di Alfredo Apicella
E’ una storia complessa, quella di Giobbe. Pochi hanno patito come lui. Pochi sono passati, in un così breve lasso di tempo, da uno stato di eccezionale benessere a uno stato di miseria totale, di povertà, di solitudine, di dolore, di tormento fisico. Le sue sofferenze sono diventate proverbiali, così com’è diventata proverbiale la sua pazienza.
Come mai un tale accanimento contro un uomo “integro e retto” che temeva Dio e fuggiva il male? (1:1). Parlando con Satana, Dio dice chiaramente che sulla terra non c’era nessun altro come lui (v. 8). Dunque, se qualcuno doveva essere gradito a Dio e quindi riccamente benedetto fino alla fine dei suoi giorni, quello era proprio Giobbe. Così verrebbe da pensare.
Cosa si poteva chiedere di più a una simile persona? Non aveva forse il diritto di godersi la vita in pace e nell’abbondanza, circondato dall’affetto della moglie e dei suoi dieci figli?
No. Dio ha permesso che Satana, pur salvaguardando la sua vita, non risparmiasse né la sua famiglia, né i suoi beni, né la sua salute. A Satana, Dio rimprovera di essere stato incitato contro Giobbe “senza motivo”. Ma se ha raccolto la sfida, un motivo ci doveva pure essere.
A volte ci stupiamo dell’operato di Dio. Quando perdona e agisce in grazia, ci sembra troppo generoso; quando agisce in giudizio, troppo severo. Ma nel fare le nostre valutazioni dobbiamo sempre partire da due presupposti dai quali non possiamo prescindere.
- Dio sa quello che fa e fa ogni cosa bene. Anche se fatichiamo a comprendere. Nessuna Sua azione può essere priva di motivi validi che la giustifichino.
- Chi siamo noi per giudicare l’operato di Dio? A coloro che ritenevano ingiusto che Dio prediligesse Giacobbe rispetto a Esaù, Paolo risponde “chi sei tu che replichi a Dio?”. Un “rottame fra i rottami dei vasi di terra” non ha nessun diritto di contestare col suo Formatore.
Ciò premesso, possiamo comunque cercare di capire perché Dio sia stato, almeno apparentemente, così duro con quell’uomo. E lo capiremo se analizziamo attentamente lo svolgimento di tutta quella triste vicenda con lo spirito di chi accetta i due presupposti di cui sopra.
Inizialmente Giobbe si inchina al volere di Dio. La sua sottomissione è commovente. “Il SIGNORE ha dato, il SIGNORE ha tolto; sia benedetto il nome del SIGNORE”. E’ il massimo che si possa pretendere da un uomo che ha appena perso tutto, beni e figli, e che si prostra e adora Dio col mantello stracciato e il capo raso.
Quando arriva la malattia con le piaghe, il prurito insopportabile, il fetore, Giobbe, nemmeno allora, pecca “con le sue labbra”. La sua integrità morale è solida come una roccia. Alla moglie che lo incita a lasciar perdere Dio, ripete le stesse parole dell’inizio: “Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremo di accettare il male?” (2:10).
Nell’ordine, le prove che Giobbe ha dovuto sopportare sono sette, un numero simbolico che rappresenta qui la pienezza, la totalità: i Sabei che portano via i buoi e le asine e uccidono i servi, il fuoco di Dio che cade dal cielo e colpisce le pecore e i servi, i Caldei che rubano i cammelli e uccidono i servi, il vento che fa crollare la casa dove sono riuniti i figli e le figlie e li fa morire, la malattia, l’incitamento della moglie a maledire Dio, le accuse ingiuste degli amici. Le prime sei vanno alla gloria di Dio perché Giobbe le accetta con umile dipendenza; la settima, quella dei discorsi degli amici, sarà per la sua scuola.
Ma veniamo agli amici. Sono inizialmente tre, Elifaz, Bildad e Zofar, uomini di età e di esperienza. Hanno intrapreso un lungo viaggio con la sincera intenzione di consolarlo e confortarlo, ma non centrano l’obiettivo. Anzi, come abbiamo detto, rappresentano per il povero Giobbe un’ulteriore durissima prova. All’inizio, non sanno cosa dirgli. Piangono, si stracciano le vesti, e restano lì, muti, seduti a terra, per sette lunghi giorni e sette lunghe notti.
Allora è Giobbe che prende la parola e maledice il giorno della sua nascita. Con espressioni dense di angoscia, invidia i morti nel seno della madre o i morti appena nati o gli aborti. E chiama le tenebre a coprire il giorno in cui lui è venuto alla luce e ha trovato una madre che lo ha allattato. “Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?” (3:23). Giobbe si sente come imprigionato da Dio, tagliato fuori dal resto del mondo, rinchiuso in uno spazio angusto dal quale è impossibile uscire.
Così inizia il dibattito. Elifaz è il primo a intervenire. Le sue riflessioni sono basate sull’esperienza, sul vissuto. “Porgimi ascolto, e ti racconterò quello che ho visto”. “Io per me ho visto che coloro che arano iniquità e seminano tormenti, ne mietono i frutti”. “Io ho visto l’insensato prendere radice, ma ben presto ho dovuto maledire la sua casa” (15:17, 4:8, 5:3). A suo giudizio, Giobbe è punito per dei gravi peccati commessi. “La tua malvagità non è forse grande e le tue iniquità non sono infinite?” (22:5). Le sue sofferenze, dunque, altro non sarebbero che il frutto che sta raccogliendo.
Analogo a quello di Elifaz è il giudizio degli altri due. Bildad si rifà al passato, alla tradizione. “Interroga le passate generazioni, rifletti sull’esperienza dei padri”. “Tale è la sorte di tutti quelli che dimenticano Dio” (8:8, 13). Zofar è il legalista, duro e intransigente, e senza un minimo di sensibilità accusa Giobbe di empietà, di voracità, di ingordigia… (20:20-21).
In ogni discorso gli amici rincarano la dose. Tutti e tre lo esortano ad abbandonare il male e a chiedere perdono a Dio, ma i loro attacchi sono spietati.
Giobbe è amareggiato e invoca pietà. E possiamo capirlo. Difende la propria integrità con accanimento e con parole accorate perché la sua coscienza non gli rimprovera nulla delle cose delle quali gli amici lo accusano. Però, man mano che controbatte, se la prende sempre più apertamente con Dio. Dice anche cose molto belle sul Suo conto, ma fra le tante parole appaiono ardite frasi di accusa. “Perché hai fatto di me il tuo bersaglio?”. “Tu investighi tanto la mia iniquità… pur sapendo che io non sono colpevole”. “Tu metti i miei piedi nei ceppi, spii tutti i miei movimenti”. “Io difenderò in faccia a lui il mio comportamento”. “Ha acceso la sua ira contro di me, mi ha considerato come suo nemico”. “Sappiatelo: chi m’ha fatto torto e m’ha avvolto nella sua rete è Dio”. “Potessi arrivare fino al Suo trono! Esporrei la mia causa davanti a lui, riempirei di argomenti la mia bocca”. “L’onnipotente mi risponda! Scriva l’avversario mio la sua querela e io me la cingerò come un diadema. Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe”. “Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c’è iniquità in me; ma Dio trova contro me degli appigli ostili”. E così via. (*)
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(*) 7:20, 10:6-7, 13:15 e 26, 19:6 e 11, 23:4, 31:35, 33:9-10.
E’ a questo punto che si incomincia a intravedere lo scopo di Dio in quella terribile prova, e qual è il risultato che vuole ottenere. Dio lo ama, e non lo incolpa per quelle sue rimostranze. Anzi, più tardi dirà che ha parlato bene di Lui (42:7). Vuole solo fargli cambiare idea sul problema della giustizia dell’uomo e dei suoi presunti meriti.
A un certo punto compare Eliu, un quarto amico, il più giovane. E’ lui che prepara Giobbe per l’incontro con Dio. Per così dire, inizia lui il discorso che poi Dio stesso proseguirà, parlando con Giobbe a tu per tu.
Nessun uomo, per giusto che sia, può accampare dei diritti nei confronti del suo Creatore. A Satana, Dio dice che Giobbe, paragonato agli altri uomini, era giusto, il più giusto di tutti. Ma la sua giustizia non reggeva il confronto con la giustizia perfetta del Creatore dei cieli e della terra. Ecco perché è scritto che “non c’è nessun giusto, neppure uno”. “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”. In questo “tutti” c’è anche Giobbe. Ma com’è difficile per noi esseri umani accettare questa verità! “Sarete come Dio” aveva suggerito Satana ad Adamo ed Eva, e loro ci hanno creduto. Il senso di onnipotenza è ora legato alla natura umana contaminata dal peccato.
Giobbe era convinto di “meritare” il favore divino e credeva, data la propria giustizia, di poter discutere con Lui se non alla pari almeno da un livello molto elevato. Ed è proprio per fare uscire dal suo cuore questo suo pensiero che Dio ha dovuto agire con incredibile severità. La radice era profonda, e Dio ha dovuto scavare fino in fondo. Lo ha fatto per amore, perché lui potesse dire alla fine “il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l’occhio mio ti ha visto. Perciò mi ravvedo, mi pento sulla polvere e sulla cenere” (42:5-6).
Dopo Eliu prende la parola Dio stesso e, cosa sorprendente, non intavola con Giobbe nessuna argomentazione teologica; non gli parla né di peccato né di perdono, non accenna al principio della retribuzione o del giudizio, dell’innocenza o della colpevolezza. Dio si presenta come il grande Creatore e lo mette di fronte all’immensità e alle meraviglie della Sua creazione. La terra e il mare, gli animali, le nubi e le tempeste, i fulmini, i tuoni, la grandine, la neve, le meteore, le costellazioni… Giobbe deve fermarsi, come Eliu gli consiglia di fare, e considerare le meraviglie di Dio (37:14). Ed è quello che lui fa, verso la fine della sua drammatica e tormentata vicenda.
Ancora oggi, Satana, facendo credere che l’universo si sia formato per caso, che tutte le bellezze e i meccanismi stupefacenti degli esseri viventi non siano altro che il risultato di un processo di evoluzione, cerca di privare gli uomini della possibilità di credere all’esistenza di Dio considerando le Sue opere, e di misurarsi con la Sua onnipotenza, e di ravvedersi e pentirsi del loro peccato.
Quando ci confrontiamo con Dio, con la Sua grandezza e la Sua sapienza, noi Sue creature diventiamo consapevoli di quanto siamo piccoli. “Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte, che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura?” (Salmo 8:3-4). Ed è questa consapevolezza che ci fa accogliere i Suoi benefici come atti immeritati di pura grazia, dal dono della salvezza per la fede in Cristo a tutti gli altri innumerevoli favori.
Molti credenti dicono di non riuscire a capire la severità di Dio nella storia di Giobbe. Giobbe invece ha capito benissimo. Alla fine, è vero, ma ha capito. Ecco perché, dopo tanta oscurità, la fine è così luminosa. Gli amici hanno bisogno delle sue preghiere perché Dio è adirato contro di loro. Avevano interpretato male il Suo agire, mentre Giobbe aveva visto chiaro. Le sue sofferenze non erano un castigo, ma una scuola.
“Quando Giobbe ebbe pregato per i suoi amici, il SIGNORE lo ristabilì nella condizione di prima e gli rese il doppio di tutto quello che gli era appartenuto” (42:10). “Il SIGNORE benedì gli ultimi anni di Giobbe più dei primi”. Avrà di nuovo sette figli e tre figlie; non il doppio, perché gli altri erano tuttora viventi, sebbene non su questa terra.
“Il timore del SIGNORE è scuola di saggezza; e l’umiltà precede la gloria” (Proverbi 15:33).
“Dico quindi a ciascuno di voi che non abbia di sé un concetto più alto di quello che deve avere, ma abbia di sé un concetto sobrio, secondo la misura di fede che Dio ha assegnata a ciascuno” (Romani 12:3).
Fra le tante lezioni che Dio vuole impartirci attraverso la storia di Giobbe, credo che queste siano le più importanti.