Santificazione e consacrazione

Articolo tratto dal mensile IL MESSAGGERO CRISTIANO del 01-2006

di Ferruccio Cucchi

I concetti di santificazione e consacrazione sono strettamente correlati, nel senso che non è possibile che il credente si consacri a Dio per servirlo senza aver realizzato la sua posizione di santificato. Ecco perché i due argomenti verranno trattati insieme, pur distinguendone le caratteristiche.

Chi è santo?

Santo significa separato da ogni contaminazione, da ogni male. Essere puri, dunque.

In molti passi del Nuovo Testamento (almeno una sessantina), i credenti in Cristo sono chiamati “santi”; questi passi non si riferiscono soltanto ad alcuni, a una sorta di élite, ma alla generalità dei credenti.

Il credente è stato santificato, vale a dire è stato fatto santo; non è santo in se stesso, perché la sua natura (di peccato) è uguale a quella di tutti gli uomini, ma lo è diventato. Infatti l’apostolo Paolo, scrivendo “alla chiesa di Dio che è in Corinto”, si indirizzava “ai santificati in Cristo Gesù, chiamati santi” (1 Corinzi 1:2). L’autore di questa santificazione è dunque Gesù Cristo: “Gesù Cristo da Dio è stato fatto per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione”.

L’opera di santificazione di colui che crede è uno degli aspetti e degli scopi dell’opera della salvezza che Gesù Cristo ha compiuto morendo sulla croce. Infatti l’autore della Lettera agli Ebrei così si esprime: “Noi siamo stati santificati mediante l’offerta del corpo di Gesù Cristo fatta una volta per sempre”; e più avanti afferma che il Signore soffrì “per santificare il popolo con il proprio sangue” (Ebrei 10:10; 13:12). E l’apostolo Paolo afferma che Dio “ci ha eletti” in Cristo “perché fossimo santi e irreprensibili” (Efesini 1:4)

Anche lo Spirito Santo ha agito per la santificazione del credente, perché nella 1ª Lettera ai Corinzi già citata, al cap. 6 versetto 11, leggiamo: “Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e mediante lo Spirito del nostro Dio“.

I veri credenti, per mezzo della fede, hanno afferrato, ciascuno per sé personalmente, tutto il valore e la portata dell’opera di Cristo alla croce. Per mezzo di essa, Dio li ha messi in una posizione di santità, e ha dato loro anche la capacità di fare il bene anziché il male perché “la sua potenza divina” li ha fatti diventare “partecipi della natura divina” (2 Pietro 1:3-4).

Che cosa chiede Dio a quelli che ha santificato?

Dio richiede che vivano la loro vita nuova di figli suoi, “nati di nuovo”, tenendosi lontano dal male. La separazione pratica dal peccato, alla quale prima di credere al Signore non aspiravano neppure, ora la possono realizzare, perché “quelli che credono nel suo nome sono nati da Dio” (Giovanni 1:13), diventano figli di Dio (Giovanni 1:12), e “chiunque è nato da Dio non persiste nel peccare” (1 Giovanni 3:9; 5:18). Dio quindi, per mezzo del suo Spirito, fa dire all’apostolo Pietro: “Come figli ubbidienti, non conformatevi alle passioni del tempo passato, quando eravate nell’ignoranza; ma come Colui che vi ha chiamati è santo, anche voi siate santi in tutta la vostra condotta, poiché sta scritto: Siate santi, perché io sono santo” (1 Pietro 1:15-16).

Questa condotta santa si dovrà manifestare almeno in due modi:

astenendosi dalla fornicazione, cioè dalle relazioni sessuali al di fuori della sfera matrimoniale: “Questa è la volontà di Dio: che vi santifichiate, che vi asteniate dalla fornicazione, che ciascuno di voi sappia possedere il proprio corpo in santità e onore, senza abbandonarsi a passioni disordinate” (1 Tessalonicesi 4: 3-5);

– praticando la giustizia e l’onestà nei nostri rapporti con gli altri, sia increduli che fratelli in fede:

“Come già prestaste le vostre membra a servizio dell’impurità… così prestate ora le vostre membra a servizio della giustizia per la santificazione” (Romani 6:19).

“Che nessuno opprima il fratello né lo sfrutti negli affari… Infatti Dio ci ha chiamati non a impurità, ma a santificazione” (1 Tessalonicesi 4: 6-7).

Non pensiamo che la santificazione riguardi soltanto il nostro corpo; no, essa riguarda tutto il nostro essere: spirito, anima e corpo. “Il Dio della pace vi santifichi egli stesso completamente; e l’intero essere vostro, lo spirito, l’anima e il corpo, sia conservato irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo” (1 Tessalonicesi 5:23).

Conservare irreprensibile il nostro essere dipende da noi:

– il nostro spirito, che comprende le nostre capacità intellettuali ed è quella parte di noi che è in relazione con Dio, potrebbe essere contaminato, oltre che da persone che hanno contatto con il mondo dell’occulto, anche da frequentazioni di ambienti (forse anche di tipo religioso) dove la Persona e l’opera del Signore sono attaccate da “falsi dottori” che introducono “eresie di perdizione” (2 Pietro 2:3);

– la nostra anima, che è la sede degli affetti e dei sentimenti, potrebbe essere contaminata da letture equivoche, spettacoli e ambienti mondani, che la distoglierebbero dall’onorare il Signore e lo porterebbero ad “amare il mondo e le cose che sono nel mondo”: “la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita” (1 Giovanni 2:15-16); e “la concupiscenza, quando ha concepito, produce il peccato” (Giacomo 1:15).

Il problema del peccato di un credente

“Chiunque è nato da Dio non persiste nel peccare”, abbiamo letto (1 Giovanni 5:18 – una traduzione più letterale è ancora più categorica: “chiunque è nato da Dio non pecca”). Peraltro, lo stesso autore aveva appena scritto, rivolgendosi a dei credenti: “Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi” (1:8). Il peccato non domina più la vita del credente, ma è possibile che anche il credente, se non veglia, cada nel peccato. E in questo caso deprecabile, cosa succede? Il credente perde la vita eterna?

Certamente no. “Se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto” (1 Giovanni 2:1); perciò egli non perde la sua posizione di figlio di Dio. Però il credente che cade nel peccato, e per tutto il tempo che il fatto permane, perde la comunione con Dio Padre. Questa interruzione delle sue relazioni filiali con Lui può avere delle conseguenze anche molto dolorose: è possibile che il Padre lo metta sotto la sua disciplina per indurlo a ravvedersi, e preveda per lui un castigo (per esempio: malattia, rovescio finanziario), che in qualche caso particolarmente grave può anche arrivare alla morte fisica.

Ecco quindi l’urgenza da parte del figlio di confessare il suo peccato al Padre; e il Padre, sulla base del valore eterno del sacrificio di Cristo che ha cancellato i peccati del passato, del presente e del futuro di chi ha creduto, lo perdona. Infatti, “se confessiamo i nostri peccati, egli (Dio) è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità” (1 Giovanni 1:9). Il processo di santificazione aveva subito un’interruzione, ora può riprendere. Anzi, deve andare oltre e arrivare alla consacrazione.

Che cosa s’intende per “consacrazione”?

Significa mettere a parte una persona o un oggetto per offrirla a Dio.

Un esempio di consacrazione lo vediamo nel nazireato. (Numeri 6:2-8), che ci insegna che la consacrazione a Dio per dedicarsi al suo servizio comporta la rinuncia a godere delle gioie e dell’onore che questo mondo incredulo e corrotto offre, e l’attenzione ad evitare ogni contatto col male. Sono principi validi tuttora. Non possiamo servire il Signore e nello stesso tempo servire Satana: “nessun domestico può servire due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro, o avrà riguardo per l’uno e disprezzo per l’altro” (Giovanni 16:13)

Però il nazireato è un esempio che ci dà degli insegnamenti di carattere generale, non un modello a cui il credente in Cristo deve conformarsi, tanto meno ai suoi rituali. Nel Nuovo Testamento non troviamo più la nozione di “voto”, tanto meno se limitato nel tempo; troviamo invece un insegnamento di più vasto respiro: “Cristo morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per sé stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (2 Corinzi 5:6).

Vivere per il Signore

Non è un impegno limitato nel tempo, ma per tutta la vita. Non è una costrizione, un obbligo che si deve per forza rispettare, ma un privilegio. Non comporta neppure un isolamento dal contesto nel quale si vive normalmente (la famiglia, il lavoro ecc.), ma si tratta di servire Lui proprio nella nostra vita di tutti i giorni. Siamo chiamati, anche nelle nostre attività quotidiane, ad avere in vista il Signore, ad agire non soltanto “nel nome del Signore Gesù”, fatto che mette l’accento sulla nostra responsabilità, ma “come per il Signore”, che per noi è un privilegio  (Colossesi 3:17, 23).

Certo, Dio può chiamare qualcuno che ha dotato di un dono particolare a servirlo in maniera esclusiva, per una destinazione e uno scopo specifici (ad esempio, i missionari destinati a Paesi lontani), ma il Signore chiede a tutti noi credenti di consacrare a Lui la nostra vita, di vivere per Lui.

Il credente che vive separato dal male non si accontenterà di questo. Al posto del male, farà il bene; realizza quello diceva l’apostolo Paolo: “Aborrite il male e attenetevi fermamente al bene“; “non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Romani 12:9, 21). La vita del credente non è una vita ascetica, contemplativa, è una vita attiva; non vive nell’isolamento; non è del mondo, e quindi non ne persegue gli scopi e non ne condivide i valori, ma è nel mondo (Giovanni 17: 14, 18), ed è nel mondo che è chiamato a vivere per Colui che è morto e risuscitato per lui.

Lo Spirito Santo ha avuto cura di segnalarci alcune cose che Dio gradisce ricevere in sacrificio da parte dei suoi riscattati:

La lode: “Per mezzo di Gesù, offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome” (Ebrei 13:15). Continuamente, non soltanto per un’ora alla settimana, nel primo giorno, quando ci ritroviamo insieme agli altri fratelli in fede per questo scopo.

I nostri beni: “Non dimenticate di esercitare la beneficenza e di mettere in comune ciò che avete; perché è di tali sacrifici che Dio si compiace” (Ebrei 13:16). Ecco un modo concreto di fare il bene: “finché ne abbiamo l’opportunità, facciamo del bene a tutti; ma specialmente ai fratelli in fede” (Galati 6:10). Non esclusivamente ai fratelli in fede, ma specialmente. Il campo è molto vasto.

I nostri corpi. “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio” (Romani 12:1). Questo sacrificio, oltre che “vivente”, è “santo”, puro, a conferma di quanto abbiamo detto prima. Nel nostro corpo, che “non è per la fornicazione, ma è per il Signore” (1 Corinzi 6:13), ci sono i piedi coi quali camminiamo, ci muoviamo; le mani con le quali agiamo; la bocca con la quale parliamo, comunichiamo; gli occhi con i quali guardiamo, vediamo; le orecchie con le quali ascoltiamo, e così via. La “gestione” delle varie membra del nostro corpo dipende da noi. Facciamolo agire in favore di tutti, santi e increduli, alla gloria di Colui che è morto e risuscitato per noi.

Il Signore ci aiuti a mettere in pratica le esortazione che lo Spirito Santo ci dà per mezzo dell’apostolo Paolo:

“Esaminate ogni cosa, e ritenete il bene; astenetevi da ogni specie di male” (1 Tessalonicesi 5:21).

“Quanto a voi, fratelli, non vi stancate di fare il bene” (2 Tessalonicesi 3:13).

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