione e l’apparenza e rigetta gli uomini a causa della loro modesta origine. Il ministero della grazia del Signore mette in evidenza questa malvagia condizione morale del popolo. Sono certamente stupiti del Suo insegnamento e della Sua saggezza e quindi obbligati a riconoscere i “Suoi” miracoli, ma “si scandalizzavano a causa di Lui” (6:3). La carne è sempre la stessa. Corriamo il pericolo, anche oggi, come credenti, di ostacolare l’opera di Dio per orgoglio e vanità della carne, disprezzando il ministero di un servitore del Signore perché ha umili origini. Anche come servitori possiamo mancare cercando di ottenere credito per mezzo della ricchezza o della posizione sociale. Nel Signore tutto è perfetto, le mancanze sono solo dalla parte del popolo. Questa gente semplice disprezzava la saggezza dell’insegnamento del Signore e la potenza delle Sue opere: “Non è questi il falegname, il figlio di Maria?” e aggiungevano dei fratelli e le sorelle del Signore che: “Stanno qui da noi”. Non sapevano discernere le glorie della Sua Persona, né la grazia del Suo cuore, come “essendo ricco” ha vissuto nella povertà per noi, affinché per mezzo della Sua povertà diventassimo ricchi (cfr. 2 Corinzi 8:9). Così, il Creatore era diventato il falegname, ed il Figlio di Dio il figlio di Maria. Il Signore ricorda a coloro che Lo rifiutano a causa della Sua umiliazione che “nessun profeta è disprezzato se non nella sua patria, fra i suoi parenti e in casa sua”. Ciò non significa che il Signore sia stato respinto nella Sua patria, come potrebbe accadere a noi, per le nostre debolezze o per particolari mancanze, ma che questa vicinanza a Lui nelle cose della vita quotidiana li ha portati a sminuire la missione divina che egli aveva ricevuto da Dio.
Il risultato fu che là non potette fare che pochi miracoli a causa della loro incredulità. È solenne considerare come ai giorni nostri l’incredulità può ostacolare l’opera di Dio. Se la fede, come ce lo ha mostrato l’episodio della donna malata nel capitolo precedente, attira la benedizione, è anche vero che l’incredulità impedisce che questa scaturisca. Tuttavia, la grazia del Signore si eleva al di sopra dell’orgoglio e dell’incredulità, ne guarisce qualcuno anche se la benedizione è limitata a “pochi malati”. “E si meravigliava della loro incredulità”. Proprio così. Qualche volta gli diamo modo di meravigliarsi della nostra incredulità, ma Lui va avanti per la Sua strada, insegnando nei villaggi intorno, instancabile nel Suo servizio, nonostante l’orgoglio e l’incredulità che incontra.
Il rifiuto del Suo servizio può impedire che vengano compiuti dei miracoli nella nazione, ma non può esaurire la grazia che scaturisce dal Suo cuore. Così, il Signore invia i dodici come una nuova testimonianza alla Sua presenza in grazia ed in potenza per la benedizione degli uomini. È resa una testimonianza toccante alla Sua gloria come Persona divina nel fatto ch’Egli “diede loro potere sugli spiriti immondi” (6:7). Non importa chi può esercitare una potenza e compiere dei miracoli, se l’autorità non gli è stata data, ma chi può, se non Dio, dare questa autorità? Inoltre, il modo in cu i discepoli dovevano andare era, in se stesso, una testimonianza alla presenza di Colui che è Signore di tutto. Dovevano partire senza prendere niente per il viaggio, dovevano avere fiducia nelle cure e nella protezione del Signore che, presente sulla terra, avrebbe inclinato i cuori degli uomini e diretto le circostanze affinché non mancassero di niente.
La missione non doveva degenerare in una tournée di visite mondane. Erano al servizio del Signore e di conseguenza dovevano, in ogni luogo, dimorare nella stessa casa fino alla loro partenza. La sostanza della loro predicazione era il pentimento, perché era stata annunciata la presenza del Re e l’Evangelo del Regno era già stato proclamato; tuttavia i capi religiosi avevano rifiutato Cristo a causa di quello che affermava di essere, così come il popolo lo aveva respinto a causa della Sua umile condizione. I capi Lo accusavano di fare miracoli per la potenza del diavolo, il popolo diceva che non era che un carpentiere. La nazione è chiamata a pentirsi da queste malvagità. Inoltre, era un’ultima testimonianza perché il giudizio stava per essere pronunciato su coloro che rifiutavano questa missione.
Il risultato di questa missione, accompagnato da segni di potenza, fu che “la sua fama si era sparsa” (6:14). Se solo tutti i predicatori annunziassero Cristo in modo tale da lasciare dietro di sé il profumo della sua Persona e la conoscenza del valore del suo Nome! Purtroppo, assistiamo molto spesso a quanto la pubblicità fa intorno al predicatore e l’uso di tanti mezzi che piacciono all’uomo naturale, mette in evidenza, più il nome del predicatore che quello di Gesù Cristo.
Nonostante la fama del Signore Gesù si sparga, a meno che non ci sia un’opera di Dio nell’anima, seguiranno solo speculazioni, come ai tempi in cui alcuni dicevano che fosse Giovanni il battista risuscitato dai morti, altri che fosse un profeta, ma le speculazioni della mente umana non possono mai arrivare alla verità sulla Persona di Cristo.
Ma ecco che la Sua fama arriva fino alla corte del re. Abbiamo già osservato la totale assenza di discernimento spirituale nella classe del popolo e ora scopriremo la cattiva condizione della classe superiore. Nel re Erode, le novità riguardanti Cristo fanno molto di più che portare a speculazioni. Queste risvegliano la sua coscienza inquieta e lo portano al ricordo del peccato. Aveva contratto un matrimonio illecito con la moglie di suo fratello e per questo era stato rimproverato da Giovanni il battista. Questo rimprovero aveva suscitato l’inimicizia di Erodiada, l’adultera colpevole, che avrebbe voluto far morire Giovanni, ma non aveva raggiunto il suo scopo, perché Erode aveva “soggezione di Giovanni, sapendo che era uomo giusto e santo” (6:20). Benché depravato nei suoi principi, Erode sapeva apprezzare la bontà negli altri, ascoltava volentieri Giovanni e faceva molte cose dietro suo consiglio. Erodiada però sa aspettare il momento propizio e una festa a corte le fornisce l’occasione che cercava. Sedotto da una danza, il re fa una promessa temeraria e poi, piuttosto che mancare alla parola data, fa mettere Giovanni a morte. Giustamente è stato detto: “Meglio infrangere una promessa diabolica che mantenerla”.
Il rifiuto e l’omicidio del Precursore è un’indicazione solenne che quando poi verrà il momento, Erode prenderà parte al rifiuto e alla crocifissione di Cristo.
Dopo aver compiuto la loro missione, “gli apostoli si riunirono intorno a Gesù” (6:30). Erano stati inviati dal Signore e ora erano tornati presso di Lui. Che benedizione, per dei servitori del Signore se, come i discepoli, dopo aver compiuto anche un piccolo servizio, possono tornare presso il Signore e raccontarGli tutto quello che hanno fatto e insegnato. Troppo spesso siamo inclini a dire queste cose agli altri, anche se qualche volta è appropriato incoraggiare dei figli di Dio parlando loro dell’opera del Signore. C’è però, questa grande differenza da osservare: se noi convochiamo l’assemblea di Dio come fecero Paolo e Barnaba ad Antiochia, questo deve essere per “riferire tutte le cose che Dio aveva compiuto per mezzo di loro e come aveva aperto la porta” (Atti 14:27); ma quando il nostro servizio è compiuto e ci avviciniamo al Signore, è per raccontare a Lui quello che noi abbiamo “fatto e insegnato”. È bene, per le nostre anime, passare in rivista i nostri atti e le nostre parole in presenza di Colui che non lusinga mai, davanti al quale è impossibile vantarsi e a cui non possiamo nascondere niente. È là che noi scopriamo le nostre debolezze ed i nostri difetti. Può essere, purtroppo, che siamo pieni di noi stessi e del nostro servizio, ma alla presenza del Signore possiamo parlare liberamente di tutto ciò che occupa i nostri pensieri e pesa sul nostro spirito, essere quindi placati e possiamo avere dei pensieri sani riguardo a noi stessi e al nostro servizio, per essere occupati di Lui. Non viene fatto alcun commento sul ministero degli apostoli, ma noi constatiamo la simpatia e le cure del Signore per i Suoi servitori. Loro Gli avevano parlato del loro servizio ma Lui si occupa di loro e del riposo di cui hanno bisogno, dicendo loro: “Venitevene ora in disparte, in un luogo solitario e riposatevi un poco” (6:31). Il riposo eterno è futuro, ma per la terra c’è “un poco” di riposo.
Possiamo sottolineare tre ragioni per le quali i discepoli sono stati portati “in un luogo deserto”. In primo luogo, il Signore si era ritirato in un deserto a causa dell’omicidio del Suo testimone, segno certo del Suo rigettamento e della Sua prossima crocifissione. Questo segno indicava che la dispensazione stava per cambiare ed è per questo che il Signore si separa e si tira fuori da questa nazione colpevole. Questa ragione dispensazionale emerge in maniera chiara nel Vangelo di Matteo (14:13). La seconda ragione per la quale il Signore prende un posto di separazione è in relazione con il servizio dei discepoli. Questo è messo in evidenza, in modo molto naturale, nel Vangelo di Marco. Il loro servizio li aveva condotti nel mondo e questo aveva provocato così tanto rumore che “era tanta la gente che andava e veniva”. In simili circostanze è necessario che i servitori siano condotti al riparo dell’agitazione del mondo, per stare col Signore e riposarsi un po’. La terza ragione di questo fatto è presentata nel Vangelo di Luca, dove noi apprendiamo che i discepoli sono stati portati altrove per essere istruiti dal Signore (Luca 9:10, 18-27).
Ancora oggi abbiamo bisogno di essere condotti fuori dal mondo per imparare che noi non siamo del mondo, anche se vi siamo mandati per il servizio del Signore. Le nostre benedizioni sono celesti e non per la terra, ma, come i discepoli, abbiamo bisogno di restare da soli con Lui per sfuggire allo spirito del mondo con tutte le sue irrequiete attività, e questo soprattutto quando una piccola testimonianza resa a Cristo ha avuto una momentanea risonanza in questo mondo. Abbiamo inoltre bisogno dell’intimità della presenza del Signore per imparare quello che è il Suo pensiero.
Alla parola del Signore, i discepoli partirono “per andare in un luogo solitario in disparte”, ma “molti li videro partire” e nella loro premura di essere vicini a Cristo “giunsero là prima di loro“(6:32). I discepoli stavano per essere privati, almeno sembra, del loro riposo, ma il Signore, nelle Sue tenere cure verso i Suoi e nella Sua compassione per le folle uscì dal luogo del Suo ritiro e andò incontro a coloro che Lo cercavano. Poteva esserci del riposo per i discepoli se per Lui non ce n’era? Per questo leggiamo: “Si mise ad insegnare molte cose” (6:34).
Ormai era tardi, i discepoli vengono dal loro riposo e dicono al Signore: “Lasciali andare”. sembra che considerino queste persone come un problema venuto a turbare il loro riposo e vorrebbero sbarazzarsi di loro, ma il Signore non li lascia andare via affamati. Non è forse scritto: “Sazierò di pane i suoi poveri” (Salmo 132:15)? Nessuna mancanza da parte d’Israele può essere di ostacolo alla bontà e alla compassione del cuore dell’Eterno. Egli insegnerà molte cose per la benedizione delle loro anime e procurerà del pane e dei pesci per i bisogni dei loro corpi. È così ancora oggi: e malgrado tutte le debolezze e le nostre numerose mancanze, si prende cura delle nostre anime e dei nostri corpi. In più, nel compiere questo atto d’amore impiega anche gli altri; infatti, dice ai discepoli: “Date loro voi da mangiare” e come spesso accade anche a noi, la loro fede non è in grado di utilizzare la Sua potenza. I loro pensieri non vanno al di là della loro stima del bisogno, dimenticando le immense risorse che sono in Cristo. Dopo aver manifestato l’assoluta insufficienza, il Signore mette il poco che essi hanno, cinque pani e due pesci, in contatto con l’abbondanza del cielo. Là c’erano cinquemila uomini e tutti “mangiarono e furono sazi” (6:42).
Gli avvenimenti riportati nei versetti che seguono mettono nuovamente davanti a noi il grande fatto che il Signore stava per lasciare i discepoli in un mondo che Lo aveva rifiutato. Aveva appena nutrito tutte quelle persone, perché mosso da compassione verso di loro, perché erano come pecore senza pastore. Non solo non avevano nessuno che li conducesse in verdeggianti pascoli o si prendesse cura delle loro anime, ma quando il Buon Pastore è venuto in mezzo a loro, non hanno avuto occhi né per discernere la Sua gloria, né per riceverLo. Così, il Signore, dopo aver licenziato la folla, “se ne andò sul monte a pregare” (6:46). In figura, si tratta del popolo allontanato mentre il Signore prenda un posto nuovo, in alto, per intercedere per i Suoi, coloro che sono lasciati per renderGli testimonianza in un mondo che Lo ha rifiutato.
I discepoli fanno l’esperienza non solo di essere privati della presenza fisica del Signore, ma sono anche messi a confronto con le tempeste della vita e devono affaticarsi a remare. Tutto, in questo mondo, è contrario ai figli di Dio, ma se il mondo è contro di noi e se il diavolo si oppone a noi, il Signore intercede per noi dal cielo. Anche se il Signore è assente non è indifferente alle tempeste e alle difficoltà che i Suoi devono incontrare. “Vedendo i discepoli che si affannavano a remare” va verso di loro, ma lo fa in una maniera che manifesta la superiorità su tutte le circostanze nelle quali si trovano: “andò incontro a loro, camminando sul mare” (6:48). Lo spiegamento di un potere così al di là delle possibilità dell’uomo riempì i discepoli di timore: “Tutti lo videro e ne furono sconvolti”. Colui che è al di sopra di tutte le tempeste che gli uomini o il diavolo possono sollevare, è anche Colui che è per noi. Sulla montagna Egli aveva pregato per loro, li aveva visti tormentarsi ed ora va verso di loro. Vuole provare la loro fede, come è spesso il caso anche oggi per noi credenti. Leggiamo infatti: “E voleva oltrepassarli” (6:48). La Sua potenza, la Sua intercessione, le Sue cure d’amore, sono a loro disposizione, ma hanno essi la fede per fare uso della pienezza che è in Lui? Nella loro confusione gridarono e “subito egli parlò loro e disse: Coraggio, sono io, non abbiate paura”. Il Signore va verso di loro nella gloria della Sua potenza, al di sopra di ogni tempesta, ma allo stesso tempo assicura loro di essere proprio Lui, Gesù, il loro Salvatore, il Pastore, l’Amico. Colui che in precedenza gli uomini avevano rifiutato come il falegname, ora si manifesta come il Creatore che può camminare sul mare e al quale le onde e i venti obbediscono.
Come fin troppo spesso ci accade, i discepoli “non avevano capito il fatto dei pani”, la grandezza della Sua potenza e della Sua grazia che era stata appena manifestata nell’episodio precedente. Erano occupati di loro stessi e delle loro difficoltà, i loro cuori erano induriti, incapaci di servirsi delle loro risorse in Cristo.
Il capitolo termina presentando un anticipo della benedizione di un giorno futuro. Quando Cristo tornerà, porterà benedizione alla terra per mezzo di un residuo fedele tra i Giudei. Allora, veramente, i tormenti dei fedeli avranno fine e Cristo sarà ricevuto, l’opposizione sparirà, le tempeste cesseranno e Cristo sarà ricevuto là dove precedentemente era stato rigettato.
L’uomo messo a nudo e Dio rivelato (Cap. 7)
Abbiamo visto, al capitolo 6, la denuncia e la condanna del mondo sociale e politico. In questo capitolo, abbiamo la condanna della religione nella sua forma carnale (1-13); la messa a nudo del cuore dell’uomo (14-23); la rivelazione del cuore di Dio (24-37)
All’inizio del capitolo, vediamo i capi religiosi della nazione andare al Signore Gesù. Non vanno nel sentimento dei loro bisogni o nel sentimento della Sua grazia, ma per opporsi a Cristo, accusando i Suoi discepoli perché mangiavano del pane con mani contaminate. La religione di questi uomini consisteva in forme e in cerimonie esteriori che sono alla portata di ciascuno e che donano una buona reputazione davanti agli uomini, lasciando però il cuore distante da Dio.
Nella risposta a questi uomini, il Signore mette in evidenza il vuoto della loro religione che consiste solo in forme esteriori. Prima di tutto, essa fa di questi uomini dei veri ipocriti, come lo testimoniano le Scritture. In effetti, Isaia dice a loro riguardo: “Questo popolo si avvicina a me con la bocca e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me” (Isaia 39:13; cfr. Ezechiele 33:31). L’ipocrisia è la pretesa di essere ciò che non si è. Per mezzo delle loro funzioni religiose dimostrano una grande pietà davanti agli uomini e, con le loro parole, pretendono di onorare Dio; in realtà il loro cuore è molto lontano da Dio.
In secondo luogo, il Signore mostra che una tale religione è vana. Può valere, a coloro che la praticano, una reputazione di pietà davanti agli uomini, ma è senza valore agli occhi di Dio.
Inoltre, essa mette da parte gli insegnamenti diretti della Parola di Dio a vantaggio delle tradizioni degli uomini e il Signore dà un esempio di questo grande male. La Parola di Dio ordina in modo esplicito ai figli di onorare i loro genitori, ma i Giudei avevano una tradizione secondo la quale potevano dichiarare che mettevano da parte i loro beni per Dio dicendo “è Corbàn” cioè: “è riservata per Dio” e, di conseguenza, questi beni non potevano essere impegnati per essere di aiuto a un genitore nel bisogno. Così, con le loro tradizioni, annullavano la Parola di Dio, si sottraevano alle loro responsabilità verso i genitori bisognosi, e soddisfacevano le loro concupiscenze.
Questo passo è ancora più solenne se ci ricordiamo che questi farisei e questi scribi di Gerusalemme erano i conduttori religiosi dei discendenti di quelli che erano ritornati da Babilonia. C’era certamente in Israele, ai tempi del Signore, un debole e piccolo residuo in mezzo a questi che temeva l’Eterno, pensava al Suo Nome e attendeva la liberazione, ma la massa del popolo era sprofondata nella terribile condizione che presentavano questi capi. Non erano più idolatri, esteriormente erano molto pii davanti agli uomini e con le labbra pronunciavano delle belle parole davanti a Dio, ma noi sappiamo che tutto questo è possibile anche quando il cuore è lontano da Dio e la Sua Parola è rimpiazzata dalle tradizioni degli uomini.
Dopo aver esposto l’ipocrisia della religione esteriore, che è quella della carne, il Signore si indirizza alla “folla” (7:14) per mostrare che la sorgente della contaminazione non è al di fuori dell’uomo, ma dentro di lui. Il lavare le mani, i calici, i boccali e i vasi di rame (7:4) non ha niente a che fare con la contaminazione esteriore, ma la contaminazione morale ha la sua sorgente nella malvagità intima del cuore. Questo condanna radicalmente ogni religione mondana e carnale che si lega solo a ciò che è esteriore e che lascia il cuore insensibile. Dio lavora nell’interno e si occupa della coscienza e del cuore. La vera sorgente della contaminazione non è nell’ambiente che circonda l’uomo, ma è lui stesso. È vero che l’uomo è quello che è: una creatura decaduta, le sue concupiscenze sono risvegliate dentro di lui da quello che lo circonda, se si pone in mezzo al male e alle tentazioni. Un angelo ha potuto attraversare Sodoma incontaminato, ma non Lot. L’angelo non aveva un cuore malvagio che rispondeva al peccato, ma lo aveva Lot.
Solo, con i Suoi discepoli, il Signore sviluppa questo tema e interpreta le figure che ha dato. Il male morale, qualunque forma rivesta, ha la sua radice nel cuore, sia che si tratti di malvagi pensieri, di azioni malvagie (fornicazioni, omicidi, furti o frodi) sia che si tratti di sguardi maligni o parole malvagie (calunnia superbia, stoltezza). “Tutte queste cose cattive escono dal di dentro e contaminano l’uomo” (7:23).
La malvagità del cuore dell’uomo era stata messa a nudo, ma ora, nel racconto della donna sirofenicia, abbiamo una preziosa rivelazione del cuore di Dio, un cuore pieno d’amore che difende la verità pur dispensando la grazia ai peccatori. Attraversando questo mondo che Lo aveva rifiutato, il Signore avrebbe voluto passare inosservato manifestando così questo spirito di umiltà che Lo ha portato ad annientare Se stesso. Ma la Sua perfezione era tale e il contrasto con tutto quello che Lo circondava era così grande, che non poteva restare nascosto. J.N. Darby ha detto: “La bontà unita alla potenza è troppo rara in questo mondo perché passino inosservate”.
Questa donna era sirofenicia, cioè una pagana (7:26) ma i suoi profondi bisogni l’hanno portata al Signore. Ella aveva fede nella potenza del Signore Gesù e nella Sua grazia anche verso una persona pagana, anche se la sua posizione era quella di un cane. Il Signore la porta a manifestare la sua fede in Lui dicendo: “Lascia che prima siano saziati i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini” (7:27). La sua fede trionfa su questa difficoltà, accettando la verità che la riguardava e rimettendosi alla grazia che era nel cuore del Signore. È come se in qualche modo dicesse: “Sì, per quanto mi riguarda, è vero, non posso rivendicare la mia posizione come figlia. Sono un cane, ma ripongo tutta la mia fiducia in ciò che sei Tu e non in ciò che sono io. C’è una tale grazia nel Tuo cuore che non rifiuterai le briciole ad un cane”. È sempre questo il modo di agire della fede: riconoscere la miseria, l’indegnità del nostro cuore e confidare nella Sua grazia perfetta. La fede si aggrappa a Cristo e si basa su quello che è ed ha fatto. Il Signore non voleva e non poteva respingere una simile fede, non poteva dirle: “Io non sono così buono come supponi” o “La mia grazia non è grande come immagini”. Sia benedetto il Suo Nome e la Sua grazia che supera di gran lunga la nostra fede e si compiace di rispondervi per quanto debole sia. È così che la fede in Cristo assicura la benedizione. Il Signore può dire alla donna: “Per questa parola, va’, il demonio è uscito da tua figlia” (7:29).
In questa ultima scena (7:31-37) il Signore si trova nuovamente in Galilea in mezzo al popolo d’Israele e Gli viene condotto “un sordo che parlava a stento”. Quest’uomo rappresenta perfettamente la condizione in cui il peccato aveva ridotto la nazione: Cristo è in mezzo a loro in grazia e in potenza, pronto a rispondere ai loro bisogni, ma il peccato li ha resi ciechi a tal punto che, come nazione, non possono approfittare della guarigione che è in Lui.
Tuttavia, il peccato non può cambiare il Suo cuore pieno d’amore, perciò non manderà via nessuno che venga a Lui nella sua miseria. Se non ha rimandato indietro una donna pagana, non rifiuterà nemmeno una richiesta a favore di un Giudeo. In entrambi i casi, però, nel dispensare la grazia si preoccupa di mantenere la verità. Perciò leggiamo: “Lo condusse fuori dalla folla, in disparte”. Il Signore non è indifferente al fatto che Lo abbiano respinto. Se opera in mezzo a loro è per la loro miseria e non perché sono Giudei. Il peccato ha messo i Giudei ed i Gentili sullo stesso livello e la grazia può benedire entrambi a causa della loro miseria.
Manifestando la Sua grazia, il Signore alza gli occhi al cielo e sospira. Egli agisce sempre in dipendenza dal Padre e in accordo con i pensieri del cielo. Se il Suo cuore era rotto dai dolori terreni era sostenuto dal cielo. Può capitare anche a noi di “sospirare” quando i dolori di questa terra travolgono il nostro spirito, ma fin troppo spesso lo facciamo senza alzare lo sguardo al cielo e allora siamo abbattuti e depressi. Quando ci guardiamo intorno abbiamo motivo di sospirare, ma quando alziamo gli occhi al cielo ne siamo fortificati. Dopo aver guarito quest’uomo, il Signore gli ordina di non parlarne con nessuno. Il Signore era là come il perfetto Servitore e non voleva utilizzare la Sua grande potenza e la Sua grazia per esaltare Se stesso. Il pensiero che era in Lui era di annientarsi, ma non poteva nascondersi. Tutti furono estremamente stupiti e dissero: “Egli fa ogni cosa bene; i sordi li fa udire e i muti li fa parlare” (7:37).
Cristo rifiutato (Cap. 8)
Nei capitoli 6 e 7 abbiamo visto che la presenza del Signore Gesù in mezzo agli uomini aveva messo in evidenza la corruzione e l’incredulità del mondo sociale, politico e religioso. Respinta ogni testimonianza della Sua grazia, il Signore lascia i luoghi frequentati e Lo troviamo in “un luogo solitario”, su un “monte” dove sale per pregare o che cammina sul “mare” (6:31, 46, 48).
Al capitolo 8, il Signore associa i Suoi in questa posizione distaccata e li esorta a seguirLo (8:1, 10, 27, 34) e, inoltre, scopriamo la pienezza delle risorse che sono in Cristo in questo sentiero di separazione: i loro bisogni sono soddisfatti (8:1-9); gli oppositori sono ridotti al silenzio (8:10-13); è dato un discernimento spirituale per vedere tutte le cose in modo chiaro (8:14-26). In più, siamo avvertiti che seguire Cristo in un mondo che Lo ha rifiutato comporta sofferenza, obbrobrio e perdite nel tempo presente.D’altro canto, ci incoraggia anche la prospettiva della gloria del Regno a cui porta questo cammino di sofferenze, se soffriamo con Lui (cfr. 2 Timoteo 2:12).
La prima moltiplicazione dei pani, nella quale il Signore aveva nutrito cinquemila uomini, aveva una portata nettamente dispensazionale, perché era una solenne testimonianza che Colui che la nazione rifiutava era veramente il loro Messia ed è immediatamente dopo che il Signore si ritira su un monte, come intercessore, mentre i Suoi discepoli incontrano l’opposizione del mondo. Questo è, sicuramente, un quadro dell’attuale servizio di Cristo nel cielo in favore dei Suoi.
Il secondo miracolo della moltiplicazione dei pani ha piuttosto un significato morale in quanto presenta non solo le risorse che sono nel Signore per rispondere ai bisogni dei Suoi, ma anche la compassione del Suo cuore per coloro verso i quali interviene. Qui, non sono i discepoli che vanno dal Signore, come nel primo miracolo, per attirare la Sua attenzione sui bisogni della folla (6:35), ma tutto procede dal Signore. È Lui che vede i bisogni (8:1-2); chiama a Se i discepoli; esprime davanti a loro la Sua compassione per quella gente; dà riposo alla folla facendola sedere; prende ciò che è disponibile e, ringraziando, lo distribuisce alla moltitudine per mezzo dei discepoli; soddisfa così la fame di tutti.
Ricordiamoci che è così anche oggi. Egli conosce i nostri bisogni; il Suo cuore è là per amare e la Sua mano per nutrire e curare teneramente (Efesini 5:29). Troppo spesso, come i discepoli, abbiamo coscienza dei bisogni e dell’assoluta insufficienza delle nostre risorse per farvi fronte. Ma se, come il Signore, noi mettiamo quel poco che abbiamo in contatto col cielo e per quel poco rendiamo grazie, faremo l’esperienza che Dio può moltiplicarlo e non solo per soddisfare la nostra fame, ma anche per lasciarcene d’avanzo.
In una precedente occasione in cui i discepoli erano saliti su una barca, il Signore era salito su un monte per intercedere per loro (6:45-47). In questa seconda circostanza, il Signore sale “sulla barca con i suoi discepoli” (8:10) mostrando, con questo, di non essere solo nel cielo per noi, ma che è anche con noi per sostenerci nelle tempeste della vita e quando abbiamo a che fare con l’opposizione del nemico. Questa opposizione è sempre diretta verso Cristo. Infatti, leggiamo che quando furono arrivati a terra i farisei “si misero a discutere con lui” (8:11). Egli aveva già dato numerosi segni e chiederne ancora uno non faceva che mettere in evidenza l’inimicizia e l’incredulità della carne. Nonostante questo, la malvagità dell’uomo forniva un’occasione per rivelare la perfezione del cuore di Cristo. La loro opposizione maliziosa non provocava né collera né risentimento nel Signore, mentre, molto spesso, noi reagiamo anche alla minima opposizione. Nel Signore, questa invece suscita sentimenti di dolore e di pietà. Leggiamo che “dopo aver sospirato nel suo spirito” fa una domanda indagatrice: “Perché questa generazione chiede un segno?” (8:12). I segni e le prove sono utili per coloro che, mossi da malvagità, rifiutano di credere. I farisei suggellano così il loro stesso giudizio perché leggiamo che il Signore “lasciatili, … passò all’altra riva”. Che gli uomini lascino il Signore è certamente una cosa solenne ma quanto è più terribile la condizione di quelli che il Signore lascia.
Noi leggiamo che, quando i discepoli sono saliti per la seconda volta sulla barca, si erano dimenticati di prendere dei pani e, cosa più grave ancora, avevano dimenticato la grazia e la potenza con le quali il Signore aveva risposto ai bisogni della folla affamata. Occupati dei loro bisogni materiali non compresero l’avvertimento del Signore che riguardava il lievito dei farisei ed il lievito d’Erode. Benché associati a Cristo in un sentiero di separazione dal mondo corrotto, erano in pericolo, come lo sono anche i credenti di oggi, di essere contaminati dalla forma di pietà senza potenza che caratterizzava i farisei o dallo spirito opportunista del mondo politico che caratterizzava gli erodiani.
Come spesso accade, i discepoli ragionano sulle parole del Signore prendendole in maniera semplicemente materiale, abbassandole al livello della comprensione umana e perdendo così il significato spirituale. Il Signore rimprovera questa mancanza di percezione spirituale e la loro poca memoria riguardo alla Sua grazia e la Sua potenza. Egli pone delle domande penetranti che noi potremmo indirizzare a noi stessi: “Perché state a discutere del non avere pane?”, “Non riflettete e non capite ancora?”, “Avete il cuore indurito?”, “Non vi ricordate?” (8:17-19).
Invece di accettare i fatti e di ricevere la verità, ragioniamo ed il nostro ragionamento naturale oscura la nostra intelligenza spirituale. Dietro la cecità della natura troppo spesso si nasconde la durezza del cuore, che deriva dal dimenticare così rapidamente la grazia e l’amore del Suo cuore: non “ricordiamo”. Queste domande così acute parlano alla coscienza di tutti i credenti perché non sono rivolte a degli oppositori ma a dei veri discepoli.
Il racconto del cieco (8:22-26) stabilisce in modo chiaro la differenza tra la nazione ed i discepoli. La nazione era in una totale cecità; i discepoli, benché veri credenti nel Signore, in questo momento mancano di intelligenza spirituale. Vedono solo indistintamente la Sua gloria divina. Essi Lo riconoscono e Lo confessano come il Messia, ma il loro pregiudizio giudaico ed il loro modo di pensare gli impediscono di discernere pienamente le altre glorie come Figlio dell’uomo e Figlio di Dio. Per questo occorre che siano completamente separati dalla nazione; è questo il significato dell’atto del Signore che porta il cieco “fuori dal villaggio” come in precedenza aveva condotto “fuori dalla folla” (7:33) un sordo che parlava a stento.
Dal momento in cui il Signore lo tocca, l’uomo riceve la vista. Ma non ne riceve il pieno uso. Egli dice: “Scorgo gli uomini perché li vedo come alberi che camminano” (8:24). Spiritualmente, i discepoli erano in questa situazione. L’alta considerazione che avevano della grandezza e dell’importanza dell’uomo impediva loro di discernere le glorie del Signore. Noi abbiamo bisogno non solo della grazia che dona la vita, ma anche di una grazia supplementare che ci renda capaci di utilizzare questa vista per vedere “ogni cosa chiaramente”; per vedere gli uomini come sono realmente e per vedere noi stessi in tutta la nostra debolezza e, al di sopra di tutto, per vedere il Signore Gesù in tutta la Sua perfezione.
Il Signore rimanda l’uomo a casa sua, ma non avrebbe dovuto né rientrare nel villaggio né dire a nessuno quello che gli era accaduto. Il momento di rendere testimonianza alla nazione, nel suo insieme, era ormai passato.
La conversazione che segue, del Signore con i Suoi discepoli, mostra non solo l’incredulità dell’uomo naturale, ma anche quanto poco i discepoli discernessero la Sua vera missione e la Sua gloria. La domanda test, oggi come allora, è: “Chi dice la gente che io sia?” (8:27). Tutta la gloria di Dio e tutta la benedizione dell’uomo dipendono totalmente dalla Persona di Cristo. È quindi ovvio che l’intelligenza umana da sola non arriverà mai alla verità. Tra gli uomini di quel tempo vi furono molti studiosi dotati di grandi capacità intellettuali, eppure, tutti i loro pensieri su Cristo finirono in speculazioni ed incertezze. Alcuni dicevano che era Giovanni Battista, altri Elia, altri che era uno dei profeti, ma nessuno era arrivato alla verità mentre, in Pietro, vediamo quello che una fede semplice opera in un uomo che, rispetto agli intellettuali di questo mondo, è ignorante e illetterato. La fede non specula né ragiona, ma arriva con la massima certezza alla verità, perché la fede è un dono di Dio. È per questo che Pietro può dire: “Tu sei il Cristo”.
Il Signore proibisce loro espressamente di dire questo di Lui. Era rifiutato dalla nazione, quindi la Sua posizione di Messia era, per il momento, stata messa da parte per assumere il titolo più ampio di Figlio dell’uomo. Questo titolo implica glorie più grandi del dominio terreno in rapporto con Israele, perché come Figlio dell’uomo avrà il dominio universale su tutte le cose create. Ma prima che possa prendere il Suo posto come Figlio dell’uomo ed ogni cosa sottomessa ai Suoi piedi, ed esercitare la Sua grazia verso tutti gli uomini, deve entrare nella morte, operare la redenzione e spezzare il potere di Satana, della morte e della tomba. Pensando alla croce davanti a Lui, inizia ad insegnare ai Suoi discepoli che il Figlio dell’uomo deve soffrire “molte cose, fosse respinto … fosse ucciso … e dopo tre giorni risuscitasse” (8:31). Era giunto il momento di parlare apertamente ai discepoli di questa grande verità e non più in parabole.
Appare subito evidente che i discepoli, malgrado la loro reale fede in Cristo, riuscivano a discernere solo in modo imperfetto la gloria del Signore come Figlio dell’uomo, proprio come il cieco aveva parzialmente recuperato la vista. Pietro non sopportava il pensiero che il suo Maestro e Signore sarebbe stato disprezzato e rifiutato dagli uomini e perciò rimprovera il Signore. Conoscendo l’effetto che le parole di Pietro avrebbero avuto sui discepoli, il Signore esclama: “Vattene via da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini” (8:33). Com’è solenne che dei veri credenti possano, con la massima sincerità, fare delle dichiarazioni che provengono da Satana. Pietro pensava, senza dubbio, di esprimere solo un sentimento di affetto per il suo Maestro, ma in realtà stava compiendo l’opera di Satana, cercando di sviare il Signore dal sentiero di obbedienza alla volontà del Padre e mettendo una pietra d’intoppo sulla via dei discepoli. Guardava le cose da un punto di vista puramente umano. In quel momento vedeva gli uomini “come alberi che camminano”.
Avendo “chiamata a sé la folla con i suoi discepoli” (8:34) il Signore distoglie i loro pensieri dalle cose degli uomini e gli insegna il pensiero di Dio. Se volevano seguirLo nel nuovo mondo di benedizione e di gloria che ha inaugurato come Figlio dell’uomo; dovevano essere preparati a condividere la Sua posizione di sofferenza e di rifiuto in questo mondo. Qui, non si tratta delle Sue sofferenze espiatorie che sopportò nell’abbandono di Dio, ma della contraddizione dei peccatori contro di Lui e delle sofferenze subite da parte degli uomini. In misura più piccola i credenti partecipano a queste sofferenze che possono arrivare fino al martirio. Seguire Cristo in un mondo che Lo ha rifiutato implica la rinuncia a se stessi, la perdita della propria vita ed il rifiuto del mondo. Ma qualunque cosa possa comportare il cammino in questo mondo, esso porta al giorno glorioso in cui il Figlio dell’uomo “verrà nella gloria del Padre Suo con i santi angeli”. (8:38).
Mentre contempliamo il Signore come ci viene descritto in questo capitolo, Lo vediamo prendere posto separato con i Suoi. Egli ha una perfetta conoscenza dei nostri bisogni, un cuore che simpatizza con noi in quei bisogni ed una mano che vi provvede. Inoltre, seguire Cristo significherà, per noi, non solo camminare dove Lui ha camminato, cioè nella separazione, ma camminare come Lui ha camminato. Nella nostra piccola misura, i nostri cuori saranno mossi a compassione per i bisogni degli altri; renderanno grazie per le benedizioni di Dio ed incontreremo l’opposizione di coloro che disputeranno con noi senza spirito di risentimento ma con un cuore addolorato. Rinunceremo anche a noi stessi, accetteremo un cammino nell’obbrobrio e rifiuteremo ciò che ci offre la vita quaggiù ed il presente secolo malvagio, mentre fissiamo i nostri occhi sulla gloria del mondo a venire come Colui che “per la gioia che gli era posta dinanzi sopportò la croce, disprezzando l’infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio” (Ebrei 12:2-3).
La potenza del mondo a venire (Capitolo 9)
Essendo testimoni della grazia, dell’amore e della potenza del Signore Gesù che liberava gli uomini dalle loro miserie, i discepoli videro effettivamente qualcosa della beatitudine del regno di Dio, videro in condizioni di debolezza perché il Re era tra loro come un Uomo povero, disprezzato, rifiutato, che non aveva un luogo dove posare il capo. Per sostenere la loro fede e la nostra, mentre seguiamo un Cristo rifiutato nel modo umile e sofferente, il Signore mette davanti a noi una visione della gloria futura. Ci mostra così che questo cammino di apparente debolezza finisce nel “regno di Dio venuto con potenza” (9:1).
Affinché abbiano questa gloriosa visione, il Signore prese Pietro, Giacomo e Giovanni “e li condusse soli, in disparte, sopra un alto monte” (9:2). Se, come credenti, dobbiamo saper guardare oltre la lunga notte presente e salutare il giorno glorioso che verrà, anche noi abbiamo bisogno di essere elevati in spirito al di sopra dell’agitazione di questo povero mondo, per restare soli col Signore Gesù. In tali momenti, come lo fu per i discepoli, la nostra anima sarà occupata soprattutto della gloria della Sua Persona. In questa visione i discepoli sono soprattutto colpiti dalla gloria del Signore: “Fu trasfigurato in loro presenza”. Anni più tardi, parlando di questa scena meravigliosa, Pietro scriverà: “Vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del nostro Signore Gesù Cristo” (2 Pietro 1:16). Parla non solo della Sua venuta ma anche della potenza della Sua venuta. Loro hanno avuto un assaggio dell’immensa potenza che, alla Sua venuta, in un batter d’occhio, ci trasformerà a Sua somiglianza. In un attimo “fu trasfigurato” e le vesti della Sua umiliazione “divennero sfolgoranti, candidissime”.
Inoltre, impariamo che nel Suo regno di gloria e potenza, il Signore non avrà con Sé solo i santi del tempo attuale, rappresentati dai Suoi apostoli, ma anche tutti i credenti vissuti prima della Sua prima venuta sulla terra, che sono rappresentati nella visione da Elia e Mosè, i due principali testimoni di Dio sotto la legge ed i profeti.
Questi due testimoni saranno associati a Cristo nella Sua gloria terrena ma, per quanto eminenti siano stati nella loro vita, essi devono svanire davanti a Cristo. La Sua gloria personale è affermata: Egli è Colui che è al di sopra di tutto. La nazione Lo aveva coperto di disonore e vergogna; i discepoli, sinceri ma ignoranti, Gli danno poco più onore e gloria di quanto non avrebbero dato a Elia e Mosè, anzi, Pietro era pronto a mettere il Signore al pari di questi eminenti servitori. Più tardi, dopo la discesa dello Spirito Santo, discerne il vero significato di questa scena meravigliosa e dirà che il Signore Gesù: “Ricevette da Dio Padre onore e gloria quando la voce giunta a lui dalla magnifica gloria gli disse: “Questi è il mio diletto Figlio, nel quale mi sono compiaciuto” (2 Pietro 1:17). L’onore che ha ricevuto dal Padre e dal cielo (la magnifica gloria) contrasta con quello che ha ricevuto dagli uomini, dal mondo e dagli stessi discepoli. Anche oggi, i credenti corrono qualche volta il rischio di cadere nella stessa trappola e dimenticare che, per quanto notevole possa essere la dedizione e la spiritualità di certi servitori, il Signore è infinitamente al di sopra di loro. Questi cambiano e scompaiono, ma solo del Signore si può dire: “Ma Tu rimani”, “Gesù Cristo è lo stesso” (Ebrei 1:11; 13:8). Così, i discepoli, dopo aver udito la voce dal cielo dire “Questo è il mio diletto Figlio; ascoltatelo”, “non videro più nessuno con loro, se non Gesù solo”; videro che il Signore era con loro. Avevano appena visto due uomini “con Gesù” nella gloria, ora vedevano il Signore Gesù “con loro” sulla via che porta alla gloria. Che possiamo anche noi, per il nostro bene, discernere la gloria della persona del Signore Gesù, con il quale saremo nella gloria e che è con noi mentre andiamo verso la gloria.
Perché questo sia possibile, il Signore deve morire e risorgere dai morti. Paolo potrà scrivere tempo dopo: “Il quale è morto per noi affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui” (1 Tessalonicesi 5:10), ma a quel tempo questa grande verità suscitò difficoltà nelle menti dei discepoli. Essi credevano in una risurrezione universale nell’ultimo giorno (cfr. Giovanni 11:24), ma non potevano capire che alcuni risuscitassero dai morti mentre altri sarebbero rimasti nelle tombe, in attesa di una risurrezione successiva. Eppure, questa è la verità fondamentale del cristianesimo. La risurrezione di Cristo dai morti è la prova eterna che Dio ha pienamente accettato la Sua opera, che i credenti sono resi perfetti in Lui e che prenderanno parte alla prima risurrezione, quella dei giusti. Così noi leggiamo: “Ma ciascuno al suo turno: Cristo, la primizia; poi quelli che sono di Cristo, alla sua venuta” (1 Corinzi 15:23).
Come troppo spesso anche noi facciamo quando incontriamo delle difficoltà, i discepoli temevano per se stessi “domandandosi tra di loro che significasse quel risuscitare dai morti” (9:10), invece di portare il loro problema al Signore.
Ma i discepoli ebbero anche un’altra difficoltà e questa volta l’esposero al Signore. Gli scribi dicevano che Elia doveva venire prima, ma apparentemente Elia non era venuto prima del Signore. L’ostacolo era che accettavano le Scritture che parlavano della venuta di Cristo in gloria, ma trascuravano quelle che riguardavano la Sua venuta per soffrire come Figlio dell’uomo. La profezia di Malachia dichiarava che Elia avrebbe preceduto la venuta di Cristo in gloria (cfr. Malachia 4:5) e questa profezia avrà certamente il suo compimento, ma moralmente era già venuto nella persona di Giovanni Battista, colui che era venuto nello spirito di Elia per chiamare il popolo al ravvedimento (Matteo 11:14).
Nel capitolo precedente, i farisei si erano messi a “discutere con Lui” (8:11) ma quando il Signore scende dalla montagna, trova gli scribi “che discutevano con” i Suoi discepoli (9:11). Più avanti il Signore ricorderà che “il servo non è più grande del suo signore” ed aggiungerà: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Giovanni 15:20). Se gli uomini osano disputare con Cristo, non è poi così strano che siano ostili ai credenti. Nel Signore questa opposizione non faceva che mettere in evidenza la Sua perfezione, ma nei credenti, troppo spesso, essa ne rivela la debolezza. Così, in questa scena, dopo aver potuto contemplare la gloria del Signore sulla montagna, noi troviamo ai piedi di questa la miseria dell’uomo, la potenza di Satana e la debolezza dei discepoli.
Quando il Signore aveva inviato i dodici “diede loro potere sugli spiriti immondi” e per un tempo essi fecero uso di questo potere perché leggiamo: “Scacciavano molti demoni” (6:7, 13), ma qui, la loro fede difetta. Non poterono cacciare uno spirito muto. La potenza per operare dei miracoli e trionfare sul potere di Satana c’era, ma gli uomini non potevano beneficiarne ed i discepoli non avevano fede sufficiente.
Davanti a questo insuccesso il Signore deve dire: “O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando vi sopporterò?” (9:19), parole che indicano la gravità solenne della inadeguatezza dei discepoli. Questo significava che la testimonianza di Dio, resa per mezzo loro, era rovinata e, di conseguenza, che la dispensazione stava per terminare. “Fino a quando vi sopporterò?” indica che il tempo del soggiorno del Signore sulla terra era limitato. Non era una generazione immersa nella miseria ed oppressa dal potere del diavolo che avrebbe scacciato il Signore; al contrario era stata proprio la profonda miseria dell’uomo sotto il potere di Satana che Lo aveva fatto venire nel mondo. ”Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori” (1 Timoteo 1:15). È una “generazione incredula” e non una generazione nella miseria che mette fine alla Sua missione di grazia e di potenza sulla terra. Quando non c’è più energia per fare uso delle risorse che sono in Cristo, il Suo servizio è terminato.
E questo, come parla a noi credenti? Perché anche nel nostro tempo, sarà il fallimento del popolo di Dio, piuttosto che la malvagità del mondo, a mettere fine al giorno della grazia. Quella che si professa una testimonianza pubblica per Cristo diventa, negli ultimi tempi, così odiosa per il Signore che dovrà dire: “Io ti vomiterò dalla mia bocca” (Apocalisse 3:16).
Tuttavia, la bontà del Signore non si esaurisce con l’opposizione degli uomini o per le mancanze dei Suoi. Parlando del ragazzo posseduto, il Signore può aggiungere queste confortanti parole: “Portatelo qui da me”. Qualcuno ha detto: “La fede, per piccola che sia, non è mai stata senza risposta da parte del Signore. Che consolazione! Nonostante l’incredulità, non solo del mondo, ma dei cristiani, se c’è una sola persona che ha fede nella bontà e nella potenza del Signore Gesù, può venire a Lui col suo vero bisogno e la semplice fede ed incontrerà sempre il Suo cuore pronto a riceverla e la Sua potenza pienamente sufficiente ad aiutarla”. Proprio come quando era sulla terra, e di fronte all’insufficienza dei Suoi discepoli disse: “Portatelo qui da me”, in questi ultimi tempi, quando sta per vomitare dalla Sua bocca la chiesa professante, può dire: “Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me” (Apocalisse 3:20). Per quanto sia buio il giorno, per quanto sia grande la nostra rovina, Cristo rimane sempre lo stesso. Sta sempre alla porta, pronto a benedire chiunque ascolti la Sua voce ed apra. Che possiamo essere sempre attenti a questa chiamata!
In risposta alle parole del Signore, “Glielo condussero” (9:20) ma, come accade spesso, lo fecero con ben poca fede nella potenza del Signore. Questo povero padre infatti dice: “Se puoi fare qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci. E Gesù: “Dici: “Se puoi!” Ogni cosa è possibile per chi crede” (9:22-23). A proposito di queste parole, qualcuno ha giustamente fatto notare: “La potenza è in rapporto con la fede; la difficoltà non è nella potenza di Cristo, ma nella fede dell’uomo; tutte le cose sono possibili a colui che crede. È un principio importante. La potenza di Cristo non manca mai di compiere tutto ciò che è bene per l’uomo, ma, ahimè, può mancare in noi la fede per appropriarsene” (J.N. Darby).
Quando il Signore è in casa (9:28), solo con i Suoi discepoli, espone questa verità così importante. Insegna che la fede che Lo fa intervenire in ogni difficoltà può esse mantenuta solo attraverso un’intima comunione con Dio, rappresentata dalla preghiera e dall’astinenza dalle cose di questo mondo, rappresentate dal digiuno. Per noi, come per i discepoli, dietro la mancanza di fede che ci fa sperimentare la potenza del Signore, si nasconde una mancanza di comunione con Lui nella preghiera.
La gloria del Regno era stata rivelata; la potenza della grazia del Signore per introdurvi le benedizioni era stata manifestata, ma questo non aveva fatto che mettere in evidenza l’incredulità del mondo e l’incapacità dei discepoli di approfittare della potenza che era in mezzo a loro. L’uscita di scena del Signore Gesù era vicina ed il tempo di rivolgersi pubblicamente alla nazione nel suo insieme era finito. Egli continuerà a rispondere in grazia a dei bisogni individuali, ma il momento di regnare non era ancora venuto, perciò, mentre attraversava la Galilea “non voleva che si sapesse” (9:30). Il peccato dell’uomo stava per arrivare al culmine, con la messa a morte del Figlio dell’uomo, ma questo avrebbe fornito anche l’occasione di manifestare, per mezzo della risurrezione dai morti, tutta la potenza di Cristo sul peccato, su Satana e sulla morte. Le parole del Signore mettono ancora una volta in evidenza la debolezza dei discepoli, che non solo mancano d’intelligenza spirituale per comprendere la verità della risurrezione, ma “temevano d’interrogarlo” (9:32). Nel caso del ragazzo posseduto dallo spirito muto, la loro fede era troppo debole per utilizzare la potenza di Cristo; la loro fiducia era troppo piccola per fare appello alla saggezza che era in Lui. Spesso, come i discepoli, quando sorgono le difficoltà, cerchiamo una soluzione discutendone tra di noi (9:10) invece di guardare a Cristo, il nostro Capo, nel quale è ogni saggezza.
Solo, in casa con i Suoi, il Signore, con una semplice domanda, tocca la coscienza dei Suoi discepoli e svela una delle cause fondamentali della loro debolezza. In cammino avevano disputato tra loro e il soggetto della discussione era stato: “Chi fosse il più grande” (9:34). Quante volte, da quel giorno, il desiderio di essere il più grande è stata la causa principale di contesa tra i figli di Dio! Qualunque sia il soggetto primario della discussione, spesso c’è di mezzo, in maniera inconscia, il nostro io, perché l’io non solo desidera essere grande ma vuole essere “il più grande”. Se un credente vuole essere “il più grande”, prima o poi questo porterà ad una disputa e aspetteremo il primo passo falso di un fratello per screditarlo, esaltando noi stessi. L’idea stessa di essere grandi mostra quanto poco i discepoli avessero compreso la verità del Regno. Non capivano che lo scopo del Regno è la manifestazione di tutto ciò che Dio è in amore, giustizia e potenza. Anche oggi possiamo cadere in questa trappola ed usare l’assemblea come un ambito nel quale cerchiamo di vantarci. È ciò che fecero i Corinzi con i doni ricevuti e la loro attività carnale; è ciò che fecero i Galati con il legalismo; ed è il pericolo che correvano i Colossesi nel ricercare una religione secondo la carne.
Ma se i credenti possono disputare tra di loro, devono stare in silenzio alla presenza del Signore. Possiamo essere certi che quando i credenti si mettono a disputare tra loro non si rendono conto d’essere alla Sua presenza.
Il Signore ha insegnato ai Suoi discepoli il sentiero della vera grandezza; ora illustra il Suo insegnamento mettendo un bambino in mezzo a loro e mostrando come Lui stesso poteva abbassarsi. Il discepolo che riceverà uno di questi piccoli fanciulli nel Suo Nome, seguirà il Signore nel sentiero della vera grandezza; si volgerà verso i più umili nel nome dell’Altissimo. Così facendo, si troverà in compagnia di Cristo; perché ricevere Cristo è ricevere Colui che Lo ha mandato. Perciò, rinunciando a noi stessi e rifiutando di esaltarci, ci troveremo in compagnia delle persone divine.
Abbiamo considerato il pericolo di esaltare sé stessi. Ciò che segue ci mostra un’altra insidia: il pericolo di esaltare un gruppo. Giovanni dice: “Maestro, noi abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato perché non ci seguiva” (9:38). Anche loro, benché avessero seguito Cristo, non avevano potuto cacciare un demone. Erano mancati il digiuno e la preghiera. Ora, vietavano ad altri quello che loro stessi non avevano potuto fare, solo perché non seguivano il Signore con loro. Nella Sua risposta, il Signore mostra che, ai Suoi occhi, quello che è più importante è la relazione del discepolo con Lui. È possibile che quell’uomo non avesse abbastanza fede per unirsi ai discepoli che seguivano il Signore in un cammino di separazione ma, se poteva compiere un miracolo nel Nome di Cristo, era chiaro che questo Nome aveva per lui del valore e non ne avrebbe parlato con leggerezza.
Il mondo aveva rigettato Cristo in modo così assoluto che, al suo interno, potevano esserci solo dei nemici di Cristo. Se c’è qualcuno che non è contro Cristo, allora deve essere di quelli che sono per Lui, anche se non hanno abbastanza fede per identificarsi pubblicamente con Lui. Per Giovanni non erano: “con noi”, ma il Signore può dire “che non è contro di noi”. I discepoli attribuivano troppo valore a questo misero “noi”, il piccolo e debole gruppetto riunito intorno a Cristo, esaltando però ben poco quella gloriosa Persona attorno alla quale erano raccolti. Il Signore ricorda loro che il Suo Nome è tutto. L’atto più insignificante, anche quello di dare un bicchiere d’acqua fresca a qualcuno che appartiene a Cristo, se fatto nel suo Nome, non perderà la ricompensa.
Seguono poi degli avvertimenti. Facciamo attenzione che, condannando gli altri, non mettiamo delle pietre d’inciampo sul cammino di uno dei “piccoli che credono” in Cristo (9:42). Inoltre, giudichiamo attentamente tutte le tendenze malvagie in noi, rifiutando tutto quello che potrebbe portarci al peccato. Questo giudizio può portare al rigoroso rifiuto di tutto ciò che è più prezioso alla carne: la mano, il piede, l’occhio e qualunque altro male nel quale queste membra possono trascinarci. Non dimentichiamo mai che queste cose malvagie portano gli uomini al giudizio eterno.
Tutto sarà messo alla prova. Il fuoco proverà sia i santi che i peccatori. “Poiché ognuno sarà salato con il fuoco” (9:49). Il peccatore che rifiuta Cristo avrà la sua sorte nel fuoco inestinguibile, ma il vero credente sarò testato attraverso il fuoco della prova o anche della persecuzione. L’apostolo Pietro ci dice che la nostra fede può essere provata col fuoco, avvertendoci che non dobbiamo trovare strano dover passare attraverso “il fuoco”, ma piuttosto rallegrarci di partecipare alle “sofferenze di Cristo” perché così saremo partecipi anche della “Sua gloria” (1 Pietro 1:7; 4:12-13). Inoltre, la vita del credente quaggiù è considerata come un sacrificio perché noi dobbiamo presentare i nostri “corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale” (Romani 12:1), ma il sacrificio deve essere conservato puro: “salato con sale”. Il cristiano, se cammina in santità pratica diventa un testimone in questo mondo. Senza la santità, la sua vita spirituale è simile a del sale che ha perso il suo sapore. Dobbiamo avere del sale in noi e camminare in pace gli uni con gli altri.
Nel corso di questo capitolo abbiamo visto, da una parte, le perfezioni di Cristo e dall’altra la manifestazione di quello che è la carne anche nei veri discepoli, coloro che amano e seguono il Signore. In presenza della gloria i discepoli “erano stati presi da spavento” (9:6); in presenza del potere di Satana era mancata loro la fede per far uso della potenza che era a loro disposizione in Cristo (9:18-19); dietro la mancanza di fede si nascondeva la negligenza quanto alla preghiera ed al digiuno (9:29). Erano poco in comunione con Dio nella preghiera; quando le difficoltà sorgevano nelle loro menti ne discutevano tra di loro ma temevano di interrogarLo (9:10, 32); lontani da Cristo, discutevano tra di loro, ciascuno volendo essere il maggiore e non tolleravano che qualcun altro compisse nel nome di Cristo quello che loro stessi non erano capaci di fare (9:38).
Tuttavia, se la nostra debolezza è dimostrata nei discepoli, scopriamo anche la pienezza delle nostre risorse in Cristo. Sulla montagna vediamo la gloria e la potenza del Regno e ci è rivelato che saremo con Lui nella gloria. Scesi dalla montagna apprendiamo che in mezzo a tutte le nostre debolezze e tutte le nostre difficoltà Egli è con noi, è la nostra risorsa infallibile, Colui al quale siamo invitati a portare tutte le nostre prove e tutte le nostre domande imbarazzanti (9:33), Colui che insegna (9:31), Colui nel cui Nome ci raduniamo (9:39) e che ricompensa anche l’atto più insignificante compiuto nel Suo Nome (9:41).
[1] NdT – È stata usata la versione Vecchia Diodati per rispettare il testo dello scritto. Potremmo mettere la seconda parte (che non è nella Nuova Riveduta) non in corsivo e fare un richiamo a Levitico 2:13.
Sofferenze e glorie (Cap. 10:1-45)
Questa nuova porzione del vangelo, mette davanti a noi tre principi importanti. Col primo, il Signore riconosce le relazioni naturali così come sono stabilite all’inizio da Dio, e ciò che c’è di buono nella creatura: il rispetto del matrimonio (10:2-12); accogliere dei figli (10:13-16); riconoscere la giustizia e gli affetti naturali (10:17-22). Col secondo, vengono considerate le relazioni naturali stabilite e riconosciute da Dio che sono state corrotte dall’uomo: il matrimonio guastato dalla durezza del cuore dell’uomo (10:5); i figli che sono disprezzati e tenuti in scarsa considerazione (10:13); l’integrità naturale ed i beni terreni, usati per separare l’anima da Dio ed impedire agli uomini di entrare nel regno di Dio (10:22-23). Col terzo, si riconosce che il fallimento dell’uomo naturale è tale che coloro che seguono Cristo nel Regno, devono essere preparati a soffrire in questo mondo. Qualunque sia l’entità delle ricchezze terrene, chi segue Cristo deve prendere la sua croce (10:21), incontrare la persecuzione (10:30) ed essere pronto a prendere un posto umile in questo mondo in vista del mondo a venire (10:44). Cristo, l’umile Servo, dà l’esempio perfetto di un simile cammino (10:33, 34, 45).
Il soggetto del matrimonio è sollevato dalla domanda dei farisei al Signore: “È lecito a un marito mandare via sua moglie?”. È chiaro che non desideravano realmente conoscere la verità, perché leggiamo che andarono dal Signore “per metterlo alla prova” (10:2). A quanto pare speravano che la risposta del Signore avrebbe permesso loro di accusarLo di ignorare quello che Mosè aveva detto o di sanzionare la pratica dissoluta che era prevalente in mezzo a loro. Ma come sempre, quando gli uomini nella loro follia cercano di mettere alla prova il Signore, è proprio la loro stessa condizione che viene messa in luce.
Alla domanda: “È lecito?”, il Signore risponde richiamandosi alla Legge: “Che cosa vi ha comandato Mosè?”. Nella loro risposta cercano di distaccarsi dalla domanda del Signore, parlando non di ciò che Mosè ha “comandato” ma di ciò che Mosè ha “permesso”. Agendo così, hanno inconsapevolmente dimostrato la durezza del loro cuore. Hanno trascurato i veri comandamenti di Mosè, parlando solo dei precetti speciali istituiti in ragione della durezza del loro cuore. I comandamenti erano in accordo con ciò che era nel cuore di Dio per l’uomo, mentre i precetti di Dio sul divorzio corrispondevano allo stato del loro cuore.
Dopo aver denunciato la durezza del cuore dell’uomo, il Signore presenta la verità riguardante la relazione del matrimonio, secondo l’ordine della creazione così com’è stabilita da Dio all’inizio. Così facendo il Signore sancisce il vincolo matrimoniale e permette al credente di considerare questo rapporto secondo l’ordine della creazione e non secondo i precetti degli uomini. In casa (10:10) il Signore sottolinea ancora una volta davanti ai Suoi discepoli quanto sia grave per un uomo annullare il vincolo matrimoniale per soddisfare le concupiscenze nei confronti di un’altra donna. Agli occhi di Dio è cadere nel peccato più degradante.
L’episodio che segue mostra che anche i discepoli erano lontani dal pensiero del Signore quanto ai bambini. Pensavano che probabilmente il Signore era troppo grande per notare questi piccoli e che loro fossero troppo piccoli per attirare la Sua attenzione. Rimproverando coloro che portavano il loro bambini al Signore perché li benedicesse, i discepoli diedero una immagine completamente falsa del loro maestro; non vedevano quello che vi era di bello in un bambino e rinnegavano i principi del Regno che dicevano di predicare.
L’azione dei discepoli suscita la giusta indignazione del Signore che risponde ai loro miseri pensieri dicendo loro: “Lasciate che i bambini vengano da me; non glielo vietate, perché il regno di Dio è per chi assomiglia a loro” (10:14). Il Suo cuore è pronto ad accogliere i deboli ed i semplici. Sebbene in loro vi sia la radice del peccato, la loro semplicità e la loro fiducia sono davvero i tratti dominanti di coloro che entrano nel regno di Dio e così come il Signore prese in braccio questi piccoli e li benedisse, così le braccia eterne accoglieranno coloro che con semplicità e fede ripongono in Lui la loro fiducia, e le Sue mani si alzeranno per benedirli (Deuteronomio 33:27; Luca 24:50).
Nel racconto che segue impariamo che le qualità naturali ed i beni terreni, benché preziosi al loro posto, non solo non ci fanno entrare nel regno di Dio, ma possono essere un vero ostacolo alla benedizione. La natura umana, anche nella forma migliore, non ha il senso del suo bisogno di Cristo e non riesce in alcun modo a comprendere la gloria di Cristo.
C’erano molte cose buone in quell’uomo ricco. Era pieno di ardore giovanile, è detto che “accorse”; era pronto ad ammettere la superiorità di Cristo, leggiamo: “Inginocchiatosi davanti a Lui”; aveva un desiderio di fare del bene perché chiede: “Che cosa devo fare” (10:17). Esteriormente aveva un carattere apprezzabile. Non era stato immorale; apparentemente aveva osservato la Legge. C’erano molte cose belle nel suo carattere frutto della creazione, cose che suscitavano la stima e l’amore del Signore. È stato scritto: “Era gentile, volenteroso e pronto a imparare ciò che era buono; aveva assistito all’eccellenza della vita e delle opere di Gesù ed il suo cuore era toccato da quello che aveva visto” (J.N. Darby).
Eppure tutte queste qualità naturali lo lasciavano senza una vera conoscenza della Persona e della gloria di Cristo e senza una vera consapevolezza della condizione e del bisogno del proprio cuore. Poteva discernere la perfezione di Cristo come Uomo, ma non la gloria della Sua Persona come Figlio di Dio. La natura umana, per quanto eccellente, non può discernere Dio in Cristo. In un’altra circostanza il Signore può dire a Pietro: “Tu sei beato, Simone, figlio di Giona, perché non la carne e il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli” (Matteo 16:17). Il Signore, parlando con questo giovane uomo, sul suo stesso terreno, non può ammettere che un uomo è buono: “Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio” (10:18). Cristo era “buono”, ma era Dio. “Egli fu sempre Dio, e Dio si fece Uomo ininterrottamente senza poter cessare di essere Dio” (J.N. Darby).
Inoltre, ignaro dei suoi bisogni, il giovane non chiede: “Cosa devo fare per essere salvato?”, ma: “Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” (10:17). Le sue belle disposizioni naturali lo rendevano cieco al fatto che, nonostante tutte le sue qualità, era un peccatore smarrito e bisognoso di salvezza. Il Signore alza il velo e manifesta il vero stato del suo cuore dicendogli: “Va’, vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri … poi vieni e seguimi” (10:21). Questo mette in luce il fatto che, nonostante il suo buon carattere, aveva un cuore che preferiva il denaro a Cristo. Così leggiamo: “Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente” (10:22). Questa è una prova lampante che, per Dio, non c’è del bene nell’uomo. Un bel carattere non è indice del buono stato morale del cuore. È stato giustamente scritto: “È ciò che governa il cuore; è il motivo che lo fa agire, la vera misura dello stato morale di un uomo e non le sue qualità naturali, per quanto piacevoli possano essere. Le buone qualità si trovano anche negli animali. Queste buone qualità devono essere stimate, ma non rivelano affatto lo stato morale del cuore” (J.N. Darby).
Cristo stesso è stato l’esempio perfetto del modello che ha proposto al giovane: “Infatti voi conoscete la grazia del nostro Signore Gesù Cristo il quale, essendo ricco, si è fatto povero per voi, affinché, mediante la sua povertà, voi poteste diventare ricchi” (2 Corinzi 8:9). Non avendo saputo discernere la gloria del Signore, questo giovane non ha visto la Sua grazia. Non vediamo mai la Sua grazia finché non vediamo la Sua gloria.
Conoscendo l’effetto delle Sue parole sui discepoli, il Signore, dopo averli guardati sottolinea la lezione che dobbiamo imparare da questo giovane, dicendo: “Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!” (10:23). I discepoli sono molto sorpresi da queste parole, perché secondo la loro concezione ebraica di benedizione terrena, consideravano la ricchezza ed i beni come un segno del favore di Dio e poi forse pensavano in cuor loro, come spesso facciamo noi: “Se solo fossimo ricchi, quanto bene potremmo fare!”. Per rispondere a questa difficoltà, il Signore mostra che il grande pericolo delle ricchezze sta nel fatto che gli uomini immaginano di potersi assicurare la salvezza e le benedizioni del Regno per mezzo loro ed in tal modo mettono la loro fiducia in esse. Va sottolineato che il Signore non sta parlando di un uomo abbiente, ma di qualcuno che mette la fiducia nelle ricchezze e questo è un pericolo a cui sono esposti tanto i poveri di beni materiali quanto i ricchi. Il Signore usa una figura per illustrare quanto sia difficile per una persona ricca entrare nel regno di Dio. Stupiti, i discepoli chiedono: “Chi dunque può essere salvato?” (10:23). Il Signore risponde “Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio” (10:27). La loro domanda sembra indicare che nelle loro menti fosse rimasto il pensiero che, almeno in una certa misura, la loro salvezza dipendesse da loro. Hanno dovuto imparare, come tutti noi, che la salvezza è interamente opera di Dio e che l’uomo non ha nulla a che fare con essa. Né la Legge, né la natura, né la ricchezza, né la povertà, hanno nulla a che fare con la salvezza dell’anima. Essa si basa interamente sulla potenza della grazia di Dio e ciò che per l’uomo è impossibile è possibile a Dio. Per questo leggiamo: “…è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio …” (Efesini 2:4-9).
Pietro fa notare che i dodici avevano seguito la via che il Signore aveva indicato al giovane ricco e, in un certo senso, chiede che cosa ne avrebbero ricavato. Il Signore risponde che ora, “in questo tempo”, avrebbero ricevuto cento volte più di quello a cui avessero rinunciato, insieme a persecuzioni, e nel “secolo a venire” la vita eterna (10:30). Se lasciamo la cerchia dei nostri parenti increduli, ci renderemo conto che siamo nella cerchia molto più ampia della famiglia di Dio e potranno esserci delle persecuzioni da parte del mondo che ci circonda ma è la via che conduce alla vita. Le parole del Signore indicano, però, che non sarà il fatto di lasciare tutto ad essere ricompensato, ma la motivazione che ci ha spinto a questo. Nulla deve essere fatto per esaltare se stessi, o in vista di una ricompensa, ma, come dice il Signore: “Per amor mio e per amore del vangelo” (10:29).
Il Signore aggiunge delle parole che ci fanno riflettere: “Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi saranno primi” (10:31). Questo è un vero monito contro il compiacimento di se stessi a cui tutti noi siamo inclini e che, a quanto pare, ha segnato le parole di Pietro quando ha detto: “Noi abbiamo lasciato ogni cosa” (10:29). Ma che cosa avevano effettivamente lasciato se non delle vecchie reti da riparare! Non vantiamoci di ciò a cui abbiamo rinunciato per Cristo. È stato giustamente detto: “Non è l’inizio della gara che è decisivo, è necessariamente il suo completamento che è il punto importante. In questa gara ci sono molti cambiamenti e, inoltre, molti passi falsi, cadute e battute d’arresto. La domanda non è a cosa abbiamo rinunciato in passato, ma cosa stiamo facendo oggi” .
I dodici avevano lasciato tutto per seguire Cristo, ma avevano calcolato così male il costo che subito dopo si trovano su un sentiero che li riempie di paura. “Erano turbati” (10:32) nel vedere il Signore percorrere deliberatamente un sentiero che avrebbe comportato prove e persecuzioni, e temevano per se stessi. Il Signore non nasconde la sofferenza che stava per incontrare e dice loro che il Figlio dell’uomo sarebbe stato consegnato ai capi della nazione ed ai pagani, che non Gli avrebbero risparmiato insulti e Lo avrebbero messo a morte, ma il terzo giorno sarebbe risuscitato.
In quel momento, il Signore, non avrebbe potuto trovare tra i dodici un solo discepolo che potesse entrare nei Suoi pensieri, simpatizzare con Lui o capire la necessità delle Sue sofferenze. Preoccupati dal pensiero di un regno sulla terra, Giacomo e Giovanni arrivano ad esprimere il desiderio di avere una posizione elevata, molto vicina al Signore Stesso. C’era in loro una vera fede quanto alla creazione del Regno, ma, come spesso accade anche a noi, la carne non giudicata si insinua rapidamente nella sfera della fede. Essi consideravano il Regno come un’opportunità di avanzamento spirituale piuttosto che come la sfera della manifestazione della gloria di Cristo. “Quello che è nato dalla carne, è carne” (Giovanni 3:6) che si tratti dei santi più ignoranti o di eminenti apostoli. Quante volte, da quel giorno, la bruttezza della carne è stata particolarmente tradita in coloro che sembravano essere qualcuno.
Il Signore coglie l’occasione di questa domanda che viene dalla carne per istruire i Suoi discepoli. Sottolinea che il percorso verso la gloria del Regno passa attraverso la sofferenza. Lui solo avrebbe potuto compiere la redenzione attraverso le sofferenze della croce ed essere abbandonato da Dio, ma i discepoli avrebbero avuto il privilegio di bere il calice della sofferenza da parte degli uomini. Inoltre, mentre poteva garantire loro il privilegio di soffrire per il Suo Nome, non poteva dar loro un posto alla Sua destra o alla Sua sinistra. Aveva preso il posto di Servo e lasciava al Padre dichiarare chi avrebbe ricevuto un posto privilegiato nel giorno della gloria.
La carne tradisce anche gli altri dieci discepoli. La loro indignazione contro Giacomo e Giovanni mostra che la gelosia opera nei loro cuori. È stato detto: “Non è solo per le mancanze dell’uno o dell’altro che la carne si manifesta, ma essa si manifesta anche nel nostro comportamento nei confronti delle mancanze degli altri, quando queste vengono alla luce. L’indignazione scoppiata tra i dieci ha messo in luce l’orgoglio del loro cuore esattamente come la richiesta dei due discepoli che volevano un posto migliore”.
Il Signore Gesù li chiama vicino a Lui e riprende i pensieri carnali dei due discepoli così come quelli dei dieci, mettendo davanti a loro il sentiero della vera grandezza. Se non può dar loro il primo posto nella gloria, può mostrare la strada per ottenerlo. Colui che prende l’ultimo posto sulla terra, come servo di tutti, avrà il primo posto nella gloria. Il Figlio dell’uomo era il modello perfetto in questo percorso.
Il rifiuto del Re (Cap. 10:46 – 11:26)
Nei primi tre vangeli, l’ingresso del Signore a Gerusalemme ed il miracolo di un cieco che recupera la vista, introducono gli eventi che culminano nella Sua morte e risurrezione. La Sua vita sulla terra, come Figlio dell’uomo venuto a servire con grazia ed umiltà, è finita. Ora si presenta a Gerusalemme come il Figlio di Davide, il Messia promesso. Dopo essere stato rifiutato come il perfetto Servo dell’Eterno, viene rifiutato come Figlio di Davide, e questi due rifiuti aprono la strada ad un servizio ancora più grande: il dono della Sua vita in riscatto per molti, come Figlio dell’uomo.
Il Signore entra in Gerico, la città maledetta, non per giudicare ed eseguire la maledizione, ma nell’umile grazia di Colui che l’avrebbe sopportata. Mentre stava lasciando la città incontrò un cieco che era seduto sul ciglio della strada a chiedere l’elemosina. Come non pensare che la condizione fisica del cieco rappresenti la condizione morale della nazione! Il Messia era presente, era venuto in grazia e potenza per benedire, ma la nazione era cieca e non vedeva né la gloria della Sua Persona né la sua stessa miseria. In Gesù videro solo un Nazareno disprezzato.
Contrariamente alla folla, Bartimeo era consapevole della propria miseria e dell’incapacità di rimediarvi da solo. Come sempre è l’anima che ha dei bisogni ad essere attratta verso il Signore e a discernerne la gloria. Se la folla parla di Gesù come il Nazareno, la fede discerne in quest’umile Uomo, il Figlio di Davide, Colui del quale è scritto che sarebbe venuto “per aprire gli occhi dei ciechi” (Isaia 42:7). Per questo il cieco può gridare: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me” (10:47).
Come sempre, quando un’anima cerca il Signore Gesù, ci sono degli ostacoli da superare. Molti rimproverano il cieco per farlo tacere, non volendo che il Signore venga infastidito da un mendicante, ma la sua fede, che si eleva al di sopra di tutti gli ostacoli, grida ancora più forte e, nella Sua grazia, il Signore “fermatosi, disse: Chiamatelo!” (10:48). Gettando via il mantello, egli si alza e si avvicina al Signore Gesù. Che anche noi, quando diveniamo consapevoli della nostra miseria e comprendiamo qualcosa della gloria del Signore, sappiamo gettar via ogni mantello d’ipocrisia in cui riponiamo la nostra fiducia ed andiamo al Signore così come siamo, in tutta la nostra miseria e debolezza. Alla domanda del Signore: “Che cosa vuoi che ti faccia?” il cieco risponde: “Rabbunì, che io recuperi la vista” (10:51). Il Signore prende il posto di chi opera, il cieco accetta di essere colui che riceve. Il Signore risponde immediatamente a questa fede semplice; il cieco recupera la vista e segue il Signore nel cammino, diventando così un Suo discepolo. Non ha cercato di seguire il Signore per recuperare la vista ma, avendo ricevuto la benedizione di recuperarla, Lo ha seguito. Dobbiamo prima ricevere le benedizioni della salvezza e del perdono che ci porta l’opera di Cristo per poterLo seguire come l’oggetto della gioia della nostra anima.
Mentre si avvicinano a Gerusalemme, vengono fatti i preparativi in vista della presentazione del Signore a Israele come Figlio di Davide, in adempimento alla profezia del profeta Zaccaria (Zaccaria 9:9). Era una nuova testimonianza per la gloria del Signore ed un ultimo segno per il popolo. Presentandosi come Re, il Signore Gesù agisce con autorità regale. Se qualcuno avesse chiesto ai discepoli perché stavano slegando il puledro, sarebbe stato sufficiente rispondere: “Il Signore ne ha bisogno” (11:3) per mettere immediatamente fine ad ogni questione. Così è avvenuto e così avverrà nel giorno della gloria futura, quando in Sion si potrà veramente dire: “Il tuo popolo si offre volenteroso quando raduni il tuo esercito” (Salmi 110:3).
Entrando a Gerusalemme il Signore si è trovato circondato da una folla che Lo saluta come Re, citando le parole di un Salmo: “O SIGNORE, dacci la salvezza! … Benedetto colui che viene nel nome del SIGNORE” (Salmo 118: 25-25). È il grido che pronuncerà la nazione in un giorno futuro, quando un residuo pentito guarderà nuovamente all’Eterno per essere salvato. Quel momento non è ancora venuto ma, se i capi del popolo rifiutano il Signore, è dato ai fanciulli ed ai lattanti di rendere testimonianza alla Sua gloria (Salmo 8:2). Entrato nella città e nel tempio, il Signore osserva ciò che Lo circonda (11:11). Lo fa solo per mettere in evidenza i segni della ribellione, della corruzione e dell’incredulità che contraddistinguono uno stato che Egli rifiuta di approvare con la sua presenza, e quindi, venuta la sera, torna a Betania dove c’erano alcuni che Lo amavano e Lo accoglievano.
Il giorno dopo, mentre il Re torna in città con i Suoi discepoli leggiamo che “ebbe fame” (11:12). Cercò dei frutti su un fico, ma non trovò che “delle foglie”. Possiamo dire che per il Signore non si trattava solo di una fame fisica ma di una fame spirituale che cercava qualche riconoscenza da parte d’Israele per tutti i secoli di bontà che Dio aveva usato verso la nazione. Qualcosa che fosse un frutto per soddisfare il cuore di Dio. Come su quell’albero il Signore ha trovato molte foglie e nessun frutto, Egli ha trovato, nella nazione, una grande professione di pietà davanti agli uomini ma niente nella vita interiore che potesse portare un frutto per Dio.
Che cosa solenne! Qualunque sia la professione religiosa davanti agli uomini, coloro che cessano di vivere rettamente davanti a Dio perderanno il privilegiano di esserne testimoni davanti agli uomini. Il Signore deve dire: “Nessuno mangi mai più frutto da te” (11:14). Questo è certamente un principio di grande portata. Più tardi il Signore dirà alla Chiesa di Efeso che con le loro opere davano una grande apparenza di pietà, che non erano stati fedeli nei loro affetti verso di Lui: “Hai abbandonato il tuo primo amore” (Apocalisse 2:4) ed avverte che rimuoverà “il candelabro dal suo posto”. Questi credenti, non essendo retti di cuore verso Cristo, avrebbero perso la loro testimonianza davanti agli uomini. È un avvertimento solenne per tutti noi per i quali il vero criterio della spiritualità non è la professione esteriore della pietà davanti agli uomini, ma la vita interiore vissuta davanti a Cristo.
Giunto in città, il Signore Gesù entra nel tempio e vede la portata della corruzione nella Casa di Dio lasciata alla responsabilità dell’uomo. Questa Casa, nella quale Dio si avvicina agli uomini ed attraverso la quale l’uomo può avvicinarsi a Dio, era diventata, nelle mani di questi religiosi giudei, un mezzo per soddisfare la loro avidità. E quello che questi capi d’Israele hanno fatto, rischiano di farlo anche i capi della cristianità, a meno che non intervenga la grazia di Dio. Qualche anno più tardi, l’apostolo Paolo ci mette in guardia contro l’intrusione tra i cristiani di uomini corrotti nella loro mente che “considerano la pietà come una fonte di guadagno” (1 Timoteo 6:5). Anche l’apostolo Pietro, che presenta l’Assemblea come la casa di Dio, esorta gli anziani a non pascere il gregge di Dio “per vile guadagno” (1 Pietro 5:2). Poi, nella sua seconda epistola ci avverte anche che degli uomini si sarebbero introdotti tra i cristiani e “nella loro cupidigia” li avrebbero sfruttati (2 Pietro 2:3). Da questo impariamo che la carne non cambia. La concupiscenza che ha corrotto la Casa di Dio a Gerusalemme si è insinuata con la sua influenza malvagia nella Casa spirituale di Dio. Perciò: “è giunto il tempo in cui il giudizio deve cominciare dalla casa di Dio” (1 Pietro 4:17).
Il Signore condanna questa corruzione in termini molto chiari. La Casa che, secondo le Scritture, doveva essere una casa di preghiera per tutte le genti, era stata trasformata in “in un covo di ladroni” (11:17 – Isaia 56:7; Geremia 7:11). Nel denunciare questo male, il Signore ha solo sollevato contro di Sé l’opposizione più assoluta: “I capi dei sacerdoti e gli scribi udirono queste cose e cercavano il modo di farlo morire” (11:18). Ed oggi, coloro che difronte alla corruzione della cristianità cercano di seguire il Signore prendendo posizione a favore della verità, incontreranno dell’opposizione: “La verità è scomparsa,
e chi si allontana dal male si espone a essere spogliato [o: si rende una facile preda]” (Isaia 59:15).
Il Signore insegna ai Suoi discepoli l’importante principio che permette al cristiano più debole di superare le difficoltà più grandi e vincere l’avversario più astuto. Esteriormente tutto il potere e l’autorità dell’ordine costituito era nelle mani di coloro che si opponevano al Signore ed ai Suoi insegnamenti. Come avrebbero potuto dei semplici pescatori resistere alla saggezza ed al potere di uomini così altolocati? La risposta del Signore è: “Abbiate fede in Dio” (11:22). Tutto il potere di coloro che erano simboleggiati nel fico sterile sarebbe svanito di fronte alla potenza di Dio di cui la fede poteva appropriarsi. La nazione giudaica, che rappresentava l’intero sistema della legge, appariva grande agli occhi dei discepoli e paragonabile ad una montagna stabile da secoli. Tuttavia, sebbene la nazione sembrasse stabile e durevole, la fede poteva discernere che stava per essere gettata nel mare delle Nazioni. Ma se la montagna doveva essere rimossa, Dio sarebbe rimasto, risorsa infallibile della fede.
Inoltre, la fede si esprime nella preghiera a Dio. Questo non implica solo che noi mettiamo le nostre richieste davanti a Dio, ma che così facendo ci aspettiamo una risposta. Lo Spirito Dio ci esorta tramite Paolo a pregare “in ogni tempo, per mezzo dello Spirito, con ogni preghiera e supplica; vegliate a questo scopo con ogni perseveranza” (Efesini 6:18). Siamo così messi in guardia da ogni ripetizione di formule e richieste generali.
Inoltre, il Signore ci avverte di non nutrire dei pensieri di vendetta quando preghiamo contro coloro che potrebbero averci offeso o essere contro di noi. Niente ostacolerà le nostre preghiere più dell’incredulità in Dio, Colui al quale ci indirizziamo, ed uno spirito intransigente verso coloro per i quali preghiamo. È stato giustamente detto che: “il Signore unisce alla preghiera della fede la necessità di uno spirito mite e di perdono verso quelli contro i quali il nostro cuore può avere qualcosa, affinché il governo del Padre non sia chiamato a ricordare i nostri peccati” (FWG).
I capi respinti (Cap. 11:27 — 12:44)
Abbiamo visto il Signore presentato alla nazione come Re, il Figlio di Davide, ma rifiutato dai capi del popolo che “cercavano il modo di farlo morire” (11:18). In questa parte del vangelo di Marco i capi delle diverse fazioni che compongono la nazione ci vengono messi davanti nella loro vera condizione e per questo sono respinti da Cristo.
Come sempre i più accaniti oppositori di Cristo sono i capi religiosi di un sistema corrotto. I capi sacerdoti, gli scribi e gli anziani sono i primi ad essere smascherati in presenza del Signore. Esercitando la Sua potenza e la Sua grazia, il Signore aveva reso la vista ad un cieco; come Figlio di Davide, era entrato in Gerusalemme ed aveva purificato il tempio. Purtroppo, questi capi religiosi, preoccupati solo di se stessi e della loro reputazione in materia di religione, erano tanto insensibili ai bisogni degli uomini quanto alla santità della Casa di Dio. Ansiosi di mantenere la loro autorità, non potevano sopportare nulla che, nella sfera religiosa, fosse fatto senza il loro controllo. Indifferenti alla corruzione che esisteva nella Casa di Dio ed incapaci di rimediare, si oppongono a Colui che può e vuole affrontare il male e pongono delle domande sulla Sua autorità.
Il Signore risponde chiedendo loro di Giovanni Battista (11:30). Poiché ci tengono ad essere i capi religiosi, possono prendersi anche la responsabilità di dichiarare se l’autorità della missione di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini. La domanda del Signore non solo dimostra la loro incapacità di giudicare in materia di autorità, ma mette a nudo la loro palese ipocrisia.
Il fatto che abbiano valutato i pro ed i contro prima di rispondere al Signore dimostra che erano privi di ogni principio. Da bravi politicanti, erano disposti a rispondere in un modo o nell’altro, indipendentemente dalle loro convinzioni, ma consapevoli che la loro risposta, qualunque fosse, li esponeva ad una condanna: o del Signore o degli uomini. Così, si rifugiano nel silenzio dichiarando: “Non lo sappiamo”. Smascherata la loro malvagità e la loro ipocrisia, il Signore si rifiuta di rispondere alla loro domanda.
Rivelata la doppiezza dei capi religiosi che, pensando alla loro reputazione, “temevano il popolo” (11.32), ma non avevano timore di Dio, il Signore presenta loro, in una parabola, la storia morale della nazione. Egli fa vedere che, come i capi sacerdoti di quel tempo, anche in passato i capi avevano sempre mancato alle loro responsabilità. Inoltre, guardando al prossimo futuro, il Signore annuncia il giudizio che stava per cadere sui capi e sul paese. Come la vigna nella parabola, Israele era stato piantato in un paese ben preciso; il popolo era stato separato dalle nazioni da una legge che ne regolava la vita e che, come una siepe, ne fissava i limiti. Come era stata scavata “una buca per pigiare l’uva” (12:1), così ogni cosa era stata preparata perché il popolo portasse frutto per Dio e, come la vigna era stata protetta da una torre, la nazione era stata messa al riparo da ogni nemico. Israele aveva ricevuto quindi la responsabilità di mantenere la sua posizione unica e produrre dei frutti per Dio.
“Al tempo della raccolta” (12:2) Dio viene a cercare quello che il paese avrebbe dovuto offrirGli in cambio di tutta la Sua bontà. Questa prova morale dell’uomo, come la presenta la storia d’Israele, serve solo a dimostrare la sua totale rovina. Nel cuore dell’uomo non c’è niente per Dio, anche quando è così abbondantemente benedetto da Lui e gli è dato tutto per realizzare questa bontà.
Ogni tentativo da parte di Dio di ricevere del frutto dal Suo popolo non solo è respinto, ma trattato con crescente risentimento. Un primo servitore è rimandato a vuoto; un secondo oltraggiato; un terzo non solo incontra gli oltraggi e le percosse ma anche la morte. La nazione manifesta sempre di più il fallimento dell’uomo lasciato alla propria responsabilità, ma c’è un’ultima prova da fare, per vedere se è possibile raggiungere il cuore dell’uomo. Dio ha un Figlio, un Figlio unico ed amato. Manderà Lui e, se c’è una scintilla di bontà nel genere umano, sicuramente ne “avranno rispetto”. Si sarebbero potuti trovare motivi di antipatia o persino di odio nel migliore dei profeti e dei re, ma nel Figlio non possono esserci ragioni per l’odio. Ha dovuto dire: “Mi hanno fatto guerra senza motivo. In cambio della mia amicizia, mi accusano … mi hanno reso male per bene, e odio in cambio di amore” (Salmo 109: 3-5).
L’arrivo del Figlio manifesta il reale stato del cuore dell’uomo. Israele vorrebbe un regno ma senza Cristo, i Gentili, un mondo senza Dio. È questo che esprimono i vignaiuoli della parabola con le parole: “Costui è l’erede; venite, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra” (12:7). Oggi, il mondo intero agisce come quei capi d’Israele ai giorni del Signore. Sta diventando sempre più chiaro che la volontà dell’uomo è quella di escludere Dio dal Suo mondo. Gli evoluzionisti vogliono cacciare Dio dalla Sua creazione, i politici dal governo ed i modernisti lo bandiscono dalla religione.
Qui si manifesta il vero carattere della carne che è in noi. Può essere un motivo patriottico, sociale e religioso, ma se lo lasciamo fare, metterà a morte Cristo e Lo caccerà dal mondo. CRISTO, il Cristo della rivelazione (perché la carne può anche forgiarsi un cristo secondo la propria immaginazione), è la vera pietra di paragone. Questo dimostra che, nonostante la bella apparenza esteriore che talvolta può assumere la carne, essa è sempre fondamentalmente in opposizione mortale con Dio.
Questo rifiutare Cristo porta il giudizio del governo di Dio sulla nazione giudea e farà sì che Dio susciti altri dai quali avere del frutto. Il Signore cita le loro stesse Scritture (12:10-11; Salmo 118:22-23) per convincerli del peccato che stavano commettendo nel rifiutarLo. Con questo terribile peccato si opponevano direttamente a Dio, perché Colui che stavano per inchiodare alla croce, Dio Lo avrebbe esaltato alla suprema gloria. Il Signore però promette che sarebbe arrivato il momento in cui un residuo, pentito, avrebbe riconosciuto ciò che il Signore ha fatto: una cosa meravigliosa ai loro occhi.
L’uomo a cui viene toccata la coscienza senza che s’impegni il cuore è solo il più irritato. È il caso di questi uomini malvagi che cercano di ucciderLo anche se, per il momento, se ne astengono per pura politica: “Ebbero paura della folla” e così, “lasciatolo se ne andarono” (12:12). Che condizione disperata è quella di coloro che deliberatamente voltano le spalle a Cristo!
Smascherato tutto l’odio dei capi religiosi contro Cristo, ora viene considerato lo stato delle fazioni che dividevano Israele. I Farisei e gli Erodiani sono i primi a presentarsi davanti al Signore. Benché in opposizione tra loro, erano uniti nell’odio verso Cristo ed avevano lo stesso desiderio di innalzarsi in questo mondo. I Farisei cercavano di crearsi una reputazione religiosa con l’osservanza puntigliosa delle forme cerimoniali; gli Erodiani cercavano di elevarsi nel mondo sociale e politico; entrambi, dovevano constatare che Colui che era là, esclusivamente per la gloria di Dio, non poteva che condannare tali ambizioni e per questo si opponevano al Signore. Tutto ciò che Egli era, ogni verità che insegnava, ogni atto che compiva, proveniva da motivazioni diverse da quelle che guidavano le loro vite. Oltre a questo, andavano a Cristo non per imparare ai Suoi piedi, ma con la speranza di coglierLo in fallo nelle Sue parole. Le motivazioni che li animavano provenivano dall’alta stima che avevano delle loro capacità e della loro importanza. Queste cose li avevano resi così ciechi alla gloria di Cristo e così pieni di sé, che pensavano realmente di poter cogliere in fallo il Signore della gloria. Immaginavano anche che la tattica usata con tanto successo con gli uomini potesse essere usata anche con il Signore. Così cercano di prenderLo con lusinghe e falsità dicendoGli: “Maestro, noi sappiamo che tu sei sincero, e che non hai riguardi per nessuno, perché non badi all’apparenza delle persone, ma insegni la via di Dio secondo verità” (12:14). Quello che dicono è vero, ma non era il vero sentimento dei loro cuori. Avendo, secondo loro, aperto la strada con l’adulazione pongono la domanda: “È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare? Dobbiamo darlo o non darlo?”. Nella loro malvagità avevano escogitato una domanda che credevano Lo avrebbe compromesso agli occhi dei Giudei o dei Gentili e poco importava quale risposta avrebbe dato, se avesse detto “si” o “no”.
Il Signore smaschera la loro ipocrisia rivolgendo una domanda: “Perché mi tentate?”. Cercando di sorprenderLo nelle Sue parole cadono nella loro stessa trappola; manifestano la malvagità del loro stato, nei fatti davanti agli uomini e moralmente davanti a Dio. Su richiesta del Signore Gli fu portato un denaro “ed egli disse loro: “Di chi è questa effigie e questa iscrizione?”. Essi risposero: “Di Cesare”. Era dunque ovvio che appartenesse a Cesare e per questo motivo era giusto rendere “a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (10:17). Il potere romano non aveva niente da ridire sul rendere a Cesare quello che era di Cesare ed i Giudei non potevano criticare il principio di rendere a Dio le cose di Dio. il fatto stesso che la moneta di Cesare circolasse nel paese testimoniava dell’umiliazione della nazione resa schiava dai Gentili. Malgrado la loro posizione umiliante, non manifestavano nessun pentimento, perché si ribellavano costantemente a Cesare e rifiutavano il loro stesso Messia. Comprendendo la saggezza della risposta del Signore rimasero stupiti, ma purtroppo la loro coscienza non fu toccata né a riguardo dell’uomo né riguardo a Dio.
I Farisei e gli Erodiano erano stati smascherati e messi a tacere alla presenza del Signore; ora sono i Sadducei che vanno dal Lui, ma solo per mettere a nudo la loro ignoranza ed incredulità. I Sadducei erano i materialisti di quel tempo e personificano l’incredulità della carne. È stato giustamente detto: “La forza dell’incredulità consiste nel creare difficoltà, sollevando casi immaginari che non hanno nulla a che vedere con la realtà ed introducendo ragionamenti degli uomini nelle cose di Dio” (W.K.). In questa circostanza, questi uomini malvagi cercano di opporsi alla verità ridicolizzandola. Presentano un caso immaginario che ritengano dimostri l’assurdità della risurrezione. Come accade sempre con i non credenti, questi uomini malvagi esibiscono una grossolana ignoranza della Parola e fraintendono la potenza di Dio. Se la Parola avesse detto che uno si sposa in resurrezione, la situazione che questi avevano immaginato avrebbe certamente presentato una difficoltà e se Dio non avesse potenza, la risurrezione stessa sarebbe stata impossibile.
Non c’è una riga nella Scrittura che permetta di dire che le relazioni terrene dureranno in cielo. Non risorgeremo come mariti e mogli, genitori e figli, padroni e servi, ma, sotto questo aspetto, saremo come gli angeli. Non saremo angeli, come erroneamente qualcuno immagina, ma saremo come loro in quanto non saremo più soggetti alle relazioni terrene. Il credente godrà di privilegi e legami celesti infinitamente più alti dei privilegi degli angeli e dei vincoli temporanei che riguardano questo tempo.
Quanto alla risurrezione, il Signore mostra ancora una volta la loro ignoranza riguardo alle Scritture. Avevano citato Mosè per provare a dimostrare che l’insegnamento del Signore era in opposizione a quello di Mosè; così il Signore ricorre a Mosè per dimostrare la loro ignoranza in ciò che Dio aveva detto. Non è scritto nel libro di Mosè, “nel passo del pruno“, come Dio gli parlò dicendogli: “Io sono il Dio di Abraamo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe” (12:26)? Ai tempi dell’episodio del pruno ardente Abramo, Isacco e Giacobbe erano morti da tempo, ma Dio parla ancora di Sé come del loro Dio: Egli non è, però, il Dio dei morti, ma dei viventi. Loro sono davvero morti in quel tempo, eppure vivono ancora e risorgeranno per godere le promesse di Dio; promesse che, essendo intervenuto il peccato, possono realizzarsi solo sul terreno della risurrezione. Per questo il Signore può dire ai non credenti di allora come a quelli di oggi: “Voi errate molto” (12:27).
Dopo i Sadducei è il turno di un rappresentante degli Scribi, che erano i commentatori della legge, i quali ritenevano che certi comandamenti della Legge fossero più importanti di altri; egli chiese al Signore di esprimere il Suo parere sul seguente punto: “Qual è il più importante di tutti i comandamenti?” (12:28). Nella Sua perfetta saggezza, il Signore lascia da parte i dieci comandamenti, che verrebbero naturalmente alla mente dell’uomo e sceglie alcune grandi esortazioni del Pentateuco che sintetizzano la Legge ed esprimono l’insieme dei doveri dell’uomo verso Dio e verso il prossimo.
In primo luogo, l’uomo deve mantenere la verità sull’unità della Divinità secondo la Scrittura che dice: “Ascolta Israele, Il Signore, nostro Dio, è l’unico Signore”. Da ciò ne consegue che l’uomo ha la responsabilità di amare Dio più di se stesso e di rifiutare tutto ciò che potrebbe prendere il Suo posto. In secondo luogo, deve amare il prossimo come se stesso. Questa è la sintesi di tutta la Legge e la presentazione di tutte le sue esigenze nei confronti dell’uomo sulla terra. Se questi due comandamenti fossero osservati, nessun altro sarebbe trasgredito.
Lo scriba testimonia la perfezione della risposta del Signore; la sua coscienza gli dice che ha detto la verità. Riconosce che rendere a Dio ciò che Gli è dovuto ed agire con giustizia verso il prossimo ha più valore di tutte le altre forme esteriori e delle cerimonie della Legge. Come sempre, la condizione morale dell’animo è infinitamente più importante agli occhi di Dio delle manifestazioni esteriori della pietà.
Il Signore riconosce l’intelligenza di questo Scriba. Per quanto riguardava la comprensione e l’onesto riconoscimento della verità non era lontano dal regno di Dio, ma purtroppo era ancora fuori! Aveva intravisto la verità di ciò che Cristo stava dicendo, ma non ha saputo discernere la Sua gloria, non si è inchinato né davanti alla verità né alla Sua Persona. Come è stato detto: “Si può essere vicini o lontani dal regno di Dio, ma se non si entra se ne resta fuori!” (W.K.). Come molti altri, lo Scriba conosceva il contenuto della Legge, ma non vedeva la profonda miseria di chi aveva completamente mancato di soddisfarne i requisiti; non discerneva la gloria della Persona di Cristo, né la grazia che era in Lui per soddisfare i bisogni di coloro che erano totalmente venuti meno alle proprie responsabilità.
Dopo di lui, nessuno osa più interrogare il Signore. I rappresentanti di tutte le classi (sacerdoti, capi del popolo, Farisei, Erodiani, Sadducei e Scribi) erano venuti a tentarLo con le loro domande ma erano stati smascherati e ridotti al silenzio. Il fariseo che professava di difendere la religione non aveva restituito a Dio le cose di Dio; l’erodiano che pretendeva di difendere gli interessi politici di Cesare non aveva restituito a Cesare quello che era suo; il sadduceo che esaltava la ragione aveva messo in mostra tutta la sua ignoranza; lo scriba che spiegava la legge non l’osservava. Benché avversari tra loro erano stati uniti nell’opporsi a Cristo e nel manifestare la completa rovina dell’uomo responsabile.
Dopo aver risposto a tutte le domande e messo a tacere i Suoi avversari, il Signore a Sua volta pone una domanda di importanza capitale, perché riguarda la gloria della Sua Persona dalla quale dipendono tutte le benedizioni per l’uomo: “Come mai gli scribi dicono che il Cristo è Figlio di Davide? Davide stesso disse per lo Spirito Santo: “Il SIGNORE ha detto al mio Signore: “Siedi alla mia destra, finché io abbia messo i tuoi nemici sotto i tuoi piedi” (12:35-36). Le domande dei Suoi oppositori erano basate su ragionamenti e sulle immaginazioni delle loro menti; quella del Signore si basa sulla Scrittura e rivela la gravità della loro situazione, perché mette in luce il mistero della Sua Persona che rifiutavano di riconoscere. Gli Scribi ammettevano che il Messia doveva essere il Figlio di Davide, ma non vedevano ciò che lo Spirito Santo stabiliva chiaramente nelle Scritture: Egli non era solo il Figlio di Davide ma anche il Signore di Davide. Come poteva essere il Figlio di Davide ed allo stesso tempo il Signore di Davide? C’è solo una risposta possibile: Egli era veramente Uomo ed altrettanto una Persona divina. Rifiutando di riconoscere la verità relativa alla Sua Persona, i Suoi oppositori perdono la benedizione. Inoltre, Colui che essi rifiutano siede alla destra di Dio, in attesa del momento in cui giudicherà tutti i Suoi avversari.
Dopo aver reso manifesto lo stato dei capi del popolo, il Signore pronuncia un avvertimento contro quelli che fanno professione d’essere molto religiosi, ma il cui unico motivo è quello di esaltarsi. Amano lo sfarzo: “passeggiare in lunghe vesti”; l’onore pubblico: “essere salutati nelle piazze”; il primato religioso: “avere i primi seggi nelle sinagoghe”; essere distinti socialmente: “i primi posti nei conviti”; cercano anche di arricchirsi a spese delle vedove e manifestano ostentazione religiosa quando “fanno lunghe preghiere per mettersi in mostra”. Quanta solennità nelle parole del Signore: “Costoro riceveranno maggior condanna” (12:38-40). Più alte sono le pretese, maggiore è il giudizio.
A differenza di coloro che sono stati smascherati come religiosi ipocriti, ci viene fatto vedere che c’erano anche alcuni che il Signore si è compiaciuto di riconoscere. Sono rappresentati da una povera vedova. In questa donna devota che dona tutto quello che ha, tutto il suo sostentamento, per il mantenimento della Casa di Dio, ritroviamo lo spirito del residuo fedele che, ai giorni di Esdra, era ritornato da Babilonia per ricostruire la Casa di Dio. Probabilmente ignorava che il tempio era stato corrotto dall’uomo e stava per essere giudicato e distrutto, ma il suo cuore era retto davanti a Dio e le sue motivazioni erano pure. Essa donò solo “due spiccioli” (12:42), ma, agli occhi di Dio, era più di quello che gli altri avevano dato, benché avessero messo molto nella cassa. Avevano messo del superfluo “ma lei, nella sua povertà, vi ha messo tutto ciò che possedeva, tutto quanto aveva per vivere” (12:44). Dio giudica il valore di una donazione non da quanto è, ma da quanto tieni per te!
La grande tribolazione (Capitolo 13)
Il cattivo stato dei Giudei era smascherato ed i capi di ogni partito condannati alla presenza del Signore. Avevano rifiutato il loro Messia ed erano sul punto di crocifiggerLo. Questa suprema malvagità avrebbe portato la nazione sotto il giudizio governamentale di Dio fino alla grande tribolazione annunciata dai profeti. Questo avrebbe portato difficoltà e pericoli, sofferenze e persecuzioni al residuo fedele in mezzo ad una nazione empia. Per preparare i Suoi discepoli a quei giorni terribili, il Signore, solo con loro, annuncia lo svolgersi degli eventi, avvertendoli dei pericoli ai quali saranno esposti ed insegnando loro come agire quando li incontreranno.
Queste istruzioni sono introdotte dall’osservazione di un discepolo che richiama l’attenzione del Signore sulla bellezza e magnificenza del tempio. Il Signore riconosce la maestà degli edifici, ma ciò che gli uomini tanto ammiravano era diventato agli occhi di Dio “un covo di ladroni”, (11:17) ed era destinato alla distruzione. Non rimmarrà pietra su pietra che non sia diroccata (13:1).
Questa affermazione, che deve essere apparsa molto strana a coloro che consideravano il tempio come la casa di Dio e il centro glorioso della loro religione, indusse uno dei discepoli a chiedere: “Dicci, quando avverranno queste cose e quale sarà il segno del tempo in cui tutte queste cose staranno per compiersi?” (13:4).
Nel discorso che segue, il Signore non si limita a rispondere a queste domande. I discepoli pensavano agli eventi, ma il Signore aveva davanti a sé le Sue sofferenze, le loro ed i pericoli che avrebbero incontrato in mezzo a questi eventi. Inoltre, nel racconto datoci da Marco, il Signore, in armonia con lo scopo particolare di questo vangelo, esorta in modo del tutto particolare i suoi discepoli a compiere la loro missione rendendo testimonianza in mezzo alla nazione, dalla quale Egli è stato rifiutato.
Per comprendere questi avvertimenti e istruzioni, è necessario ricordare che i discepoli qui rappresentano il residuo fedele giudaico e che quindi il ministero con cui il Signore li intrattiene non è in senso stretto il ministero cristiano, anche se molti principi e verità si applicano al popolo di Dio sulla terra, così come al Suo popolo celeste. È un ministero che iniziarono i dodici in mezzo ai Giudei mentre il Signore era sulla terra, e che, dopo la Sua ascensione, continuò fra i Giudei fino al rifiuto della testimonianza dello Spirito Santo alla lapidazione di Stefano. Dopo il rapimento della Chiesa, sarà ripreso da un residuo fedele tra i Giudei e si estenderà a tutte le nazioni. Il vangelo che hanno predicato e che predicheranno di nuovo non è esattamente quello che viene predicato oggi. Saranno, naturalmente, Cristo e la Sua opera che essi annunceranno, e la grazia di Dio che perdona i peccatori sulla base dell’opera di Cristo, ma la buona notizia sarà che Egli verrà a regnare, e che il pentimento e il perdono dei peccati mediante la fede in Cristo è la via per entrare nelle benedizioni del regno terreno (Apocalisse 14:6-7).
Il Signore inizia il suo discorso con cinque avvertimenti. Il primo avvertimento mette in guardia i discepoli contro i falsi cristi. Molti verranno nel nome di Cristo, alcuni arriveranno addirittura a dire: “Sono io” (13:6) ed il Signore aggiunge che “ne inganneranno molti”. Questo avvertimento prova che il Signore ha chiaramente in vista il residuo fedele all’interno della nazione ebraica. I cristiani, istruiti nella verità cristiana, non si lascerebbero ingannare da un uomo che pretendesse di essere il Cristo; poiché sanno bene che è nelle nuvole che Lo vedranno di nuovo. Il residuo fedele attenderà giustamente l’apparizione di Cristo sulla terra, e così potrebbe facilmente lasciarsi ingannare dall’annuncio della Sua venuta.
Col secondo, i discepoli sono avvertiti di non concludere che la fine è vicina quando sentiranno parlare di “guerre e rumori di guerre” perché “è necessario che ciò avvenga” (13:7) in un mondo che ha rifiutato Cristo. Guerre, terremoti, carestie e disordini sono l’inizio del dolore, non la fine.
Col terzo, i discepoli sono avvertiti che la loro testimonianza li metterà in conflitto con le autorità del mondo. Ma queste persecuzioni saranno il mezzo di Dio per portare l’Evangelo davanti ai grandi della terra, una “testimonianza” per governanti e re. Inoltre, questo evangelo deve essere predicato tra tutte le nazioni prima della fine, prima che Cristo ritorni. In vista di questa testimonianza e delle persecuzioni che essa comporta, il Signore insegna ai Suoi discepoli a non preoccuparsi in anticipo di ciò che diranno, quando si presenteranno davanti ai grandi della terra, ed a non preparare la loro difesa. Sarà loro dato in quel momento ciò che dovranno dire, perché non sono loro che parleranno; saranno semplicemente i portavoce dello Spirito Santo.
Col quarto, i discepoli sono avvertiti che la presentazione della verità nella potenza dello Spirito Santo suscita una tale ostilità nel cuore umano, che la persecuzione scaturirà all’interno della famiglia stessa. E più stretta è la relazione, maggiore è l’odio. Il fratello si solleverà contro il fratello, il padre contro il figlio, i figli si solleveranno contro i loro genitori, fino a farli morire (13:12).
Infine, col quinto avvertimento, i discepoli sono avvertiti che la persecuzione non verrà solo dalle autorità e dai parenti più prossimi, ma che saranno odiati da tutti perché confessano il nome di Cristo. Tuttavia, chi persevererà fino alla fine sarà salvato, qualunque sia la fine: la morte come martire o la venuta di Cristo sulla terra. Come sempre, ciò che prova la realtà è la perseveranza. Certamente ci possono essere dei fallimenti, e l’amore di molti può anche raffreddarsi, ma chi ha vera fede persevererà. Pietro cadde, ma la sua fede non venne meno; ha perseverato fino alla fine.
Proseguendo il suo discorso, il Signore parla di avvenimenti che sono ancora futuri. Passa sotto silenzio il periodo della Chiesa e ci parla di quello che avverrà a Gerusalemme durante il tempo della grande tribolazione, che seguirà dopo questa parentesi della Chiesa. Questo tempo terribile è previsto, in maniera chiara, dal profeta Geremia che ha detto: “Ahimè, perché quel giorno è grande; non ce ne fu mai altro di simile; è un tempo di angoscia per Giacobbe; ma tuttavia egli ne sarà salvato” (Geremia 30.7). Anche Daniele ha in vista questo periodo quando dice: “Vi sarà un tempo di angoscia, come non ce ne fu mai da quando sorsero le nazioni fino a quel tempo” (Daniele 12:1). Anche nel passo parallelo di Matteo come qui in Marco, il Signore ci dice di questi giorni di afflizione: “Allora vi sarà una grande tribolazione, quale non v’è stata dal principio del mondo fino ad ora, né mai più vi sarà” (Matteo 24:21).
La distruzione di Gerusalemme, con tutti i suoi orrori, forse è una figura del futuro, ma in ogni caso non è il compimento della profezia di questo doloroso tempo. Da questo brano impariamo che la venuta del Signore sulla terra segue immediatamente la grande tribolazione ed è evidente che il Signore non è venuto dopo la distruzione di Gerusalemme. Inoltre, non possono esserci due periodi di tribolazione come “non ce ne fu mai altro di simile”. Infine, Daniele ci dice che questo tempo di tribolazione per la nazione giudaica avverrà durante il regno dell’Anticristo, che sarà accolto dalla nazione che ha rigettato il suo Messia (Giovanni 5:43). È durante il regno di quest’uomo iniquo che si stabilirà la più terribile forma di idolatria. Il Signore ne parla come di “abominio della desolazione” (13:14). Avrà l’effetto di diffondere desolazione a Gerusalemme ed in Giudea.
L’instaurazione di questa abominazione sarà il culmine dell’inimicizia dell’uomo contro Dio. Sarà il segno che la testimonianza del residuo fedele è arrivata alla fine e quelli che sono in Giudea devono fuggire sui monti. Non c’è stato nulla in passato e non ci sarà nulla in futuro che possa eguagliare i dolori di quei giorni. Saranno così grandi, sia per la nazione che per il residuo fedele, che se il Signore non avesse abbreviato quei giorni nessuna carne si salverebbe (13:20), ma a causa degli eletti, i giorni di questa grande tribolazione saranno limitati.
Come sempre, il Signore pensa ai Suoi in mezzo alle prove e alle afflizioni. Li avverte, li istruisce, si prende cura di loro. Pensa agli operai nei campi ed alle donne nelle case; in quel tempo non rimarrà indifferente.
Il Signore mette i discepoli in guardia contro false speranze di liberazione; contro gli annunci ingannevoli di falsi cristi; contro falsi profeti, falsi segni e apparenti miracoli. La loro sicurezza sarà nel ricordare le parole del Signore: “Io vi ho predetto ogni cosa” (13:23).
“Ma in quei giorni, dopo quella tribolazione” (13:24) tra i Giudei, ogni autorità stabilita tra i Gentili sarà rovesciata. L’ordine stabilito da Dio per il governo del mondo cadrà in confusione. Il potere supremo, rappresentato in figura dal sole, sarà oscurato; l’autorità derivata, tipificata dalla luna, perde ogni influenza e le autorità subordinate, paragonate alle stelle, perdono il loro posto ed il loro potere. Nonostante tutto il progresso di cui gli uomini si vantano, questa dispensazione si concluderà con tribolazioni, confusione e un’anarchia senza precedenti.
Quando la malvagità dei Giudei e dei Gentili sarà giunta al culmine, Dio interverrà pubblicamente con la venuta di Cristo come Figlio dell’uomo, per prendere possesso della terra. La Sua prima venuta fu caratterizzata dalla debolezza e dall’umiliazione; la Sua seconda venuta avverrà con grande potenza e gloria.
Il raccogliersi degli eletti d’Israele dispersi tra i pagani, seguirà immediatamente la venuta del Figlio dell’uomo. Da altri passi della Parola sappiamo che la Chiesa sarà già stata rapita per incontrare Cristo nell’aria ed apparirà con Lui, ma nulla di tutto questo ci viene detto in questi versetti. Qui, il Signore, sta parlando ai discepoli giudei; parla di speranze giudaiche e non di verità riguardanti la Chiesa che i Suoi ascoltatori, in quel tempo, non potevano conoscere.
Quando il fico mette sui teneri rami le prime foglie (13:28) si ha la certezza che l’estate è vicina. Allo stesso modo, l’apparizione del residuo fedele in mezzo alla nazione apostata d’Israele sarà un segno che il tempo della benedizione per la nazione è vicino.
La generazione malvagia ed incredula dei Giudei non passerà finché tutte queste cose non saranno accadute. Di sicuro sono stati certamente dispersi tra le nazioni, ma, come sappiamo, non sono stati assorbiti da queste nazioni. Inoltre, le parole del Signore non passeranno prima che tutte queste cose si siano compiute. Questo è certamente vero di tutte le parole del Signore, ma qui è precisato in relazione alla Sua seconda venuta a causa dell’incredulità dei nostri cuori riguardo all’intervento di Dio nel corso degli eventi di questo mondo.
Quanto al giorno della Sua venuta nessuno lo conosce, neppure il Figlio divenuto uomo (13:32). Parlando come Servo, poteva dire che non conosceva il giorno. Non conoscendo il giorno della Sua venuta, dobbiamo vegliare e pregare. Cristo è “come un uomo che si è messo in viaggio” per andare in un paese lontano e ha dato autorità ai Suoi servitori, ha affidato a ciascuno il proprio lavoro ed ha “comandato al portinaio” (13:34) di vegliare. Che i servitori del Signore veglino, perché se il Signore viene all’improvviso non li trovi schiavi del mondo e spiritualmente addormentati.
Le ultime parole del Signore sono un’esortazione che rivolge a tutti i Suoi. I dettagli sul futuro possono non avere tutti un’applicazione immediata per i cristiani, ma l’ultimo: “Vegliate” (13:35) è per tutti. I credenti di tutte le dispensazioni hanno ricevuto autorità dal Signore e sono servi del Signore, avendo ricevuto ognuno un compito dal Signore. Ognuno deve vegliare di non cadere nel sonno spirituale e di trascurare l’opera per il Signore.
L’ombra della croce (Cap. 14)
Con il capitolo 14, ci avviciniamo alle scene conclusive della vita del Signore, scene molto solenni in cui tanti cuori manifestano la loro vera natura. Troviamo la corruzione e la violenza dei capi dei Giudei e l’amore di una moglie devota; il tradimento di Giuda e la caduta di un vero discepolo. Ma soprattutto risplendono l’amore infinito e la grazia perfetta di Cristo che istituisce la cena, attraversa l’agonia del Getsemani e accetta in silenzio gli insulti degli uomini.
Il capitolo inizia con un breve accenno all’ostilità omicida dei capi della nazione. Avevano già “assalito” il Signore con parole d’odio e gli avevano “fatto guerra senza motivo”, avevano ricambiato “male per il bene e odio in cambio di amore” (Salmo 109:2-5). Ad ogni passo, il Signore aveva manifestato grazia perfetta; ovunque aveva fatto del bene. Aveva guarito i malati, vestito coloro che erano nudi, saziato gli affamati, perdonato i peccati, liberato dal potere del diavolo e risuscitato dai morti. Aveva avvertito questi uomini, li aveva supplicati, pianto su di loro, ma era stato tutto inutile.
Ora è finalmente giunto il momento in cui sono determinati a catturarLo e metterLo a morte. Per realizzare il loro disegno devono ricorrere all’astuzia, il che prova che i loro motivi erano malvagi e che, se avevano qualche timore degli uomini, non né avevano nessuno di Dio. Se il popolo aveva poca consapevolezza di un bisogno personale di Cristo, avrebbe potuto almeno apprezzarne la bontà e trarre profitto dai Suoi miracoli. Temendo che ci sarebbe stato un tumulto mentre il popolo si radunava a Gerusalemme per la Pasqua, i capi del popolo decisero di non prendere il Signore nel giorno della festa. Dio, invece, aveva deciso diversamente e, come sempre, la Sua volontà prevale, indipendentemente dall’astuzia e dai complotti degli uomini.
Dopo questa breve allusione ai capi del popolo, arriviamo alla scena meravigliosa della casa di Betania. Mentre il Signore è a tavola nella casa di Simone il lebbroso, una donna, che da altri passi paralleli sappiamo essere Maria sorella di Marta, viene con un vaso d’alabastro pieno di profumo di nardo schietto, di gran prezzo, e ne spande il contenuto sul capo del Signore. Maria esprime così il suo apprezzamento per Cristo, il suo affetto per Lui ed il suo discernimento spirituale. In quel momento la sua intelligenza sembra aver superato quella degli altri discepoli. Vinta dalla Sua grazia ed attratta dal Suo amore, era stata precedentemente ai Suoi piedi per ascoltare le Sue parole. Qualcuno ha detto: “La grazia e l’amore del Signore Gesù avevano prodotto dell’amore per Lui, e le Sue parole avevano prodotto l’intelligenza spirituale”.
Il suo amore per Cristo l’aveva resa insensibile all’odio crescente dei Giudei. Il suo atto era la testimonianza del suo amore e del suo apprezzamento per Cristo, nel momento stesso in cui gli uomini esprimevano il loro odio contro di Lui. L’atto di adorazione di Maria mette in luce, ahimè, l’avarizia di qualcuno di quelli che erano lì presenti. Noi sappiamo, dal racconto nel vangelo di Giovanni, che Giuda era in testa a coloro che si sono indignati contro Maria. Quello che Cristo stimava un guadagno, Giuda lo stimava una perdita. Gli uomini potevano apprezzare i benefici compiuti in favore dei loro simili, ma valutavano poco, o forse niente, il valore di un’offerta che avesse Cristo come unico oggetto. Come cristiani corriamo il rischio di essere come loro quando siamo attivi nel predicare l’Evangelo ai peccatori o nel prenderci cura di altri credenti e così attribuiamo poca importanza ad un atto di adorazione che dà tutto il posto a Cristo. Non dimentichiamo che coloro che si lamentano vedendo la devozione di Maria, in realtà stanno sminuendo la Persona di Cristo. Se l’atto di Maria non è che una perdita, allora Cristo non è degno dell’omaggio dei Suoi.
Ma se l’atto di Maria suscita l’indignazione degli uomini, riceve l’approvazione di Cristo. Il Signore si compiace di dire: “Ha fatto un’azione buona verso di me” (14:6). In Luca 10, leggiamo che Maria “ha scelto la parte buona” (Luca 10:42). Qui leggiamo che ha fatto “un’azione buona verso di me”. La buona parte era quella di sedersi ai piedi del Signore ed ascoltare le Sue parole; la buona azione è un’opera che ha Cristo per movente. Ci può essere molta attività nel servizio, ma se Cristo non è il motivo, sarà di scarso valore nei giorni seguenti. Inoltre, il Signore approva l’atto di Maria non solo per la purezza dei suoi motivi, ma anche perché “lei ha fatto tutto ciò che poteva” (14:8). Nel servizio per Cristo, non è giusto trascurare l’opportunità di compiere un atto relativamente piccolo e nascosto ed aspirare ad una grande opera in pubblico che, alla fine, potrebbe avere la motivazione sbagliata dell’autoesaltazione. Questa non è forse per noi una bella scena di incoraggiamento a fare tutto ciò che è in nostro potere, anche il servizio più insignificante, per il solo motivo di esaltare Cristo?
Il Signore si compiace di darci il vero significato spirituale dell’atto di Maria. Ella aveva anticipato il momento di ungere il Suo corpo al momento della Sua sepoltura. In effetti, sarà troppo tardi quando le altre donne andranno con gli aromi ad esprimere il loro sincero, ma poco intelligente, apprezzamento a Cristo. Maria, con più discernimento spirituale, esprime il suo amore per il Signore prima che sia messo in una tomba. Il Signore attribuisce un tale valore all’atto di Maria che dice: “In verità vi dico che in tutto il mondo, dovunque sarà predicato il vangelo, anche quello che costei ha fatto sarà raccontato, in memoria di lei” (14:9). Il suo atto d’amore resterà per sempre un magnifico esempio di ciò che l’Evangelo produce veramente. Non solo ci porta la conoscenza della salvezza ed il perdono dei peccati, ma lega il nostro cuore a Cristo, che diventa così l’oggetto supremo della nostra vita. Sappiamo che la Cena del Signore, una cena celebrata nei secoli, riporta continuamente alle perfezioni del Salvatore ed al Suo infinito amore per i Suoi, ma quella cena che una volta ebbe luogo a Betania, ricorderà per sempre la devozione di una credente ed il suo amore per Cristo.
L’azione buona di Maria è subito seguita dall’opera malvagia di Giuda. Spinto dall’esterno dall’inimicizia del diavolo e dall’interno dalla concupiscenza della carne, senza coscienza verso Dio, Giuda va dai capi sacerdoti per consegnare il Signore nelle loro mani. Dal canto loro, ugualmente privi di coscienza e di timore di Dio, gli promettono del denaro (14:11). Per avidità Giuda persegue il suo malvagio scopo e tradisce il Signore in un momento opportuno per i capi dei sacerdoti.
Senza lasciarsi fermare dalle trame di questi uomini malvagi, il Signore manifesta il Suo perfetto amore per i Suoi ed istituisce la cena mediante la quale tutti noi possiamo avere il privilegio di imitare l’atto di adorazione di Maria. Gli avvenimenti che precedono la cena, benché semplici in sé, manifestano la gloria della Persona del Signore. Due discepoli vengono mandati a preparare la festa. Il Signore va incontro alla morte, ma è pur sempre il Re che ha il diritto di reclamare “la stanza” (14:14) dove preparare la Pasqua e tutti devono sottomettersi alla Sua sovrana volontà. Inoltre, è una Persona divina a cui sono note tutte le cose: l’uomo che porta “una brocca d’acqua”, il “padrone di casa”, “una grande sala ammobiliata”. Tutto è davanti ai Suoi occhi ed i discepoli inviati ad eseguire le Sue istruzioni trovano esattamente tutto come Lui aveva detto.
Giunta la sera (14:17), il Signore viene con i dodici e li fa sedere a tavola per mangiare la Pasqua, la commemorazione della liberazione del popolo d’Israele dall’Egitto. Il Signore stava per compiere, per i suoi, una liberazione infinitamente più grande, ma per questa redenzione eterna si rendeva necessaria la Sua morte e questa sarebbe stata determinata dal tradimento di uno dei dodici. Il Signore, nel Suo amore perfetto, sentiva profondamente che colui che aveva vissuto alla Sua santa presenza, che aveva ascoltato le Sue parole di grazia, che aveva assistito al Suo amore ed alla Sua pazienza infinita, stava per tradirLo. Quando dice: “Uno di voi, che mangia con me, mi tradirà” (14:18), esprime l’angoscia del Suo cuore. Quanto più grande è l’amore, quanto più è perfetto, tanto maggiore è l’angoscia in presenza del tradimento.
Mai la perfezione dell’amore era stata espressa come lo era in Cristo, e mai nessuno era vissuto così vicino a Cristo come Giuda. Ma tutto era stato inutile, perché sebbene avesse goduto un po’ dell’amore di Cristo, amava ancora di più il denaro. La crudeltà, la malvagità di questo tradimento emergono dal fatto che colui che stava per tradire il Signore poteva intingere il boccone nel piatto con Lui. il Signore desidera che anche gli altri entrino nelle Sue sofferenze. È stato detto: “Non nasconde tutto con orgoglio, ma desidera mettere nel cuore umano i dolori che vive come Uomo; l’amore conta sull’amore” (J.N. Darby). Noi non possiamo avere nessuna parte nelle sofferenze che il Signore ha conosciuto sulla croce, quando fu abbandonato da Dio, ma qui si tratta della sofferenza causata dall’uomo e noi possiamo, in quanto uomini, entrarvi seppure in piccola misura. Il tradimento di Giuda era stato annunciato molto tempo prima; tutto avveniva “come è scritto di lui” (14:21), ma guai al traditore perché, come qualcuno ha detto: “Il compimento dei consigli di Dio non toglie l’iniquità di coloro che li portano a compimento altrimenti come potrebbe Dio giudicare il mondo?” (J.N. Darby).
Poi, troviamo l’istituzione dell’Ultima Cena. Le parole: “Mentre mangiavano” (14:22) distinguono nettamente la cena pasquale a cui hanno partecipato e la cena del Signore. In quest’ultima, il pane rappresenta il Suo corpo ed il calice il Suo sangue versato, non solo per i Giudei ma “che è sparso per molti” (14:24). È un memoriale. Siamo amati con un tale amore che il Signore apprezza che noi Lo ricordiamo. Il sangue di Cristo nel suo infinito valore è sempre davanti agli occhi di Dio e desidera che i Suoi se lo ricordino sempre.
Il Signore usa il calice come simbolo del Suo sangue versato per molti. Il vino, nella sua accezione naturale come frutto della vigna, rappresenta la gioia terrena. La morte di Cristo spezza i Suoi legami con la terra e con ciò che è terrestre, finché il regno di Dio non sia stabilito sulla terra. Oggi, i credenti sono uniti a un Cristo celeste che ha sofferto sulla terra; attendono il Regno futuro per condividere con Cristo le glorie e le gioie del regno terrestre.
Dopo la cena, “dopo che ebbero cantato gli inni, uscirono per andare al monte degli Ulivi” (14:26). L’accostamento di queste due cose è meraviglioso. Avremmo concepito meglio se dopo aver cantato gli inni fossero rimasti nel cenacolo o se, per cantare, fossero usciti, ma cantare per poi uscire per affrontare i Suoi nemici, il tradimento, il rinnegamento, l’agonia del Getsemani e l’abbandono sulla croce, testimonia una serenità che certamente veniva dal fatto che il Signore aveva in vista la volontà del Padre, e la gioia che era davanti a Lui, al di là della croce.
Però, tutte le circostanze che rivelano la perfezione del Signore mostrano anche la debolezza dei discepoli. Essi potevano cantare in presenza del Signore e, quella stessa notte, quando non erano più con Lui, essere scandalizzati e dispersi. Tutto ciò non rappresenta in modo molto solenne ciò che è avvenuto tra i figli di Dio? Noi possiamo cantare insieme solo alla Sua presenza essendo il nostro cuore attaccato a Lui. Il profeta poteva dire: “Ascolta le tue sentinelle! Esse alzano la voce, prorompono tutte assieme in grida di gioia; esse infatti vedono con i propri occhi il SIGNORE” (Isaia 52:8). È solo quando tutti gli occhi sono puntati su di Lui che possiamo vederLo faccia a faccia. Lontani dalla Sua presenza, siamo scandalizzati a causa di Cristo e ci scandalizziamo gli uni gli altri, ed i credenti scandalizzati presto si separano e diventano pecore disperse. Mai più i credenti dispersi, sia che appartengano a Israele o alla Chiesa, potranno cantare insieme finché non saranno tutti raccolti intorno al Signore e Lo vedranno faccia a faccia.
Ma, benedetto sia il Suo Nome, il Signore non viene mai meno e così finirà la dispersione e verrà il tempo della raccolta. Questo, i discepoli lo avrebbero già sperimentato nel loro tempo, avrebbero imparato che il Signore, dopo la risurrezione, era lo stesso, manifestando sempre l’amore e la grazia del Suo cuore. Lui, il gran Pastore delle pecore, sarebbe andato davanti a loro ed ancora una volta le sue pecore Lo avrebbero seguito.
Il Signore ha dato una parola di avvertimento seguita da una parola di incoraggiamento. Purtroppo, anche noi, come Pietro, a causa della fiducia in noi stessi, troppo spesso ignoriamo i Suoi avvertimenti e perdiamo la benedizione delle Sue parole di incoraggiamento. Ignorando la nostra debolezza, pensiamo di essere al sicuro dove gli altri potrebbero fallire. Per questo Pietro dice: “Quand’anche tutti fossero scandalizzati, io però non lo sarò!” (14:29). Tutti si sarebbero scandalizzati, ma il primo ad esprimere la fiducia in se stesso è quello che subirà la caduta più grave. Noi cadiamo nelle cose stesse di cui siamo più orgogliosi. Pietro si vanta che non si sarebbe mai scandalizzato. Il Signore gli dice: “oggi, in questa stessa notte … mi rinnegherai tre volte” (14:30).
Questo annuncio della sua caduta non fa che aumentare la veemenza con cui Pietro proclama la sua devozione al Signore: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò” (14:31). Era senza dubbio sincero, ma dobbiamo imparare che la sincerità da sola non basta per mantenerci fedeli al Signore. Abbiamo bisogno di essere fortificati nella grazia che è in Cristo Gesù, affinché possiamo vincere la debolezza della carne, sfuggire alle insidie del diavolo ed essere liberati dal timore dell’uomo. Basta la semplice domanda di una fanciulla perché il diavolo causi la caduta di un apostolo, quando non è più in contatto con Cristo. Le parole vanagloriose di Pietro, condivise da tutti i discepoli, non chiedono risposta da parte del Signore. È ovvio che ci sono occasioni in cui le affermazioni dei credenti sono così palesemente carnali che è inutile cercare di rispondervi. C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Il Signore provò un profondo dolore quando vide che i Giudei stavano complottando per metterLo a morte, che uno dei Suoi stava per tradirlo, che un altro Lo avrebbe rinnegato e tutti gli altri si sarebbero scandalizzati a causa sua, ma al Getsemani Egli si trova davanti ad un dolore incomparabilmente più profondo: quello che stava per sopportare sulla croce quando, sarebbe stato abbandonato da Dio. Di fronte a questa terribile sofferenza, come in tutte le altre prove della Sua vita perfetta, si rifugia nella preghiera ma, qualunque sollievo essa possa portare, il suo effetto immediato è quello di rendere la prova ancora più profonda. La preghiera mette tutte le circostanze davanti a Dio e lì si manifestano nel loro vero carattere. La rovina d’Israele, il tradimento di Giuda, la debolezza e le mancanze dei Suoi, l’inimicizia di Satana, la realtà del giudizio, le esigenze di un Dio santo, … sono certamente ciò che il nostro Signore ha pienamente realizzato in presenza del Padre.
Il Signore porta con Se nel giardino Pietro, Giacomo e Giovanni, coloro che, quando verrà il momento, occuperanno un posto speciale come colonne dell’Assemblea. Sul monte della trasfigurazione erano già stati scelti come testimoni delle Sue glorie. Ora, nel giardino, viene dato loro di condividere i Suoi dolori. Nessuno avrebbe potuto condividere con Lui l’abbandono che doveva sperimentare sulla croce, ma qualcuno poteva, in una certa misura, partecipare all’esercizio profondo che la Sua anima sperimentava nell’anticipare la croce. Per Lui, il nostro sostituto, morire significava sopportare il giudizio del peccato. Per questo può dire: “L’anima mia è oppressa da tristezza mortale” (14:34). Dopo aver patito la morte, per i credenti, Egli l’ha spogliata dei suoi terrori: Stefano può gioire alla prospettiva della morte e Paolo può dire che morire e stare con Cristo è “molto meglio” (Filippesi 1:23). Temere la croce faceva parte della Sua perfezione; è per questo che può dire al Padre: “Ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice!” ma anche accettare la croce e compiere la volontà del Padre faceva ugualmente parte delle Sue perfezioni e così aggiunge: “Però, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi” (14:36).
Per la povera e debole natura umana dei discepoli, le sofferenze del Getsemani erano troppo profonde, così come erano state troppo grandi le glorie sulla montagna. In entrambe le occasioni trovano rifugio nel sonno. Quando il Signore torna e trova i discepoli addormentati, è a Pietro, quello che più degli altri si era vantato della sua devozione, che si rivolge in modo particolare e gli chiede: “Simone! Dormi? Non sei stato capace di vegliare un’ora sola?” (14:37). Solo Dio ci preparerà ad affrontare la tentazione. La fiducia in noi stessi, che caratterizza la nostra natura, fa sì che troppo spesso abbiamo poca paura della tentazione e quindi siamo poco consapevoli del nostro bisogno di pregare. Eppure, con tenera compassione, il Signore riconosce la realtà del loro amore per Lui pur rilevando la loro debolezza: “Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (14:38).
Il Signore si allontana nuovamente; va e prega e, quando ritorna, trova di nuovo che i discepoli si sono addormentati. Non avevano ascoltato gli avvertimenti del Signore, perché “gli occhi loro erano appesantiti”. La terza volta che il Signore ritornerà dai discepoli deve dire loro: “Dormite pure, ormai, e riposatevi!”. Avevano perso l’occasione di vegliare con il Signore ed avevano mostrato la loro debolezza, perciò il Signore poteva dire: “Basta!” (14:41). Il tempo di vegliare e di pregare era finito; ora, era il momento della prova; il traditore si avvicinava e Colui che aveva vegliato e pregato da solo, può dire, nella fiducia e nella dipendenza da Dio: “Alzatevi, andiamo”.
Nella scena solenne che segue, quella del tradimento, vediamo la malvagità dei nostri cuori quando sono lasciati a loro stessi ed induriti da Satana. Senza la grazia di Dio, quanto facilmente possiamo cedere alla carne e, dando libero corso alle nostre concupiscenze, metterci sotto il potere di Satana ed arrivare anche a tradire Cristo. Questo fu il caso di Giuda, che dice ai nemici del Signore: “Pigliatelo e portatelo via sicuramente” (14:44). Sembrerebbe che qui Giuda mentisse quando dice: “Portatelo via sicuramente”. Si aspettava che il Signore passasse in mezzo ai Suoi nemici, come aveva fatto in precedenti occasioni. Così, il Signore si sarebbe liberato dai Suoi nemici e lui avrebbe avuto il denaro tanto desiderato. Ignorando il consiglio di Dio ed ignorando la perfezione dell’obbedienza del Signore, Giuda non era preparato al fatto che Gesù si sottomettesse ai Suoi nemici per fare la volontà del Padre, secondo le parole che aveva appena pronunciato nel giardino: “Però, non quello che io voglio, ma quello che tu vuoi”.
Così, in piena soddisfazione della propria concupiscenza e cieco riguardo alla gloria di Cristo, Giuda, non solo osa tradire il Signore, ma lo fa con un bacio. Un po’ più tardi i nemici del Signore gli sputeranno in faccia. Il Signore, con ugual grazia, si sottomette all’orribile ipocrisia del traditore che Lo abbraccia, come al disprezzo offensivo dei nemici che Gli sputano in faccia. Che meraviglioso il nostro Salvatore, “che ha sopportato una simile ostilità contro la sua persona da parte dei peccatori” (Ebrei 12:3)!
Ma se Giuda, il traditore, non era preparato alla sottomissione del Signore ai Suoi nemici, neanche Pietro, un vero discepolo, lo era. Sebbene qui il suo nome non sia menzionato, sappiamo che fu lui a sguainare la spada per colpire il servo del sommo sacerdote. Spinto dalla concupiscenza Giuda tradisce il Signore, Pietro guidato dall’amore Lo difende. Però, nonostante la sincerità, Pietro stava di fatto ostacolando il cammino del perfetto Servo dell’Eterno. In questo vangelo non viene menzionata la guarigione della ferita perché il pensiero non è tanto quello di evidenziare la potenza del Signore, quanto la Sua sottomissione di perfetto Servitore.
Abbiamo visto la concupiscenza di Giuda, poi l’energia carnale di Pietro che era pronto a combattere anche se non era stato così pronto a pregare. Ora, scopriamo la codardia e la bassezza dei capi del popolo che avrebbero potuto afferrare il Signore ogni giorno nel tempio, tranquillamente, perché il Signore aveva insegnato in pubblico, senza nascondersi. Ma la codardia, la paura del popolo e la mancanza in loro di ogni principio, li aveva portati a comportarsi verso di Lui come se fosse un brigante. Conoscevano bene i briganti e sapevano come affrontarli, ma le infinite perfezioni di Cristo erano al di là della loro comprensione.
Di seguito vediamo la debolezza dei discepoli: “Allora tutti, lasciatolo, se ne fuggirono” (14:50). Solo un giovane, si azzarda a seguirLo, ma solo per fuggire, in seguito, in modo ancora più vergognoso.
Nella sua sottomissione alla volontà del Padre, il Signore acconsente a farsi portare davanti al Sinedrio. Pietro, animato da un vero sentimento per Lui, Lo segue ma, confidando in sé, lo fa senza la guida del Signore e così Lo segue “da lontano” (14:54). Come fin troppo spesso accade anche a noi, camminando senza la direzione divina, Pietro subisce la tentazione senza il sostegno divino ed allora conosce la totale debolezza della carne.
Nella scena successiva con i sommi sacerdoti ed il sinedrio, vediamo fino a che punto la profondità della malvagità può arrivare in questi uomini religiosi. Avendo essi già deciso di mettere a morte il Cristo, il Suo processo non indagava se avesse fatto qualcosa che meritasse la morte, ma era solo un orribile stratagemma per coprire un omicidio con la parvenza di giustizia. Nella malvagità del loro cuore non cercano la verità ma “cercavano qualche testimonianza contro Gesù per farlo morire” (14:55); non trovandone, ricorrono a false testimonianze pur dovendo constatare che non servono allo scopo, perché si condannano da soli contraddicendosi a vicenda (14:55-59).
Alla fine, il sommo sacerdote è costretto ad interrogare direttamente il Signore. Di fronte a questa inimicizia e malvagità, il Signore, “tacque e non rispose nulla” (14:60). Pietro, testimone di questa scena solenne, può dirci che quando fu “oltraggiato non rendeva gli oltraggi” (1 Pietro 2:23). “Come l’agnello condotto al mattatoio, come la pecora muta davanti a chi la tosa, egli non aprì la bocca” (Isaia 53:7), non aveva nulla da rispondere alle meschine accuse che gli erano rivolte, ma quando viene messa in dubbio la gloria della Sua Persona, testimonia la verità senza esitazione e senza temere le conseguenze. Un esempio perfetto per tutti i Suoi servitori. Non avendo raggiunto i loro scopi con la menzogna, ora cercano di condannare il Signore per la Sua testimonianza alla verità. Tutto ciò che il diavolo è riuscito a fare è portare alla luce la verità sulla gloria della Persona di Cristo e manifestare l’assoluta malvagità della carne in questi religiosi. Se, per un momento, a questi uomini è permesso di realizzare i loro malvagi scopi è solo perché sono strumenti “per fare tutte le cose” che la volontà e il consiglio di Dio “avevano prestabilito che avvenissero” (Atti 4:28).
Il Signore Gesù era veramente “il Cristo, il Figlio del Benedetto” ma era anche il Figlio dell’uomo che sarà visto “seduto alla destra della potenza” e “venire sulle nuvole del cielo” (14:61-62). Rigettato come Figlio di Dio, secondo il Salmo 2, prende il posto di Figlio dell’uomo, secondo il Salmo 8.
Per i capi del popolo, accecati dalla loro incredulità, la verità appare come una bestemmia e all’unanimità “lo condannarono come reo di morte” (14:64). In perfetta sottomissione alla volontà del Padre, Colui che presto sarà esaltato alla destra della potenza e tornerà nella gloria, non fa resistenza agli oltraggi di coloro che gli sputano in faccia e Lo schiaffeggiano (14:65).
Purtroppo, il Signore non ha dovuto sopportare solo gli insulti di uomini malvagi, ma anche il rinnegamento di un Suo discepolo. Pieno di fiducia in se stesso, Pietro fu incurante degli avvertimenti del Signore e trascurò le Sue esortazioni a vegliare e pregare. La carne lo ha esposto ad una tentazione in cui non può offrirgli nessun sostegno e, mentre il Signore di fronte alla malvagità dei Suoi nemici nella Sua grazia tace, Pietro tace per paura mentre si scalda al fuoco in compagnia dei nemici del Signore; e mentre il Signore parla per confessare la verità, Pietro parla per negarla. Nella sua sicurezza, Pietro aveva detto: “Quand’anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò” (Matteo 26:35). Messo alla prova dalla semplice domanda di una serva e mentre sembra che nulla di male possa capitargli, tantomeno la morte, avverte il pericolo e rinnega il Signore. Tuttavia, la sua coscienza non gli permette di restare con coloro ai quali ha mentito. Esce nell’atrio e, secondo le parole del Signore, ode il canto del gallo (14:68). Ancora la serva lo vede e dice a coloro che sono lì presenti: “Costui è uno di quelli” (14:69) e Pietro, per la seconda volta rinnega il Signore. Poco dopo, le persone lì presenti presero a dire: “Certamente tu sei uno di quelli, anche perché sei Galileo” (14:70). Allora, non solo rinnega il Signore per la terza volta, ma lo fa con imprecazioni e giuramenti. Pietro doveva imparare, ed è quello che anche noi siamo così lenti a riconoscere, che “il cuore è ingannevole più di ogni altra cosa, e insanabilmente maligno” (Geremia 17:9). Ingannato dalla fiducia in se stesso, non si rendeva conto che la malvagità del suo cuore era tale da renderlo pronto, se si presentava un’occasione, a rinnegare il suo amato Maestro, anche imprecando e giurando.
Com’è solenne la condotta di Pietro in queste scene piene di difficoltà! Tutto questo non ci viene presentato per intrattenerci sulla sua caduta e sminuire un devoto servitore del Signore, ma piuttosto per farci conoscere il male che è nei nostri cuori e farci stare in guardia. Quando il Signore lo avverte del suo rinnegamento, Pietro, sicuro di sé, rimprovera il Signore e si vanta della sua devozione. Poco dopo, mentre il Signore prega, Pietro dorme. Quando davanti ai Suoi nemici il Signore tace, come una pecora davanti a chi la tosa, Pietro usa la spada. Mentre il Signore fa la Sua bella confessione davanti al sommo sacerdote, Pietro Lo rinnega davanti ad una semplice serva.
Pietro è caduto, ma il Signore rimane, e rimano Lo stesso. Le sofferenze patite per essere stato rifiutato dalla nazione, tradito da un falso discepolo, rinnegato da un vero discepolo e abbandonato da tutti, non potevano allontanarLo dal Suo popolo, né sminuire l’amore del Suo cuore. Sentendo per la seconda volta il canto del gallo, Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva dette: “Prima che il gallo abbia cantato due volte, tu mi rinnegherai tre volte” (14:72). Queste parole spezzano il cuore del povero Pietro e gli fanno versare lacrime di vero pentimento: “E (a questo pensiero) si abbandonò al pianto”. Qualcuno ha giustamente detto: “Se la vigilanza e la preghiera sono sempre necessarie, sarà irreprensibile ed innocente e non dovrà vergognarsi solo chi cammina con la profonda convinzione che deve temere di cadere nei peggiori peccati se la sua anima non è occupata solo del Signore Gesù”. Non conosciamo l’inganno del nostro cuore perché lo stesso versetto che ci dice che è ingannevole più di ogni altra cosa ed insanabile, continua col farci una domanda: “Chi potrà conoscerlo?”. Il profeta dà subito la risposta: “Io, il SIGNORE, che investigo il cuore, che metto alla prova le reni” (Geremia 17:10). Solo Colui che investiga e conosce il nostro cuore può preservarci dalla caduta e rialzarci quando siamo caduti. Questo è ciò che Pietro, pentito, è portato a confessare il giorno della risurrezione quando dice: “Signore, tu sai ogni cosa” (Giovanni 21:17). Pietro non parlerà mai più col cuore, né si vanterà di ciò che farà o non farà, ma si rimetterà piuttosto nelle mani di Colui che conosce ogni cosa, anche la malvagità dei nostri cuori e la potenza del nemico, e che solo può guardarci da ogni caduta.
Da Te, che nulla mi separi, o Dio Salvatore.
Insegnami, se di nuovo il piede si smarrisse,
a tornare presto da Te.
La Croce (Cap. 15)
Nelle scene legate alla croce, la malvagità dell’uomo decaduto appare in tutto il suo orrore. Tutte le classi sociali sono rappresentate: Giudei e Gentili, sacerdoti e popolo, il governatore ed i suoi soldati, passanti e briganti. Nonostante le differenze politiche o sociali, tutti sono uniti nell’odio e nel rifiuto di Cristo (15:1-32)
Quando l’uomo, in tutta la sua malvagità, scompare nelle tenebre che ricoprono la terra, ci è concesso di ascoltare il grido del Signore che esprime il Suo abbandono da parte di Dio, nel momento in cui, come Vittima santa, è stato fatto peccato per noi “affinché noi diventassimo giustizia di Dio in Lui” (2 Corinzi 5:21- 15:33-38).
Infine, dopo le tre ore di tenebre, abbiamo la triplice testimonianza resa al Signore dal centurione, da alcune pie donne e da Giuseppe d’Arimatea (15:39-47).
Il Signore è già stato condannato ingiustamente dal Sinedrio dei Giudei, ma tutto il mondo deve essere riconosciuto colpevole. Così, come perfetto Servo dell’Eterno, il Signore acconsente a comparire davanti al tribunale della potenza romana, e questo non avrà altro risultato che provare il totale fallimento del governo messo nelle mani dei Gentili.
Pilato interroga il Signore quanto alla verità perché la prima cosa che Gli chiede è: “Sei tu il re dei giudei?” ed il Signore risponde: “Tu lo dici” (15:2). Come qualcuno ha detto: “Sia davanti al sommo sacerdote, sia davanti a Pilato, Egli confessò la verità e fu per la verità che fu condannato dall’uomo” (W.K.). Alle accuse dei Giudei non rispose nulla. Nella perfezione del Suo cammino, sa quando parlare e quando tacere. Parlerà per stabilire la verità, ma tace quando si tratta solo della malvagità contro di Lui. Approfittiamo del Suo esempio perfetto e seguiamo le orme di Colui che, “oltraggiato, non rendeva gli oltraggi; soffrendo, non minacciava” (1 Pietro 2:23). Ci sono dei momenti in cui il silenzio produce sulla coscienza un effetto di gran lunga maggiore di qualsiasi parola. Eppure, un tale silenzio è totalmente estraneo alla nostra vecchia natura; è per questo che Pilato si meraviglia (15:5).
Sapendo bene che tutte le accuse dei Giudei contro Cristo erano prive di valore, Pilato cerca, da un lato, di placare i Giudei, dall’altro di evitare l’infamia di condannare un innocente. Per far questo ricorre all’usanza di liberare un prigioniero nella festa della Pasqua, chiunque questo fosse. Al momento c’era un prigioniero famoso di nome Barabba, che era imprigionato per sedizione ed omicidio. Incitato dalla folla che reclamava a gran voce che si facesse secondo questa consuetudine, Pilato suggerisce di liberare Gesù, il Re dei Giudei, piuttosto che Barabba l’assassino.
Il ricorso a questa usanza non era che un compromesso che si sommava alla malvagità del giudice, perché se il Signore fosse stato innocente, come Pilato ben sapeva, un giusto giudizio avrebbe richiesto che fosse liberato a prescindere da qualsiasi consuetudine. Inoltre, l’ingiustizia di Pilato nel non liberare immediatamente un innocente è aggravata dal fatto che era pienamente consapevole che era per invidia che questi uomini malvagi avevano legato il Signore e lo avevano portato davanti al suo tribunale. In un incredulo o in un credente l’invidia o la gelosia, è uno dei più potenti stimoli al male del mondo. Fu la gelosia che portò al primo omicidio della storia, quando Caino uccise suo fratello; fu la gelosia che portò al più grande omicidio, quando i Giudei misero a morte il loro Messia. Salomone poteva ben dire: “L’ira è crudele e la collera impetuosa; ma chi può resistere alla gelosia?” (Proverbi 27:4). Con il cuore pieno di gelosia, questi capi religiosi incitano la folla a scegliere Barabba al posto di Cristo, Colui di cui è detto “tutta la sua persona è un incanto” (Cantico dei cantici 5:16), al posto di un assassino ed un ribelle. Che tutti noi credenti possiamo prendere a cuore le lezioni di questa scena solenne, ed ascoltare le parole di Giacomo che ci mette in guardia contro ogni “amara gelosia e spirito di contesa”. Se queste cose non sono giudicate nei nostri cuori porteranno al “disordine e ogni cattiva azione” anche tra credenti (Giacomo 3:14-16).
Pilato è certamente un uomo duro di questo mondo ma almeno fa qualche debole obiezione alla condanna di Colui che tutti sanno essere innocente. Dovendo rilasciare Barabba chiede ancora: “Che farò dunque di colui che voi chiamate il re dei Giudei?” domanda alla quale viene risposto senza esitazione: “Crocifiggilo!” (15:13). Nessuno vorrebbe la compagnia di un ribelle e di un assassino, ma l’inimicizia della carne contro Dio è tale che, se siamo abbandonati a noi stessi e dovessimo scegliere tra un assassino e Cristo, preferiremmo il primo.
Pilato chiede anche: “Ma che male ha fatto?”, ma la loro risposta è ancora: “Crocifiggilo!” gridato in maniera più forte. Volendo soddisfare la folla, Pilato rinuncia ad ogni parvenza di giustizia, libera Barabba e, fatto flagellare Colui che ritiene innocente, Lo consegna per la crocifissione (15:15).
Nel modo in cui i soldati trattano il Signore, possiamo vedere tutta la brutalità dell’uomo che si diverte ad insultare gli indifesi. Non faceva parte dei doveri di un soldato maltrattare un prigioniero, ma l’umiltà, la grazia e la perfezione di questo santo Prigioniero portano loro alla presenza di Dio e questo non è sopportabile per l’uomo decaduto. Colui che sarà presto coronato di molti diademi dalla mano di Dio acconsente che mani di uomini iniqui Gli pongano sul capo una corona di spine. Colui che governerà le nazioni con verga di ferro si lascia colpire con una canna da uomini miserabili che si inginocchiano con scherno e rendono omaggio a Colui al quale dovranno inginocchiarsi nel giorno del giudizio.
Questi soldati brutali non si preoccupano né della libertà né dei diritti degli altri e così costringono un uomo che torna dai campi a portare la croce (15:21).
Simone di Cirene ebbe l’onore di portare la croce per Colui che, su di essa, soffrì per il mondo intero. A quanto pare, Dio non è rimasto indifferente a questo piccolo servizio reso al Signore, perché ci viene detto che questo Simone è il padre di Alessandro e di Rufo menzionato in Romani 16:13; questo vuol dire che Alessandro e Rufo erano credenti famosi all’epoca in cui Marco scrive il suo vangelo.
Al Signore non è risparmiato nessun affronto, nessuna umiliazione. Dopo averLo crocifisso sul “luogo del teschio,” i soldati si dividono le vesti tirandole a sorte. Per derisione e disprezzo, scrivono un cartello che recava la motivazione della Sua condanna: “Il re dei Giudei” (15:26) e nello stesso tempo lo crocifiggono tra due ladroni. Senza saperlo, stavano adempiendo la Scrittura che dice: “Egli è stato contato con i malfattori” (15:28).
Anche i sommi sacerdoti deridono il Signore insieme agli scribi dicendo: “Ha salvato altri e non può salvare sé stesso”. Questo era certamente vero, anche se si rendevano poco conto della verità delle loro parole; ma quello che aggiungono: “Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, affinché vediamo e crediamo!” (15:31), è del tutto falso. La fede viene ascoltando, non vedendo. Inoltre, se fosse sceso dalla croce, la fede sarebbe stata vana; noi saremmo ancora nei nostri peccati.
Infine, il Cristo di Dio è rifiutato e disprezzato dai criminali più vili; leggiamo infatti: “Anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano” (15:32).
Abbiamo visto il Signore rifiutato da tutti gli uomini, dal più nobile al più miserabile, e abbandonato dai discepoli. Ora, però, ci è concesso di considerare le sofferenze infinitamente più profonde, quelle che sopporta quando è abbandono da Dio. Non sono più l’invidia, la malvagità e la crudeltà che deve sopportare ma il giudizio del peccato, quando viene consegnato alla morte da un Dio santo. Nessuno può o deve entrare in questa scena solenne. Ci sono “tenebre su tutto il paese”, Cristo era solo con Dio, nascosto alla vista, quando fu fatto peccato, Lui che non ha conosciuto peccato. Fatto peccato, ha dovuto sopportare l’abbandono di Dio, ma possiamo dire che mai fu prezioso per Dio come quando, in perfetta obbedienza, sperimentò l’abbandono di Dio. Egli ha sempre glorificato il Padre, ma mai in una misura maggiore di quando fu fatto peccato ed abbandonato. Che un tale sacrificio fosse necessario magnifica la natura santa di Dio; che un tale sacrificio potesse essere offerto esalta il Suo amore. Niente, che fosse meno di questo sacrificio, avrebbe potuto soddisfare la gloria di Dio o assicurare la salvezza agli uomini.
Ma cosa dovrà essere stato per la Sua santa natura essere fatto peccato! Quando entrò nel mondo fu definito “la santa cosa” [lett. – in italiano: “Colui che nascerà sarà chiamato Santo” (Luca 1:35)] che sarebbe nata; mentre quando ne uscì è “stato fatto peccato”. Chi è stato oggetto delle delizie del Padre da tutta l’eternità, ora è abbandonato. Il Salmo 22 ci insegna che Colui che gridò: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” è il solo che può dare la risposta: “Tu sei il Santo, siedi circondato dalle lodi d’Israele” (Salmo 22:1, 3). Se si vuole adempiere lo scopo del cuore di Dio di abitare in mezzo ad un popolo che Lo loda, prima deve essere soddisfatta la santità di Dio; niente può soddisfare le esigenze di un Dio santo riguardo il peccato, se non l’offerta immacolata di Cristo.
Quando tutto fu compiuto, “Gesù, emesso un gran grido, rese lo spirito” (15:37). Questo grido era la prova che la Sua morte non era il risultato del fallimento e dell’esaurimento delle forze naturali. È stato detto: “Gesù non è morto perché non poteva più vivere, com’è per tutti gli altri uomini”. Affinché la santità di Dio fosse soddisfatta e la salvezza dei peccatori fosse resa possibile, doveva morire, ma nessuno gli ha tolto la vita, è Lui che l’ha lasciata.
Immediatamente la cortina del tempio si squarciò in due, dall’alto verso il basso. Questo velo separava il luogo santo dal luogo santissimo; parlava della presenza di Dio, ma mostrava anche che l’uomo ne era escluso. Questo era il carattere del periodo della Legge: Dio è presente, ma l’uomo è incapace di avvicinarsi a Lui. La cortina squarciata ha proclamato la fine del giudaesimo ma ci dice anche che ora Dio può, in tutta giustizia, rivelarsi nella grazia e portare all’uomo la buona novella del perdono; l’uomo stesso può accostarsi a Dio, ma sul fondamento del prezioso sangue di Cristo.
Terminata l’opera della croce, la prima voce che si ode in testimonianza della gloria di Cristo è quella di un Gentile, che annuncia il nuovo giorno in cui una moltitudine di Gentili riconoscerà il Salvatore come il Figlio di Dio. Questo centurione aveva certamente assistito a molte morti sul campo di battaglia, ma non aveva mai visto una morte simile alla morte di Cristo. Riconosce che Colui che può rimettere il proprio spirito con un forte grido, deve essere più di un uomo. Per questo può dire: “Veramente, quest’uomo era Figlio di Dio” (15:39).
Alcune donne pie, che avevano seguito il Signore e Lo avevano assistito coi loro beni nei giorni della Sua carne, sono, di seguito, onorate con una citazione. Avevano seguito il Signore durante la Sua vita di servizio, non Lo avevano lasciato al momento della Sua morte sulla croce ed erano presenti quando il Suo corpo fu deposto nel sepolcro. È molto facile soffermarsi sulla loro mancanza d’intelligenza ed essere molto lontani rispetto al loro amore devoto.
Se queste pie donne si distinguono nel giorno del pericolo, quando anche i discepoli erano fuggiti, un “illustre membro del Consiglio” (15:43) si incarica di andare a chiedere il corpo del Signore per seppellirlo. Era un vero credente che attendeva con impazienza il regno di Dio; tuttavia, la sua elevata posizione sociale l’aveva trattenuto dall’identificarsi con Gesù nella Sua umiliazione e di unirsi ai Suoi umili discepoli. Ma, come sovente accade, l’intensità del male costringe la fede a manifestarsi e coloro che avremmo potuto considerare di scarso peso spirituale, si schierano risolutamente per il Signore, mentre altri di cui avremmo pensato che sarebbero stati d’esempio, falliscono completamente.
Così la Parola di Dio si compie: sebbene gli uomini “Gli avevano assegnato la sepoltura fra gli empi”, nella Sua morte “Egli è stato con il ricco” (Isaia 53:9). E se agli uomini è stato permesso di inchiodare ignominiosamente Cristo alla croce, affinché il consiglio di Dio si compisse, era previsto, una volta compiuta quest’opera, che il Suo corpo fosse sepolto con tutti gli onori che Gli erano dovuti e senza che uomini malvagi potessero infliggerGli ulteriori affronti.
Resurrezione e Ascensione (Capitolo 16)
Per la terza volta vengono messe davanti alla nostra attenzione queste tre donne: “Maria Maddalena, Maria, madre di Giacomo e Salome” (16:1). A quanto pare, esse avevano già comprato degli aromi per imbalsamare il corpo del Signore quando il sabato fosse passato. Era incredulità pensare di trovare il corpo del Signore nel sepolcro e ignoranza pensare di conservarlo lì, ma lo Spirito di Dio si compiace di separare ciò che è prezioso da ciò che è vile e si sofferma sull’amore e la devozione che hanno portato queste donne a comprare degli aromi ed andare al sepolcro di prima mattina.
Per strada si sono chieste: “Chi ci rotolerà la pietra dall’apertura del sepolcro?” (16:3). Per la mente razionale dell’uomo naturale c’è sempre una grande pietra davanti alla tomba di Cristo. Lontano da Dio, l’uomo decaduto trova, nella verità della risurrezione, una difficoltà insormontabile. I filosofi greci, come quelli di oggi, possono professare di credere nell’immortalità dell’anima, ma rifiutano di accettare la risurrezione del corpo. Per la mente umana è piacevole pensare che l’anima continui a vivere dopo aver lasciato il corpo, ma se il corpo deve risuscitare è evidente che è necessario l’intervento della potenza di Dio e l’intelligenza umana rifiuta il pensiero di essere dipendente da questo Dio che odia. Lasciate da parte Dio e la risurrezione sarà impossibile; introducete Dio e la Sua potenza e tutte le difficoltà scompaiono: la pietra è rotolata via.
Arrivate al sepolcro, queste donne scoprono che Dio le ha precedute e che la pietra è stata tolta; non certo perché il corpo del Signore potesse uscire dal sepolcro, ma perché i discepoli potessero entrarvi e vedere che il luogo dove era stato deposto era vuoto. Nessuna pietra, per quanto grande, avrebbe potuto trattenere il corpo del Signore nel sepolcro.
Entrate nel sepolcro, si trovano subito faccia a faccia con un messaggero celeste che rassicura i loro cuori e placa i loro timori dicendo: “Non vi spaventate! Voi cercate Gesù il Nazareno che è stato crocifisso; egli è risuscitato; non è qui; ecco il luogo dove l’avevano messo” (16:6). Stavano cercando Gesù e questo, nonostante molta ignoranza ed incredulità, andava bene. E noi cosa stiamo cercando? È Gesù l’oggetto del nostro cuore? È stato detto: “È la consacrazione del cuore al Signore che porta luce e comprensione all’anima” (J.N. Darby). Quante volte la nostra cecità quanto alla verità e la nostra incapacità di distinguere tra il giusto e lo sbagliato deriva dal non aver quell’occhio semplice che ha Cristo come unico oggetto. Spesso cerchiamo la nostra volontà e la nostra esaltazione piuttosto che il Signore Gesù e la Sua gloria. La misura in cui “cerchiamo Gesù” è la misura in cui riceviamo la luce. Possiamo cercare molte cose, buone quanto a se stesse, ma che non sono Gesù. Possiamo cercare delle anime, il servizio, il bene dell’uomo o la prosperità dei santi, ma se “cerchiamo Gesù” ognuna di queste cose troverà il suo posto ed avremo luce per il nostro cammino. Cercando Gesù, queste donne ricevono la luce dal cielo e sono invitate a svolgere un servizio per il Signore.
Esse dovevano consegnare questo messaggio “ai suoi discepoli e a Pietro” (16:7). È commovente notare che questa menzione speciale di Pietro si trova nel vangelo che fornisce il maggior numero di dettagli sulla sua grave caduta. Se il messaggio fosse stato rivolto semplicemente ai discepoli, Pietro avrebbe potuto dire: “Non è per me, non sono più un discepolo”, ma l’esplicita menzione del suo nome esclude un tale pensiero. I discepoli devono imparare che, sebbene tutti abbiano abbandonato il Signore e siano fuggiti, e nonostante che Pietro Lo abbia rinnegato, il cuore amorevole del Signore non è cambiato verso di loro. Ora che è risorto, come nei giorni della Sua vita qui sulla terra, “precederà” i Suoi discepoli per indicare loro la via. Fa dire loro: “là lo vedrete” e tutto accadrà “come vi ha detto”. In maniera più generale si può dire che, nonostante la rovina della Chiesa responsabile, la dispersione ed i fallimenti dei figli di Dio, viene il momento in cui il Signore risorto e glorioso raccoglierà intorno a Sé tutte le Sue pecore. Allora lo vedremo faccia a faccia e tutte le parole che Lui ha detto si compiranno.
Le donne avevano visto il sepolcro vuoto, avevano ascoltato l’angelo, ma non avevano visto Gesù. Nel Vangelo secondo Luca si legge: “Ma lui non lo hanno visto” (Luca 24.24). Senza la presenza di Cristo, la grande pietra rotolata, il sepolcro vuoto e la visione degli angeli ci lasciano solo tremanti e confusi.
Apprendiamo poi che il Signore era già apparso a Maria di Maddalena (16:9), dalla quale aveva scacciato sette demoni. Colei che fu testimone della potenza del Signore sui demoni, ora diventa testimone della Sua potenza sulla morte. Ella annuncia la buona novella della risurrezione del Signore ai discepoli che “facevano cordoglio e piangevano” ma che, ahimè, hanno udito il messaggio ma non l’hanno creduto.
La breve menzione dei due discepoli sulla via di Emmaus ci dice che nemmeno la loro testimonianza è stata accolta (16:12/13).
Infine, abbiamo il racconto dell’apparizione del Signore “agli undici mentre erano a tavola” (16:14). Il Signore rimprovera la loro incredulità che attribuisce alla durezza del loro cuore. Non possiamo, anche noi, attribuire gran parte della nostra incredulità alla durezza dei nostri cuori che così spesso non rispondono al Suo amore e sono spesso insensibili alla Sua Parola?
Tuttavia, benché lo stato del loro cuore sia stato messo a nudo, il Signore li manda immediatamente a predicare l’evangelo. Noi saremmo portati a pensare che tanta incredulità e durezza di cuore dimostrino che non erano assolutamente adatti al servizio come predicatori, ma questa stessa manifestazione dello stato del loro cuore alla presenza del Signore era una preparazione al servizio, perché, è quando scopriamo qualcosa del vero carattere del nostro cuore e impariamo che non siamo niente quanto a noi stessi, che Dio può usarci per la benedizione degli altri.
Dovevano andare per tutto il mondo e predicare l’evangelo ad ogni creatura. “Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvato; ma chi non avrà creduto sarà condannato” (16:16). Sarebbe contrario alla verità dedurre da questo passo che il battesimo ha il potere di salvare davanti a Dio, perché il punto essenziale è credere all’evangelo, infatti non è scritto: “Chi non crederà e non sarà battezzato”. Qualcuno ha detto: “L’incredulità era il male da temere sopra ogni altra cosa. Che un uomo fosse stato battezzato o meno, se non avesse creduto sarebbe stato condannato”. Il battesimo è importante in quanto è il segno visibile davanti agli uomini della fede che Dio solo vede. Chi professa di credere, e tuttavia rifiuta di essere battezzato, cerca praticamente di nascondere la sua professione di fede e di rimanere in buoni rapporti con il mondo. Si può giustamente dubitare della realtà della fede di un tale uomo. Il vero credente confesserà la sua fede separandosi dal mondo. Il battesimo è il segno della morte, è il segno di una grande separazione. Con il battesimo il credente lascia il mondo per entrare, sulla terra, nell’ambito cristiano tra i figli di Dio.
Il Signore parlò anche dei segni che avrebbero accompagnato quelli che avrebbero creduto. Nel nome di Cristo avrebbero cacciato demoni, parlato nuove lingue e guarito i malati. Sottolineiamo il fatto che il Signore non dice che questi segni avrebbero accompagnato tutti coloro che avrebbero creduto, o che li avrebbero caratterizzati per sempre. È necessario distinguere tra i ministeri di cui parla l’apostolo Paolo in 1 Corinzi 12:29-30 e i doni per l’edificazione di Efesini 4:11. I ministeri dell’epistola ai Corinzi sono dati alla Chiesa primitiva per servire come testimonianza pubblica, per attirare l’attenzione di un mondo incredulo, mentre i doni per l’edificazione del corpo, nell’epistola agli Efesi, sono stati dati dal Capo glorificato. Essendo la Chiesa venuta meno alla sua responsabilità ed essendo in rovina, il Signore cessa di richiamare l’attenzione su di essa con segni miracolosi ed esteriori. Ma sebbene la Chiesa sia spogliata dei suoi ornamenti esteriori, il Signore non cessa di custodire e nutrire il Suo corpo ed è per questo che i ministeri di Efesini rimangono fino alla fine.
Dopo aver impartito le Sue istruzioni ai discepoli, il Signore fu innalzato al cielo e si sedette alla destra di Dio. La Sua opera sulla terra come PERFETTO SERVITORE è completata anche se collabora con i Suoi discepoli, confermando la Parola da loro predicata con i segni che l’accompagnano.
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