di Pierre Combe
Articolo tratto dal mensile IL MESSAGGERO CRISTIANO del 09-2020
Dare o ricevere?
L’uomo che non ha una relazione vitale con Dio non può e non sa dargli ciò che potrebbe piacergli; può solo deporre ai Suoi piedi, nella confessione, il peso dei propri peccati. Allora, libero da quel fardello, riceve la “grazia salvifica” che è apparsa in Cristo, a favore di ogni peccatore che crede al valore del Suo sacrificio (Tito 2:11).
Quando Adamo è caduto nel peccato, la bontà del nostro grande Dio salvatore non ha tardato a manifestarsi in suo favore. Già al tramonto, la voce divina chiama Adamo, che si era nascosto, e gli chiede: “Dove sei?… Che cosa hai fatto?”. Poi Dio stesso gli procura e mette sulle sue spalle e su quelle di Eva gli abiti di pelle che aveva fatto per loro, vesti che prefigurano quelle da cui i credenti sono rivestiti davanti a Dio, le “vesti della salvezza”, il “mantello della giustizia” di cui siamo ricoperti (Isaia 60:10). Abbiamo qui un’immagine di Cristo che ha fatto la purificazione dei nostri peccati con la Sua morte. Egli è la misura della nostra approvazione davanti a Dio. Non è forse per noi la “veste più bella” che fu portata al figlio prodigo? (Luca 15:22). È il dono d’amore del Padre, che ci permette di presentarci davanti a Lui. E ancora oggi si sente quella stessa voce, la voce “del messaggero di buone notizie, che annuncia la pace, che è araldo di notizie liete, che annuncia la salvezza” (Isaia 52:7). Dio voglia che essa trovi ancora la strada di molte coscienze e di molti cuori!
Il credente, cosciente della grazia di cui è oggetto, è allora in grado di offrire all’Autore della sua salvezza la riconoscenza, la lode e l’adorazione. Desidera farlo. Non avendo nulla da offrire di suo, non può portare a Dio che quel che ha ricevuto da Lui; come dice Davide, “noi ti abbiamo dato quello che dalla tua mano abbiamo ricevuto” (1 Cronache 29:14).
Il bisogno di presentare un’offerta a Dio animava già i primi discendenti di Adamo ed Eva. Caino e Abele avevano ereditato entrambi una natura peccatrice, e in questo erano simili; ma ciò che li rendeva diversi era la loro condizione davanti a Dio in base alla percezione che avevano della Sua santità. L’offerta di Caino era il frutto di una dura fatica, ma proveniva da un suolo maledetto per colpa dell’uomo peccatore, perciò non poteva essere gradita. Quella di Abele, invece, era l’espressione di una coscienza risvegliata, che aveva compreso la necessità di un sacrificio con spargimento di sangue: quindi era gradita a Dio.
L’offerta fatta a Dio è un soggetto che troviamo in tutte le Scritture; essa è stata realizzata, nelle diverse dispensazioni, in funzione della rivelazione dei pensieri di Dio. Ai tempi di Enos si cominciò ad invocare il nome dell’Eterno (Genesi 4:26). Noè costruì un altare e vi offrì degli olocausti, “e il SIGNORE sentì un odore soave” (8:20-21). Abraamo costruì diversi altari; fra questi, quello sul monte Moria (22:1-14) occupa un posto particolare. Mosè costruì quello di Yahvé-Nissi (il Signore è la mia bandiera), dopo la vittoria su Amalec; e ne eresse uno ai piedi della montagna, quando scrisse il libro del patto (Esodo 17:15; 24:4). Gli ordini di Dio, a riguardo del tabernacolo e dei sacrifici che vi dovevano essere offerti, sottolineano ciò che l’Eterno si aspettava da Israele, il popolo messo da parte per servirlo. Dio si era scelto quel popolo perché raccontasse le Sue lodi (Isaia 43:21); Egli dice: “Non indugerai a offrirmi il tributo dell’abbondanza delle tue raccolte e di ciò che cola dai tuoi frantoi” (Esodo 22:29).
Se Israele era chiamato ad offrire dei sacrifici, se ha davvero lodato e celebrato l’Eterno in parecchie occasioni, quanto più il popolo celeste di Dio, la Chiesa, è in grado e ha dei motivi per offrirgli qualcosa! Esso è “un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo” (1 Pietro 2:5). Se ci rendiamo conto di ciò che abbiamo in Cristo, saremo spinti ad offrire “continuamente a Dio un sacrificio di lode; cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome” (Ebrei 13:15).
La natura umana è spesso più disposta a ricevere che a dare, ma l’apostolo Paolo ci ricorda che il Signore Gesù ha detto: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (Atti 20:35). L’amore che gode a dare, e che si dona, ha trovato la sua espressione gloriosa, la misura perfetta, in Colui che ha dato la Sua vita per noi. Che cosa possiamo mai offrire in cambio dell’amore di Dio, versato nei nostri cuori dallo Spirito Santo (Romani 5:5), se non le primizie dei nostri affetti e della nostra vita? I nostri stessi corpi devono essere presentati come un sacrificio vivente, santo, gradito a Dio.
La nostra vita personale, nell’esercizio della pietà, come la vita dell’assemblea, richiede un ciclo completo: chiediamo con la preghiera, riceviamo attraverso la Parola, e offriamo, sotto forme diverse, ciò che è gradito al nostro divino Donatore.
Offrire le primizie all’Eterno (Deuteronomio 26:1-10)
Le disposizioni divine date agli Israeliti prevedevano che fossero messe da parte, per l’Eterno, delle primizie dei prodotti della loro terra. Trasferita sul piano spirituale, questa disposizione conserva per noi tutto il suo valore. L’apostolo Paolo, scrivendo ai Colossesi, insiste sul primo posto che Dio ha dato a Cristo, e questo in “ogni cosa” (1:18). Questo versetto dovrebbe toccare i nostri cuori e orientare le nostre scelte e le nostre priorità in tutti i campi della vita. Una tale disposizione di cuore – che non ha niente di faticoso, anche se comporta delle rinunce – ci porta a mettere da parte per Lui le primizie, il meglio della nostra esistenza. Si tratta della Sua gloria fra i Suoi, della nostra prosperità spirituale, della nostra benedizione. In questo modo possiamo “piacergli in ogni cosa”, camminare con Lui, davanti a Lui e per Lui.
Parlando dei credenti della Macedonia, l’apostolo Paolo scrive che “prima hanno dato se stessi al Signore”. Con gioia, nonostante la loro grande povertà, si sono mossi spontaneamente, abbondando nella ricchezza della loro liberalità (2 Corinzi 8:1-5). La Sulamita, parlando di tutti i frutti squisiti, nuovi e vecchi, poteva esclamare: “Li ho serbati per te, amico mio” (Cantico dei cantici 7:14). Che il nostro desiderio sia di mettere al Suo servizio i nostri giorni, i nostri beni, i nostri corpi, i nostri cuori!
Come offrire? e chi può offrire? (1 Cronache 29)
Dare a Dio, offrire al Signore, è un privilegio accordato ai credenti. Davide comprendeva questo favore, quando diceva: “Perché chi sono io e chi è il mio popolo, che siamo in grado di offrirti volonterosamente così tanto? Poiché tutto viene da te: e noi ti abbiamo dato quello che dalla tua mano abbiamo ricevuto” (1 Cronache 29:14). Per il profondo attaccamento al suo Dio, ha consacrato ogni sua forza ed ogni interesse a preparare in abbondanza i materiali preziosi destinati alla casa dell’Eterno. Facendolo, egli considerava una vera grazia il fatto di poter offrire qualcosa a Dio, per la Sua casa. Sottolineiamo alcune espressioni, significative e incoraggianti, di questo capitolo: l’offerta è stata “preparata”, è un atto “volontario”, è il frutto di un cuore perfetto e giusto, di cui il popolo si rallegra, e il re ne gioisce.
Allora, bisogna essere ricchi per offrire? No di certo. Molti passi ci mostrano l’apprezzamento del Signore per quelli che, pur essendo poveri, hanno voluto offrire qualcosa. Abbiamo già ricordato l’esempio dei Macedoni che, nonostante la loro assoluta povertà, hanno dimostrato una grande liberalità. L’offerta della povera vedova che ha gettato due spiccioli nel tesoro del tempio, dando “tutto quanto aveva per vivere”, non è passata inosservata agli occhi di Colui che conosce i cuori. La sua ricompensa sarà grande (Marco 12:41-44; Luca 21:1-4). Quello che conta per il Signore non è l’importanza del dono, ma lo stato del cuore di chi lo fa. Davide ne era cosciente; portando all’Eterno l’abbondanza dei doni preparati per la casa che lui non poteva costruire (ma che avrebbe poi costruito suo figlio Salomone), dichiara: “Io so, o mio Dio, che tu scruti il cuore e ti compiaci della rettitudine” (1 Cronache 29:17).
Durante la preparazione del tabernacolo, in Esodo 35, si pone un’attenzione particolare sulla disposizione dei cuori, sullo spirito liberale. L’invito ad offrire a Dio si rivolge a ciascuno in particolare, nella misura e sotto la forma di un esercizio di fede e di dipendenza. Giosia, re fedele di Giuda, invitò i sacerdoti a raccogliere ciò che ognuno aveva deciso in cuor suo di portare alla casa dell’Eterno, per restaurarla (2 Cronache 34:8). Il dono non dev’essere forzato: “Dia ciascuno come ha deliberato in cuor suo; non di mala voglia, né per forza, perché Dio ama un donatore gioioso” (2 Corinzi 9:7).
Offrire per la casa di Dio
Nel corso delle successive realizzazioni della casa di Dio nell’Antico Testamento, cioè sotto la legge, la Scrittura sottolinea lo zelo di chi vi ha collaborato con offerte di vario genere. Quei doni materiali dimostravano il valore che aveva, per ognuno di loro, la presenza divina in mezzo al Suo popolo. A questo riguardo, il cap. 35 dell’Esodo dimostra uno zelo e una sollecitudine che ci sorprendono. Ogni lettore può notare che il verbo “portare” è ripetuto dieci volte. Molti insegnamenti di questo capitolo conservano tutto il loro valore anche per noi oggi.
– Per prima cosa: che tipo di oro è stato usato per l’Eterno, per la Sua casa? Di certo non quello che era stato usato per il vitello d’oro! Quello era stato bruciato, ridotto in polvere e sparso nell’acqua (32:20). Ciò che mettiamo al servizio della carne o del mondo, sia in tempo sia in energia, per soddisfare dei desideri, non potrà più essere messo al servizio del Signore. In seguito, rimpiangeremo la perdita spirituale che abbiamo subita, ma il tempo passa e non torna. Giacobbe lo ha realizzato con dolore, quando ha confessato che i suoi giorni erano stati “pochi e travagliati” (Genesi 47:9). Inoltre, c’è un tempo per lavorare, ma anche un momento in cui il servizio termina (Esodo 36:4-7). C’è un tempo per ogni cosa, dice l’Ecclesiaste: non lasciamolo passare inutilmente.
– In secondo luogo, leggiamo: “Prelevate da quello che avete un’offerta al Signore” (35:5). Davide ha detto a Ornan, a proposito dell’aia sulla quale stava per costruire l’altare: “Dammi il terreno di quest’aia… dammelo per tutto il prezzo che vale… poiché io non offrirò al Signore ciò che è tuo, né offrirò un olocausto che non mi costi nulla” (1 Cronache 21:22-24). Mettere da parte per il Signore ciò che ci costa, rinunciare alle cose del mondo per rimanere fedele, per onorare Colui del quale siamo testimoni, comporta delle scelte. Notiamo che è più facile aprire il nostro portafogli piuttosto che pagare di persona, rinunciando ai nostri agi. Troncare i legami che tengono ancora il nostro cuore stretto alle cose che non ci giovano spiritualmente sarà tanto più difficile quanto più quei legami saranno stretti. Eppure questo è il prezzo dell’approvazione del Signore e della benedizione che l’accompagna. Siamo pronti a rinunciare a qualcosa per il Signore? Egli saprà ricompensare riccamente quello, anche se poco, che avremo fatto per Lui (Matteo 25:21-23).
– In terzo luogo, in questo capitolo troviamo ripetuta la frase: “Tutti quelli che il proprio cuore spingeva, e tutti quelli che il proprio spirito rendeva volonterosi” (v. 21 ecc.). Da questo capitolo, che si potrebbe intitolare “L’offerta del cuore”, esala un profumo che ci ricorda quello dell’inizio del libro degli Atti. Nei primi giorni del cristianesimo, i credenti avevano tutto in comune, vendevano le loro proprietà e distribuivano il ricavato fra tutti, secondo il bisogno (Atti 2:45). L’apostolo Paolo ci insegna che “chi semina liberalmente mieterà altresì liberalmente” (2 Corinzi 9:6).
– In quarto luogo: che cosa si portava? Quello che l’Eterno aveva ordinato, nient’altro! Ogni offerta era prescritta da Dio stesso (v. 5-9). Non basta attivarsi e offrire generosamente, ma bisogna essere ubbidienti. Questa ubbidienza degl’Israeliti, attestata nei capitoli 39 e 40 dell’Esodo, dove, per diciotto volte, è ripetuto che fecero quelle cose “secondo tutto quello che il Signore aveva ordinato a Mosè”, condizionava la discesa della nuvola, la presenza della gloria dell’Eterno nella Sua casa. Nello stesso modo oggi, la presenza del Signore in mezzo ai Suoi, radunati nel Suo nome, implica il rispetto dei Suoi diritti su noi e sulla Sua casa. Una riunione che si svolge secondo i pensieri dell’uomo può contare sulla Sua presenza?
Leggiamo poi anche che tutti quelli che avevano qualche cosa di utile per la casa di Dio lo portavano (v. 23). Com’è triste non aver nulla da offrire a Dio, per la Sua casa! Il legname, che gli uomini tornati dalla cattività babilonese hanno usato per rivestire le loro case, non lo si è potuto usare per la casa dell’Eterno (Aggeo 1:4, 7-9).
È scritto che anche le donne collaboravano, nelle loro tende, ad abbellire la casa di Dio, filando con intelligenza e devozione i paramenti e i tappeti, e contribuendo così alla testimonianza visibile della casa di Dio. Questo ci dice che c’è uno stretto legame fra le nostre case e la casa di Dio, nella quale si trova la qualità di ciò che è “tessuto” in ognuna delle nostre famiglie.
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