Riflessi della vita di Giuseppe

Riflessi della vita di Giuseppe

Serie di articoli dello stesso autore sulla vita di Giuseppe

I rami che si stendono sopra il muro

di Cesare Casarotta

Articolo tratto dal mensile IL MESSAGGERO CRISTIANO del 07-2009

Nel cap. 49 della Genesi, dove Giacobbe esprime profeticamente quello che sarebbe stato l’avvenire dei suoi figli, vi sono delle belle parole riferite a Giuseppe; di Lui il padre può dire: “Giuseppe è un albero fruttifero; un albero fruttifero vicino a una sorgente; i suoi rami si stendono sopra il muro (o più esattamente: al di là del muro)” (Genesi 49:22). Pensando a Giuseppe come ad una bella figura del Signore Gesù quando era sulla terra, possiamo pensare che durante la sua vita Egli sia stato davvero un albero fruttifero piantato vicino a una sorgente; il suo cibo era di fare la volontà di Dio e portare del frutto alla sua gloria. I suoi rami si sono davvero estesi sopra il muro. Vi era un muro che ci separava da Dio e con la sua opera questo è stato superato; vi era un muro di separazione tra Giudei e Gentili, e Lui, sempre per mezzo della sua opera, lo ha abbattuto, e dei due popoli ne ha fatto uno.

Se pensiamo a Giuseppe come ad un credente che in una reale comunione con Dio cresce e porta frutto, le parole di Giacobbe le possiamo applicare a noi e trarne degli insegnamenti.

Normalmente, un muro rappresenta un ostacolo per la crescita di un albero; se l’albero è debole, non radicato, c’è il rischio che il suo sviluppo sia interrotto o deviato; se invece l’albero ha radici profonde riesce a crescere e ad andare oltre il muro. A volte, alberi secolari riescono a fare delle crepe persino nei muri in cemento.

Da un certo punto di vista, la vita di Giuseppe è stata un susseguirsi di “muri”, o prove, nelle quali ha sempre dimostrato di rimanere vicino alla sorgente.

Eccone alcuni.

I muri della cisterna  (Genesi 37:12-28)

In questa situazione Giuseppe ha dovuto affrontare un rifiuto totale da  parte dei suoi fratelli; si è dovuto rendere conto di non essere per niente accettato dalla propria famiglia, e finì per essere venduto come schiavo. Che cosa difficile da mandare giù, da superare, quando capita di avere rapporti turbolenti coi propri familiari, magari senza avere fatto nulla di male. Anche se la Bibbia non entra in dettagli specifici, sicuramente in quei momenti Giuseppe avrà provato dell’angoscia profonda. Al cap. 42 v. 23 scopriamo, per bocca del suo fratello maggiore Ruben, cosa  videro i suoi fratelli: “Vedemmo la sua angoscia quando egli ci supplicava, ma non gli demmo ascolto”. Qualcuno può aver provato delle sensazioni di aridità, di amarezza, di angoscia simili a quelle di Giuseppe; può essersi trovato come in una cisterna senz’acqua, quando l’unica risorsa è fortificarsi nel Signore che darà quanto necessario per superare l’ostacolo. Per bocca di Isaia, Dio dice: “Anche se le madri dimenticassero, non io dimenticherò te” (49:15). Che potente incoraggiamento! Ma tanto più, che motivo di gioia e di riconoscenza verso il Signore dovrebbe avere chi invece, nella propria vita, ha potuto godere le cure, gli incoraggiamenti, l’influenza positiva di una famiglia cristiana.

I muri della casa di Potifar (Genesi 39:1-20)

Da schiavo a maggiordomo di un ufficiale del Faraone, la situazione di Giuseppe si stava raddrizzando. Tutto quello che intraprendeva gli riusciva bene; agli occhi umani poteva sembrare caso, una fatalità, ma la Parola ci afferma che c’era la mano di Dio dietro tutto ciò, e sono convinto che Giuseppe ne fosse consapevole, così come lo era il suo padrone (39:3). Ma in questa situazione positiva ecco subito una prova: le attenzioni ossessive della moglie del suo padrone.

Quante scusanti avrebbe avuto Giuseppe! Giovane, inesperto, lontano da una famiglia che lo aveva rifiutato, in un paese idolatra. Ma come si comporta di fronte alla tentazione: rifiuta (v. 8), non accondiscende (v. 10), fugge (v. 12). Il suo obiettivo principale era quello di non disonorare Dio, di non peccare contro di Lui. Giuseppe avrebbe potuto rimanere “imbrigliato” dal muro della seduzione, ma è riuscito a fuggire a superare l’ostacolo posto sul suo cammino. Il segreto per ottenere la vittoria è rimanere vicino alla Sorgente; solo così si avrà una chiara visione dei pensieri di Dio. “Fuggi le passioni giovanili e ricerca la giustizia, la fede…” (2 Timoteo 2:22). Sicuramente questa scelta risoluta di Giuseppe ha glorificato Dio; lui era consapevole che il suo errore sarebbe stato un peccato contro Dio, qualcosa che avrebbe disonorato quel Dio che aveva imparato a conoscere. Questo comportamento ci insegna che, quando commettiamo un peccato, offendiamo direttamente Dio, la sua persona, la sua gloria. Giuseppe dice alla moglie di Potifar: “Come potrei fare questo gran male e peccare contro Dio?” Il salmista poteva dire: “Ho conservato la tua Parola nel mio cuore per non peccare contro di te” (Salmo 119:11). E’ ciò che ha fatto Giuseppe. Chiediamo al Signore di poter imitare un tale esempio, in modo da non lasciarci “avvolgere dal peccato”, ma di andare oltre l’ostacolo e rimanere vicini alla Sorgente.

I muri della prigione (Genesi 39:21-23; 40; 41)

Essere puniti per un male che non si è commesso è profondamente ingiusto. E che punizione ha subito Giuseppe! Un carcere sotterraneo (39:21) non era certo confortevole come quelli moderni. Ma anche in questo caso Giuseppe ha potuto sperimentare che Dio era con lui e che, anche in quella situazione, faceva prosperare tutto ciò che intraprendeva. Quello che mi colpisce particolarmente di questa vicenda è la capacità di Giuseppe di interessarsi dei problemi degli altri, in un momento nel quale per lui sembrava non esserci via d’uscita. Una notte, il coppiere e il panettiere, carcerati con lui, fanno un sogno che li turba; Giuseppe comprende subito che sono turbati (40:6), e domanda loro: “Perché oggi avete il viso così triste?” (40:7).

Quando siamo colpiti da una circostanza difficile, siamo talmente presi da ciò che ci sta accadendo, che risulta pressoché impossibile interessarsi dei problemi altrui, ancor meno di essere di aiuto.

La storia di Giuseppe ci fa vedere che tutto ciò è possibile se la pace di Dio è nei nostri cuori e se sappiamo accettare con sottomissione le circostanze per le quali il Signore vuole farci passare. E’ vero che nel momento della sofferenza possiamo capire meglio chi sta soffrendo come noi. L’apostolo Paolo poteva dire: “Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore  Gesù Cristo, il Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione” (2 Corinzi 1:3-4). Questa capacità e questa forza vengono da Dio, non da una sorta di stoicismo.

Le interpretazioni che Giuseppe dà ai sogni dei suoi compagni di prigione sono una positiva e l’altra negativa. Giuseppe chiede al coppiere, che sarebbe tornato in libertà, di ricordarsi di lui; certamente si aspettava una riconoscenza immediata, ma purtroppo non fu così. Dovettero passare altri due anni prima che il coppiere si ricordasse di “quel giovane ebreo”.

Questa è un’altra lezione per noi: “la pazienza nell’afflizione”. Al momento opportuno Dio ha saputo creare le circostanze, per mezzo delle quali il suo servo è passato da carcerato a viceré di Egitto. “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie, dice il Signore” (Isaia 55:8). Raccontando la storia di Giuseppe, Stefano ha potuto dire che “Dio era con lui e lo liberò da ogni sua tribolazione” (Atti 7:10). Camminando con fedeltà e “dimorando in lui”, Dio ci darà la forza di superare anche il muro di una prova così dura, ingiusta e umiliante.

I muri della casa di Faraone  (Genesi 41)

Passano circa due anni; anni di pazienza e di sottomissione. Ma arriva l’occasione preparata da Dio attraverso la quale Giuseppe viene liberato dai muri della prigione. Faraone fa un sogno che nessuno riesce a spiegare, e il coppiere che era stato in carcere con Giuseppe si ricorda di lui, e Giuseppe è fatto chiamare.

E’ molto istruttivo per tutti noi notare come Giuseppe faccia subito professione di umiltà dichiarando al Faraone: “Non sono io, ma sarà Dio che darà al Faraone una risposte favorevole”.

L’interpretazione del sogno apre a Giuseppe le porte del potere, quasi smisurato; il Faraone arriva a dire: “Tu avrai autorità su tutta la mia casa e tutto il popolo ubbidirà ai tuoi ordini; per il trono soltanto io sarò più grande di te”; e ancora: “Io ti do potere su tutto il paese d’Egitto” (v. 40-41).

Quando le cose vanno bene, quando il successo fa salire i gradini della scala sociale, non solo per l’incredulo, ma anche per il credente è facile cadere nell’orgoglio, nell’idea che tutto sia per nostro merito, come se Dio non c’entrasse nulla con la nostra vita. Come facciamo presto a dimenticare tutti i benefici che abbiamo ricevuto dalla sua mano! Per Giuseppe non è stato così. Aveva trent’anni ed era nel pieno della vita, delle proprie capacità psico-fisiche, ma ha sempre continuato a vivere vicino al suo Dio.

La casa del potere poteva diventare per Giuseppe un laccio veramente pericoloso. E’ a questo punto della sua vita che si trova di nuovo di fronte i propri fratelli, gli stessi che lo avevano venduto per un prezzo inferiore a quello di uno schiavo; ma questa volta, diremmo noi, aveva “il coltello dalla parte del manico”. Egli avrebbe potuto far prevalere sentimenti di rivalsa, di vendetta, e invece ha messo in pratica le esortazioni contenute ad esempio nella Lettera agli Efesini (4:31-32): “Via da voi ogni amarezza, ogni cruccio e ira e clamore e parola offensiva con ogni sorta di cattiveria! Siate invece benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda come anche Dio vi ha perdonati in Cristo”. Che il Signore ci aiuti, per mezzo della sua Parola che deve abitare in noi riccamente, a superare anche i muri dell’orgoglio, del rancore e della vendetta.

Giuseppe ha mantenuto questo comportamento fino alla fine della sua vita, anche quando i suoi fratelli pensavano, senza motivo, che egli avrebbe cambiato atteggiamento nei loro confronti. Ma egli ha potuto dire: “‘Non temete. Io provvederò al sostentamento per voi e i vostri figli’. Così li confortò e parlò al loro cuore” (50:21).

Considerando la vita di Giuseppe, dalla giovinezza fino alla maturità, possiamo veramente dire che è stato come “un albero piantato vicino a ruscelli, il quale dà il suo frutto nella sua stagione e il cui fogliame non appassisce” (Salmo 1:3). Come scrive Geremia: “Non si accorge quando viene la calura e il suo fogliame rimane verde; nell’anno della siccità non è in affanno e non cessa di portar frutto”. Giuseppe ha saputo portare frutto per Dio in ogni stagione della propria vita, anche quando è arrivata la siccità e la calura.

Imitiamo questo esempio e chiediamo aiuto al Signore per portare del frutto ad ogni età della nostra vita e in ogni circostanza, e perché i nostri rami si stendano sempre “al di là del muro”.

 

 

E se finisse tutto qui? Lezioni da Genesi 40

di Cesare Casarotta

Articolo tratto dal mensile IL MESSAGGERO CRISTIANO del 01-2016

Molte volte quando affrontiamo storie come quella di Giuseppe, che conosciamo fin dall’infanzia, sembra quasi che non ci sia più nulla da dire. Forse valutiamo anche le circostanze difficili incontrate dal personaggio avendo la prospettiva del lieto fine che già conosciamo.

Proviamo per un attimo ad isolare alcuni fatti con l’aiuto della suddivisione in capitoli.

Se prendiamo, ad esempio, il cap. 40 della Genesi, troviamo Giuseppe già in prigione a causa della falsa accusa della moglie di Potifar, e alla fine del capitolo è ancora in prigione. Cos’è cambiato nella sua vita? Nulla.

Si può affermare che Giuseppe fosse in una fase che potremmo definire “di attesa”. Credo che la Parola di Dio non ci riveli con esattezza quale fosse l’entità della pena che doveva scontare. Era un detenuto, e forse la sua permanenza in quella prigione era a scadenza indeterminata e la sua liberazione legata a tutta una serie di circostanze che in buona parte non dipendevano da lui. Giuseppe era in attesa che accadesse qualcosa, che un avvenimento cambiasse la sua situazione. Aspettava di uscire dalla prigione e attendeva che Dio intervenisse nella sua vita. Giuseppe era in attesa. Tutti noi dobbiamo attendere. Tutti noi siamo in attesa di qualcosa o qualcuno, tutti noi abbiamo delle aspettative.

Per molti di noi, e per me sicuramente, l’attesa è uno dei lati che ci piace meno della vita, ma è una parte che caratterizza una percentuale non trascurabile della nostra esistenza, dalle cose grandi ai dettagli. Qualche esempio?

Quando siamo giovani attendiamo di terminare gli studi e in questa fase ogni esame da sostenere comporta un’attesa; e quando abbiamo sostenuto un esame, aspettiamo per sapere se è stato superato.

Poi attendiamo di trovare un lavoro, aspettiamo che qualcuno ci chiami per un colloquio e poi attendiamo di sapere com’è andato.

Attendiamo di sapere se Dio nei Suoi piani ci concederà di formare una famiglia, e con quale persona Dio desidera che questo avvenga.

Quando poi ci sposiamo, attendiamo di capire se Dio ci darà dei figli, e se il concepimento avviene ci sono nove mesi di attesa, prima che possiamo abbracciarli.

Cos’è di noi nei momenti di attesa? Confidiamo in Dio e lasciamo che Lui ci indichi la via? Dimostriamo dipendenza in preghiera? Gli diamo fiducia incondizionata? Oppure dimostriamo ansia, impazienza, denotando poca fede e poi, quando ci è possibile, se le circostanze non vanno come noi auspichiamo, cerchiamo di prendere in mano la situazione e di cambiare le cose?

La prigione è stata una scuola per insegnare a Giuseppe ad essere dipendente da Dio ed è stata un continuo test della sua fede. Nella storia di Giuseppe c’è però qualcosa di più profondo.

Finora abbiamo parlato di attese che definiremmo “normali”, fisiologiche, ma l’attesa di Giuseppe era senza senso, era un’attesa alla quale era difficile trovare una spiegazione logica; ed era anche incomprensibile da un punto di vista spirituale. Perché si trovava in quella prigione?

Quando svolgevo il servizio militare, facevo l’autista del comandante e dovevo accompagnarlo in tutte le sue uscite. Arrivati al luogo dove lui doveva essere presente, io restavo in macchina ad aspettare. Ricordo in particolare che in alcune circostanze, quando vi erano delle riunioni di tipo militare, non conoscevo né l’oggetto della discussione, né quanto sarebbe durata. Potevo fare solo una cosa: aspettare e tenere la radio accesa per sapere se il comandante avesse avuto bisogno di qualcosa. Se qualcuno mi avesse chiesto perché mi trovavo in quel luogo e quanto tempo dovessi rimanerci, non avrei saputo cosa rispondere.

Noi tutti viviamo dei momenti in cui non sappiamo dare una risposta al perché ci troviamo ad attraversare determinate circostanze. Momenti in cui nulla sembra avere senso. Vi sono cose difficili che magari arrivano improvvisamente, sconvolgono la nostra vita e non sappiamo quanto dureranno né se si risolveranno; e non le possiamo cambiare. Possiamo anche avere una buona coscienza, essere consapevoli che non ci troviamo a subire le conseguenze della disciplina paterna di Dio per errori commessi. Forse potremmo affermare, come Giuseppe, “non ho fatto nulla per essere messo in questo sotterraneo” (v. 15); e potremmo sentirci confusi, frastornati, scoraggiati. Perché Dio permette questo nella mia vita? Perché non interviene? Perché non c’è una soluzione? Perché questa prova non finisce?.. E non possiamo fare altro che aspettare!

Cosa fare in questa attesa? Dobbiamo essere pronti. A cosa? Ad essere utili agli altri. Nella storia di Giuseppe vi erano due uomini con lui in prigione: il coppiere e il panettiere. Persone turbate (v. 6), tristi (v. 7). Quando attraversiamo circostanze difficili ci possono essere diverse persone che ci passano accanto e forse, se non avessimo attraversato quelle esperienze, non avremmo mai incontrato quelle persone. Giuseppe si è occupato dei due carcerati. Ha dato una risposta ai bisogni del loro cuore, secondo il pensiero di Dio. Giuseppe era pronto a servire, era pronto a portare anime a Dio.

Credo ci sia una grande lezione per tutti noi. Dio può utilizzare le circostanze della nostra vita, che ci sembrano le peggiori da un punto di vista umano, per trarre le cose migliori per la Sua gloria. Giuseppe stava subendo una grande ingiustizia, non sapeva nulla del suo futuro, ma non era quella la sua principale preoccupazione; lui era occupato a servire il suo Dio.

Il desiderio di Giuseppe era di uscire da quella prigione. Per questo dice al coppiere del re: “Ricordati di me quando sarai felice, e sii buono verso di me, ti prego; parla di me al Faraone e fammi uscire da questa casa” (v. 14). Qualcuno potrebbe pensare: Giuseppe, forse per un attimo, ha creduto di avere trovato nel coppiere la soluzione ai suoi problemi. Penso che tutti noi quando attraversiamo delle prove particolari desideriamo che Dio intervenga in qualche modo.

Subito dopo, però, c’è silenzio. Giuseppe è calmo, non ha nessuna frenesia o preoccupazione o ansia. Al suo posto, subito dopo aver parlato al coppiere, io avrei iniziato a pormi tanti interrogativi. “Si ricorderà di me?”, “ e “quando si ricorderà?”, “userà le parole giuste con il Faraone?”, “e il Faraone come reagirà?”.

Il cap. 40 si conclude in un modo sconcertante: “Il gran coppiere però non si ricordò di Giuseppe e lo dimenticò” (v. 23).

Cosa poteva fare Giuseppe a questo punto? Aspettare, e ancora aspettare. Quanto? Giorni? Mesi? No, aspettò anni, almeno 2.

Così, il cap. 40 si conclude, e per lui in sostanza non è cambiato nulla. Quali insegnamenti possiamo trarre da questo episodio?

  • Dipendenza totale da Dio
  • Fedeltà
  • Equilibrio
  • Una fede che brilla
  • Disponibilità a servire Dio anche in circostanze difficili
  • Disponibilità verso gli altri anche quando umanamente saremmo portati ad occuparci solo di noi stessi.

Sono queste alcune delle cose che rimangono e che hanno valore agli occhi di Dio. E’ ciò che Lui desidera dai Suoi quando vi sono delle attese che si prolungano, circostanze che non capiamo e che mettono alla prova la nostra fede.

“Riponi la tua sorte nel SIGNORE, confida in lui, ed egli agirà … Sta’ in silenzio davanti al SIGNORE e aspettalo” (Salmo 37:5-7).

“E tu, quando dici che non lo scorgi, la tua causa gli sta davanti; sappilo aspettare!” (Giobbe 35:14).

 

Manasse ed Efraim (Genesi 41:50-52)

di Cesare Casarotta

Articolo tratto dal mensile IL MESSAGGERO CRISTIANO del 06-2020

Efraim e Manasse sono i nomi dei figli di Giuseppe, il figlio di Giacobbe. Entrambi sono nati in Egitto e il loro nome è denso di significato.

Il primogenito è stato chiamato Manasse. Questo nome letteralmente significa “che fa dimenticare”. Il motivo di questo significato è spiegato da Giuseppe stesso. Alla nascita di suo figlio si è espresso in questi termini: “Dio mi ha fatto dimenticare ogni mio affanno e tutta la casa di mio padre”. Quando è venuto alla luce il secondogenito, Giuseppe gli ha posto nome Efraim il cui significato letterale è: “doppia fecondità”. In questo caso Giuseppe ha potuto esprimersi in questi termini: “Dio mi ha reso fecondo nel paese della mia afflizione”.

Possiamo fare qualche riflessione sul significato di questi nomi e fare delle applicazioni morali per la nostra vita. Il cap. 41 della Genesi specifica che i figli di Giuseppe sono nati “prima che venisse il primo anno di carestia”. In quel momento Giuseppe era già viceré d’Egitto. Sicuramente, per quanto lo riguardava, in riferimento alla sua vita personale la parte più dura era alle spalle. Grazie all’aiuto di Dio era stato elevato ad un rango di assoluto prestigio. Aveva autorità su tutta la casa del faraone, tutto il popolo nel paese d’Egitto avrebbe dovuto ubbidire ai suoi ordini. Soltanto il faraone era più grande di lui. Il sovrano stesso aveva detto esplicitamente a Giuseppe che gli dava potere su tutto il paese d’Egitto. Al suo passaggio “si gridava: «In ginocchio!»” e senza un suo ordine nessuno avrebbe potuto alzare la mano o il piede in tutto il paese.

All’età di trent’anni, quando si trova a questo punto della sua vita, Giuseppe sposa Asenat figlia di Potifera sacerdote di On. Poco dopo nascono i suoi figli i cui nomi ricordano quello che era stato il vissuto di Giuseppe fino a quel momento.

Manasse. Come abbiamo già detto, questo nome indica che Giuseppe aveva dimenticato ogni affanno e tutta la casa di suo padre. Erano state tante le sue sofferenze in particolare per l’odio dei suoi fratelli: era stato invidiato e umiliato, poi gettato in una cisterna, e alla fine venduto come uno schiavo a una carovana di Ismaeliti. Questi successivamente lo avevano trattato come merce di scambio con gli Egiziani. Poi in Egitto quanti pericoli e affanni! Le tentazioni in casa di Potifar, la fuga di fronte alle insistenti proposte della moglie del padrone che lo avrebbero fatto peccare contro Dio; poi la calunnia di quest’ultima, le false accuse di violenza, l’ingiustizia del carcere, e dopo questo, dopo aver fatto del bene al coppiere del re la lunga attesa prima di essere scarcerato.

Quante volte nella nostra vita rimaniamo schiacciati dal peso delle prove, dallo scoraggiamento, dalla delusione! Quante volte siamo condizionati dalla nostra amarezza. Molto spesso tutti questi elementi diventano un freno, un impedimento per la nostra crescita spirituale, per la nostra vita di testimonianza, per il servizio che dobbiamo compiere per Dio, prigionieri come siamo delle nostre esperienze negative, senza riuscire a dimenticare le cose che stanno dietro e a protenderci verso quelle che stanno davanti (Filippesi 3:13).

Ma per Giuseppe non è stato così. Non è rimasto imprigionato dal ricordo del passato, dagli affronti subiti, dall’odio dimostrato dai fratelli, dalle ingiustizie, dall’incomprensibilità delle circostanze, anzi ha potuto affermare che Dio gli aveva fatto dimenticare il passato. Ma cosa vuol dire dimenticare il passato? Giuseppe aveva forse perso la memoria? No, quello che era accaduto, gli avvenimenti che avevano caratterizzato l’allontanamento dalla casa di suo padre e quelli successivi erano ancora ben definiti nella sua mente. Quando incontrerà nuovamente i suoi fratelli è del tutto evidente quanto tutto fosse viva e lucida la rievocazione del passato.

Una delle lezioni più importati che dobbiamo apprendere è che Giuseppe viveva il suo presente in comunione con Dio e il passato difficile non aveva un impatto negativo. Grazie all’aiuto divino aveva potuto continuare il cammino senza essere condizionato da tutto ciò che era stata la sua vita passata. Potremmo dire che questa era la prima condizione perché lui potesse passo dopo passo portare del frutto per Dio. Se avesse lasciato spazio allo scoraggiamento, all’amarezza, a sentimenti di rancore e di recriminazione, non avrebbe potuto glorificare Dio; ma vivendo in stretto contatto con Lui e nella Sua dipendenza ha potuto ricevere la forza e tutte le risorse necessarie per poter vivere con serenità nonostante i dispiaceri e le amarezze.

Efraim. Il nome del secondo figlio di Giuseppe ci fornisce un’ulteriore grande lezione. Dio, non solo può far dimenticare le pene e gli affanni, ma è anche capace di renderci fecondi nel paese dell’afflizione. Per Giuseppe questo è avvenuto quando è stato elevato ad un rango sociale elevato, al fatto di aver potuto formarsi una famiglia, di avere avuto dei figli.  Credo che per lui “essere fecondo” sia stata anche la forza di glorificare Dio nelle circostanze più avverse che ha dovuto affrontare. Dio era sempre al centro dei suoi pensieri. Qualche esempio? “Come potrei fare questo gran male e peccare contro Dio?” (Genesi 39:3). Quando è chiamato dal faraone ad interpretare i sogni: “Non sono io, ma sarà Dio che darà al faraone una risposta favorevole” e poi: “Dio ha indicato”, “Dio ha mostrato”, “vuol dire che la cosa è decretata da Dio e che Dio l’eseguirà presto”.

Se trasportiamo tutto questo in campo spirituale per noi, tutto ciò ha una valenza estremamente profonda. Dio nella Sua grazia può trarre del frutto per la propria gloria nelle circostanze che umanamente per noi appaiono le più sfavorevoli. Là dove, secondo i criteri umani, ci potrebbe essere la disperazione la ribellione, la rabbia, lo scoraggiamento più profondo, se viene dimostrata fede, dipendenza e pazienza si possono portare dei frutti meravigliosi per la gloria di Dio che rimarranno per l’eternità. Sono i frutti portati nel paese dell’afflizione. È la valle di Baca che è trasformata in luogo di fonti da coloro che trovano in Dio la loro forza e che hanno a cuore le vie del santuario (Salmo 84:6). È l’albero piantato vicino all’acqua, che distende le sue radici lungo il fiume; e quando viene la calura, il suo fogliame rimane verde; nell’anno della siccità non è in affanno e non cessa di portare frutto (Geremia 17). Non è in affanno perché Dio ha fatto dimenticare gli affanni. È la fede che, messa alla prova, è motivo di lode, di gloria e di onore al momento della manifestazione di Gesù Cristo (1 Pietro 1:7).

“Egli muta il deserto in lago e la terra arida in fonti d’acqua” (Salmo 107:35).

Proseguiamo il cammino con fiducia e fedeltà nella consapevolezza che Dio può calmare il nostro cuore, fasciare le nostre ferite e farci superare il passato in modo che non diventi un ostacolo per il nostro sviluppo spirituale e per il servizio che dobbiamo svolgere per Dio. Potremo constatare che nelle circostanze che ci appaiono le più tristi, dolorose, alle quali spesso non riusciamo a trovare una spiegazione, Dio ci può rendere fecondi, o meglio “doppiamente fecondi”, capaci di portare quel frutto per la Sua gloria che avrà un premio per l’eternità.

In alcuni casi abbiamo bisogno di azzerare il passato e di ripartire. Se non lo facciamo, le conseguenze saranno negative per noi e per le persone che ci circondano. Ne risentiranno i nostri familiari, le chiese locali e la testimonianza. Abbiamo bisogno di un cuore predisposto al perdono, anche quando le circostanze ci impediscono materialmente di realizzarlo. I fratelli di Giuseppe in quel momento erano lontani, non avevano ancora mostrato alcun segno di pentimento, non vi erano pertanto le condizioni per poterli perdonare; ma in Giuseppe la predisposizione di cuore c’era già e lo dimostrerà quando le circostanze lo renderanno possibile. Alla fine della sua vita, Giacobbe ha potuto dire che Giuseppe era “un albero fruttifero; un albero fruttifero vicino alla sorgente; i suoi rami si estendono sopra il muro. Gli arcieri lo hanno provocato, gli hanno lanciato frecce, lo hanno perseguitato, ma il suo arco è rimasto saldo; le sue braccia e le sue mani sono state rinforzate dalle mani del Potente di Giacobbe, da colui che è il pastore e la roccia d’Israele, dal Dio di tuo padre che ti aiuterà e dall’Altissimo che ti benedirà con benedizioni del cielo di sopra, con benedizione dell’abisso che giace di sotto, con benedizioni delle mammelle e del grembo materno. Le benedizioni di tuo padre sorpassano le benedizioni dei miei progenitori, fino a raggiungere la cima delle colline eterne. Esse saranno sul capo di Giuseppe sulla fronte del principe dei suoi fratelli” (Genesi 49:23-26).

 

L’ultimo muro

di Cesare Casarotta

Articolo tratto dal mensile IL MESSAGGERO CRISTIANO del 10-2015

La vita di Giuseppe è stata costellata da grandi difficoltà, lunghi momenti di prova e pericoli. Sappiamo che Giacobbe nelle sue parole profetiche lo paragona ad “un albero fruttifero vicino a una sorgente; i suoi rami si stendono sopra il muro” (Genesi 49:22). Facendone un’applicazione morale, questo passo può significare che ha dimostrato fede e ha portato del frutto per Dio in ogni circostanza della sua vita.

Guardando alla sua storia credo di poter affermare con certezza che:

– per fede ha servito quando era nella casa di Potifar,

– per fede è fuggito alle tentazioni della moglie di Potifar, per non peccare contro Dio,

– per fede ha sopportato l’ingiustizia della prigione,

– per fede ha perdonato i suoi fratelli,

– per fede ha potuto dire ai suoi fratelli: “Dio mi ha mandato qui prima di voi, perché sia conservato di voi un residuo sulla terra e per salvare la vita a molti scampati” (Genesi 45:7).

Se leggiamo però nel cap. 11 della Lettera agli Ebrei, l’autore della Lettera dice che “per fede Giuseppe, quando stava per morire, fece menzione dell’esodo dei figli d’Israele e diede disposizione circa le sue ossa” (Ebrei 11:22).

Questo brano ci trasporta agli ultimi momenti della vita di quest’uomo di fede.

“Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono” (Ebrei 11:1). La stessa Lettera ci dice: “Ricordatevi dei vostri conduttori, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; e considerando quale sia stata la fine della loro vita, imitate la loro fede” (13:7).

Allora vediamo come Giuseppe ha finito la corsa e cosa dobbiamo imitare di questa sua fede.

Giuseppe è un uomo che si è avvicinato al momento della morte in modo consapevole. Era conscio che il momento di lasciare la scena di questo mondo stava arrivando. Possiamo dire che per gli uomini la morte è un muro che fa paura; Bildad, un amico di Giobbe, la definiva “il re degli spaventi” (Giobbe 18:14). La morte è anche vista come un nemico, “l’ultimo nemico che sarà distrutto” (1 Corinzi 15:26). Ma a questo riguardo, i credenti hanno delle promesse che sono contenute nella Parola di Dio, tanto che Paolo scrive: “Preferiamo partire dal corpo e abitare con il Signore” (2 Corinzi 5:1, 8).

Anche Giuseppe aveva delle promesse e su queste si fondava. Erano le promesse che Dio aveva fatto ad Abramo tanti anni prima. Ascoltiamo direttamente le sue parole. “Giuseppe disse ai suoi fratelli: «Io sto per morire, ma Dio per certo vi visiterà e vi farà salire da questo paese, nel paese che promise con giuramento ad Abramo Isacco e a Giacobbe». E poi fece giurare i figli di Israele, dicendo: «Dio per certo vi visiterà; allora portate via da qui le mie ossa»” (Genesi 50:24-25).

Dio aveva fatto delle promesse ad Abramo (Genesi 15:7-16); le stesse promesse erano state rinnovate ad Isacco (Genesi 26:2-6) e a Giacobbe (Genesi 28:13-15). E’ interessante notare che Giacobbe aveva detto a Giuseppe: “Ecco, io muoio; ma Dio sarà con voi e vi farà tornare nel paese dei vostri padri” (Genesi 48:21).

Possiamo dire che le promesse di Dio sono passate attraverso le generazioni, sia quelle fatte ad Abramo, sia quelle fatte ai credenti, ma ognuno se ne deve appropriare personalmente per mezzo della fede. Questo è ciò che ha fatto Giuseppe. Possiamo notare la sua convinzione: per ben due volte ripete “Dio per certo vi visiterà”. Non ci sono dubbi nelle sue parole, ma solo certezze. Questa espressione fa intendere che Dio sarebbe intervenuto in potenza in favore del Suo popolo. Qualche generazione dopo, quando Mosè e Aaronne andarono dagli anziani di Israele, è detto che “compresero che il Signore aveva visitato i figli di Israele e aveva visto la loro afflizione, e s’inchinarono e adorarono”.

Le parole di Giuseppe dovevano ricordare che l’Egitto era solo un’esperienza transitoria per Israele; questo popolo aveva un paese “promesso”, e Dio avrebbe mantenuto le Sue promesse. Nemmeno i suoi resti sarebbero dovuti rimanere in Egitto. Notiamo anche la solennità del momento: “fece giurare i figli di Israele”. Come ci poniamo noi davanti alla morte? Il nostro corpo può tornare alla terra, quello di Giuseppe è stato messo in un sarcofago, ma “sappiamo che se questa tenda che è la nostra dimora terrena viene disfatta, abbiamo da Dio un edificio, una casa non fatta da mano d’uomo, eterna nei cieli” (2 Corinzi 5:1).

C’è un altro aspetto importante da considerare. Che impatto ha avuto sulle generazioni successive la fede di Giuseppe? Io credo che i resti di Giuseppe conservati dagli Israeliti fossero una testimonianza permanente del fatto che Dio avrebbe liberato il Suo popolo e avrebbe mantenuto la Sua promessa.

Riflettiamo un attimo sulla concitazione di quei momenti: la Pasqua mangiata “in fretta”, gli Egiziani che “fecero pressione sul popolo per affrettarne la partenza” (Esodo 12:33), un popolo di seicentomila uomini che si mette in cammino; e in tutto questo scenario, Mosè che prende “con sé le ossa di Giuseppe; perché questi aveva espressamente fatto giurare ai figli di Israele, dicendo: Dio certamente vi visiterà; allora porterete con voi le mie ossa di qui” (Esodo 13:19).

Tutto questo non parla forse ai nostri cuori? Le parole e la volontà che queste esprimono erano passate attraverso le generazioni. Se ci siamo trovati al capezzale di un nostro congiunto credente, che in modo cosciente si avvicina alla morte, abbiamo certamente sperimentato che la sua pace, la sua calma, la sua serenità hanno avuto un effetto dirompente su di noi; è la dimostrazione che il credente può superare questo “muro” con la forza che Dio dà, e che appropriandoci delle promesse divine, Dio potrà dare anche a noi la stessa energia spirituale quando giungerà questo momento, se il Signore non tornerà prima.

Passano gli anni. Il popolo, dopo il pellegrinaggio nel deserto, arriva in Canaan e conquista il paese. La Parola ci ricorda: “E le ossa di Giuseppe, che i figli d’Israele avevano portate dall’Egitto, essi le seppellirono a Sichem, nella parte del campo che Giacobbe aveva comprato dai figli di Chemor, padre di Sichem, per cento pezzi di denaro; e i figli di Giuseppe le avevano ricevute come eredità” (Giosuè 24:32).

Il viaggio è terminato, e Dio ha mantenuto le Sue promesse nonostante le infedeltà del popolo.