La difficile missione di Isaia

di Arend Remmers

Articolo tratto dal mensile IL MESSAGGERO CRISTIANO del 04-2018

Uzzia (o Azaria), re di Giuda, aveva iniziato molto bene; ma ahimè! ha finito male. “Quando fu divenuto potente, il suo cuore, insuperbitosi, si pervertì” (2 Cronache 26:16). Egli ebbe l’audacia di entrare nel tempio per farvi bruciare l’incenso – funzione riservata esclusivamente ai sacerdoti figli di Aronne – e la conseguenza di questo peccato fu che ha trascorso il rimanente della sua vita in infermeria, perché lebbroso. Isaia ha vissuto questi avvenimenti e ne ha anche scritto la storia in un libro che non ci è pervenuto (2 Cronache 26:22). Tutto questo, senza dubbio, ha pesato sul cuore del profeta, che capiva chiaramente lo stato del popolo e dei suoi conduttori, e che Dio non poteva far altro che condannare severamente.

“Nell’anno della morte del re Uzzia”, a Isaia è concesso di vedere “il Signore” nel suo tempio, “seduto sopra un trono alto, molto elevato” (Isaia 6:1). I re della terra appaiono e scompaiono, ma il Signore è Colui che non cambia, che rimane eternamente lo Stesso. Al di sopra del trono, il profeta vede dei “serafini” (parola che significa “ardente”); sono i simboli della santità di Dio “perché il nostro Dio è anche un fuoco consumante” (Ebrei 12:29). Con le loro sei ali assomigliano alle quattro “creature viventi” che si vedono presso il trono di Dio in Apocalisse 4; e come questi dicono continuamente “Santo, santo, santo …” (Apocalisse 4:8). Per rispetto si coprono il viso; con umiltà si coprono i piedi pronti a servire il “SIGNORE degli eserciti” la cui gloria riempie tutta la terra. Le porte scosse dalle loro fondamenta, la casa piena di fumo, ricordano lo spavento prodotto dall’apparizione del Dio d’Israele al Sinai (v. 4 – Esodo 19:18).

Questa visione, come pure la descrizione del trono di Dio in Ezechiele 1, ci mostra come i profeti dell’Antico Testamento abbiano potuto vedere solo parzialmente lo splendore della gloria divina, mentre Giovanni ha potuto contemplarla a viso scoperto, nella misura in cui è possibile ad una creatura.

Senza saperlo, Isaia ha contemplato la gloria del Figlio di Dio (Giovanni 12:41), di Colui che è “l’immagine del Dio invisibile” (Colossesi 1:15), “lo splendore della sua gloria e impronta della sua essenza” (Ebrei 1:3). All’inizio del suo Vangelo, Giovanni dichiara la Sua eterna esistenza: “Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio” (Giovanni 1:1). Prima che la grazia e la verità fossero perfettamente manifestate in Gesù (1:17) ogni apparizione della gloria di Dio produceva necessariamente sull’uomo timore e spavento.

Il profeta, che precedentemente aveva pronunciato i sei “guai” del giudizio sul popolo, ora, mentre si trova davanti alla santità divina che scruta la sua anima e la gloria divina che lo turba, scrive: “Guai a me! Sono perduto” (v. 5). Alla presenza di Dio, non vede solo il peccato e la depravazione del popolo; vede che lui stesso è un uomo dalle labbra impure, indegno di contemplare il vero Re, il SIGNORE degli eserciti. Nessuno può stare davanti alla perfetta santità di Dio. Ma la confessione del profeta, che non si pone per niente al di sopra del popolo, è gradita a Dio che dice: “Io dimoro nel luogo eccelso e santo, ma sto vicino a chi è oppresso e umile di spirito” (Isaia 57:15).

Allora appare l’altare. È l’altare di rame il cui fuoco fa salire a Dio il profumo soave dell’offerta, e che porta la propiziazione e il perdono (Levitico 4:31). Con un carbone ardente preso da sopra l’altare, uno dei serafini tocca le labbra impure del profeta, e il suo peccato è tolto (v. 6-7).

Che bella immagine abbiamo qui della vera espiazione e della santificazione! La santità di Dio, i cui occhi sono troppo puri per vedere il male, esigeva una perfetta espiazione del peccato. Per l’offerta di Se stesso, che Gesù Cristo ha fatto alla croce, e per il giudizio divino che ha preso sopra di Sé, questa espiazione è stata compiuta in maniera completa e una volta per sempre. La santità di Dio è soddisfatta. Con amore, grazia e misericordia ha dato il Suo proprio Figlio per questo, per una piena salvezza di tutti coloro che vanno a Lui con pentimento e fede.

Abbiamo detto che questa scena è una “figura”, perché non ci descrive la conversione di Isaia, che già aveva fede in Dio; ma come tutti i credenti dell’Antico Testamento, non poteva conoscere il profondo significato della propiziazione e del perdono. Tuttavia nella figura che abbiamo davanti, il principio viene mostrato chiaramente. Nello stesso modo, il sommo sacerdote Giosuè (Zaccaria 3:1-5) impara in maniera concreta, in presenza dell’angelo del SIGNORE, qual è il principio della purificazione; i suoi vestiti sudici sono tolti e viene rivestito con l’abito della festa.

Nel nostro passo si tratta della chiamata di Isaia non al servizio di profeta, ma ad una missione particolare che gli viene affidata, per la quale Dio lo prepara in questo modo. Possiamo pensare a Pietro che, davanti alla gloria e alla potenza del Figlio di Dio divenuto Uomo, grida: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore” e che nello stesso momento riceve la sua missione: “Non temere; da ora in poi sarai pescatore di uomini” (Luca 5:8, 10).

La missione del profeta

Isaia ode ora la voce del Signore che dice: “Chi manderò? E chi andrà per noi?” Il plurale (come nella dichiarazione di Genesi 1 “Facciamo l’uomo a nostra immagine”) lascia intravedere una pluralità di persone divine. Come uno colpevole al pari del popolo, ma che è cosciente di essere perdonato, Isaia è in una disposizione interiore adatta; così preparato per rispondere a questa chiamata divina, esclama: “Eccomi, manda me!” (v. 8).

Isaia riceve il mandato di annunciare a “questo popolo” – che ora Dio non chiama più “mio popolo” come all’inizio del libro (cfr. 1:3) – l’imminente prova che lo attende. Questa durezza non è un atto arbitrario di Dio, ma la Sua ultima risposta alla durezza del cuore del Suo popolo terreno, che aveva respinto con disprezzo tutte le cure del Suo amore. Il faraone d’Egitto aveva già conosciuto un giudizio simile perché non aveva voluto lasciare andare gli Israeliti fuori dal suo paese; dopo il rapimento dei credenti, quelli che già avevano detto no all’offerta di perdono di Dio subiranno una sorte simile (Esodo 7:13; 9:12; 2 Tessalonicesi 2:10-12). Al tempo di Isaia, l’indurimento annunciato consisteva in questo: gli uomini avrebbero ascoltato, ma non compreso; avrebbero visto ma non conosciuto; sarebbero divenuti spiritualmente sordi e ciechi. La conversione e la guarigione del popolo non sarebbe stata più possibile.

Questa profezia ha trovato il suo primo compimento all’epoca della cattività babilonese, quando l’ira di Dio contro il Suo popolo “arrivò al punto in cui non ci fu più rimedio” (2 Cronache 36:15-16). Tuttavia, quando i Giudei, circa settecento anni più tardi, hanno rifiutato il Messia che Dio aveva loro inviato, e poi anche la testimonianza dello Spirito Santo riguardo a Cristo glorificato nel cielo, le parole di questa profezia hanno avuto la definitiva realizzazione. Per questo sono citate diverse volte nel Nuovo Testamento (Matteo 13:14; Marco 4:12; Luca 8:10; Giovanni 12:40; Atti 28:26).

Questo stato di cose sussiste ancora oggi, e durerà finché non si convertiranno, e “finché non sia entrata la totalità degli stranieri”; allora “tutto Israele sarà salvato” (Romani 11:25-26). Dopo il rapimento dei credenti, Dio riallaccerà nuovamente le relazioni col Suo popolo e lo accoglierà in grazia, ma soltanto dopo una severa disciplina.

Isaia conosceva certamente, grazie alla Legge e ai Salmi, che Dio “non contesta in eterno” e che “non serba la sua ira per sempre” (Salmo 103:9; Deuteronomio 30); per questo fa subito la domanda: “Fino a quando, Signore?” (v. 11). Ma non poteva ricevere una risposta corrispondente a quello che noi conosciamo oggi; gli viene soltanto risposto: “Finché le città siano devastate, senza abitanti, non vi sia più nessuno nelle case, e il paese sia ridotto in desolazione; finché il SIGNORE abbia allontanato gli uomini, e la solitudine sia grande in mezzo al paese” (v. 11-12).

Il profeta doveva vivere l’annientamento del regno del nord, ma non la desolazione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor che avverrà circa un secolo più tardi. Dopo la sua morte, passeranno ancora settecento anni fino al momento in cui i Romani faranno una seconda distruzione del tempio e della città (nell’anno 70). Sappiamo così dalla Scrittura che “il tempo della distretta di Giacobbe” è ancora futuro (Geremia 30:7); tuttavia, per quanto prossimo sia questo tempo, prima di questi avvenimenti noi ci troveremo riuniti presso il nostro amato Signore nella casa del Padre.

Non dobbiamo però confondere la posizione di Israele – una volta depositario dell’incarico di rappresentare Dio nel governo del mondo – con la salvezza individuale di ogni singola persona. L’Evangelo non conosce differenze, ed anzi afferma un principio: al Giudeo prima e poi al Greco; anche questo mostra che “dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata”!

Tutte le precedenti devastazioni, come pure quelle che devono avvenire nel tempo della tribolazione a venire, non prevedono una distruzione totale del popolo di Israele; un piccolo residuo sarà conservato, anche in futuro, attraverso i giudizi: “Se vi rimane ancora un decimo della popolazione, esso a sua volta sarà distrutto; ma, come al terebinto e alla quercia, quando sono abbattuti, rimane il ceppo, così rimarrà al popolo, come ceppo, una discendenza santa” (v. 13). Da un tronco apparentemente morto, nuovi germogli possono crescere. È così che un giorno, nel popolo di Dio, “la discendenza santa” – il residuo credente – sarà per la gloria di Dio e per la benedizione della terra.

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